La succubanza. I quotidiani siciliani e la mafia

  I depistaggi. Un cronista processato per aver dato del mafioso al mafioso. Nomi che non si possono nominare. L'intervista a Nitto Santapaola. Delitti di mafia spacciati per passionali. Sono le vicende surreali che accompagnano i quotidiani dell'isola. Fotogramma dopo fotogramma, i pezzi di una storia che diventa ritratto impietoso della borghesia siciliana
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Tutti i nodi vengono al pettine, se c’è il pettine
Sciascia

Questa città non riesce a dimenticare
Santapaola Jr.

 

Dalla prima lettera di don Vincenzo ai catanesi: “Questa città non riesce a dimenticare pagine di cronaca e di storia ormai lontane e chiuse. […] Egregio direttore, mi trovo in un carcere di massima sicurezza, detenuto in regime di 41 bis, proprio quel regime creato per i detenuti considerati più pericolosi, capaci di dare ordini ad associazioni criminali, anche dal carcere: un regime che anche nel mio caso è assolutamente ingiustificato, come ingiustificata è la mia detenzione […]”.

È un passaggio della lettera che Vincenzo Santapaola, figlio del capomafia Nitto, ha inviato da un carcere del Nord Italia al quotidiano “La Sicilia”, pubblicata integralmente e senza alcun commento il 9 ottobre del 2008. Un fatto grave, considerando che il 41 bis nasce per il massimo isolamento dei mafiosi e che la presunta autorizzazione della magistratura di Catania è stata smentita con forza dai diretti interessati. Un ingenuo errore isolato, ha detto qualcuno. Isolato?

La colpa è dei giornalisti

“Una pausa del processo consente il faccia a faccia […]. Ed è la prima volta dal giorno della sua cattura che acconsente di parlare con un giornalista”. Siamo nell’ottobre del 1994, “La Sicilia” intervista Nitto Santapaola. “Praticamente mi hanno accusato di tutto quello che è successo in Sicilia negli ultimi 15 anni. Persino di avere partecipato a una riunione dove si è deciso di ammazzare Falcone. Eppure tutti sanno, e l’ho ripetuto migliaia di volte, che sono contrario a questo tipo di violenza. […] Il nome Santapaola fa effetto. Basta dire Santapaola per essere credibile. Voi giornalisti a volte non sbattete in prima pagina la foto di Santapaola per vendere di più?’

‘Un attacco alla stampa ?’

‘No. La stampa è importante, ma i giornalisti devono avere più coscienza quando scrivono. Voi giornalisti dovete fare gli investigatori, scoprire la verità e scriverla. Invece spesse volte riportate quello che dicono gli altri, anche se in quelle frasi ci sono molte falsità […]’

‘Esiste questo mito [Santapaola]?’

‘No, il mito l’hanno creato la stampa e i pentiti’”[1]

Quattordici anni dopo la Sicilia è nuovamente lo strumento del vittimismo dei Santapaola: “C’è gente che con pregiudizio mi giudica e mi considera in base a ciò che si è detto e scritto su di me, additandomi come un criminale…. C’è gente che crea leggende sul mio conto e sui miei familiari. […] Purtroppo debbo constatare che il nome che porto è per me (come per mio fratello Francesco) una continua fonte di guai, a causa di persone, che, anche senza conoscermi, anzi nella quasi totalità senza conoscermi, usano e abusano del mio nome e di quello della mia famiglia”[2].

Perché è stata pubblicata questa lettera? E, soprattutto, quale il percorso seguito dalla cella di massimo isolamento alla redazione del giornale? Le regole del 41bis prevedono una rigida censura della corrispondenza. Un’Ansa dell’11 ottobre sostiene che la lettera è stata autorizzata dal Gip del Tribunale di Catania, dopo un contorto viaggio: dalla galera alla sorella, dai legali al giornale[3].

In una lettera del giorno dopo, Rodolfo Materia, capo dell’ufficio Gip del Tribunale di Catania, smentisce decisamente: “Nessun membro dell’ufficio ha autorizzato la comunicazione”. “Lo scorso 9 ottobre è stata pubblicata sul quotidiano “La Sicilia” una lettera fatta pervenire dal detenuto Santapaola Vincenzo, sottoposto al regime carcerario speciale di cui all’art. 41 bis O.P.

La notizia che di per sé ha creato sconcerto nell’opinione pubblica è diventata ancora più inquietante quando il successivo 12 ottobre è stato pubblicato un altro articolo che spiegava come detta lettera fosse uscita dal carcere. Già il titolo anticipava: ‘Autorizzato dal Gip l’invio della lettere di Santapaola junior’, seguivano, poi, più specifiche indicazioni con ulteriori precisazioni che ‘i passaggi (erano stati) ricostruiti dal Dap’, avvalorando, in tal modo la veridicità della notizia. Poiché questa ricostruzione dei fatti non risponde a verità, invito ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa a pubblicare la presente rettifica volta a ripristinare la verità dei fatti. Nessuno dei magistrati del mio Ufficio, succedutisi nella trattazione del processo a carico di Santapaola Vincenzo, ha mai autorizzato l’invio di qualsiasi missiva del predetto Santapaola, destinata, seppur indirettamente, agli organi di stampa. Pertanto, la notizia così come pubblicata risulta gravemente lesiva della dignità e professionalità dei Magistrati dell’Ufficio Gip di Catania, i quali con tanto senso di responsabilità operano quotidianamente al servizio della Giustizia”[4].

Ecco la risposta della Sicilia:

“L’articolo da noi pubblicato il 12 ottobre riproduceva un testo diffuso dall’agenzia Ansa il pomeriggio del giorno precedente”[5].

 

L’appellativo

Un giorno nell’ufficio di Mario Ciancio si presenta Pippo Ercolano – padre di Aldo e cognato di Santapaola – per protestare su un pezzo del giorno precedente in cui lo si definisce ‘boss mafioso’. L’articolo riferiva dei controlli effettuati dal Nucleo operativo ecologico dei carabinieri all’interno dell’Avimec, una ditta di trasporti riconducibile agli Ercolano.

“Sono convocati il capo cronista Vittorio Consoli e l’autore del pezzo, Concetto Mannisi.”[6] “In presenza dell’Ercolano, il direttore del giornale contestava al giornalista il tono non imparziale del suo articolo ed invitava il medesimo, per il futuro, a non attribuire l’appellativo di boss mafioso all’Ercolano e gli altri componenti della sua famiglia, anche se tali affermazioni provenissero da fonti della Polizia e dei Carabinieri”[7]. È un episodio richiamato molte volte nelle cronache de “I Siciliani”, in un rapporto dei carabinieri datato febbraio 1994 ed in diversi atti giudiziari, visto lo spessore di Aldo Ercolano,  per lunghi anni braccio destro di Santapaola. Secondo la procura di Catania, il fatto è “emblematico della succubanza[8] in cui la società civile ha vissuto e vive al cospetto della protervia della ‘famiglia’ mafiosa”[9].

Il depistaggio

Il pentito Maurizio Avola si accusa di aver ucciso Giuseppe Fava e di aver fatto parte del commando che uccise Dalla Chiesa. La prima notizia è vera, la seconda è falsa. Secondo “La Sicilia”, Avola mente su tutto, perché all’epoca del delitto Dalla Chiesa non era uomo d’onore[10].

L’articolo è firmato da un corrispondente da Messina, mentre l’esperto di mafia del giornale, Tony Zermo, firma lo stesso giorno un identico articolo pubblicato da “Il Giorno” di Milano. Il successivo 3 giugno, “La Sicilia” insiste nella sua tesi, nonostante le autorevoli smentite  dei magistrati catanesi. La “Gazzetta del Sud” di Messina dice che Avola  è un sedicente  pentito, perché ha  dichiarato di aver ucciso Dalla  Chiesa, di conseguenza è un pentito-killer inventato da Cosa Nostra[11].

Nei giorni precedenti l’allora ministro Maroni aveva parlato di falsi pentiti infiltrati dalla mafia. Il sostituto procuratore catanese Amedeo Bertone  dichiara che Avola non si è mai  accusato dell’omicidio Dalla Chiesa. La DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Catania denuncia notizie “irresponsabilmente diffuse nell’ambito di una studiata strategia diretta a delegittimare il pentitismo”.  Una settimana dopo Claudio Fava invia alla Procura della Repubblica un esposto in cui si ipotizza il reato di favoreggiamento nei confronti dei mandanti dell’omicidio del padre.

Il necrologio

Il 28 luglio 1985 è ucciso Beppe Montana, commissario di polizia. Nell’agosto del 1986, per l’anniversario della morte, i familiari inviano alla ‘Sicilia’ un necrologio: la pubblicazione viene rifiutata, in quanto le espressioni verso “la mafia ed i suoi anonimi sostenitori” sono giudicate “troppo polemiche”.

Il 3 settembre 1982 è ucciso il generale Dalla Chiesa. Il giorno dopo “La Sicilia” è l’unico quotidiano che omette il nome di Santapaola (che peraltro sarà successivamente assolto) dalla lista degli indiziati. Qualche settimana più  tardi il giudice Giovanni Falcone spicca per lui un mandato di cattura.

“La Sicilia” si riferisce al boss con contorte perifrasi: “Nell’ottobre del 1982, quando tutti i quotidiani italiani dedicheranno i loro titoli di testa all’emissione dei primi mandati di cattura per la strage di via Carini, l’unico giornale a non pubblicare il nome degli incriminati sarà La Sicilia. Un noto boss, scriverà il quotidiano di Ciancio. Nitto Santapaola, spiegheranno tutti gli altri giornali della nazione.

Il nome del capomafia catanese resterà assente dalle cronache della sua città per molti anni ancora: e se vi comparirà, sarà solo per dare con dovuto risalto la notizia di una sua assoluzione. O per ricordarne, con compunto trafiletto, la morte del padre. […] (Tutto questo) con risultati giornalisticamente grotteschi: i minorenni arrestati per uno scippo finivano in cronaca con nome, cognome e foto; i luogotenenti di Santapaola invece erano sempre ‘giovani incensurati’, il loro arresto maturava in ‘circostanze poco chiare’ […].” [12]

Donne e debiti

L’8 gennaio del 1993 Beppe Alfano è ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Era insegnante, sindacalista Cisnal, tesserato Msi, collaboratore di “Telenews”[13] e soprattutto corrispondente per “La Sicilia”. Inizia un lungo e difficile procedimento giudiziario. Si indaga persino sulla vita privata di Alfano, e per alcuni la vittima deve diventare colpevole.

Solo col tempo si fanno strada ipotesi più solide: gli articoli sullo scandalo dell’AIAS di Milazzo, la micidiale vicinanza di Santapaola, latitante a Barcellona ospite delle potenti cosche locali. Durante una fase del processo, la “Gazzetta del Sud” (il quotidiano locale più diffuso nella zona) titola, nelle pagine di cronaca: “Donne e debiti di gioco: due piste non seguite?”[14]

Un titolo a nove colonne: l’occhiello attribuisce la tesi ai legali difensori, il catenaccio aggiunge che “la mattina del delitto [Alfano] si sarebbe recato a Messina per ottenere un prestito di sei milioni”. L’avvocato Franco Calabrò, difensore di Merlino, l’uomo accusato di essere il killer, arriva ad ipotizzare “relazioni extraconiugali con donne e con minorenni” e dichiara: “La mattina dell’omicidio Alfano andò via in tutta fretta – lo confermerà il preside – perché doveva recarsi a Messina per ottenere un prestito di 6 milioni”. La smentita è contenuta nello stesso corpo dell’articolo. Scipione De Leonardis, vice commissario a Barcellona nel periodo dell’omicidio, ribatte infatti che Alfano fu ritrovato con poco più di un milione in tasca e con un assegno, ma i debiti erano “di lievissima entità, dell’ordine di qualche centinaio di migliaia di lire. […] Non abbiamo trascurato alcuna pista, anzi le abbiamo perseguite tutte, anche quelle che riguardavano la vita privata dell’ucciso, proprio per poterle eventualmente escludere. Questa delle donne era infatti la voce più ricorrente, non si può dire se provenisse da un ambiente piuttosto che da un altro; era vox populi. […]. In ogni caso non era nulla di eclatante, per questo l’abbiamo abbandonata”.[15]

Paradiso etneo

“Quando la città era invidiata perché cresceva, perché il benessere era sotto gli occhi di tutti, sì, allora l’economia era florida. La disoccupazione era solo quella fisiologica, non mancando il lavoro, la delinquenza era limitata agli ‘intrallazzisti’ o a pochi borsaioli. Erano anni in cui l’edilizia trainava ogni settore, gli anni dei palazzinari che edificavano in ogni angolo. Erano anni in cui i gruppi industriali come Costanzo, Rendo, Graci, Finocchiaro o Parasiliti incrementavano il loro fatturato e contestualmente reclutavano mano d’opera e professionisti. Da sempre queste aziende hanno rappresentato i datori di lavoro di questa città, riuscendo ad avere organici fino a 20mila unità.

La mafia, allora, era lontana o, se era vicina, non la si vedeva, o, se vogliamo, si faceva finta di non vederla. Comunque Catania godeva del benessere. […] Gli appalti venivano quasi sempre affidati ai ‘datori di lavoro catanesi’, ossia a quelle aziende che qui operavano. E anche tra loro c’era la pax dovuta alle eque spartizioni”.

Ma poi gli imprenditori etnei cercarono “impegni altrove”, a causa di “iniziative trasversali che a tutti i costi dovevano criminalizzare l’imprenditoria locale”. Ma ci fu “una sentenza ‘storica’ in cui, oltre ad assolvere gli imprenditori, [si] sostenne che la loro non era contiguità con la mafia ma una sorta di soccombenza obbligata al potere mafioso che, anche qui a Catania, comanda più del potere legale”[16].

Si tratta probabilmente della più entusiasta agiografia del “sistema dei cavalieri”, pubblicata dal corrispondente catanese della “Gazzetta del Sud” all’interno dello speciale che festeggiava i quarant’anni del quotidiano ed al contempo dedicava un “ritratto” ad ogni provincia siciliana. Era il 1992, e Giuseppe Fava era stato assassinato da 8 anni.

Donne sposate

Il buio della sera di gennaio, il freddo dell’inverno, pochi colpi di fucile caricato coi micidiali pallettoni usati in Aspromonte per la caccia al cinghiale. Un modo crudele di uccidere, ma anche una firma inequivocabile. Pochi momenti che diventano lo spartiacque per la borghesia di una città che da sempre si illudeva di poter facilmente controllare le “infiltrazioni”, cioè le due – tre famiglie locali, gli ndranghetisti, i mafiosi della vicina Barcellona, i catanesi e i palermitani e tutti i delinquenti che hanno scambiato la punta dello stretto per una zona franca da conquistare.

All’inizio del gennaio 1997 viene ucciso nella maniera più plateale possibile il professor Matteo Bottari, endocrinologo, genero del vecchio rettore dell’Università di Messina Stagno D’Alcontres e stretto collaboratore dell’allora “magnifico” Diego Cuzzocrea.  Una figura chiave tra cliniche private, Università e Policlinico, ovvero una “stazione appaltante” che fa gola a troppi, compresa la ‘ndrina installata dall’altra parte dello Stretto.

I gruppi criminali calabresi non vogliono soltanto imporre la propria presenza all’interno dell’Università, sostanzialmente incontrastata negli anni ’70, ma i propri metodi: sottomissione totale, definizione delle controversie a bombe e pistolettate, prima si spara poi si discute.

Una lunga serie di omicidi, attentati, minacce e deflagrazioni che scuote l’Italia ma viene ridotta a “episodi marginali” da un corpo accademico diviso tra paura ed omertà. Possiamo gestircela, tutto sotto controllo, sembra che pensino. Poi arrivano quei colpi all’uscita della clinica, e sono il segnale più chiaro che si è andati oltre. Sono i giorni della paura, i momenti del terrore. Sono ore di confusione.

All’inizio si tenta prima di far passare l’ipotesi che si sia trattato di un “errore di persona” (espressione usata, tra gli altri, dal direttore amministrativo del Policlinico). Nella cronaca della Gazzetta del Sud si legge tra l’altro: “I due colpi hanno spappolato una parte del volto del prof. Bottari (che piaceva anche a donne sposate)”[17].

Il giorno successivo i redattori prendono le distanze dall’autore della frase incriminata: “Purtroppo ieri, anche questo giornale, a causa della inspiegabile mancata cancellazione elettronica di un appunto (piaceva anche a donne sposate) tra quelli necessari per la sintesi di prima pagina, ha involontariamente dato credito alla voce [del delitto d’onore, nda], e nel peggiore dei modi. Per questo avvilente infortunio porgiamo le sincere scuse ai familiari e ai lettori, i quali sanno che non ci piace indulgere né allo scandalismo né allo sciacallaggio informativo. Teniamo pure a precisare che quella sintesi non è stata redatta da nessuno dei cronisti che stanno seguendo le indagini”.

Sabato 17, il Giornale di Sicilia spiega così i tanti interrogatori in Questura: “Bottari, probabilmente inconsapevolmente, aveva intrecciato una relazione sentimentale con una donna legata a qualche boss locale. Per questo motivo, i poliziotti hanno interrogato a lungo amici e colleghi del professionista, ai quali il medico aveva fatto qualche confidenza”.

Lunedì 19 gennaio: “Gli interrogatori avvengono nei locali della Mobile, con cui collabora la Criminalpol”, scrive la Gazzetta. “Sicché il cittadino o la cittadina appartenente alla categoria dei “noti” corre il rischio, se vista da qualche “osservatore” a caccia di scoop di essere additato come “persona informata” dei fatti. Per cui si consiglia di non frequentare, in questi giorni, la Questura…”.

Perché?

Catania ai tempi di Santapaola era una piccola repubblica autonoma con leggi, strumenti di informazione e tribunali propri e particolarissimi. I mafiosi non sono tutti uguali. I famigerati corleonesi erano e sono rimasti contadini sanguinari, che riassumono il loro progetto politico in una sola frase che tramandano di padre in figlio: “rompere le corna allo Stato”. Sono stati cancellati dal loro delirio di onnipotenza, dal desiderio di determinare il destino dell’Italia, di controllare tutti gli appalti dell’isola ed il traffico internazionale degli stupefacenti pur vivendo come topi nelle masserie del palermitano, cibandosi di ricotta e cicoria.

Santapaola no. Pur nascendo a San Cristoforo, quartiere degradato ma in pieno centro, Santapaola inventa la mafia catanese, non proviene da famiglie mafiose e non ha tradizioni particolari da consolidare.

Unisce modi relativamente signorili alla ferocia del delinquente, capace di far strangolare dei ragazzini rei di aver scippato la madre. Frequenta deputati e sindaci, funzionari ed imprenditori. È imprenditore lui stesso, e non solo del crimine: gestisce una concessionaria Renault, mentre la moglie è titolare di una cartoleria del centro. Gioca a carte e scrive in corretto italiano, quanto basta per allontanarlo dal solito cliché del mafioso rozzo. Ci sono fotografie di Santapaola col sindaco e col presidente della provincia, col consigliere comunale e col deputato socialdemocratico.

È il perno di un sistema politico-economico sanguinario ma a suo modo efficiente. Grandi palazzi e colate di cemento, viadotti e banche, televisioni ed imprese. Catania è un caso unico, un modello per alcuni, un concentrato di sangue e violenza per altri.

***

Storicamente, la borghesia siciliana ha concepito la mafia come quei cani ferocissimi ma utili per difendere la proprietà, intimorire i sottoposti, annientare i comunisti o aggirare le regole garantendosi un appalto. Proprio come cani da guardia nascono i mafiosi: sono i campieri del latifondo. Il film “In nome della legge” di Pietro Germi descrive bene il rapporto contorto e complesso tra classi dominanti isolane e gruppi mafiosi.

Come tutti i cani feroci, non è raro che mordano il padrone. E questo va messo in conto. Ed è accaduto spesso: dal delitto Mattarella a quello di Salvo Lima e dei fratelli Salvo. Fatte le debite proporzioni e sottolineate le notevoli differenze, il delitto Bottari a Messina.

Sono i momenti in cui la “cultura della convivenza” o la certezza di essere al posto di comando inevitabilmente vacillano. Allora entra in crisi anche la storica diffidenza nello Stato, e nella sua polizia. Meglio un’armata privata, sciolta da vincoli, efficace ed immediata. Meglio, finché non ti si rivolta contro.

Sciascia scrisse: “Cos’è il fascismo per i proprietari terrieri? E quelli rispondevano: la proibizione di fare sciopero”. Era un’ottima risposta. Per essi, l’essere di destra non coincideva coi valori guerreschi o con gli eroismi, preferendo di gran lunga una vita paciosa punteggiata da mangiate di pesce e conversazioni sulla qualità della ricotta, bensì con la possibilità di sottomettere il prossimo. Per essi, il fatto di essere nati in condizione di privilegio, o peggio ancora un’arrampicata sociale coronata dal successo, coincide con la volontà di Dio, e Dio è il nome nobile che attribuiscono al caso.

Allo stesso modo, per i proprietari siciliani la mafia è stato uno strumento  – all’inizio forse estremo, poi diventa un’incrostazione culturale – che avrebbe impedito il sovvertimento dell’ordine sociale. Poi le cose presero strade diverse, come sappiamo.

***

Le stragi del 1992 sono una scossa che incrina una radicata convinzione, e cioè che la mafia abbia delle regole, che queste siano basate sull’onore, o che comunque esista una vecchia mafia sostanzialmente utile ma progressivamente imbastardita dall’avidità delle nuove generazioni criminali. A Palermo questa distinzione ha spesso assunto i caratteri della spocchia del cittadino: i cafoni provinciali corleonesi – piedi ‘ncritati, cioè sporchi di terra – hanno rovinato la vecchia mafia urbana dai modi civili.

“Faccio parte di un popolo tanto ricco di antiche civiltà e pure ridotto all’infamia per colpa di pochi spregiudicati che per continuare ad arricchirsi sul malaffare hanno perduto qualsiasi senso dell’onore. Sentimento che un tempo era vanto della mafia che teneva gelosamente a questa reputazione e che ora ha gettato nel fango, anzi nella fogna, anche questa antica prerogativa”[18].

Fatte queste premesse è possibile comprendere l’articolato rapporto tra i giornali siciliani e la mafia, non riducibile alla solita indistinta mafiosità degli isolani. Dopo la stagione della grandi stragi, parte della magistratura sembra intenzionata ad intaccare un sistema che fino a quel momento era apparso perfetto, indistruttibile. Nella prima metà degli anni ’90 si scatena una dura campagna contro giudici e pentiti, che del resto non si è mai interrotta ed ha coinvolto tanti media nazionali.

A volte sono commenti legittimi seppure opinabili, a volte forse qualcosa di più. Nel 1995 il collaboratore Vincenzo Scarantino inizia a parlare della strage di Via D’Amelio alla Procura diretta da Caselli. La moglie aveva accusato la questura di aver estorto la confessione con la tortura, le donne della famiglia sono arrivate ad incatenarsi di fronte al Palazzo di Giustizia. Puntuali arrivano altre voci, tutte smentite dai magistrati: “Alla larga dai pentiti […] A Palermo sostengono che [Scarantino] abbia voluto alzare il prezzo con lo Stato perché la famiglia ha bisogno di una nuova abitazione. Se fossimo al ministero di Grazia e Giustizia ci metteremmo dentro la famiglia Scarantino e butteremmo via la chiave. Senza pentirci”[19].

 

La libertà

I giornali siciliani sono gestiti con una mentalità che deriva direttamente dalla tradizione feudale. Un padre padrone, la successione ereditaria, casate di tradizione secolare – i Ciancio Sanfilippo a Catania, gli Ardizzone a Palermo -, direttori che dirigono ma non esercitano, cioè non scrivono, perché si sentirebbero come i latifondisti messi a zappare la terra, redazioni sotto controllo ed una isola rigidamente divisa nelle tre zone d’influenza dei monopoli.

Il direttore/editore de “La Sicilia” ribatte alle “azioni di disturbo” abbinando ad un silenzio glaciale la calma di chi sa di essere il più forte. Il direttore della “Gazzetta del Sud” di Messina persegue dal 1968, anno fatale da cui è in carica, una scientifica strategia, ovvero la querela in sede civile usata come arma contro chiunque osi criticare lui e/o il suo giornale.

Un saggio come quello che avete appena letto, pur basandosi su fatti veri ed inoppugnabili, potrebbe essere accusato di “maliziosi accostamenti”, “sintesi scorretta”, “subdole estrapolazioni”.

Un magistrato non indipendente – ce ne sono tanti – potrebbe abbozzare un atto esordendo: “Effettivamente…”. L’autore dell’articolo, oberato da spese insostenibili e dalla  prospettiva di un iter giudiziario pluridecennale, potrebbe aver voglia di scrivere “non più che le previsioni del tempo” (Giuseppe Fava). Per poi magari incontrare qualche amico del Nord che gli chiede: ma da voi perché nessuno si ribella?

 

[1] Sono un mito creato dalla stampa, la Sicilia,  26 ottobre 1994, pagina 3

[2] Lettera di Vincenzo Santapaola alla Sicilia, 9 ottobre 2008.

[3] Mafia: invio lettera Santapaola jr autorizzato da Gip, ANSA 11 ottobre 2008.

[4] Lettera pubblicata su “La Sicilia” il 17 ottobre 2008, pagina 33.

[5] La difesa appare ancora meno esaustiva se si considera che Mario Ciancio è consigliere d’amministrazione dell’ANSA nazionale, mentre la sede catanese dell’ANSA è in via Oderico da Pordenone 50, che è anche la sede de “La Sicilia”. Ciancio è tutt’altro che un imprenditore locale. Oltre ad essere stato presidente della FIEG, possiede o ha posseduto importanti partecipazioni azionari nei media di tutta Italia, tra cui “MTV”.

[6] Cfr. Fabio Gallina – Sebastiano Gulisano, Catania dopo Santapaola, “I Siciliani nuovi”, marzo 1996

[7] Procura di Catania, Atti dell’operazione “Orsa Maggiore”

[8] Termine originale usato dai magistrati.

[9] Ibidem.

[10] La Sicilia, 2 giugno 1994.

[11] Gazzetta del Sud, 3 giugno 1994.

[12] Claudio Fava, La mafia comanda a Catania 1960/1991, Laterza 1991

[13] Una emittente barcellonese il cui proprietario – Antonino Mazza – sarà ucciso nel luglio ’93.

[14] Cfr. Gazzetta del Sud, 13 maggio 1995, pagina 5

[15] Ibidem.

[16] 1952-1992 I nostri quarant’anni, supplemento alla “Gazzetta del Sud”, 9 giugno 1992, pagina 141

[17] Killer non messinesi. Nebuloso il movente, “Gazzetta del Sud”, 17 gennaio 1997, articolo non firmato in prima pagina

[18] “Vittima della devozione”, Gazzetta del Sud 20 giugno 1992, pagina 1

[19] Gazzetta del Sud 30 giugno 1995, pagina 95. L’editoriale è apparso in contemporanea su il Resto Del Carlino, La Nazione, Il Tempo.

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