Non basta al giorno la sua pena? (Mt 6,24-34)
Il fato era divenuto nemico mio, una intersezione di linee storte e cattive occasioni, tutto sbagliato insomma, una giornata da scacciare indietro per accoglierne subito un’altra.
Il desiderio era uno solo, dormire in treno, giungere a casa, dormire, affrontare il nuovo giorno. Presupposto fondamentale per la riuscita del piano era ovviamente uno scompartimento libero o, almeno, silenzioso.
Salgo sul vagone. Primo scompartimento, riservato ferrovieri. Secondo, pieno di famiglia vociante con almeno sei piccirilli. Terzo, due persone dall’aria civile. Vediamo più avanti…: vuoto!
Vuoto: perfetto. Pregusto una sana ora di sonno, inizio a distendere i sedili. Poi poso lo zaino e mi accorgo che, nello scompartimento, sulle griglie per i bagagli, ci sono almeno venti scatoloni. Il treno va fino a Milano, e questo è l’equipaggiamento tipico delle famiglie numerose che emigrano.
“Buonasera, buonasera” fa un vecchietto mentre entra, e con sollievo capisco che c’è solo lui nello scompartimento, tutto il bagaglio è suo.
“Danno fastidio ? Le sposto, proviamo a fare spazio…”
Non c’è gran bisogno di spostamenti, lo zaino è piccolo e gli scatoloni possono rimanere al loro posto. Comodi, almeno loro.
Mi metto accanto al finestrino. Il vecchietto si piazza di fronte a me. Ci sono altri cinque posti liberi, se si mette davanti non posso neanche distendere le gambe, accidenti a lui e a tutti i vecchi in libera uscita.
“Disturbo ?
“No, no…” Si figuri. Quanto sono ipocrita. Almeno spero che stia zitto.
“Cos’è quello?
“Quello cosa?
“Quello che ha sulla faccia
Ah, è un brufolo, credo. Ma passa in poco tempo.
“Sa, va via con la pomata. Provi…
Eccolo qui, un vecchietto conversatore da treno. Con poca delicatezza chiudo gli occhi, come a dire: voglio dormire. Le tue banalità non mi interessano.
“Sa cosa sono ?
Apro gli occhi. “Cosa?
“Le scatole. Vuole sapere cosa c’è dentro? Me lo chiedono tutti quando prendo il treno.
E io no, va bene?, gli vorrei rispondere. Ma vince ancora un’ipocrita cortesia. “Cosa c’è dentro?
“Arance” fa lui, ed è come se dicesse diamanti.
“Arance”. Venti scatole. Improvvisamente mi vien fuori una domanda dettata da quelle ondate di pragmatismo antipoetico che talvolta rendono odiosi i siciliani.
“E come fa a scendere? Le porta tutte da solo?
“Noooo ! Mi vengono a prendere !”, e risplende di orgoglio. Ma si vede che ha voglia di parlare delle arance e non di particolari insignificanti.
“Queste arance le coltivo io! Ho un giardino sulla piana fuori da Lentini. Dieci scatole di arance e dieci di mandarini. Una figlia mia è sposata e l’altro studia per avvocato. Le coltivo io! Mi alzo alle cinque, quando il cielo è rosa, verde e viola sullo Jonio e il sole sta per spuntare. Mi metto sul trattore e finisco a mezzogiorno!”
Il vecchietto non ha l’aria di uno che mente, ma è difficile pensarlo così piccolo per ore su un trattore. Mi aspetto una battuta sui giovani d’oggi che sono fatti di pastafrolla, cosa tra l’altro vera, ma il vecchio è in un’altra dimensione, ha l’Etna alle spalle e il mare davanti, e con gli occhi vede un’immensa distesa di aranci e mandarini e limoni.
“Sa chi ha comprato il primo trattore nella zona di Lentini, di tutta la piana?”
“No che non lo so”.
“Io! E tutti mi dicevano che ero pazzo. Che è meglio fidarsi degli animali, che non ti tradiscono. E se poi si guasta? E se poi si rompe? Mia moglie pareva indemoniata, e diceva che buttavo i denari dalla finestra, e che il destino l’aveva con lei, a farle sposare un marito scemo e scialacquatore.
Ma io sono andato alla Fiera degli attrezzi agricoli di Catania, e conoscevo uno dei venditori, ché avevamo fatto le elementari insieme, e di lui mi fidavo. E mi ha venduto un trattore splendido. E me l’ha fatto portare a casa, col camion, che quando è arrivato tutti i vicini stavano a guardare dalle finestre, ma poi non ce la facevano più dalla curiosità, e sono venuti a vedere da vicino.
E mi facevano ‘auguri, compare!’, ma schiattavano dall’invidia. E mi dicevano ‘speriamo che non si rompe’: che poi la voglio vedere a trovare il ricambio.
“E io toccavo ferro, che fino dall’inizio ce l’avevano col ricambio, e pare che me la dovevano buttare. Me’ mugghieri una litania pareva, colla storia che se poi si rompe come facciamo.
E tanto hanno fatto e tanto hanno detto che una mattina mentre mi arrampicavo verso sopra, in direzione delle ‘nchianate, sento che il motore si ferma, e allora penso ‘ecco, uora tutti contenti saranno”.
Qui non si dorme, pensavo io, ma ‘sta storia non è male. Cominciava a prendermi. Il vecchietto se ne era accorto, e aveva fatto una pausa. Aspettava.
“E allora?”, chiesi io. “E allora?”
“Allora sono andato da un mio amico meccanico, che mi ha detto che si era rotto un pezzo, e mi ha scritto il nome, che io di ‘ste cose non ne capisco, e mi ha detto che ci voleva il ricambio.
“Il ricambio della malanova. Ho preso il libretto delle istruzioni, e ho letto che il trattore veniva da Milano, là lo avevano fabbricato, e che era l’unico posto dove potevo trovare il ricambio.
“Una domenica abbiamo fatto il pranzo con tutti quanti, e c’era pure il padre di mia moglie, e si mangiava la pasta con le melanzane fritte sopra e il pecorino. Di punto in bianco mia moglie comincia a gridare contro di me che sperperavo i denari, e pretendevo pure di mandare i figli a scuola, e che i giardini dei vicini erano una meraviglia, ‘u ciàuro degli agrumi si sentiva fino a Siracusa, il nostro invece era pieno di sterpaglie, e le arance in queste condizioni vengono coi vermi, e che dovevo prendere esempio da suo padre, che le mani le aveva d’oro, e non aveva sperperato mai un centesimo.
“Io allora non ne ho potuto più, e mi alzai in piedi, e dissi a mio suocero che era quella la bella educazione che aveva insegnato a sua figlia, e che io il ricambio lo andavo a prendere a Milano e se necessario arrivavo fino in America, e il ciàuro delle arance mie già si sentiva fino a Ragusa, e col trattore rimesso a nuovo pure i turchi, i pellerossa e gl’indiani lo avrebbero sentito!”
Pausa. Il treno era partito, ma me ne resi conto quando uno scocciatore in divisa entrò dicendo “biglietto!” e guardandomi fisso. Prendemmo i biglietti seccati per l’interruzione.
“L’annata precedente era andata bene, e i denari per il viaggio non mi mancavano. A Lentini c’è pure la stazione, ma il treno non arrivava direttamente a Milano come oggi. Scesi prima a Catania, dove partiva l’espresso che si chiama ‘treno del sole’. Mi piaceva quel nome.
Al controllore chiesi di dirmi quando era l’ora di scendere, io un viaggio così lungo non l’avevo mai fatto, il più lungo era stato a Palermo per vendere le arance alla fiera.
“Il controllore mi disse ‘vossìa non si peoccupi, che pure che si addormenta si sveglia al capolinea o al deposito di Milano’, e sorrise perché voleva essere gentile, ma io non chiusi occhio perché avevo paura di svegliarmi al deposito.
Le ultime ore pareva che non dovevano passare mai. Quando arrivai alla stazione di Milano, mi pareva di essere in un sogno.
La stazione era una città, il salone era grande quanto la piazza del paese mio. E non ce n’era uno solo! C’erano saloni, e gallerie e tutto era enorme ! Ed era pieno di gente, a fiumi!
Io avevo l’indirizzo, ma non sapevo arrivarci perché era fuori città. Presi un tassì, i soldi ce li avevo.
Il tassista mi lasciò di fronte al capannone, erano le nove di mattina. E’ fatta, mi dissi. Ora prendo il pezzo di ricambio, che il mio amico meccanico mi aveva fatto il disegno e mi aveva scritto il nome. Prendo il pezzo e torno a casa.
“Andai al cancello di entrata. Era chiuso, sarà presto, ho pensato. Ma aspettai mezzora e non si vedeva anima viva. Tutt’intorno ogni cosa era abbandonata, c’erano rottami. Feci il giro del capannone e guardando bene mi accorsi che la maggior parte delle finestre erano rotte, come se ci avessero tirato dei sassi.
Nel cortile all’interno c’erano dei cani coricati. Si alzò il vento e si sentivano rumori metallici, di cose che sbattevano. Il cielo si era fatto grigio, meno male che nel borsone avevo un ombrello.
Nei paraggi non si vedeva nessuno. Aspettai ancora un poco, quando dentro di me sentii un urlo che mi diceva quello che non avevo voluto capire fino a quel momento: ‘La fabbrica ha chiuso!’
“Solo, senza conoscere nessuno”, dissi io costernato, mentre il vecchietto sorrideva. “Cosa ha fatto ?”
“Eh, non mi sono perso d’animo, no! Ho fatto un cinquecento metri e mi sono messo sulla strada e facevo dei gesti, discretamente, finché è passata una macchina che si è fermata.
In quel momento, stranamente, mi è venuto da ridere perché pensavo ‘se mi vedesse mio suocero ‘ca fazzu l’autostopp !’
“Ho spiegato la mia storia all’automobilista gentile ma lui mi ha detto che non sapeva come aiutarmi, mi poteva lasciare solamente in centro, e mi ha consigliato di trovarmi una pensione, ché non potevo dormire in strada.
“Subito trovai un albergo a una stella, dove il proprietario era una persona gentile, era ancora pomeriggio e ci siamo messi a parlare.
Io penso che la mia fortuna è sempre stata che io mi metto a parlare, perché di natura mi fido, e questo mi ha fatto tirare fuori da tutti i guai, sempre. La disgrazia di tanti miei conterranei è che mai si mettono a parlare.
Ma io mi dovevo fidare, e che altro potavo fare, solo? E poi, al pensiero di tornare a mani vuote, in quella nidiata di vipere velenose del mio paese! A quel pensiero mi veniva il coraggio di un leone.
“Il proprietario dell’albergo ‘Astoria’ – il nome me lo ricordo ancora – era originario di Ucrìa, che è un paese in provincia di Messina sulle montagne. Mi fece tante feste quando seppe che venivamo dalla stessa terra, e disse che mi voleva aiutare.
Prese le pagine gialle e mi disse che quella fabbrica aveva chiuso ma tante altre ce n’erano che vendevano attrezzi per l’agricoltura e pezzi di ricambio.
A Milano, compare, ci sono più fabbriche che in tutto il resto del mondo, mi diceva, e rideva soddisfatto.
C’era una fabbrica che non era tanto distante, mi scrisse l’indirizzo. La notte dormii in quell’albergo. Il giorno dopo ci salutammo, mi fece pure lo sconto, se hai bisogno telefona, per qualunque cosa compare, e mi scrisse il numero.
“Con un tassì andai alla fabbrica, e stavolta tremavo di paura, perché i soldi li avevo quasi finiti, e mi era preso un colpo appena mi accorsi che non avevo neanche il denaro per il biglietto del ritorno.
Questa fabbrica per fortuna mia era aperta, c’era un citofono, suonai e sentii una voce di donna che diceva ‘desidera?’ e io non sapevo che dire.
Mi allontanai, feci dieci minuti di passeggiata e mi dissi: ‘giusto ora ti fermi? Andai nuovamente al citofono, stavolta mi ero preparata la risposta e ci dissi ‘cerco un pezzo di cambio’.
All’entrata c’era un signore elegante che mi disse che lì non facevano vendita, ma vide il mio aspetto, dovevo essere combinato male, e mi chiese di quale pezzo abbisognassi.
“Allora per la stanchezza e l’emozione mi impappinai e non riuscivo a parlare, posso parlare col direttore?, chiesi, e mi uscì così, perché non sapevo che dire.
Il signore fece una faccia strana, va bene, disse, attenda. Entrai in un ufficio di lusso, dove c’era un signore elegante, piacere, cavaliere Borromini, mi disse, allora io pensai ‘ecco il proprietario della fabbrica’, perché all’entrata sul cancello c’era scritto ‘Borromini attrezzi per l’agricoltura s.p.a’.
‘Mi dica cosa desidera’ disse il cavaliere, che parlava il linguaggio continentale gentile. Allora stavo per impappinarmi di nuovo, e decisi che non c’era niente di meglio che raccontargli tutta la storia.
Il cavaliere mi guardava con gli occhi spalancati, e non gli pareva vero che avevo fatto mille e più chilometri per un pezzo di metallo, e che non avevo neanche i soldi per tornare.
‘E neanche per pagare il pezzo’ dissi io pensando a voce alta, sorpreso, capii che ero in una situazione assurda. ‘E’ meglio che me ne vado, va’…’ dissi io con gli occhi bassi e le guance di porpora.
‘Ma dove va, lei è mio ospite’, fece il cavaliere. Mi portò a casa sua, dove pranzai in una sala degna d’un principe, con tutta la sua famiglia, la moglie e le due figlie, con le posate d’argento e i piatti di porcellana, e mi lavai in un bagno con i rubinetti d’oro, e dormii in una stanza che anche per un re era troppo di lusso, con le lenzuola di seta e la luce elettrica messa sul comodino.
Il cavaliere mi pagò il biglietto del treno, e mi disse che i pezzi di ricambio me li spediva lui, comodamente a casa, me ne spediva dieci con un pacco espresso.
Io non sapevo che dire per ringraziarlo e lo lasciai con le lacrime agli occhi, e ringraziai pure la moglie, che sorrideva”.
Guardai dal finestrino, e mi accorsi che tra una decina di minuti dovevo scendere.
“E poi? E poi?”
“Poi arrivai al paese mio, arrivai a casa che avevo un sorriso che partiva da un’orecchia e finiva all’altra, mi sentivo un trionfatore.
Raccontai tutta la storia, punto per punto, a tutta la mia famiglia riunita in cucina.
‘Ppu culu ti pigghiaru, baccalà !, scusando le parole, insomma così iniziò a gridare me’ mugghieri, e mimava col braccio uno stoccafisso. I bambini scuotevano la testa, ché la mamma e gli zii oramai li avevano convinti di avere un papà mezzo scemo.
Erano passati cinque giorni e non era arrivato niente. Milano è lontana, dicevo io, ma mia moglie col braccio faceva il gesto del baccalà.
Al pranzo della domenica ero tutto preso di paura, ma fino al caffè non era successo niente. All’improvviso, mia moglie si rivolse a suo padre, gridando che se lei non era fervente cattolica questo matrimonio lo voleva sciogliere, e il parrino le aveva detto che a Roma c’era una sacra ruota che i vincoli li cancellava per giusti motivi, e forse c’era un motivo più giusto di questo, un marito con la testa che fischiava, per il rumore del vento che passava nel vuoto lasciato dal cervello (che per idda non avevo), e aveva portato la casa alla rovina, vendendo gli animali per comprare un trattore che teneva per bellezza, inutilizzato?
E i giardini dei vicini erano tutti una bellezza, e mentre gli altri uomini lavoravano lui faceva il turista in continente, dove aveva sperperato una fortuna!
“Io non ci risposi nenti, coi fatti rispondo io, pensavo. E dopo qualche giorno, tre o quattro, arrivò un pacco grande, ci mittisse una fimma qui, don Gaetano, mi disse il postino, e io presi il pacco, e subito chiamai Saro, che è il mio amico meccanico, e ci mettemmo intorno al trattore, e stavo senza mangiare finché lo accesi, cioè lo misi in moto, e funzionava ed era una meraviglia, ed ora tutti quanti scusa mi dovevano chiedere, per le risate e per le ingiurie, io coi fatti e con la pazienza rispondo, io muto finora sono stato, ma ora scusa mi dovete chiedere!
E me ne andavo col mio bel trattore, e in due settimane avevo fatto il lavoro che i miei vicini avevano fatto ‘nta sei mesi !
Alla raccolta, presi venti scatole, dieci di arance e dieci di mandarini, e dissi: adesso ce le spedisco al cavaliere amico mio. Ma poi pensai: marce arrivano. Allora dissi: io ce le porto. E da allora ogni anno, dopo la raccolta faccio un viaggio. E ci porto le arance. Ogni anno, una volta l’anno, da trenta e più anni!
Pure le nostre mogli hanno fatto amicizia! E una volta l’anno viene lui a trovare me, con tutta la sua famiglia.
L’ultima volta che è venuto è stato testimone per le nozze di mia figlia!”