Protagonista di queste due interviste è il progetto di vita. Di cosa si tratta? Con una terminologia matematica, diremmo che è la risultante tra obiettivi prefissati e contesto sociale in cui si vive. In queste interviste il progetto di vita subisce una chiara involuzione. Nel primo caso, l’individuo delinea i propri obiettivi, pur senza riuscire a raggiungerli.
Nella seconda intervista, prevale da subito il fatalismo. Il problema non è la definizione degli obiettivi, che sono predeterminati dalla società, ma la capacità di riuscire a raggiungerli.
C’è una generazione di differenza tra i due intervistati. Il primo cresce negli anni ’60 e ‘70, il secondo nei ’90. Oggi il progetto di vita somiglia al montaggio di un puzzle, reso sempre più difficile dalla crisi economica. Fino a poco tempo fa, spesso era un binario da percorrere, con qualche scambio a dare l’illusione delle scelte.
La precarietà e la flessibilità creano sfiducia nel futuro, e nello stesso tempo rinforzano nella realtà meridionali le tradizionali reti clientelari ed i meccanismi di sopraffazione spesso travestiti da comparaggio e ‘amicizia’.
Il contesto sociale dello Stretto vive un’attesa carica di pessimismo. La crisi dello Stato, tradizionale ‘datore di lavoro’ poco esigente e benevolo, apre scenari di disoccupazione di massa. I giovani più volenterosi si arrangiano con i ‘lavoretti’ , quelli più pigri racimolano qualcosa con le indennità di frequenza di ‘corsi regionali’ dalle tematiche più o meno fantasiose.
Gli altri, con molta semplicità, partono “‘ppi ssupra” (verso il settentrione), come fecero i loro nonni, con lo stupore di chi si immaginava dottore o impiegato e senza capire come e perché si ritrova emigrante. La nostalgia del mare, la frenesia dei confronti (qui e lì, su e giù, i prezzi e gli autobus, i politici e le imprese).
Giustamente, il secondo intervistato dice: “Certo che vorrei un posto, ma mi accontento anche di un lavoro”. Chi sta ‘ppi ssupra probabilmente non coglierà questa distinzione.
‘U postu è il lavoro statale, una specie di rendita di posizione, la sistemazione non solo per sé stessi ma anche per i propri figli, e coincide con la costruzione della casa di proprietà e con la fine delle preoccupazioni. I figli non dovranno pagare l’affitto, potranno sposarsi, studieranno ed aspireranno a qualcosa di più rispetto a quanto avuto dai genitori.
D’estate, non moriranno di caldo in appartamento ma potranno rilassarsi nella seconda casa a due passi dal mare, abusiva o intestata alla moglie. Le mansioni del posto saranno tutt’altro che faticose, e le poche ore settimanali lasciano ampio spazio ad un secondo lavoro in nero, per arrotondare. Se anche la consorte ha ottenuto un posto è vero e proprio benessere, ed ogni anno – tra le tante cose – si potrà cambiare automobile, passando ad esempio dalla berlina al fuoristrada. E così via…
‘U travagghiu è il lavoro nel settore privato, e non a caso richiama il travaglio, la fatica dell’incertezza e del doversi confrontare giorno dopo giorno col principale e con le sue angherie, con una messa in regola che non arriva mai o con le mille sopraffazioni (contributi non versati, la tredicesima come un’elemosina, lo straordinario mai pagato, orari molto estensibili, mansioni dipendenti dall’umore o da scelte cervellotiche).
E soprattutto la paura che la luna storta di un mattino, l’equivoco di un malinteso su una mansione, la maldicenza e la delazione di un collega siano la causa del licenziamento. Senza liquidazione. Con una vita da ricostruire, come una schiavo che torna a desiderare le proprie catene. Alla ricerca di un altro ‘travagghiu’
Crescere i figli sarà una fatica, così come pagare l’affitto o il mutuo. Prospettive zero. La pensione un punto interrogativo.
Ma voi pensate che al mondo ci sia una persona talmente masochista che potendo scegliere tra la prima e la seconda ipotesi voglia un travagghiu?
Facile condannare il posto fisso, specie per chi il posto fisso l’ha avuto oppure ce l’ha ancora e pontifica sulle meraviglie del libero mercato e della flessibilità.
Queste discussioni hanno generato un curioso scenario, in cui si esaltano le cause e si condannano gli effetti. La flessibilità del mercato del lavoro è cosa buona e giusta. Il precariato no. Il libero mercato delle braccia e dei cervelli è la modernità. Vivere senza potersi creare una famiglia o fare figli è una mostruosità.
O si accettano – come negli Usa – sia le cause che gli effetti oppure – come nel mondo civile – si condannano entrambi.
Se la flessibilità è un acquazzone a Padova o Bologna, al Sud è un uragano. Che non produce nuovo ribellismo, ricerca di alternativa, ma ulteriore chiusura nei meccanismi clientelari e persino nostalgia del regime democristiano.
Quando bastava scambiare una decina di preferenze di cabina elettorale con la magia del postu.
Sommario
” E r a v o g l i a d i o c c u p a r s i d e l l e c o s e d e l m o n d o “
2.2.6. Ricostruzione degli ambienti
“I l f u t u r o ? F i n e d e l m o n d o”
3.2. Analisi – G e s t i o n e d e l l a c r i s i p e r m a n e n t e
3.2.6. Modello di gestione della crisi permanente
4.7. Fine: l’utopia morta, la gestione della crisi
1. P r e m e s s a
1.1. Parole di carta
………………..
Tra le persone in carne ed ossa che hanno rilasciato le interviste e i personaggi di questo testo ci sono molti punti di contatto, ma anche molte differenze.
Tra gli uni e gli altri, ci sono stati:
– l’ambiente di registrazione
– l’abitudine alle interviste
– la scelta: cosa dire, cosa tacere (la garanzia dell’anonimato è
importantissima)
– il passaggio dalla voce allo scritto: nonostante il tentativo di riportare fedelmente il linguaggio parlato (occorre considerare anche la leggibilità), c’è sempre una differenza che deriva dalla trascrizione;
– l’interpretazione, in gran parte soggettiva.
Si parla allora di racconti “letterari” ed inventati? No, certamente. Da un lato è bene essere consapevoli del lavoro che si fa e dei problemi che pone, dall’altro occorre non mitizzare il lavoro ermeneutico: l’interpretazione è ipotesi sulla realtà, non fotografia.
1.2. Le categorie
……………..
Elenco in questo paragrafo le categorie che saranno utilizzate nell’analisi, sia nella loro formulazione originaria, sia accennando (in qualche caso) all’elaborazione che ne ho fatto durante l’applicazione.
Mondo vitale
…………
“I diversi settori della vita quotidiana pongono l’uomo d’oggi in relazione con mondi di significato e di esperienza estremamente diverse e spesso alquanto discrepanti. La vita moderna è alquanto segmentata ed è importante comprendere che questa segmentazione (o, come preferiamo definirla, questa pluralizzazione) non si manifesta solo a livello della condotta sociale palese, ma dà origine anche a notevoli manifestazioni anche a livello della coscienza” [Berger Berger Kellner 1983, 170].
Ho utilizzato la categoria di ‘mondo vitale’, più che come settore della vita quotidiana (formulazione vaga) o come ‘luoghi della coscienza’ (formulazione psicologista), in maniera pratica: come ‘ambienti’, luoghi spaziali (sebbene non in senso rigidamente fisico) in cui i due soggetti hanno vissuto.
Progetto di vita
…………….
“Il progetto di vita è la risultante di tutte le scadenze rilevanti e del loro significato integrativo. Nella società moderna il progetto di vita è risultato un valore in sé. Se ne rimprovera, di solito la mancanza. Il nucleo familiare opera dunque come un laboratorio di progetti di vita” [Berger Berger Kellner 1983, 176].
Nell’analisi, la capacità di progettare e di scegliere (autonomamente) diventa uno strumento importante per inserire il soggetto in una delle ‘caselle’ indicate nel paragrafo successivo.
Strutturazione
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strutturati | Destrutturati | |
Auto | autostrutturati | Autodestrutturati |
Etero | eterostrutturati | Eterodestrutturati |
[cfr. Cavalli 1986]
È chiaro che l’autonomia non va intesa in senso assoluto. Nelle analisi si vedrà chiaramente il peso della struttura sociale nelle due biografie. Le scelte sono sempre condizionate, anche se nel percorso biografico ci sono momenti in cui si offrono possibilità di scelta, opzioni per un diversa traiettoria di vita. “Parto o resto qui ?” “Accetto il lavoro o rifiuto?” “Scelgo io o lascio scegliere ad altri?”
Rimane comunque, in fondo, una questione di percezione: la percezione soggettiva, degli intervistati che possono vedersi in un modo o in un altro. La percezione di chi interpreta, che in base a propri valori culturali ed al materiale a disposizione, decide chi sceglie, chi subisce le scelte, chi è destrutturato, chi addirittura è “auto/destrutturato”.
Struttura di vita e fasi
……………………
“La struttura della vita individuale può essere considerata da tre punti di vista:
- a)Il mondo socio-culturale dell’individuo, in quanto lo sovrasta, ha per lui conseguenze e significato. Per comprendere la vita di un uomo, perciò, occorre prendere in considerazione la società in cui vive.
- b)Dobbiamo collocarlo in diversi contesti sociali: classe, religione, composizione etnica, famiglia, sistema politico, struttura occupazionale […]
Alcuni aspetti del sé sono esplicitati e vissuti, altri sono inibiti e trascurati. Il sé include una strutturazione completa di desideri, conflitti, ansietà e modi di risolverli e controllarli. Include fantasie, valori morali e ideali, talenti e abilità, tratti caratteriali, modi di sentire, pensieri, azioni. […] Dobbiamo esaminare la partecipazione dell’individuo nel mondo.
[Levinson 1986, 124]
Nell’interpretazione di Levinson, la vita consiste di varie fasi: momenti di costruzione della struttura che si alternano a momenti di transizione, cioè periodi in cui si effettuano delle scelte.
Generalmente, ogni fase prevede dei compiti da assolvere (compiti di fase) ed è contrassegnata da momenti decisivi:
“Usiamo il termine “evento contrassegno” (marker event) per identificare un’occasione [che] ha un impatto notevole nella vita di una persona. Gli eventi contrassegno sono di solito considerati nei termini dell’adattamento che richiedono. Essi cambiano la situazione di vita di una persona e questa deve farvi fronte in qualche modo”.
[Levinson 1986, 135]
Identità
……..
Per identità si intende un “sistema di significati che mettono in comunicazione l’individuo con l’universo culturale dei valori e dei simboli sociali condivisi e che gli permette di:
– dare senso alla propria azione agli occhi propri e degli altri;
– operare delle scelte;
– dare coerenza alla propria biografia”
[cfr. Sciolla 1983]
Più concretamente, dall’analisi (2.2 e 3.2) emerge l’identità come risultato del confronto tra i valori provenienti dall’ambiente culturale di riferimento (la cultura dominante o una sub-cultura o una cultura alternativa) e la situazione materiale del soggetto.
Es.: identità e lavoro
- etica del lavoro (valore culturale dominante)
- etica del consumo (valore culturale dominante )
- situazione materiale: ho un lavoro?
- situazione materiale: ho accesso ai consumi?
Se la risposta alle due domande finali è positiva, è ipotizzabile che ci troviamo di fronte ad un soggetto con una identità forte, con un alto tasso di autostima.
Cambiando una delle variabili, cambia tutto il resto. Se per esempio ci troviamo in una sub-cultura dove l’etica del lavoro non è dominante (in Sicilia è più presente l’idea del lavoro come fatica da evitare rispetto al modello ‘protestante’ nord-europeo), l’assenza di lavoro sarà meno pericolosa per l’identità individuale, messa però in crisi dal punto 2.
Se però il soggetto è influenzato da una cultura alternativa (se per esempio critica i consumi in nome dell’ambientalismo), può ugualmente avere una forte identità.
Il contesto
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“[…] Gli uomini devono imparare a parlare per sé stessi invece di ricadere continuamente nella tendenza a parlare per gli altri nel linguaggio, supposto neutrale e imparziale, della ragione” [Seitler 1983, 6]
L’indicazione (per altro ampiamente disattesa dallo stesso Seitler lungo tutto il suo libro) è straordinariamente importante: invita ad non assumere il proprio punto di vista come universale e soprattutto a non mascherarlo da posizione astratta e neutrale. Quante sopraffazioni si sono basate su questo meccanismo?
Se la seconda intervista ha un merito, questo è di mostrare una biografia diversa da quella che si considera la normalità. Levinson [1986, passim], per esempio, descrive le fasi di vita indicandone le caratteristiche e (addirittura) la durata.
Peccato che solo una piccolissima parte degli abitanti del pianeta vivano in quelle condizioni! Dietro quella descrizione, apparentemente neutrale, si nasconde il percorso di vita tipico di un membro della “middle class” occidentale, bianco e maschio.
Occorre al contrario contestualizzare, porsi continuamente la domanda: di chi sto parlando?
La realtà analizzata appare infatti complessa, conflittuale, diversificata e straordinariamente concreta. Proprio questo è il suo fascino.
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Nota
Alcune discrepanze, nel testo delle interviste e nell’analisi, derivano dalla necessità di tutelare l’anonimato degli intervistati, per loro espressa richiesta.
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” E r a v o g l i a d i o c c u p a r s i d e l l e c o s e d e l m o n d o “
- Zona urbana : centrale
- Età : 41
- Titolo di studio : laurea in giurisprudenza
- Occupazione : giornalista professionista
- Sposato: no
- Genitori
padre : commerciante di arredi
scuola elementare
madre : casalinga
scuola elementare
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– Ricordi qualche episodio della tua infanzia?
Della mia infanzia, diciamo, l’aspetto che più mi torna in questo momento è la contraddizione tra il vivere in una condizione, in un quartiere popolare e quindi con tutti i codici rituali classici di un quartiere popolare, con il tentativo di sopraffazione, violenza, e poi il fatto appunto che frequentavo una scuola, andavo dalle monache, volevo studiare, mi piaceva leggere, quindi questi due mondi che in qualche maniera procedevano parallelamente, però non si incontravano quasi mai e che io vivevo in maniera spesso contraddittoria… però, cosa che mi è giovata moltissimo perché poi mi permette di riuscire a stare bene sia con persone estremamente semplici che con persone che hanno – diciamo così – sia con persone… diciamo i cosiddetti intellettuali… categorie… lavori intellettuali.
Quindi, la cosa che mi ricordo sono appunto soprattutto i giochi che si facevano… erano con le fionde… quando si giocava a fare le battaglie con le pietre di cui porto i segni, tre o quattro colpi mi hanno spaccato la testa… con le fionde… una volta anche con un colpo di martello… e specialmente questo è un discorso che si riferiva soprattutto all’estate, d’inverno riuscivo un pochettino a venire fuori da questa situazione perché appunto frequentavo la scuola, frequentavo a tempo pieno, era uno dei primi esempi di scuola a tempo pieno; poi, è questo l’aspetto – diciamo – fondamentale la cosa che più mi è rimasta impressa e alla quale penso in questo momento.
Un episodio dell’infanzia che mi è rimasto molto impresso…
A scuola. Andavo dalle monache, con tutto quello che questo può significare, cioè una tragedia: un giorno, per punirmi, per punirmi perché non sapevo un argomento di storia mi hanno costretto a stare – a non andare a casa, a mangiare – mi hanno costretto a stare nel refettorio, mentre gli altri mangiavano, c’era una parte di ragazzi che mangiava lì a scuola, io ero in un angolo a ripetere la storia e dovevo vedere gli altri che mangiavano, questa cosa mi è rimasta impressa, ed è una cosa che… quando ci penso mi fa incazzare tuttora…
Per quanto riguarda gli amici, il periodo più interessante era l’estate, non avendo molti soldi non andavo in vacanza da nessuna parte e quindi il quartiere diventava il mio mondo: per andare a farci il bagno c’era una vasca di ferro – in pieno centro di Messina succedevano anche queste cose – c’era una vasca di ferro grande un paio di metri per due – due per due – e ci facevamo il bagno in quella acqua putrida, nudi…
Oppure ce ne andavamo a mare, alla passeggiata a mare verso le due e mezza quando i genitori dormivano, per poi tornare con un bastone in cima al quale mettevamo le mutande con le quali ci eravamo fatti il bagno per asciugarle, sperando sempre che tornando a casa non venivamo ‘pizzicati’, picchiati…
– E la famiglia?
Nelle famiglia… sì, più che altro un’impressione generale. Noi siamo 5 fratelli, praticamente 5 persone una diversa dall’altra. Strade completamente differenti l’uno dall’altro, però appunto: sì, la situazione da famiglia numerosa, una bella realtà, una realtà che mi piacerebbe avere tuttora… ecco: il mio desiderio sarebbe stato di avere una famiglia numerosa come ce l’avevo; nell’infanzia era un punto di riferimento molto preciso, una cosa molto bella, la casa molto allegra…
– Cosa ricordi dei tuoi genitori?
Io ero molto legato a mio padre, meno a mia madre. Mio padre è morto quando io avevo diciotto anni e lui ne aveva cinquanta. Mi piaceva molto il suo modo di fare. Non era un anticonformista, però era una persona cui piaceva molto vivere, gli piaceva la motocicletta, farsi il bagno d’inverno… queste erano cose che mi attiravano molto, ecco: sono cose che mi ricordo.
Con mia madre c’era un rapporto più conflittuale, un rapporto più complesso, c’è tanto affetto ma c’è anche tanta… tanta incomprensione… reciproca.
Perché l’incomprensione tra me e mia madre? Mah, perché lei è una persona molto pratica, una persona che ha conosciuto, diciamo… che durante la guerra doveva assistere una famiglia, la madre le aveva delegato la crescita dei figli, ha un senso della realtà molto forte, è legata molto… è molto con i piedi per terra però ha anche un senso… cioè, ti scoraggia nelle cose perché ha una visione pessimistica delle vita…
Dicevo appunto che mia madre ha vissuto la guerra, durante il tempo della guerra ha vissuto privazioni come molti, è una persona appunto che ha una visione piuttosto pessimistica… è una persona che ti smonta le cose… non ti trasmette entusiasmo, è sempre dubbiosa delle cose che fai, magari non ti dà la fiducia necessaria. E questa è una cosa che chiaramente mi dà molto fastidio.
Mio padre era commerciante… cioè, lui era una persona estremamente… uno spirito libero, non gli piaceva stare fermo, quindi andava nel Nord, comprava corredi, poi tornava a Messina e li vendeva, aveva i suoi clienti e rivendeva appunto questi campionari. Non lavorava per nessuno, lavorava per sé, insieme ad un amico, un’altra persona insomma, e aveva quest’attività.
Infatti quando è morto tornava da un viaggio in Calabria. È morto il 20 settembre del 1974, io avevo 18 anni, 17 nel…, ’74… 19 anni avevo. E… devo parlare di questo? È l’episodio più sconvolgente della mia vita, indubbiamente, perché non conoscevo il dolore ed è una perdita… tutti i concetti che uno conosce così, per sentito dire, perché li legge, poi uno li vive e allora li conosce e sono concetti che ti rimangono tutta la vita perché una parte di te non c’è più, perché è morta con quella persona, almeno per quanto mi riguarda.
Ed è un dolore che se non ti devasta più come ti devasta prima è perché soltanto si è costituita tra te e la realtà una patina, uno spessore, altrimenti uno morirebbe piano piano…
Questo è un fatto che ho toccato con mano, poteva anche accadere questo e la natura da questo punto di vista, non tanto il pensiero… ti puoi dare mille giustificazioni, mille cose, non riesci mai a renderti conto, a dare le ragioni di quel dolore, è soltanto la natura, veramente, dentro di noi, un meccanismo biologico, un meccanismo chimico insomma, che ti permette poi di sopravvivere.
– C’era la televisione?
Ah, ecco: mi hai fatto ricordare una cosa bellissima, perché io sono di quella generazione che praticamente ha vissuto i primi momenti della televisione: ed è un momento bellissimo. Bellissimo perché ho vissuto due cose, diciamo, di quella situazione: praticamente la televisione non aveva – chiaramente – tutto quello spazio che ha oggi: io, insieme ad altri amici miei, avevamo un fortuna perché mi ricordo una cosa bellissima, che io credo molta gente mi invidierebbe: cioè c’era il nonno di una mia amica che raccontava i ‘cunti’, i famosi ‘cunti’, e noi stavamo giornate intere a sentire questo anziano, questo vecchio che ci raccontava queste cose: ed è una delle cose più belle perché era una persona che aveva un ruolo, trasmetteva quello che lui aveva conosciuto, lo trasmetteva a noi.
Appunto, dico, la televisione in quel periodo aveva soltanto dei momenti, quindi riuscivamo… era un paio d’ore, due o tre ore al giorno, c’erano delle cose belline, ecco: era una scatola appunto, era una scatola delle meraviglie in cui c’erano telefilm che mi sono rimasti impressi… c’è un bellissimo film, “Marrakesh express” di Salvatores, che parla a un certo punto di alcune trasmissioni che si facevano in quel periodo, come appunto ‘L’uomo invisibile’, ‘La nonna del Corsaro nero’, ed erano delle cose veramente belle… la televisione non era solo un modo per fare spettacolo ma era un modo per insegnarti qualche cosa. Però, la cosa che più mi piace ricordare è appunto questa dualità: la trasmissione orale di cose, poi appunto l’invenzione di questa scatola, che però non ti permetteva di vivere le cose… cioè magari sì: ti coinvolgeva, in un certo senso, però chiaramente erano due modi: lì c’era un contatto umano, qui il contatto umano era finito. Questa cosa qui me la ricordo molto nettamente.
– E la radio?
Ah, la radio è una cosa bellissima perché in quel periodo… per esempio, io amo moltissimo il rock, sono un rocchettaro, e chiaramente le trasmissioni, non è che ce n’erano molte. Ascoltavo per esempio ‘Per voi giovani’, la trasmettevano alle 4, il pomeriggio, mentre io studiavo, la prendevo con una radiolina, la prendevo malissimo: era una tragedia, però ascoltare per quella mezz’ora quella musica che veniva dall’America, dall’Inghilterra era una cosa fantastica, ho sentito i primi gruppi italiani, era una cosa stupenda.
Poi ascoltare certe trasmissioni come ‘Supersonic’, è stata la prima trasmissione che alle 9 di sera trasmetteva la nostra musica, la musica rock, era una cosa fantastica.
Poi si cambiava vita, bisognava combattere, era una cosa che veramente faceva generazione, ci faceva sentire in maniera eccezionale. Poi bellissimo è stato il momento in cui sono subentrate le radio libere, non quelle schifezze che ci sono ora. Le radio libere, la prima è stata radio ‘antenna dello stretto’, c’era un gruppo di ragazzi bravissimi che trasmetteva musiche fantastiche e cominciavo ad ascoltare i Createns, i Beatles, i Rolling Stones, i Led Zeppelin… ed era una cosa veramente bella, coinvolgente, ti faceva sentire parte di qualche cosa.
– I giornali?
I primi giornali che ho comprato è stato – vabbè – un giornale di musica, prima era ‘Voi giovani’ e poi ‘Ciao 2001’, poi il primo quotidiano che ho comprato sistematicamente – episodicamente ho comprato ‘il manifesto’, quando cominciava… nei primi anni ’70 – poi ho comprato sistematicamente per qualche tempo ‘la Repubblica’, fino a quando non è diventato un giornale di centro-destra, fino al’78, fino a quando è morto Moro era un giornale accettabile, poi è diventato la schifezza che conosciamo… e poi oggi prevalentemente compro soltanto ‘il manifesto’, prevalentemente ‘il manifesto’…
– E oggi, cosa è cambiato?
Mah, la televisione… da un primo momento in cui c’era questa attrazione, in cui tu quasi ti creavi un interscambio, c’erano queste cose nuove, ora no: ti rendi conto che prevalentemente è una cosa appunto… spesso l’accendi solo per abitudine, perché non c’è più nessuno che ti racconta i ‘conti’, che ‘ti cunta i cunti’.
Certo, qualche film, qualche cosa… poi per il resto è una schifezza e basta. La radio è ancora… mantiene il suo fascino, però è inascoltabile perché non puoi assolutamente ascoltare per ore intere pubblicità, come avviene.
– Ricordi altro dell’infanzia?
Mah, la cosa che mi ricordo è che io ho avuto una educazione cattolica, io facevo il chierichetto, andavo dalle monache, le monache… Monache e preti hanno esercitato una indubbia influenza in me e penso che ci sia tuttora… nel mio atteggiamento moralistico nei confronti delle cose; però, accanto a questo piano piano è venuta fuori, ecco, una coscienza anche di natura politica, io non riuscivo a conciliare politica e religione; cioè: ritengo che possa essere conciliabile, in una visione più aperta e meno schematica e meno ideologica e meno rigida delle cose, cioè una maturazione a livello politico perché mi rendevo conto delle contraddizioni del fatto di vivere in un quartiere popolare, in un quartiere in cui gli uomini politici venivano a fare le loro promesse per cambiare, per essere… i servizi migliori, per dare le case migliori, e quindi ecco in me si è sviluppata questa cosa: e chiaramente dai miei non è stata mai compresa in maniera buona perché essere di sinistra nei quartieri popolari significava essere comunisti, significava essere quasi dei mostri: gente che mangiava i bambini, gente che voleva rubare la casa agli altri, cioè cose terrificanti, insomma… ma è questo con cui sono cresciuto.
– Cosa avresti voluto cambiare, di questo periodo?
Ricordandomi gli amici, specialmente alcuni di loro… mah, l’unica cosa che mi sarebbe piaciuta moltissimo era viaggiare, nell’infanzia. Poi ho avuto una fortuna grandissima, io nell’infanzia: io a un certo punto ho cominciato a fare atletica leggera; cioè: volevo fare calcio come tutti quelli che giocavano, chiaramente: lo sport fondamentale.
Però non ero bravissimo, e quindi quasi per ripiego ho fatto atletica leggera – invece – in cui sono riuscito molto bene; e quindi questa è stata anche la cosa per portarmi via dal mio mondo e che appunto mi metteva sempre in contraddizione col mio mondo di provenienza: mi faceva vivere sempre una vita – ecco: alcune vite parallele.
Questa era un’altra cosa, delle altre contraddizioni che si innestavano sempre abbastanza bene: c’era un’evoluzione in tutto questo, dal quartiere popolare poi magari tendevo ad altro, ecco a migliorarmi, a non rimanere fermo a certi rituali, ecco, a certi schemi, a certe cose, anche se gli amici di allora mi sono sempre rimasti e sono fondamentali per me.
– Parliamo dell’adolescenza
Il passaggio alla scuola media? Mah, una rottura, no, non c’è stata proprio una rottura… la cosa che mi colpiva è che io provenivo da un quartiere popolare, ho cominciato quindi ad avere a che fare con persone che magari stavano meglio di me economicamente e quindi c’era questa cosa qui, quindi s’innestavano dei meccanismi… mentre per gli altri erano normali determinate cose per me non lo erano: come acquistare dischi, come acquistare libri: per gli altri era un fatto normale; oppure andare al cinema oppure fare le cose più normali, magari… che per me erano allora… cioè: cose che non mi potevo permettere, da un punto di vista economico, strettamente economico; acquisivo una coscienza che c’era un mondo diverso dal mio, e questo non è che era sempre incruento, questa coscienza, c’erano anzi momenti di grossa contraddizione.
La scuola media l’ho fatta al “Galatti”, la scuola “Galatti”: è stato un periodo, in cui ho cominciato a… è stato un periodo in cui ho visto le contraddizioni, c’è stato un periodo di maturazione anche politica, in cui e tu eri figlio del professore o del professionista eri ben visto dai professori, no? mentre eri figlio del popolo e non ti vedeva nessuno, nessuno insomma si preoccupava di te. E questa era una cosa che già mi faceva incazzare tantissimo.
– Come è nata la tua coscienza politica?
Ecco, è una cosa di cui parlavo anche ieri con un collega: cioè, nei quartieri popolari a Messina, e questa è una cosa che dovrebbe fare pensare – alla sinistra – c’è una coscienza che… è più facile portarla verso la destra, i quartieri popolari sono più per la destra, a Messina i ricchi erano nella Fgci, i figli dei professionisti erano nella sinistra, i poveracci erano tutti a destra, ed è una contraddizione che ancora oggi si coglie, no?
La coscienza politica nasce però chiaramente da queste piccole ingiustizie quotidiane che tu notavi a scuola, notavi nella vita di tutti i giorni, e cominciavi… però chiaramente non in maniera virulenta, non in maniera decisa, perché ancora io la sposavo con l’idea religiosa, l’idea appunto di Cristo che va nel tempio e prende a scudisciate i mercanti, quindi riuscivo a metterli insieme.
Poi non è stato più possibile perché la Chiesa la vedevo come un centro di… era quasi un custode di queste disuguaglianze e ingiustizie: era paradossale ma la vivevo in questa maniera.
– Vuoi parlare degli anni del liceo?
Questo è un periodo… fine degli anni ’60 – diciamo – perché poi nel ’70 sono andato nel ‘Liceo scientifico Archimede’, questo è un periodo, chiaramente (in cui) ancora non si è né carne né pesce, si è una dimensione in cui ancora non sai cosa sei, assolutamente. Né dal punto di vista mentale, quindi era una cosa abbastanza… c’era una atteggiamento, rapportarsi alla vita, così, casuale, istintivo. Non c’era qualcosa che ti, che ti indirizzava, che ti dava un punto di riferimento preciso.
C’era una grossa confusione; e però, già: per esempio: il bisogno di leggere, perché io il bisogno di leggere me lo sono conquistato da solo. Non era nessuno che mi invitava a leggere, non era un’abitudine che c’era a casa mia, era una cosa che mi sono conquistato, io ho sentito il bisogno di cominciare a leggere.
Tutti i miei soldi, quei pochissimi soldi che avevo, li cominciavo a spendere… i primi soldi che ho avuto, mi ricordo: ho comprato due libri: uno era “Cristo tra i muratori” di Piero Di Donato, che era uno scrittore americano, e “Uno nessuno e centomila” di Pirandello.
Queste sono cose che io mi ricordo con molto piacere, perché sono cose che mi appartengono: non derivano da niente. Cioè: erano soltanto cose mie.
In questo momento c’era il discorso dell’atletica. Facevo atletica, mi facevo conoscere, mi conoscevano, sono diventato – cioè, sempre nel mio ambito – famoso; ho avuto dei buoni risultati a livello nazionale, a livello regionale, a livello provinciale. Ed è una cosa che chiaramente mi piaceva moltissimo.
– Com’era il clima di quegli anni?
Sì, vabbè, quello è un periodo bellissimo… cioè bellissimo da una parte… cioè, essendo nato nel ’55, c’è stato il sessantotto.
Io nel ’68 avevo 13 anni, quindi il ’68 non l’ho vissuto, però ho vissuto tutto quello che è successo dopo.
Tutto quello che significa quello che è successo dopo è quasi un sogno; tutto quello che succedeva era bellissimo: lo stare assieme, questa coscienza dello stare assieme, poi la musica: per me è stato fondamentale, ed è tuttora fondamentale la musica, cioè… veramente: il rock era la colonna sonora della tua vita, sono cresciuto con la musica, con i cantautori italiani, Francesco De Gregori, Guccini in particolare, De Andrè.
Poi ascoltare i Led Zeppelin, i Createns Whether Revival, ti faceva sentire parte di un gruppo, ti faceva sentire parte del mondo, ti faceva sentire parte del mondo, ti dava un’identità. Ha contribuito a creare la mia identità.
– Quale era la situazione al liceo?
Sì, indubbiamente, essendo negli anni ’60 c’erano delle cose… succedeva per esempio che nella classe, nella stessa classe c’erano il tuo amico con cui magari fino a ieri avevi condiviso qualcosa, e un giorno si scopre: lui è fascista e tu sei comunista, e allora cominciano i discorsi, e allora li cominci a guardare in cagnesco, li cominci a insultare; questo – diciamo – è l’aspetto peggiore della cosa, perché poi col tempo ti rendi conto… però succedeva questo.
In quel periodo… erano anche gli anni della paura: quando venivi picchiato, ti assaltavano, poi a Messina… senza, senza nessun motivo… senza che ti potessi salvare.
Quindi c’era questa contraddizione negli anni del liceo: il gruppo di sinistra e il gruppo di destra, quindi: riuscire a conciliare queste cose: ci si evitava, ecco: c’era un clima di… di sospetto reciproco, di paura, di tensione. Però, nel contempo questo del liceo è stato un momento bellissimo: io avuto la sensazione netta di staccarmi dalla mia famiglia, dal mio mondo, perché ho avuto la mia prima storia d’amore con una ragazza di un’altra scuola.
E quello è stato il momento più bello, indubbiamente, di tutta la mia infanzia, in cui ho avuto la sensazione precisa di uscire da una campana di vetro, di staccare un cordone ombelicale, di essere una persona. Proprio: individuo.
Perché cominciare ad avere – nutrire – qualcosa nei confronti di quest’altra ragazza che veniva a diventare il mio mondo, e lo è stato per parecchi anni: e questa è stato il momento più bello, indubbiamente, il ricordo di quel periodo, insieme ad altre cose, perché si facevano sempre tante altre cose, lo sport, la politica, però appunto c’era questo, questo elemento che sovrastava tutti, che era l’aspetto più bello, indubbiamente.
– Quali episodi ricordi?
Mah, mi è rimasto impresso un episodio: al liceo c’era stato un momento in cui i professori guardavano di più, cioè erano più attenti a chi era figlio di papà, e non a te, no?
Io, dal momento che al liceo ero un buon atleta, allora invece il privilegiato tante volte ero io. Cioè, se dovevamo andare a fare una gara fuori Messina, il gruppo – diciamo: il grosso del gruppo – andava in pullman, io andavo in macchina col professore della mia scuola, perché io non mi potevo stancare, io ero la bandiera della scuola. E quindi questa era una cosa che mi… però, non l’ho mai vissuta come una cosa che mi… come una cosa che… non mi sono mai montato, anzi: l’atletica, da questo punto di vista, la coscienza politica mi portavano ad avere una visione, come dire, sì: migliorare te stesso, però te stesso non in contraddizione con gli altri, ma un individuo che stava con altri individui, ma non che doveva… che era qualche cosa di più rispetto agli altri, ma che si esprimeva in maniera differente da gli altri, come è giusto.
La scuola, indubbiamente, è il momento formante più importante della mia vita, il momento in cui, specialmente gli ultimi tre anni, è il momento in cui si esprime tutta la voglia di ribellione, in cui si esprime anche quel qualcosa di creatività, c’è l’esplosione ormonale in tutti i sensi della persona. Ecco: quello sì, è il momento più bello, più intenso, più carico, della vita fino a quel momento, è quello più ricco: ti faceva pensare che potessi avere…
Poi la morte di mio padre, tutto questo in qualche maniera lo tronca.
– Cosa avresti voluto cambiare di questo periodo?
Della fase del liceo cosa avrei voluto cambiare? Mah, cosa avrei voluto cambiare… ecco: è una cosa il liceo, pur essendo io uno che si riguarda un po’ indietro, no? Non mi è venuta mai la nostalgia… Una cosa invece che mi piaceva era il gruppo, che s’era creato: cioè, avevamo creato un gruppo di persone che faceva le cose assieme ed era molto bello. Cambiare… no, non mi viene niente in particolare da cambiare.
– Adesso parliamo della fase successiva, l’Università
Ho fatto una scelta: andare in Giurisprudenza perché pensavo che Giurisprudenza mi permetteva chissà quali cose, no? E che è poi la scelta di buona parte di quelli che vanno a Giurisprudenza, invece questo non è vero perché è una facoltà… lasciamo stare che è arida: io avrei preferito magari fare Lettere, Medicina era la cosa iniziale che volevo fare ma mi spaventavo del sangue, e poi l’ho eliminata.
Lettere: la cosa che mi piaceva fare. Però… niente, ho fatto Giurisprudenza perché è una facoltà che mi attirava, c’era anche una certa ambizione nel farlo perché mi dicevano che era difficile, a me piaceva misurarmi, mi piaceva farlo perché mi piaceva misurarmi con le difficoltà. A Giurisprudenza difficoltà ce ne erano parecchie. Non è stato sempre una cosa positiva perché io poi mi sono laureato in 7 anni però, è stato un periodo molto bello, molto intenso, perché lì il fatto politico è esploso completamente, quindi c’era il collettivo.
Poi, in quel periodo era tutto un misto di sentimenti che i ragazzi di oggi con possono capire perché a Messina c’era un clima particolarissimo, c’erano le strade che potevamo fare e quelle che non potevamo fare. E quindi, vivevi in zone: oppure, se volevi passare da una parte, per esempio davanti al bar “Select”, o a Giurisprudenza, dovevi passare accompagnato, se avevi “il manifesto” te lo strappavano, la polizia poi sempre era con i fascisti, come lo è sempre stata e lo sarà. Quindi tu eri sempre messo in difficoltà… enormi. Era bello quando cominciavano i primi cortei, ecco: passare per il centro di Messina in corteo anche se ti provocavano, anche se poi prendevi qualche legnata, era bellissimo, perché ti appropriavi di uno spazio: gridare il tuo malessere, la tua rabbia: è una cosa veramente molto… che ti faceva sentire molto vivo.
Poi con un gruppo di amici in quel periodo ho preso anche una casa assieme: proprio, c’era questo piacere di stare sempre assieme, di discutere di tutto, di interessarci di tutto quello che accadeva nel mondo.
Da questo punto di vista, c’è uno scrittore – Erri De Luca – che appunto parla di questa voglia di comunismo, che non è un discorso ideologico, ma era veramente la voglia di partecipare delle cose del mondo, di stare assieme, del desiderio di giustizia: e questa era una cosa fortissima in quel periodo.
Si è andata perduta. Questa è la cosa che più mi dispiace che si sia persa, di quel periodo: questa voglia di sentire le ingiustizie come se fossero state fatte a te. Si faceva lo sciopero per il Vietnam: magari era solo l’espediente per – magari, tante volte – per non fare lezione all’Università, per fare una manifestazione.
Però, ecco, già il fatto di occuparsi di un fatto che accadeva da un’altra parte del mondo era una cosa bellissima, che ti faceva sentire parte di questo mondo; cosa che oggi chiaramente non accade più.
– Quali episodi ricordi?
Sì, all’Università c’era… cioè, all’Università in quanto tale non riuscivo d ingranare, perché in più c’era l’aspetto – diciamo così, ecco – avevo conosciuto altre persone; in questo mio tragitto dall’infanzia ero entrato in un altro mondo.
E l’Università è stato il momento in cui ho conosciuto altre persone anche di diversa estrazione sociale, anche gente abbiente, per me: io notavo queste cose; perché, io, abbiente non lo ero e quindi denotavo queste cose.
Era indubbiamente un periodo molto vivo, molto bello. È stato bruttissimo nel ’78, quando hanno rapito Moro. Me lo ricordo nettamente perché è stato… cioè, le Brigate Rosse è stato come se ci avessero veramente tolto l’acqua a tutti. Con quello che hanno fatto, a un certo punto hanno distrutto un sogno, hanno distrutto un sogno di vivere in quella maniera, cioè di potersi ribellare e dire la propria, invece loro in quella maniera non hanno fatto altro che fare il gioco del potere, cioè: si sono messi dalla parte del torto, ammazzando poi una persona in quella maniera, da cani… e quindi mettendoci anche noi in crisi, perché nel nostro mondo non ci doveva essere più qualcuno che uccideva un altro, invece loro uccidevano: e questo era una cosa che, veramente, a molta gente ha tolto la voglia di impegnarsi più.
Tante cose le ritenevi anche giuste, il dare la lezione, il fatto eclatante… però, ammazzare come un cane una persona, come hanno fatto loro, era veramente troppo. Una cosa imperdonabile.
– Sei andato a vivere da solo?
No, io sono di quelli che sono stati sempre a casa. In quel periodo, ho avuto una bellissima esperienza, perché in quel periodo si usava molto, ora si usa molto di meno: andare a lavorare all’estero. Cioè, andare a raccogliere… molti andavano, per esempio, in Trentino Alto Adige, vabbè, non è all’estero… in Trentino Alto Adige a raccogliere le mele.
Noi dovevamo andare a raccogliere fragole e mirtilli in Francia, dovevamo andare a Bordeaux, poi siamo finiti a Parigi, poi siamo finiti in Normandia…
Però lì è successa una cosa bellissima, perché è stata la prima esperienza di andare fuori d’Italia: sono andato in autostop, con un altro mio amico. Praticamente in 36 ore eravamo a Parigi, con l’autostop, da Messina. Quella è stata una cosa stupenda.
Lì ho fatto un concentrato di esperienze che non ho mai fatto più. Dal lavoro, dall’essere licenziato e poi ho avuto un’esperienza con una… un’esperienza incredibile… cioè: “incredibile”… un’esperienza forte…
Nel senso che, un giorno, prima di partire da Parigi, io e questo mio amico con cui ho fatto questo viaggio, tutte queste esperienze, abbiamo conosciuto, in un locale di Montmartre, una coppia di ragazzi italiani e ci dicevano che l’indomani sarebbero partiti per Grenoble, verso Grenoble perché si doveva andare ad una manifestazione antinucleare, contro il “Superphoenix”.
Eravamo con la loro ‘126’, e siamo partiti appunto verso Grenoble. Marville si chiamava il posto. Il ragazzo era ricercato dalla polizia italiana perché era uno di “Radio Alice”, che era una delle radio dell’autonomia bolognese, e questa ragazza che c’era con lui invece era una ragazza che aveva conosciuto.
Lei era fidanzata, lui fidanzato: insomma avevano questa esperienza: già anche per me questa era una cosa sconvolgente. E la cosa sconvolgente è stato, appunto: il viaggio in sé, con questi due ragazzi che facevano l’amore davanti a me e al mio amico, per terra, buttati, in qualsiasi situazione, qualsiasi cosa…
Io, del Sud, siciliano, proprio di quelli… mi trovavo di fronte a questa realtà nuova, questa ragazza che si levava la maglietta quando ci andavamo a lavare la mattina alle fontane, nei paesini, senza nessun problema…
Poi siamo andati, appunto, a Marville, ho conosciuto anche Marco Pannella, quel pezzo di merda, poi lo cancelliamo… lì è stato bello, il clima che si è creato prima della manifestazione è stato fantastico, anche se chiaramente era saturo di violenza, per tanti versi.
E cioè, c’erano gli autonomi italiani e gli autonomen tedeschi che si armavano, anzi: si davano consigli su come attaccare la polizia meglio, in che posizione; poi però c’erano gli anarchici tedeschi, molto colorati, molto simpatici, con le loro bandiere, che distribuivano il limone da mettersi negli occhi per i lacrimogeni.
È stata una cosa bellissima… dopo siamo andati a dormire, per terra dormivamo, insieme a tanti altri, conosci gente di tutte le parti del mondo: era una cosa bellissima.
Poi l’indomani è stata una giornata tragica perché, oltre al fatto che pioveva, abbiamo fatto 20 chilometri a piedi, e siamo stati intrappolati dalla polizia che ci ha massacrato di legnate, ci ha sparato la qualunque, hanno ammazzato anche a uno.
Siamo scappati, siamo riusciti anche a superare dei posti di blocco… ci hanno massacrati in tutte le maniere possibili e immaginabili.
– Poi il ritorno in Italia…
E poi appunto il ritorno in Italia. Questo è stato il periodo dell’Università. Sì, il viaggio… come accade a tanti ragazzi, quando vai fuori di casa, fai le cose più strane.
Fuori di casa, poi… per esempio, in Francia, quando eravamo nella metropolitana, e c’erano dei poliziotti: quando non fai il biglietto ti prendono e ti massacrano, letteralmente. E noi avevamo questa cosa qui, che dovevamo assolutamente non pagare, quindi…
Il fatto di fare atletica… eravamo un gruppo, io ero partito con un ragazzo, ci siamo uniti ad altri ragazzi, facevamo atletica, quindi il fatto di saltare le barriere, e ci inseguivano e non ci prendevano mai…
È stato bellissimo: poi certe volte siamo andati a prendere qualche cosa nei supermercati, per mangiare, qua e là: il senso di poter fare quello che ti pareva e piaceva, no? E questa è stata una delle cose molto belle. Poi andare a mangiare nelle mense francesi, le mense studentesche, le mense dell’Università era anche una cosa molto, molto piacevole. Poi, appunto, c’è stato il ritorno in Italia.
– Come è stato, tornare?
In un certo senso, mi piaceva tornare, raccontare quello che era accaduto, è stata l’esperienza più forte della mia vita, la prima volta che uscivo da un certo contesto anche familiare, no? Mi ero lasciato con quella ragazza, quindi ero in profonda crisi e quindi un mondo nuovo, nuove realtà, nuove cose, il mondo che si apriva in tutta la sua durezza, cioè cominciavo a vedere il mondo per come era: duro, selvaggio, anche se ancora avevo 24 anni, quindi ancora avevo il senso di “essere tu l’attore del mondo”, poi chiaramente man mano sei una comparsa, riuscire ad essere un comprimario è sempre più difficile.
– Quali episodi ricordi?
In quel periodo episodi particolari non ce ne sono, se non appunto il fatto che quella spinta cominciava ad esaurirsi, quella spinta del collettivo, quello stare assieme cominciava ad esaurirsi, cominciammo a rinchiuderci in noi stessi, ricordo che anche con le persone con le quali ci si vedeva sempre ci si vedeva sempre di meno, si aveva pudore, imbarazzo a vedersi, a parlare.
Poi, terribile è stato quando è morto Berlinguer, perché lì è finito tutto, cioè è finito un senso di appartenenza, la speranza… l’abbiamo vissuto come una cosa forte.
Può sembrare strano adesso sentire parlare di queste cose, parlare in questa maniera, ma se uno ha idea di cosa accadde quel giugno dell’84, di quante persone andarono lì, di come si stava male, di come si piangeva, di come si era disperati di fronte a questa morte; poteva anche essere, sì, la solita cosa della “chiesa”, noi eravamo magari… c’era questa “chiesa” e uno dei nostri santi era morto, il santo per eccellenza… ma non era tanto questo, cioè: lui aveva incarnato veramente il desiderio di un’Italia diversa, di un’Italia che voleva diventare migliore, anche perché c’erano stati i soliti… Piazza Fontana, la strage di Brescia, cioè cose che ci avevano veramente stravolto, avevano stravolto la nostra infanzia, la paura che provavamo per le strade di Messina era una paura di prendere una coltellata, di prendere una sprangata, cioè che finivi… perché t’ammazzavano. È accaduto raramente che ci sono state queste cose, ma ci sono state, per poco non c’è scappato anche il morto a Messina, come in tante altre realtà, perché una coltellata data, invece di finire su una coscia, così, poteva essere letale per qualcuno.
E quindi, quando è morto Enrico Berlinguer è finita un’epoca, è finita completamente un’epoca, è stato veramente tutto straziante, incredibile.
– Quale facoltà avevi scelto?
Ora, io ho scelto Giurisprudenza, Giurisprudenza: le facce gialle le chiamavo; pensa che io portavo i capelli lunghi, la barba lunga, andare all’Università con la giacca e cravatta… io non c’andavo… quando mi sono laureato, alla tesi, cioè: il giorno della laurea, il vestito lo avevo comprato la sera prima; mia madre mi aveva pregato e strapregato perché io non ci volevo andare; quindi il clima era quello, il perbenismo; cioè, la facoltà di Giurisprudenza voleva mantenere un certo perbenismo, e questo creava una situazione contraddittoria perché tu perbenista non volevi essere, non volevi assumere quell’atteggiamento da “faccia gialla”, da chi era il… da chi voleva estraniarsi dal mondo, e c’era soltanto Giurisprudenza.
Quindi c’erano appunto queste contraddizioni fortissime: e noi avevamo in quel periodo un collettivo, in cui discutevamo di queste cose, anche se chiaramente non aveva un’incidenza, perché non ce l’aveva questa incidenza, assolutamente.
Anche perché all’interno del collettivo c’erano quelli che facevano le loro sceneggiate, portavano le loro individualità, invece di discutere delle cose che accadevano nell’Università di Messina, c’era un famoso magistrato che lavora alla procura di Milano che voleva discutere soltanto di Toni Negri. Cioè, chi se ne fotteva di Toni Negri? I nostri problemi erano più importanti, erano quelli che… l’inagibilità dell’Università, agli studenti di sinistra, mentre quelli di destra avevano tutte le possibilità anche perché erano sempre legati, tenuto conto del fatto che molti di questi studenti di destra erano calabresi, per comportamento mafiosi, cioè proprio: sono molto vicini e hanno questo senso dell’amicizia, che è sempre una cosa molto mafiosa, e che chiaramente contraddiceva col nostro modo di essere.
– Come era precisamente la situazione?
Nel periodo universitario c’era questa situazione con questi calabresi, che venivano da Reggio specialmente, e quindi erano fascisti e pure democristiani, praticamente hanno messo le mani sull’Università e non l’hanno più mollata, da quello che sappiamo anche ora. È questo un loro modo di fare, che hanno, e che non siamo riusciti a contenere.
Ma non per problemi di pregiudizio, quanto perché loro portavano e portano una cultura che è diversa dalla nostra, una cultura tribale, di appartenenza, se tu sei amico di quello allora certe cose si possono avere; devi pensare che a Messina, in quel periodo, alla Casa dello Studente – una sera sì e una sera anche – sparavano, i calabresi: perché, al discorso politico, aggiungevano il fatto di appartenenza alle famiglie, ai clan: e questo era un clima molto pericoloso, a Messina era molto brutto, quando avevi a che fare con loro: era veramente brutto. Anche se, di contro, c’erano altri gruppi, provenienti specialmente da Africo, dalla zona della jonica calabrese, erano di sinistra: sempre molti di quelli legati però a gruppi mafiosi, però: gruppi mafiosi li chiamiamo ora, però una volta – diciamo così – legati al famoso banditismo, cioè all’antistato.
E a Messina in qualche modo rendevano agibile… era appunto più… e la contrapposizione… sì, erano di diversi schieramenti politici, però l’atteggiamento era sempre quello tribale, cioè di chi si contrapponeva in maniera proprio: un gruppo contro l’altro gruppo; sono stati proprio questo gruppo, di calabresi, di sinistra, a rendere certe volte agibili alcuni spazi a Messina, sono stati quelli che hanno dato le migliori legnate ai fascisti… episodi storici ce ne sono stati.
Però, la mentalità era sempre quella. La mentalità di chi si contrapponeva come gruppo, non dal punto di vista politico, cioè loro disbrigavano in quella maniera le loro faccende… tribali.
– Da dove venivano?
C’erano dei gruppi, appunto, di Reggio Calabria e di Messina… i due Fuan avevano contatti, quindi facevano venire gente, gente della Piana… gente che veniva qua per fare soltanto a legnate, a dare lezioni, ad avere una predominanza dal punto di vista fisico, di non permettere l’agibilità dei posti, delle strade. Quello era un periodo brutto.
Ora non si può capire cosa significava veramente passare da certi posti; cioè: Piazza del Popolo era di sinistra, viale San Martino, dove c’era appunto il “Select”, Giurisprudenza, Tommaso Cannizzaro, c’erano loro che non ti facevano passare, quindi era un problema.
Una volta mi ricordo che mi sono fatto prestare un dobermann, dalla mia ragazza, perché mi avevano circondato sul viale San Martino, meno male che c’era ‘sto dobermann, sennò mi avrebbero preso a cazzotti, insomma; il dobermann li ha tenuti a distanza.
– Chi erano, precisamente? Ricordi i nomi?
No, i nomi me li hanno fatti, ma ora non me li ricordo, veramente, alcuni li sanno i nomi di questi qua, perché i 4 o 5 del contatto, che portavano questa gente; cioè la gente attorno a cui girava questa cosa, attorno a cui giravano i picchiatori, specialmente quelli più importanti. Però io onestamente, non è che ero di quelli…
assatanato… anche perché il discorso familiare mi condizionava molto anche perché c’erano magari alcuni delle forze dell’ordine che avevano detto ai miei di non farmi mettere… che conoscevano i miei… di non intromettermi, di stare alla larga.
Che poi chiaramente, si pensava: ah, lui è l’anello debole della catena, i ricchi riescono sempre a cavarsela. Questo era un discorso che non mi piaceva anche se tante volte io lo accettavo, nel senso che mi defilavo. In quel periodo c’è stato un episodio bruttissimo, di un accoltellamento, in cui c’ero anch’io, nel senso che siamo stati aggrediti davanti al Maurolico, i carabinieri hanno visto tutto ma se ne sono andati; è stata una scena… eravamo in 4, sono spuntati una ventina di fascisti e ci hanno aggredito.
A me e un altro non ci hanno fatto niente, perché tra questi fascisti c’era un mio ex- compagno di classe: e invece due si sono presi due rasoiate… profonde.
I carabinieri se ne sono andati, perché, giustamente, non potevano toccare… accadeva anche di questo.
– C’erano anche i greci?
No, in qualche modo questi di destra erano i reggini, poi di Messina e appunto di Barcellona. Dei greci, conoscevo qualcuno, ma non avevo una conoscenza approfondita. Cioè, quelli che conoscevo erano dei comunisti, gli altri no.
– Come l’avresti voluta l’Università?
Se avrei voluta diversa l’Università… mah. L’Università non è stata una cosa, io vorrei un’Università che ti avvicinasse, che ti avvincesse. Cioè, la cosa che io ho visto dei miei amici, che magari avevano voglia di studiare, non era attirata dall’Università, non veniva catalizzata dall’Università, l’Università ti teneva a distanza, era una cosa fatta veramente per quelli che se lo potevano permettere, per chi aveva una famiglia abbiente, non ti attirava, ti faceva sentire inutile, dispersivo, non ti dava un senso di appartenenza l’Università; dovevi avere tu un carattere, una forza tale per importi, per riuscire a continuare ad andarci; ho visto moltissima gente che se andava dall’Università perché non riusciva a trovare la motivazione, non riusciva a trovare la motivazione, non riusciva a trovarsi a proprio agio. L’Università dovrebbe aiutarti in questo, dovrebbe permettere di sviluppare veramente il tuo essere, il tuo modo di essere.
– E dopo l’Università?
Una cosa da mettere in chiaro è che nel periodo – io ero all’Università però avevo già un’idea chiara di ciò che volevo fare – nel periodo in cui ero all’Università mi occupavo di giornalismo, mi occupavo di musica. E quindi, io mi sono laureato nell’82, ho intensificato la collaborazione con la Gazzetta, nell’84 sono riuscito ad entrare nella Gazzetta del Sud.
Sono stato assunto nell’84, quindi due anni dopo la laurea e sono stato inviato in Calabria, prima a Cosenza e poi a Catanzaro, dove mi occupavo di cronaca giudiziaria e cronaca nera, cose che in Calabria non mancano. È stata un’esperienza da questo punto di vista professionale molto ricca, anche se dal punto di vista esistenziale non mi piaceva stare in Calabria, assolutamente, perché sono dei posti bruttissimi, stare a Catanzaro è veramente… è un fallimento.
Però, contemporaneamente alla giudiziaria e alla nera, continuavo a seguire la mia passione, che è la musica. E quindi andavo a recensire i concerti, a Lamezia, specialmente, ed era la cosa che mi piaceva di più: di jazz, di rock e di musica classica.
E sono stato 8 anni a Catanzaro, un mese e mezzo a Cosenza e tre anni a Reggio. A Reggio invece è stata un’esperienza molto bella, perché è una città dalle contraddizioni stridenti e quindi per un giornalista una realtà come quella di Reggio è eccezionale.
– Quali episodi dei primi anni di lavoro ricordi?
Episodi significativi ce ne sono stati tanti, dal punto di vista umano è una cosa che ho rifiutato dal primo momento perché chiaramente a nessuno viene in mente di andare a vivere a Catanzaro, i calabresi vengono qui, a nessuno verrebbe in mente di andare a vivere a Catanzaro, uno dei posti veramente più brutti, più infami che esistano al mondo.
A parte la mentalità della gente, le leggende sui calabresi sono note e arcinote. Ma non è questo il punto vero. Tante volte facciamo colore, più che altro; ho degli amici, delle persone alle quali tengo.
Però, dal punto di vista professionale è stato molto ricco perché mi ha permesso di seguire un sacco di processi come quello di Piazza Fontana. Il processo l’ho seguito io, l’intervista a Delle Chiaie, poi quando c’è stato il presidente della Repubblica Cossiga a Lamezia terme, c’era… avevano ammazzato un sottufficiale della polizia, Aversa, insieme alla moglie… poi la strage di S. Onofrio…
Ho seguito un sacco di episodi di cronaca nera e di cronaca giudiziaria, importanti, insomma… mi sono trovato spesso lì dove accadevano i fatti, e questo per un giornalista è un fatto fondamentale, e in Calabria ne accadevano.
Dal punto di vista della mia passione per la musica, ho avuto la possibilità di intervistare in quel periodo gente come Fabrizio De Andrè, De Gregori, Pino Daniele, Baccini, Angelo Branduardi. Quindi anche per la mia passione reale c’era anche una crescita, indubbiamente.
Tutto questo però strideva con il fatto… il non voler vivere in quella situazione, quindi c’era questa insoddisfazione profonda.
L’intervista a Cossiga… come avvengono queste cose: la gente si immagina sempre che sono delle cose casuali quando devi intervistare una persona così; sono delle cose preordinate: le baraonde sono reali ma prevedibili. Succede questo: tu sai che lui era in un posto, al tribunale, allora mettono una specie di sbarramento e lui è passato vicino a questo sbarramento, quasi casualmente: è invece è passato apposta, poi c’è stato un marasma, i giornalisti eravamo uno sull’altro, fili della televisione che ci strangolavano…
E lui è passato, e noi: presidente, volevamo parlare con lei, e lui era di fretta; e invece no: tutto preordinato, è un rituale che si ripete ogni volta.
Un altro episodio, dal punto di vista professionale molto interessante, alla luce delle tante che cose che ha detto, alla luce di quello che era successo, e della commozione che c’era, non avevo visto mai tanta gente ai funerali di una persona, veramente centinaia di migliaia di persone: dal punto di vista professionale queste cose sono cose che ti restano, ti gratificano e ti qualificano.
– E dal punto di vista politico?
Dal punto di vista politico, veramente è difficile: perché io, essendo di sinistra, la voce si era sparsa e quindi lì mi trovavo spesso con delle forti contraddizioni, specialmente a Catanzaro dove spesso mi trovavo in contrasto con esponenti del partito della Democrazia cristiana e del Partito socialista; non tanto per partito preso o perché io m’impuntavo ma perché appunto loro tentavano sempre di… cioè, si sentivano i padroni del giornale, si sentivano che potevano dire quello che volevano, perché avevano le loro amicizie, io mi opponevo a questo, cercavo sempre di andare oltre, di scavare, di tirare fuori le cose che era possibile.
E quindi chiaramente questo, già solo il fatto di fare il proprio mestiere era considerato comunista, cioè un fatto sovversivo in sé, cioè questa era la grossa contraddizione, quindi anche il non dare rilievo ad una sciocchezza era un atto di stalinismo: non ho mai capito cosa c’entrasse. Ma era sempre così.
Il non gonfiare certe promesse era sempre una forma di comunismo. Avevano sempre ‘sta parola: comunismo, come una cosa di qualunque schifezza, mentre le schifezze le hanno fatte loro, li hanno pure arrestati alcuni di questi.
– Non c’era una contraddizione tra le due idee politiche ed il lavoro che hai scelto?
Ma no, no. Io ritengo una cosa: io sono stata una persona molto onesta dal punto di vista intellettuale, io facendo il giornalista non cerco mai lo scoop, non cerco mai la cosa eclatante, riporto fedelmente quello che succede. Io, le poche volte che ho avuto problemi di essere smentito, da un punto di vista giudiziario, ho avuto un paio di denunce, da un democristiano che aveva preso una mazzetta. Lui mi ha denunciato, ma poi ha ritirato la querela. Perché io gli ho detto che l’avrei controquerelato e gli avrei dato i soldi che avrei preso dal processo li avrei dati alle vittime della mafia. E lui ha ritirato la querela.
Da un punto di vista politico, non metto mai delle cose… cioè, cerco di sapere, ma è il mio mestiere: non è un fatto ideologico, cioè che io sono comunista e quindi parlo con uno da comunista: non c’entra niente. Il lavoro è una cosa; cioè io cerco di essere onesto e obiettivo, faccio domande particolari, non faccio domande di comodo, ma penso che questo sia il mestiere di un giornalista: non credo che sia essere di sinistra o destra o di centro, non ci credo.
Anzi, a Reggio Calabria, ho avuto una gratificazione, da un certo punto di vista, se si può chiamare una gratificazione: il senatore Meduri, quando sono andato via da Reggio Calabria ha scritto al mio direttore dicendo che lui non sopportava i colleghi che c’erano adesso a Reggio perché erano scorretti, mentre era contento quando c’ero io perché pur essendo di idee diverse riportavo puntualmente e senza problemi quello che lui diceva, o che dicevano i suoi camerati. Perché io ritengo che sia questo appunto il mestiere di giornalista; informare. Cioè fare dire anche la cazzate, e riportarle puntualmente. Per fare capire alla gente quello che succede.
– Le tue idee sono le stesse?
La stessa incazzatura precisa, come dice Nanni Moretti in “Caro diario”: sono uno splendido quarantenne più incazzato che mai.
Una contraddizione se lavoro alla Gazzetta? Perché? Io penso una cosa: tu non devi lavorare fuori degli organismi in cui le contraddizioni si creano, devi lavorare dentro gli organismi.
In una qualsiasi azienda… un’azienda non è mai una cosa monolitica, è una cosa complessa; va bene; ci sono le persone: non ci sono soltanto le idee, le ideologie: quindi c’è l’onestà delle persone, c’è chi è più onesto e chi è meno onesto.
E questo è un discorso che attraversa le persone, da destra a sinistra, senza nessun problema. Ci sono persone che possono essere corrette, di destra, ci sono persone scorrette di sinistra che cercano soltanto lo scandalo fine a sé stesso, senza le prove. E questo secondo me è pernicioso: cioè lo scandalo, il lanciare l’allarme soltanto sui ‘si dice’. No: se tu fai il giornalista devi portare i fatti. Non sento cazzi. Questa è una cosa fondamentale.
– Come ti definiresti?
Chi sono? Sono una persona estremamente contraddittoria, con molto entusiasmo, molta voglia di vivere, con qualche delusione di troppo di cui avrei fatto a meno, però sono sempre convinto che possa accadere qualcosa di buono, che domani accadrà qualcosa di buono.
Che tipo di delusioni? Mah, quelle di tutti penso, no? Il fatto che vorresti fare un lavoro più interessante.
Delusioni amorose: quelle sono fondamentali, come diceva B. Strauss, niente ti sconvolge di più, né un fallimento nel lavoro, né un fallimento nello studio quanto il fatto che tu perdi qualcosa a cui vuoi bene, questo è.
Raccontare qualche episodio di questi, di queste delusioni? No…
– Come trascorri la giornata?
Io amo moltissimo leggere, e poi ascoltare musica: io ascolto moltissimo jazz, John Coltrane, fondamentale… cantautori… musica etnica, musica… contaminazioni… poi rock: il rock è la colonna sonora… cioè la mia musica… la musica che ti permette di parlare con la gente che ha venti anni oggi, e parlare lo stesso linguaggio.
Io sono molto aperto, mi piace il rap e l’hip hop, sono molto aperto a tutto questo, per me è fondamentale, la musica è la mia vita.
Poi faccio trekking, vado in montagna, faccio escursionismo, che è una cosa che mi piace moltissimo, mi piace stare in mezzo alla gente, fare cose semplici.
– E la vita pubblica?
Di vita pubblica ultimamente ne faccio di meno, anche di interessi ne curo di meno, ai concerti ci vado poco. Le cose fondamentali sono queste: la musica, i libri e il trekking, sono le cose che mi piacciono in questo momento.
L’impegno politico? Cioè, mi sento di sinistra, anche se ultimamente ho preso una piega, cioè… una piega… nazionalista… siciliana. Sono indipendentista.
Non è in contraddizione con la sinistra perché c’è un testo fondamentale di Lenin sull’autodeterminazione dei popoli.
E la Sicilia, secondo me è una nazione che non ha niente a che vedere con l’Italia, da cui dovremmo… staccarci da una nazione che da noi ha avuto soltanto… ci tratta da colonia, dal 1860 in poi, che ha massacrato molti siciliani. E io vorrei, magari, impegnarmi di più in questo senso, nella… più un discorso culturale, di controinformazione, di fare sapere quale è la nostra storia, cosa che il questo Stato italiano ci nega, perché noi ancora siamo una colonia.
– L’impegno politico?
Il mio impegno politico è in questa direzione in questo momento. Di concreto, onestamente, ancora niente, cioè: soltanto riunioni, discussioni, io ho fatto degli articoli sulla morte per esempio di… sulla strage di Randazzo, quando morì Antonio Canepa, il comandante dell’Evis, il comandante dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, 17 giugno del ’45. Eh, un episodio sui cui ancora non si sa la verità… quindi, c’è una discussione ancora in corso, vorremmo uscire per rendere ancora più concreta questa cosa, cioè fare conoscere alla gente, promuovere degli incontri per fare conoscere; è la cosa fondamentale, fare sapere che cosa è stata la storia di questi 100 anni, dal 1860 in poi, le cose che ci sono state negate. Siamo stati spogliati della nostra identità. Non è giusto.
– Ci sono stati mutamenti nelle tue idee?
Dei mutamenti ci saranno. Tu cresci e le cose le vedi in maniera differente. Cerchi di andare a vedere più l’aspetto umano, più che ideologico, anche se c’è sempre un dicrimine, onestamente; può essere una pigrizia mentale, pensi sempre di poter dire, cioè dire: i fascisti sono… e li additi. Magari è sbagliato. Magari le persone cambiano. Quando dici fascismo, magari semplificando molto, vuoi mettere i peggiori in quel calderone.
Rispetto al passato, però, c’è la stessa rabbia, perché non è che sono stati risolti i problemi. C’è minore impegno, proprio fattivo, concreto, di fare le cose, però sento sempre la stessa ingiustizia di fondo. Il senso di ribellione mi è rimasto, fortissimo. Moltissimo.
– Ma la questione siciliana è una questione di classe o geografica?
Se penso che sia un discorso di classe? Mah, c’è un discorso di classe perché oggi i poveri sono di nuovo poveri e i ricchi sono più ricchi; il discorso geografico, perché noi veramente siamo una colonia, che deve essere tenuta in una certa maniera: e questo è un fatto… non lo so…
Cioè, l’evoluzione che c’è stata in me è una fatto anche di conoscenze acquisite che mi ha portato sì ad avere una visione di sinistra della vita però anche a pensare quello che succede da noi. Non in senso globale, cioè di pensare che la Sicilia debba staccarsi dall’Italia.
– E non ci sarà una classe dominante siciliana?
La classe dominante siciliana? Certo. Ma questi sono gli ‘ascari’ di un governo. Non è che la Sicilia diventerà “il paese di Bengodi”. Il problema è un altro. Il problema è che tu, la tua cultura, la tua identità, la tua storia è stata negata. Molti siciliani sono stati ammazzati, e di queste cose noi ne sappiamo pochissimo. Non sappiamo che tutto ciò che viene prodotto sulla terra siciliana appartiene alla Regione siciliana, invece i proventi della fiscalizzazione del petrolio che viene estratto in Sicilia, cioè trentamila miliardi, se li incassa lo Stato. E questo va contro lo Statuto della regione autonoma siciliana. Cioè, ci sono delle cose da sapere.
E poi il problema non è che non ci sarà una classe dominate. È chiaro, è così e sarà sempre così, il problema è che però queste contraddizioni devono esplodere. E non è che devono esplodere in senso ‘leghista’, ma devono esplodere in senso culturale prima di tutto. Pensa, una cosa… qual è il cemento che lega l’Italia? Il Risorgimento; tutte le nostre strade: noi abbiamo addirittura una strada che si chiama Nino Bixio, cioè il massacratore di Bronte. Non è una contraddizione questa?
Ducezio, chi è? Ducezio era un condottiero siciliano, siculo… dov’è? È una stradina; non ci sono strade grandi intitolate a Brancati, a Verga, a Pirandello, no: c’è via Garibaldi.
Nell’ambito del MIS c’era una corrente di sinistra che era rappresentata da Canepa, un Partito comunista siciliano fortissimo, che venne bloccato dalla Russia, che combatteva la mafia.
Però dopo che la Russia fermò il movimento indipendentista, ci fu un accordo con la Democrazia cristiana peggiore, che portò gente come Scelba al potere. E questi qua chi si portavano dietro? Si portavano dietro i mafiosi.
Questo, magari rispetto al passato, perché prima l’ideologia ti offuscava, se ci sono delle contraddizioni, delle cose da denunciare le denunci, anche dalla tua parte. Soprattutto dalla tua parte.
– E rispetto alla mafia?
È chiaro che sono contro la mafia, contro la mentalità mafiosa. L’essere amico degli amici, farsi piaceri. È una cosa pervasiva, che ti pervade. Dalla piccola raccomandazione, dalla piccola cosa, faccio io, non ti preoccupare… questi sono i segnali di un modo di essere. È chiaro che da una mentalità si arriva poi alla struttura. È evidente che non è solo un modo di pensare.
– Come è organizzata la tua giornata?
La mia giornata tipo è tragica, nel senso che io ho una vita sregolata. Io lavoro dalle 4 del pomeriggio alle 11 di sera, e quindi è chiaro che la mia vita sociale è piuttosto sballata. Ho soltanto un giorno libero la settimana, e in quel giorno devo fare tutto. Per il resto la mattina sono libero, però che devi fare la mattina, la mattina non fai quasi nulla. Sono un pochettino sbandatello. E questa è una realtà per me nuova perché prima lavoravo mattina e pomeriggio. Ancora mi devo abituare.
Leggo molto, anche per fare le recensioni. Quindi sto a casa, leggo… sto a sentire un po’ di musica. Poi esci cogli amici, vai al cinema. Ma non c’è una giornata tipo piena di impegni, quella privata, quando non è una cosa di lavoro.
– Cosa è cambiato rispetto agli anni ’70?
Prima si viveva per le strade. Si voleva stare sempre assieme. Si cercavano tutte le occasioni per stare assieme, per stare vicini, c’era anche la fiducia nel domani. C’era anche il desiderio di stare assieme. Oggi non c’è più, c’è disillusione, ammarezza, che prevale, un’indolenza. Il bisogno di stare assieme oggi è soltanto per non stare da solo, prima no: era proprio il desiderio di stare assieme agli altri per fare qualche cosa.
Era ambizioso, era anche stupido, velleitario, però c’era questo desiderio di stare assieme per fare qualcosa. Ti sentivi investito di qualche cosa. Eri protagonista. Oggi c’è un senso di esclusione, di sospetto, che prima non c’era, negli anni ’70 non c’era. Tutto molto bello, molto aperto.
– E tu sei cambiato?
Io sono cambiato, in bene per alcune cose, per altre in peggio. Ho 40 anni e non invidio i ventenni, soprattutto per quanto riguarda le cose sentimentali: meglio a 40 anni che a 20.
Hai una visione differente della vita, hai acquisito un po’ di esperienza, hai più dimestichezza ad entrare in rapporti con le persone, a 20 anni ti fai soltanto mille seghe mentali. Da questo punto di vista, non ho nessuna nostalgia dei vent’anni.
Ovviamente l’età che è passata… ma per tutte queste cose, i rapporti con l’altro sesso ad esempio, meglio a 40. 35, 40, centomila volte.
– E la sinistra?
Non capisco più cos’è sinistra, perché per 50 anni abbiamo combattuto questo tipo di sistema, certe persone che incarnavano questo sistema e ora siamo con loro alleati, quindi in questo momento non c’è un discorso sulla sinistra. Un discorso strategico, cioè dobbiamo stare con questi, perché se non stiamo con questi il risultato è che sale la destra. Si parlava una volta di qualità della vita, di una vita che aveva altre prospettive, un altro spessore. Invece tutto questo è andato perdendosi, è un arroccamento… si vota soltanto per non fare salire la destra, non perché vogliamo un mondo migliore. E questa è una perdita fondamentale, e la sinistra non sa colmare questo vuoto. Non ci riesce.
– Come organizzi il tuo tempo?
Il mio tempo? Lo vivo alla giornata ormai. Non c’è più… Ormai penso che la felicità ce l’hai con gli amici e con la persona con cui stai. Gli scampoli di felicità… E poi una cosa che voglio fare, cui stavo pensando ultimamente è del volontariato.
Devo individuare l’obiettivo, però è quello che voglio fare. Perché mi sono reso conto che mi sono chiuso un po’ in me stesso, mi sono chiuso e non c’è modo di fare venire fuori quest’anima di sinistra, che secondo me è proprio questo: cioè occuparsi degli altri.
– Che ruolo ha il lavoro?
Il lavoro? È fondamentale, per questo voglio tornare a fare il lavoro del giornalista ‘militante’, che lavora per la strada. Raccontare le storie della gente è la mia aspirazione, quindi da grande voglio fare il giornalista!
– E l’amore?
L’amore nella mia vita? Fondamentale. Le femmine sono una grande invenzione, che brutta invenzione… Io ero femminista, sono diventato “femminaro” col tempo… quando ho cominciato a prendere meno sul serio le donne: a 20 le donne rompono le palle, a 40 anche, ma tu te ne freghi, il punto è questo.
Non prenderle sul serio è stato fondamentale, cioè: dissacrarle, perché noi abbiamo la concezione della donna coma madonna; ecco: loro non vogliono essere trattate come madonne, non lo sono.
A quarant’anni, non sono neanche sposato, è una cosa molto presente, anzi: troppo. Ora come sono combinato? Cioè, sto con una ragazza, non ci sto… ci sto e non ci sto. A quarant’anni, rispetto ai venti, ti vengono più facilmente le occasioni. Sta a te se ti va o non ti va starci. Però, quando tu non le prendi sul serio le ragazze, ci sono. Ecco: la lezione dovrebbe essere questa: essere meno infantili, meno adolescenziali.
– Parliamo dei consumi
Vivo in questa realtà. Ci sono periodi in cui compro decine e decine di dischi, quindi mi rendo conto di essere uno che…
Compro un sacco di libri, anche oggetti che… sono una persona di questo mondo, di questa civiltà.
Televisione, la vedo… certe volte la vedo anche quando non la dovrei vedere, è vero. È soltanto un ruolo quasi passivo, cioè ti vedi là, non vuoi pensare e ti metti davanti alla televisione: questa è una cosa che vivo male.
Libri ne leggo assai, mi piacciono assai i libri. Romanzi, soprattutto. Mi piace moltissimo la letteratura mitteleuropea, siciliana, mi piace Tahar Ben Jelloun… mitteleuropea tutti, da Joseph Roth ad Arthur Schnitzel; i siciliani tutti: Bufalino…
– In quali momenti hai fatto delle scelte?
Ci sono stati dei momenti in cui ho fatto delle scelte, il mio carattere mi porta a radicalizzare le cose; per esempio il lavoro, l’università: ho fatto delle scelte dettate più da motivi di convenienza, non da desideri precisi. Avessi potuto scegliere realmente me ne sarei andato da Messina, a fare l’Università.
Avessi potuto scegliere me ne sarei andato in un altro giornale fuori Messina. Però, sostanzialmente, le scelte che ho fatto mi vanno bene, ecco.
– Cosa cambieresti della tua vita?
Cosa cambierei di tutta la vita? Questo carattere irruento, e basta. Il fatto di essere sempre dentro le cose e invece dovrei mettere sempre una distanza tra me e le cose che certe volte c’è e spesso non c’è. Poi per il resto, tutto com’è andato. Mi piace… abbastanza.
Sono moderatamente soddisfatto, sì.
……………………..
2.2. Analisi
M o r t e d e l l ‘ u t o p i a
2.2.1. I mondi vitali
…………………
Suddividendo schematicamente le fasi del ciclo vitale (v. più avanti), possiamo ricostruire in quali aree (mondi vitali) è trascorsa la vita dell’intervistato.
fasi | mondi vitali |
infanzia | famiglia – scuola – quartiere |
liceo | famiglia – scuola – sport – gruppo amici |
università | famiglia – collettivo politico – giornale |
lavoro | gruppo amici – (gruppo pol.) – (famiglia) |
La famiglia è ovviamente il primo luogo in cui si ritrova. Un punto di riferimento importante, ma anche una ‘catena’, come vedremo più avanti. L’idea della famiglia numerosa, nonostante appaia perdente oggi, nonostante cioè sia comunemente vista in chiave negativa anche perché è diventata un’eccezione, viene invece ricordata con piacere, al punto da divenire un modello ideale (‘mi piacerebbe avere una famiglia così, una famiglia numerosa). È ipotizzabile che si tratti di una proiezione di un desiderio ambivalente, più una nostalgia che un progetto, visto che Carlo è, nonostante l’età, non sposato e non appare certo vicino al matrimonio.
Perché questa immagine positiva, questo ricordo? Più avanti vedremo che i toni diventeranno meno lusinghieri, mentre un’analisi dei vari componenti (il padre da un lato, la madre dall’altro) vedranno giudizi diversificati per i vari componenti.
La famiglia va quindi giudicata dinamicamente, nello spazio e nel tempo. Nello spazio, in dialettica con il quartiere (“violento, con tutti i codici rituali di un quartiere popolare”). In una situazione del genere, la famiglia (come vedremo anche meglio nella seconda intervista) è sempre un punto di riferimento fondamentale, spesso anche per la protezione dell’incolumità, per la salvaguardia dai pericoli, per la risoluzione di situazioni d’emergenza (v. le ferite che il piccolo Carlo si procura nei suoi giochi).
Anche di fronte ad una scuola estranea e punitiva, quella delle “monache”, la famiglia garantisce gli unici momenti di intimità e di sicurezza.
Più tardi, la situazione cambia. Sia in rapporto alla crescita individuale, sia in correlazione con mondi nuovi dove i valori sono altri e le esigenze diverse. La famiglia protettrice in rapporto a quartiere violento diventa la famiglia povera in rapporto alla scuola media ed al liceo frequentata dai “figli di papà”. Il lavoro del padre permette evidentemente un livello di reddito tale da frequentare la scuola (cosa assolutamente non scontata in quel periodo per gli abitanti delle periferie), ed anche una scuola “bene”.
A questo punto Carlo si trova in una situazione in cui “viene trattato come nessuno” a causa della sua origine sociale, a causa cioè della sua famiglia.
A questo punto avrebbe potuto reagire in maniere diverse:
- colpevolizzare sé stesso ed i propri familiari (l’ambiente di provenienza)
- colpevolizzare il mondo esterno e individuare le cause esogene.
Una differenza fondamentale tra la cultura di sinistra che contemporaneamente si stava affermando e quella di destra radicata anche nei quartieri popolari messinesi è qui: non sentirsi responsabile della differenze sociali significa elaborare un’altra etica. Ovviamente, non basta indicare una causa esterna qualsiasi: nell’ideologia nascente negli anni del liceo l’ingiustizia ha precise origini e si combatte collettivamente.
Il gruppo degli amici (gruppo dei pari) si differenzia fortemente col passare del tempo. Dal quartiere dell’infanzia ai ragazzi della scuola media, di condizione diversa, fino a quelli politicizzati del liceo, dove si scopre una dicotomia amico/nemico netta e definita.
All’università questa distinzione è rigida. Il gruppo diventa l’aspetto fondamentale, la dimensione principale. In questo momento la famiglia non ha solo meno importanza, ma è anche in contrapposizione con le attività politiche. La prima esperienza sentimentale sembra costituire il momento per lo stacco definitivo: “mi sono sentito un individuo”, cioè uno che basta a sé stesso: la dimensione dell’indipendenza che giustifica la fine del rapporto di legame rigido con la famiglia.
Negli anni precedenti, lo sport aveva avuto un ruolo importante, come lucidamente detto (“vivevo anche in quest’altro mondo”), utile anche a superare la contraddizione col nuovo mondo dei ‘figli di papà’ che in cui bisogna inserirsi.
Essere vincente in un settore unanimemente riconosciuto aiuta a farsi accettare e riconoscere, sia dai pari che dai professori. È un elemento forte di rivincita, nonostante sia contenuto dal rifiuto del mito della competizione (‘non io in contrapposizione agli altri’).
Ad un certo punto la scuola assume il volto dell’università. Generalmente, per chi è inserito nel mondo scolastico (fatto di orari rigidi, abitudini, amici che vedi tutti i giorni, professori con cui hai un rapporto stabile) l’università è sempre un trauma. Appare una istituzione lontana, con i suoi tempi strani ed i professori inavvicinabili, li vedi solo al momento della trasmissione della “sapienza” dalla cattedra e – sempre dall’alto della cattedra – nella funzione giudicatrice; un giudizio imperscrutabile nelle motivazioni ed insindacabile nell’esito.
Oltre alla rottura con i tempi e i modi del liceo, il modello universitario era in netto contrasto con l’ideologia della contestazione; in più la facoltà di Giurisprudenza era un insieme di perbenismo nozionismo grigiore che ne faceva esattamente la facoltà in cui mai uno come Carlo avrebbe dovuto iscriversi, con le sue idee e le sue aspirazioni. Ovviamente, lo ammette lui stesso (‘avrei voluto fare Letterè). Sui motivi della scelta, è nuovamente decisivo il ruolo della famiglia (v. più avanti).
2.2.2. Fasi del ciclo di vita
…………………………
Nello schema precedente, finalizzato all’individuazione dei mondi vitali, vengono indicate quattro fasi (infanzia, liceo, università, giornale) che seguono un criterio sia cronologico che logico, nel senso che le ultime tre si riferiscono direttamente agli ambienti principali in cui Carlo vive.
La semplificazione era utile per lo schema; ora vediamo più in dettaglio:
……………………………………………………..
fasi . infanzia . a
. adolescenza I . b
. adolescenza II . c
. gioventù . d
. maturità . e
……………………………………………………
a -> b
Il passaggio da una fase all’altra è determinato sia da scadenze dettate dalla struttura dell’organizzazione sociale, sia da eventi contrassegno che nel caso specifico assumono la forma di eventi imprevisti.
In particolare, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è determinato dalla fine della scuola elementare e dall’inizio della scuola media. Abbiamo già visto che si tratta di un passaggio importante, che comporta l’abbandono del quartiere e l’ingresso in un nuovo difficile mondo, a contatto con persone di estrazione sociale diversa che adottano criteri di valutazioni differenti.
Se nel quartiere (“con i suoi codici rituali”) contavano la violenza e la capacità di sopravvivenza, nella scuola del centro cittadino è il reddito il principale criterio di valutazione (“tu che eri figlio del popolo ti trattavano come nessuno”).
Ovviamente questo passaggio non è scontato: deriva in ultima analisi dal mestiere del padre: un lavoro fuori dagli schemi, fatto di commerci e lunghi viaggi, che permette alla famiglia di avere un reddito non alto ma sufficiente a Carlo per proseguire nella carriera scolastica: cosa, ripeto, assolutamente non scontata; anzi, quasi eccezionale rispetto al tradizionale percorso biografico di chi nasceva nei quartieri popolari.
b -> c
Questo passaggio è meno traumatico e più fluido, senza eventi particolari che lo determinano. Inserito nel percorso definito prima, la carriera scolastica, Carlo si trova ad affrontare ancora le difficoltà derivate dalla differenza di appartenenza sociale, ma con due sistemi difensivi. Il primo, già visto, è il successo nell’atletica. Il secondo è l’ideologia politica, che non è più il generico risentimento contro l’ingiustizia degli anni precedenti, ma si avvia a diventare una importante ‘lente’ per interpretare il mondo ed uno strumento difensivo: la provenienza sociale, il non essere ricco, l’essersi fatto strada coi propri mezzi diventano fatti di cui essere orgoglioso.
c -> d
Qui gli eventi contrassegno sono due. Il primo è la morte del padre. È facile capire il dolore ed i cambiamenti che questo evento provoca. Se consideriamo che la vita di Carlo si svolge tra due poli, il fascino dell’anomalia ed il ritorno all’ordine, il padre rappresenta quasi un’incarnazione dell’anomalia.
Se si pensa che generalmente un quartiere popolare è una microsocietà a solidarietà meccanica, caratterizzato da sofisticati strumenti di punizione del deviante (dal disprezzo all’induzione dell’auto-colpevolizzazione) che produce generalmente o conformismo o frustrazione, questa figura appare eccezionale per i comportamenti esteriori (la moto, “il bagno d’inverno”) – l’attività economica, da mercante che viaggia, acquista e rivende: in quegli anni era ancora forte l’influenza della società contadina e dei suoi valori, fatti di immobilismo attesa tradizione ritmi naturali, per cui un lavoro come questo appare un’eccezione – i tratti culturali, l’ottimismo e l’intraprendenza, ancora una volta in contrasto con la cultura popolare siciliana, quella (appunto) di derivazione contadina.
La madre, invece, ne presenta tutti i caratteri tipici: il pessimismo, un certo fatalismo, l’abitudine di soffocare l’entusiasmo. Oltre ai tratti culturali derivati dalle generazioni passate, c’era stata l’esperienza della guerra e la necessità di occuparsi della famiglia. La guerra ha evidentemente rafforzato il senso del fato: un evento imprevisto, deciso in alto, su cui non si ha nessuna possibilità di incidere, una tragedia immensa contro cui la tua volontà non può fare nulla. È la morte che sovrasta questa concezione. La morte arriva con il destino: la cultura siciliana è imbevuta di fatalismo funebre, nel dialetto siciliano non esiste neanche il futuro, i verbi si coniugano al passato remoto o al presente.
“Fatalismo individualista che ci viene appunto dalla nostra anima araba? Comunque sia, la paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali, che si ignora la forma futura dei verbi. Non si dice mai: ‘Domani andrò in campagna’, ma ‘dumani vaju in campagna’, domani vado in campagna”
[Sciascia 1979, 45]
Il padre di Carlo rappresenta la negazione di questa mentalità, quasi una sfida. Carlo lo ammira, e l’ideologia che arriva da Nord gli dice che il destino lo si può forgiare tutti insieme.
La morte del padre, mentre torna da un viaggio in Calabria, dà terribilmente ragione alla madre. Come è stata elaborata la perdita? Un patina che attutisce il dolore. Ma anche la consapevolezza che il fato incombe.
È ipotizzabile che le decisioni successive siano determinate da questo evento fondamentale. L’ordine sconfigge la fuga e la scelta della facoltà è una scelta d’ordine. Il contrasto tra l’istituzione assente e grigia e le aspirazioni di Carlo è stridente.
Da un punto di vista del complesso edipico, si considera generalmente il padre come figura d’ordine, che forma la mentalità del super-io attraverso il sistema di divieti e punizioni. Qui i ruoli appaiono rovesciati: naturalmente quella edipica non è una formula universale applicabile sempre e ovunque, ma va adattata in relazione alle situazioni specifiche determinate dalle diverse condizioni sociali e culturali.
Però c’è un punto di contatto con la teoria freudiana: il legame madre-figlio, che qui diventa un legame simbolico di importanza notevole, come vedremo nei due paragrafi successivi.
d -> e
L’ingresso nel mondo del lavoro avviene, apparentemente, senza traumi. È graduale, Carlo continua un’attività che gli piace, si tratta di un lavoro socialmente riconosciuto, che gli dà un’identità forte.
Invece anche questo passaggio va ricompreso nel discorso precedente: si tratta di una permanenza nell’ordine.
2.2.3. Tra fuga e cordone ombelicale
………………………………
Vediamo di spiegare meglio: nel corso della biografia di Carlo si possono individuare momenti in cui sembra tendere alla fuga:
– il viaggio in Francia, il desiderio di scegliere la facoltà di Lettere, la scelta di una ideologia malvista nel suo ambiente…
ed altri momenti in cui ritorna all’ortodossia:
– sceglie Giurisprudenza, lavora alla Gazzetta, rimane a Messina…
ANOMALIA | ORDINE |
padre | madre |
fuori Messina | Messina |
(lettere) | giurisprudenza |
casa in famiglia | casa fuori fam. |
(altro giornale) | gazzetta |
ideologia politica | famiglia |
(tra parentesi le scelte mai effettuate)
Abbiamo visto come il padre simboleggi l’anomalia, la fuga e la libertà; la madre i suoi opposti:
“Molte disgrazie, molte tragedie del Sud, ci sono venute dalle donne, specialmente quando diventano madri. Le donne del Mezzogiorno hanno questo di terribile. Quanti delitti d’onore sono stati provocati, istigati o incoraggiati, dalla donne! Dalle donne madri, dalle donne suocere. Eccole di colpo capaci delle peggiori nefandezze per vendicarsi delle vessazioni da esse stesse subite durante la giovinezza, col ricorso ad uno spaventoso conformismo sociale.”
[Sciascia 1979, 14]
Il viaggio in Francia è concretamente un momento di fuga, di ingresso in un mondo diverso; il ritorno però riporta ancora Carlo nella sua città. Anche la stessa parentesi calabrese, in una realtà molto simile a quella messinese, finisce dopo qualche anno. Anche durante gli anni della contestazione Carlo non è tra quelli che lasciano la famiglia, in un periodo in cui era molto diffusa l’abitudine di andare ad abitare con amici.
Un esempio fondamentale è l’atteggiamento di Carlo durante i momenti difficili degli anni ’70, quando il rischio è la stessa incolumità personale: la famiglia estende i suoi “tentacoli” protettivi, contatta qualche amico poliziotto che consiglia a Carlo di non esporsi troppo, perché poi lui sopporterebbe le conseguenze peggiori, a differenza di altri con le spalle coperte. Carlo non è certo d’accordo, anzi questo ragionamento non gli va bene per niente, ma si adegua.
Altro momento-chiave: la sera prima della laurea; Carlo non vuole andare in giacca e cravatta, “mia madre mi aveva strapregato”. Alla fine cede.
Infine la “Gazzetta”. Può sembrare eccessivo definire ritorno (stavolta definitivo) all’ordine l’ingresso in quel giornale. In realtà è di più: è una sconfitta definitiva. Ancora una volta la fuga non c’è stata (“mi sarebbe piaciuto andare in un’altra città, lavorare in un altro giornale”).
Per capire l’entità della sconfitta, è indispensabile aprire una parentesi per far capire cosa è la “Gazzetta”.
Qualcosa si evince già dal racconto: appena arrivato Carlo viene trasferito a Catanzaro per le sue idee, viene mal visto, subisce le prepotenze dei pezzi grossi Dc-Psi (che evidentemente avevano libero ingresso, o comunque un rapporto privilegiato), si trova in mezzo a polemiche (“siete peggio dell’Unità con quello lì”).
Ma c’è dell’altro. Si sono verificati in passato trasferimenti e licenziamenti senza alcun rispetto dei diritti sindacali, per motivi politici per scarsa adattabilità del giornalista alle manovre del giornale. Sono numerosi gli esposti all’Ordine dei giornalisti ed i casi che hanno suscitato nell’ambiente numerose polemiche.
Lo stesso direttore ammise di aver trasferito un giornalista “colpevole di essersi candidato tra i progressisti”. Tra gli editorialisti della Gazzetta ci sono stati quattro membri della loggia P2. Gli editoriali sull’anticomunismo comparsi sulla Gazzetta sono quanto di più volgare sia stato scritto sull’argomento.
Tutto questo (ed è solo una sintesi striminzita) non significa certo che Carlo si sia “venduto”, né che taccia necessariamente fatti di cui è a conoscenza. È possibile che abbia svolto in piena libertà il suo lavoro, cosa possibile operando in una redazione decentrata o scrivendo nelle pagine dello spettacolo o della cultura.
Tuttavia, la sconfitta rimane: perché Carlo si è trovato in un ambiente di ideologia opposta alla sua ed in cui vige una prassi che contrasta palesemente con le sue idee.
Questo contrasto viene elaborato principalmente in tre modi:
- con la giustificazione del ‘non avevo scelta’: il che è vero rimanendo nel territorio in cui è nato, e si ritorna al discorso di prima (fascino della fuga vs. cordone ombelicale)
- con la solita giustificazione della persona di sinistra che va dal ‘nemico’: le contraddizioni viste dall’interno, la complessità…
- con l’ideologia ‘anglosassone’ dell’obiettività giornalistica distinta dall’ideologia politica: neutralità dell’esercizio della professione, tecnicismo…
Nello schema seguente si evidenzia il momento decisivo della vita di Carlo, interpretato come oscillazione tra ‘fuga’ e ‘ritorno all’ordine’:
(il momento intorno ai vent’anni) |
CENTRIPETA – CENTRIFUGA |
prima storia d’amore – scelta facoltà |
viaggio in Francia – laurea |
impegno politico – scelta giornale |
2.2.4. La strutturazione
……………………
A questo punto appare semplice applicare una ulteriore categoria. Seguendo quanto detto fino adesso, in particolare il concetto-chiave dell’oscillazione, si può osservare che Carlo pende da un lato verso l’auto/strutturazione (che abbiamo individuato nelle scelte centrifughe, nel fascino dell’anomalia, nel desiderio di fuga, nella figura simbolica del padre, nell’ideologia sovversiva).
Dall’altro lato, specularmente: l’etero/strutturazione (scelte centripete, ritorno all’ordine, cordone ombelicale, figura della madre, scelte conformiste).
Ovviamente non è facile seguire un percorso di autostrutturazione in una realtà condizionante, dove le possibilità reali offerte dalla struttura sociale sono molto ridotte. E nel corso del tempo, la situazione di Carlo appare sempre più difficile. Se nel periodo della gioventù il percorso di Carlo oscilla tra un punto e l’altro, la sua rimane pur sempre una figura strutturata.
Osservando dinamicamente il suo percorso biografico, occorre produrre una nuova categoria: la destrutturazione.
1: “non so più cosa è sinistra”, “vorrei far uscire fuori quest’anima di sinistra”;
2: “sono un po’ sbandatello, vorrei fare il giornalista”
Le cause della destrutturazione possono essere desunte da queste due affermazioni.
- La prima è una crisi ideologica su cui non occorre spendere troppe parole: la famosa crisi di un’ideologia ha coinvolto un’intera generazione, specie chi aveva vissuto con maggiore intensità il decennio ’70 e chi non è riuscito a trovare vie d’uscita rispetto ad una sconfitta storica. Generalmente, tra le tante risposte, Carlo pensa a tre possibili riferimenti: una certa chiusura nel privato, la possibilità del volontariato, il rifugio in una nuova ideologia, quella sicilianista.
Si tratta di una scelta significativa, forse il tentativo di recuperare l’orgoglio per l’appartenenza ad una terra che non si è avuto il coraggio di lasciare, forse la ricerca di una ‘madrè simbolica da difendere, forse la semplice voglia di credere in qualcosa di forte, che dia un’identità precisa.
Oltre questo, l’ideologia appare confusa (un movimento culturale o politico-separatista?) e fragile (oggi nessuna area può sopravvivere da sola, altro che petrolio…).
- Il secondo motivo di crisi è dovuto al giornale, che assegnandogli un lavoro burocratico, ha eliminato l’unico punto di riferimento che gli permetteva di possedere un’identità forte e socialmente riconosciuta: quella del giornalista che va in strada e firma i suoi ‘pezzi’.
La destrutturazione temporale (v. la giornata-tipo) è derivata da questa passaggio ad un lavoro di routine, sempre più frequente a causa dell’involuzione della professione giornalistica, fatta di notizie d’agenzia, giornali fotocopia e ‘catene di montaggio’: il giornalista di strada serve sempre meno.
Proprio questi due fenomeni strutturali (declino dell’ideologia e burocratizzazione della professione giornalistica) hanno determinato una etero/destrutturazione.
2.2.5. Socializzazione
………………….
Torniamo un attimo indietro per esaminare l’ultimo elemento della biografia di Carlo: gli agenti di socializzazione. Rimane una domanda: come si spiega l’ideologia e la mentalità di Carlo, eccezionale nella realtà in cui è vissuto?
Certamente non gli è stata trasmessa dalla scuola, né dalla famiglia. Anzi questi elementi hanno assunto una funzione di conservazione, di contrapposizione con le ideologie di sinistra, che si sono imposte attraverso la trasmissione operata soprattutto dal gruppo dei pari e da alcuni mass media.
Non certo la televisione, che tra l’altro aveva un ruolo marginale, ma la radio (le radio libere, con la loro musica che dava un’identità), i quotidiani (la repubblica, il manifesto…) e soprattutto i libri.
Il gruppo diventava l’ambiente di riferimento che amplificava quanto arrivava da nord, cioè il vento della contestazione.
2.2.6. Ricostruzione degli ambienti
- a) Messina anni ’70
Tutto cominciò nel 1970, quando i camerati reggini stavano sulle barricate al grido di ‘boia chi molla’. Il ‘Comitato per Reggio capoluogo’ era guidato dai capi della Cisnal, teneva i contatti con la ‘ndrangheta (i De Stefano, soprattutto) e con i servizi segreti e godeva dei generosi finanziamenti di imprenditori reggini, come gli armatori Matacena (quelli della ‘Carontè) e Demetrio Mauro, industriale del caffè.
L’operazione “Olimpia”, in connessione anche con le indagini milanesi sulla strage di Piazza Fontana, ha ormai tracciato un quadro definito su quel momento di storia calabrese, inserita nel quadro della strategia della tensione (attentato al treno “Freccia del Sud”, 6 morti).
Un tentativo di mantenere gli equilibri sociali invocando l’ordine dei benpensanti, operato a livello nazionale da forze conservatrici che avevano il proprio braccio esecutivo nei servizi segreti, a loro volta in contatto con neofascismo e criminalità organizzata. La massoneria funzionava da rete connettiva. Dopo il ’68, dal nord spirava un vento di rinnovamento radicale, un vento che iniziava a scuotere le sonnolente città del Sud. Anche a Messina, nei corridoi delle facoltà e dei licei, si formavano i primi collettivi che sognavano la fantasia al potere.
Gruppi di fascisti, appartenenti e no alla criminalità organizzata siculo-calabra, occuparono la città, intere zone, intere facoltà, con raid nei corridoi universitari e liceali, aggressioni e pestaggi. Per chi era conosciuto come ‘uno di sinistrà, era impossibile attraversare la via Cannizzaro o sostare di fronte alla facoltà di Giurisprudenza.
Chi poi si trovava nelle vicinanze della Casa dello studente, rischiava di prendersi un proiettile esploso dai litigiosi occupanti calabresi.
L’occupazione militare dell’università uccise i pur deboli tentativi di cambiamento, uccise la stessa sinistra messinese. Quelli di “Ordine nuovo” vennero da Barcellona P.d.G. e dai centri della provincia tirrenica. Dalla Grecia, vennero gli studenti dell’Esesi, la “Lega degli studenti greci fascisti in Italia”, una creatura del regime dei colonnelli nata nell’ambito del rapporto tra la destra italiana e greca, concretizzata con una gita dei fascisti italiani (Giannettini, Delle Chiaie,…): un viaggio di studio, per imparare come si combattono i rossi. Gli stessi partecipanti alla ‘gita’ furono coinvolti nella strage di Piazza Fontana.
Messina era stata scelta dai servizi segreti greci come base operativa per il sud Italia.
Contemporaneamente, vennero i calabresi. Dagli ambienti appena descritti, quelli del ‘boia chi molla’ e delle ‘famigliè. I contatti dei “Fuan-Msi” di Messina e Reggio, gli inevitabili appoggi…
Occuparono l’università, e ogni speranza di cambiamento a Messina fu soffocata. Tra le azioni più significative, compiute congiuntamente da messinesi, barcellonesi, greci e calabresi, c’è l’assalto alla facoltà di Lettere, l’8 dicembre del 1971: alcuni studenti di sinistra stavano distribuendo volantini, ad un certo punto arrivarono i neo-fascisti con spranghe e catene, l’assalto finì con una decina di feriti; nel 1973 i mafio-fascisti occupano la facoltà di Magistero (1973), e qualche tempo dopo l’irruzione con i mitra nella Casa dello studente. Protagonista di questi episodi era Rosario Cattafi, ordinovista di Barcellona diventato poi famoso come gestore per il nord Italia delle attività della cosca Santapaola (casinò di Saint Vincent e autoparco di Milano). Un altro protagonista di quei vivaci giorni, Pietro Rampulla da Mistretta, è stato accusato dalla procura di Palermo di essere l’artificiere della strage di Capaci.
Il decennio ’70 è decisivo, sia per la creazione di una ‘classe criminale’ nuova e agguerrita, sia per il salto di qualità che essa ha compiuto in aree come il messinese, sia per la legittimazione che essa ha ricevuto, acquistando un ruolo politico primario dall’alleanza con la borghesia conservatrice.
Oggi i barcellonesi e i greci se ne sono andati (o sono comunque inattivi), ma i calabresi sono successivamente rimasti, controllando nel tempo quote di denaro e di potere sempre più rilevanti.
L’invasione partita dal ’70 ha dato molti risultati. Il più importante dei quali: la distruzione di ogni prospettiva di cambiamento per un’intera città.
- b) Antropologia di un decennio
La generazione degli anni ’70 aveva caratteristiche del tutto diverse da quelle precedenti e da quelle successive.
- L’etica del collettivo, del gruppo: non solo per stare insieme, ma come dimensione contrapposta al privato. La ‘privatizzazione dell’esistenza’ è stato il fenomeno più importante degli anni ’80.
- Diretta conseguenza del primo elemento è il rifiuto dell’individualismo, del pensare per sé, di un’ottica egocentrica.
- Il rifiuto dell’ingiustizia è la terza dimensione: “sentire le ingiustizie come fossero fatte a te, in qualunque parte del mondo accadesse”. Quindi la “voglia di occuparsi delle cose del mondo”, convinti della possibilità di poterlo cambiare.
- Il rifiuto del consumismo esasperato, del culto dell’avere, della criminalizzazione del povero, che – anzi – trovava nuovo dignità in quanto sfruttato e soggetto, protagonista e motore del mutamento sociale.
- La ricchezza interiore, la cultura, l’arricchimento spirituale: leggere libri, ascoltare musica di qualità, rifiutare la cultura di massa e di mercato.
L’ultimo elemento permane ancora in Carlo, ed è quasi totalmente assente nelle nuove generazioni. La percezione della sconfitta, di quanto sia stata bruciante, è molto chiara, durante il racconto: gli aggettivi carichi d’entusiasmo riferiti alla giovinezza spariscono con l’ingresso negli anni ’80. La sconfitta è esemplificata dalla morte dei superlativi.
“I l f u t u r o ? F i n e d e l m o n d o”
- zona urbana camaro – san paolo (area degradata)
- età 18
- titolo di licenza media, attestato operatore msdos corso
studio professionale regione/cisl
- occupazione frequenta corso professionale regione/ial
- genitori
padre occupazione: disoccupato, lavora in nero come fabbro
titolo di studio: quinta elementare
madre occupazione: casalinga
titolo di studio: quinta elementare
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Ricordi qualche episodio della tua infanzia?
Cosa posso raccontare? A 4 anni ho avuto un incidente, mi hanno investito, stavo quasi per morire perché ero combinato male, avevo il fianco gonfio e per togliermi l’urina dovevano introdurmi attraverso il pene un – non lo so definire come si chiama – diciamo una specie di tubo per togliermi la pipì perché non la potevo fare.
Mi è rimasto molto impresso infatti mi ricordo tutto l’episodio dell’incidente.
Diciamo che sono cresciuto in una famiglia abbastanza basata su principi morali e fondamentali. Come ragazzo sono un ragazzo a posto… non trovo le parole…
Nella mia famiglia siamo in 6, siamo tre fratelli e una sorella: io sono il più piccolo, mio padre ci ha insegnato sempre ad essere onesti nella vita, a rispettare il prossimo e anche a farsi rispettare. Ho un fratello in polizia, una sorella che lavora in una fabbrica di vestiti, un fratello sposato e disoccupato, e io frequento un corso come termoidraulico.
Un’opinione della vita… Ci sono momenti che sono stati, come posso dire, non molto belli, però tutto sommato credo che la vita sia bella, comunque uno la deve accettare per come viene.
Crescendo in una famiglia basata, ho dei buoni rapporti con mio padre e con tutta la mia famiglia, in quanto parliamo di tutti i problemi della vita, cioè mio padre mi dà dei consigli sulla vita, e anche i miei fratelli, e anche mia madre.
Mi interesso anche di politica. La mia idea, anche se non può interessare a qualcuno, è di destra. Diciamola tutta: sono un fascista.
Tu potrai dire: perché?
A parte che mio padre è anche fascista, cioè se mio padre non mi spiegava che cosa voleva dire il fascismo io non so di che cosa…, a che cosa avrei fatto…, di quale schema politico mi sarei interessato, penso di nulla. Mi interesso di politica appunto per questo, cioè è questa la mia idea politica e cerco di saperne sempre di più.
Ho al corso dove frequento io ho alcuni screzi con i miei colleghi di lavoro, in quanto sono l’unico (cioè: ce ne sono anche altri ragazzi di destra dove frequento io) però magari, tipo: mi prendono in giro oppure buttano battute sul fascismo che non mi vanno giù e cerco di spiegare la mia idea e ascolto anche le idee degli altri.
Devo spiegare la mia idea politica? A casa guardo trasmissioni che parlano di guerra, della storia italiana; a parte che oltre ad essere fascista sono un patriottista, cioè per la nazione, per l’Italia darei qualsiasi cosa; cioè, è bella l’Italia, come nazione l’Italia è fantastica, non ci manca niente, potremmo stare anche senza l’aiuto di nessuno, voglio dire: l’italiano si è sempre trovato bene ovunque e comunque, si è sempre trovato bene, ha saputo sempre – come dire – se l’è saputa sempre vedere nelle altre situazioni, cosa che non credo che i popoli delle altre nazioni abbiano fatto.
Poi l’Italia ha anche una storia, una cultura, basata anche sulle invasioni degli altri popoli e quindi, come stavo dicendo, mi interessa sempre di più l’Italia. Cioè io sono contento di essere italiano anche se siamo governati da persone che non sono degni di essere italiani; specialmente sono, come posso dire, quando uno è contento di essere siciliano… come posso dire, oltre ad essere italiano, sono…
Orgoglioso?
Esatto, perfetta la parola, orgoglioso più che altro di essere siciliano, in quanto la Sicilia come l’Italia, prendiamo la Sicilia come regione per sé stessa ha delle risorse che ne potrebbe fare a meno anche a chiederle alle altre nazioni. Cioè io non dico che uno deve guardare soltanto l’Italia per sé stessa senza guardare le altre nazioni, però secondo me io farei esistere soltanto l’Italia, cioè mi curerei soltanto dell’Italia e poi guarderei i problemi all’estero, però prima mi baserei sui problemi che hanno gli italiani e ce ne sono tanti.
Che cosa posso dire? Riprendendo il discorso del fascismo, mi interesso sempre di più al fascismo in quanto ho battibecchi con alcune persone, alcuni la pensano come me, ma sono in maggioranza quelli che la pensano diversamente da me. Non ne sono molto sul fascismo, però so l’essenziale. Che cosa posso dire più della mia vita? Niente, spero che la vita cambi, sia per me che per il resto del mondo, il mio sogno sarebbe di entrare in polizia o nei carabinieri, per servire sia lo Stato e anche perché mi piace la divisa di quest’Arma. Mi piace la divisa di quest’Arma.
Qualche episodio della scuola elementare? Ce ne sono stati diversi. Fin da bambino io sono stato un bambino vispo, allegro, facevo ridere i miei compagni e tuttora sono il jolly del gruppo.
Da bambino mi ricordo che il primo giorno che sono entrato nella prima elementare, visto che non avevo molti contatti con i bambini, cioè ero affezionato – sono affezionato alla mia famiglia tuttora, il primo giorno che sono andato a scuola me ne sono scappato e sono ritornato a casa, mia madre m’ha picchiato; cioè, non proprio, m’ha dato uno schiaffo, perché chiaramente a 6 anni passare l’autostrada, tornare a casa, cioè magari tua madre ti vede e pensa che sei a scuola, e poi ti vede ritornare, pensa tante cose: ha passato l’autostrada, da solo, qua, là… E m’ha riportato a scuola; il secondo giorno sono scappato di nuovo, però mi hanno, cioè i bidelli per fortuna mi hanno preso in tempo e mi hanno fatto rientrare.
Poi, nella scuola elementare, ho litigato una volta con un bambino e la maestra mi ha picchiato. Cioè va, ci sono rimasto molto male perché ha fatto male la maestra, mi ha fatto rimanere con la faccia al muro per un po’ di tempo, sempre nella stessa giornata.
Diciamo, nella scuola elementare avevo un buon rapporto con i miei compagni di classe, perché appunto ero quello là che li faceva ridere, quindi attiravo l’attenzione dei miei compagni.
La scuola media l’hai fatta qui, nel quartiere?
Sì. Nella scuola media non mi sono trovato bene perché avevo poche conoscenze, cioè ce n’era qualcuno e quindi non mi trovavo molto bene, a parte che magari uno quando entra nella scuola media non è come alla scuola elementare, che ha ancora la testa al gioco. Magari le cose si fanno un po’ più serie, e quindi uno non può scherzare, deve prendere diciamo la cosa seriamente. E niente.
Ti ricordi episodi della scuola media?
Diciamo di no, perché nella scuola media andavo abbastanza bene. Nella prima, nella prima media. Poi nella seconda, siccome è entrato un ripetente, magari ci ha deviato tutti i ragazzi che magari avevamo un poco di voglia per studiare, ci ha fatto deviare tutti facendo abbassare i voti di ognuno di noi. Deviava, nel senso: non ci faceva studiare, se c’era un momento per studiare, lui ci deviava.
Cioè, magari, tipo: portava il cruciverba, oppure si metteva a scherzare, e noi ridevamo insieme a lui.
Quindi non c’era più quell’attenzione verso lo studio. Poi nella terza media c’è stata una svolta per tutta la classe perché anche questo ragazzo s’è messa la testa a posto, e ci siamo messi a studiare tutti. Soltanto questo.
Poi è uscito dalla scuola media, sono uscito con ‘buono’ dalla scuola media. La voglia di studiare ce l’avevo. Magari non era troppa, però uscendo dalla scuola sai com’è: ognuno pensa sempre a giocare. Cioè dice: ho fatto 8 anni a scuola, adesso è arrivato il momento di essere un poco libero, di fare quello che voglio.
Anche se magari da ragazzo uno non le pensa tante cose, adesso me ne sono pentito tantissimo che non ho continuato le scuole superiori.
Però come stavo dicendo uscendo dalla scuola media, mio padre m’ha comprato anche il motorino, siccome io sono stato sempre abituato ad essere indipendente, non che mio padre non mi desse dei soldi, cioè è stata sempre una mia idea, cioè non dipendere dalla mia famiglia, e quindi comprandomi il motorino ho cercato sempre di lavorare.
Ho fatto diversi lavori fino che mi sono iscritto in un corso di computer, mi sono preso l’attestato e adesso ne sto frequentando un altro di termoidraulico.
Che lavori hai fatto?
Ho lavorato come benzinaio, uscendo dalla scuola, ho fatto 2 settimane e mezzo; e poi siccome ho lavorato nel periodo estivo, chiaramente il benzinaio lavora certe volte anche di domenica, fa i turni.
Mi ricordo un giorno mio fratello, il più grande, mi ha detto: ma chi te lo fa fare a lavorare anche di domenica, non ti preoccupare, te li do io i soldi, non ci andare più. E me ne sono andato.
Poi ho lavorato un giorno a macellaio. Poi una settimana con le porte corazzate, poi 3 mesi e mezzo in una ferramenta, ho lavorato 3 mesi a corriere, a portare pacchi, medicine, queste cose qua.
Poi ho lavorato un’altra settimana. Cioè, saltuariamente diversi lavori ho fatto.
Come lo trovavo il lavoro? Tramite amicizie. Cioè, sicuramente da quando sono uscito dalla terza media tramite amicizie e parentele ho trovato lavoro. Perché chiaramente, oggi come oggi, anche per trovare un lavoro, anche misero, devi avere un minimo di conoscenza.
Cioè, ad esempio: se io vado in un bar, mi trovo per la strada, entro in un bar, gli chiedo: cercate qualcuno per lavorare? Quello non mi conosce, non sa chi sono, non sa chi non sono, mi chiude la porta in faccia e mi dice: no, guarda… Anche se hanno bisogno mi dicono: no, non abbiamo bisogno, non abbiamo bisogno.
E quindi i lavori li trovavo: tipo, il benzinaio con mio padre che conosceva questa persona qua. Nella ferramenta un amico mio che ci lavorava prima di me e quindi mi ha fatto entrare. A corriere, a portare medicine, tramite un altro amico mio che conosceva questa persona qua mi ha fatto entrare a lavorare.
Oggi come oggi non soltanto per prendere un posto si deve avere una conoscenza, diciamo la spinta, ma anche per trovare un lavoro.
Questo qua è, come posso dire, il danno che può fare una nazione, capisci? Cioè, se uno non ha conoscenze, non ha la spinta, uno può morire anche di fame, e questo è sbagliato.
Ad esempio, io c’ho la terza media e l’altro giorno, cioè l’anno scorso ho visto un foglio, un volantino attaccato al muro che parlava di un concorso come netturbino. Ho parlato con questa persona che ha attaccato questo manifesto e gli ho detto: ma io lo posso fare questo concorso?
Mi fa: ce l’hai tu il diploma? Ho detto io: no. Allora non lo puoi fare. E mi sembra assurdo che per fare il netturbino una persona deve essere diplomata, è assolutamente sbagliato. Cioè, allora quello che ha la terza media non può lavorare, o lavora in nero o non lavora. E che deve morire di fame?
E secondo me, non per colpevolizzare, però secondo me il governo di sinistra fa queste cose qua, o la Democrazia cristiana. Non penso che un governo di destra, non perché io sono di destra, ma non penso che un governo di destra faccia una cosa del genere. Io vorrei che lo Stato italiano darebbe un lavoro a tutti, anche un lavoro giusto, cioè io non è che dico, cioè perché io ho la terza media mi voglio mettere a fare l’impiegato, anche se non sono capace; anzi: che non sono capace di farlo.
Però vorrei, dico, un lavoro per tutti, messo in regola, ognuno paga le sue tasse, essere retribuito giusto, l’orario giusto. Cioè io, quando lavoravo alla ferramenta facevo 10 ore per prendere 100.000 lire la settimana. Cioè, dimmi tu se non è sfruttamento questo qua. E uno che deve fare, non lavora? Non è neanche giusto.
Come finiva, perché finivano questi lavori?
Allora, ti spiego. Quello di benzinaio te l’ho detto, mio fratello mi ha convinto a non andarci più, perché chiaramente a 14 anni uno si priva dell’estate, cioè è brutto: esci dalla scuola e ti devi privare dell’estate.
Gli altri… nella ferramenta perché chiaramente voleva il ragazzo in più soltanto nel periodo estivo, perché c’era più lavoro, quindi finita l’estate, settembre, massimo ottobre te ne dovevi andare a casa. Se non ti cacciava lui, lo capivi tu, per come si comportava il principale, capisci?
Nell’altro, come corriere, perché è finito il lavoro, essendo io l’ultimo arrivato là nella ditta, poi anche non avendo una famiglia, non essendo padre di famiglia, chiaramente è giusto che me ne vada io. Questo qua.
Gli altri lavori che ho fatto un giorno, tipo un giorno con le tende, a mettere tende… un giorno a macellaio. (Ho lasciato) questi lavori qua perché mi seccavo io a lavorare, cioè non erano il mio tipo di lavoro. Il macellaio ad esempio, siccome io non sapevo portare la vespa mi faceva consegnare in giro, a piedi. Facendo un giorno di lavoro già ho detto io: e questo è l’inizio, chiaramente se non sai portare la vespa, ho detto io: fino a quando sto sempre a piedi. E me ne sono andato all’istante.
Lo vorresti un posto di lavoro fisso?
Un posto di lavoro fisso, certo. Non pretendo, come ho detto prima, di essere impiegato, questo o quello. Il mio sogno è di entrare in polizia o nei carabinieri. Cioè, farei di tutto. Preferirei non essere miliardario (anche se potrebbe essere una gran cazzata, comunque…) a entrare in polizia, è il mio sogno.
Oltre perché mio fratello è già in polizia, però… non lo so, forse mi piace la divisa, forse mi piace… sconfiggere il male è troppo, no…
Mi piace il tipo di lavoro, non lo so, girare con la macchina, lavorare in borghese, sconfiggere magari la droga, che è un grosso problema la droga…
Cioè, nella vita ci sono due categorie: i ragazzi che hanno i soldi e i ragazzi che non hanno i soldi. Ci sono persone che hanno un’idea sbagliata dei ragazzi che non hanno soldi o del quartiere dove vivono. Vengo e mi spiego, voglio dire: pensano che quelli che non hanno i soldi, non hanno lavoro vadano a rubare per comprarsi la droga, oppure hanno problemi e si drogano, ma è sbagliato; io – no conosco – ma ho sentito dire di persone che hanno i soldi – figli di papà, per dire – e si comprano la droga lo stesso, sniffano, fanno e dicono. E questo è sbagliatissimo.
Non è che perché uno non ha lavoro se ne va a rubare per comprarsi la droga: ci sono, come ci sono anche le persone ricche che lo fanno. Però quelle ricche chiaramente non hanno bisogno di rubare per comprarsi la droga; però si drogano lo stesso. Il mio sogno è entrare in polizia o nei carabinieri appunto per questo. Non soltanto per la droga, per una serie di problemi, anche perché non ho un mestiere in mano, non è che io dico: se non riuscirei ad entrare nell’Arma, me ne vado a fare il tubista, se non faccio questo me ne vado a fare…
Non ho un lavoro in mano, ho un’età che ormai il mestiere è difficile impararlo, quindi… Poi, io essendo un ragazzo allegro, fin da bambino ho cercato sempre di imitare gli attori, all’inizio iniziavo con Thomas Milian quando faceva il giapponese, poi con Fantozzi, poi con “mai dire gol” e tuttora “mai dire gol”…
Se non mi riuscirebbe di entrare nell’Arma, magari o cantare oppure entrare nella televisione, fare spettacolo, far divertire la gente.
Nel quartiere come è visto il poliziotto?
Nel quartiere ci sono i ragazzi che vedono la polizia come tutori della legge per quello che sono, ci sono altri ragazzi che dicono (quando) passa la volante: ‘u sbirru, ‘u sbirru, cioè “il poliziotto, il poliziotto”. Certe volte mi salgono i nervi, perché il poliziotto è sbirro? È definito così non lo so neanche perché. Magari sentendo quest’intervista uno magari potrebbe pensare: ah, perché lo vorrebbe fare lui, difende i poliziotti.
I poliziotti io li vedo come, come posso dire, anche se ci sono poliziotti che si fanno i fatti suoi, cioè vedono qualcosa e se ne vanno, per dire, ci sono, non è che dico che tutti i poliziotti sono perfetti. Poi ci sono i poliziotti (che) quando hai bisogno ti aiutano, no, anche come poliziotti ma anche come persone. Se c’è un caso umano loro ti aiutano, penso che è così.
Vuoi parlare della tua famiglia?
La mia famiglia, te l’ho detto, siamo sei persone, mio padre ha 53 anni, lavora come fabbro; mia madre è casalinga, ne ha 49. Poi c’è una sorella di 28 anni, un fratello di 27, un fratello in polizia di 23 ed io.
Te l’ho detto prima, mio padre ci ha insegnato sempre ad essere onesti nella vita, più che altro ad essere bravi ragazzi, a essere bravi ragazzi, che cosa vuol dire bravi ragazzi? Non avere la testa pazza, non essere trasportati, non essere trasportati. Ci ha aiutato sempre, a noi tutti figli, se uno voleva qualche cosa, non ci ha fatto mancare niente. Sai, specialmente a me che sono l’ultimo ragazzo, l’ultimo figlio, chiaramente… come posso dire: il figlio l’ultimo è il più coccolato. Posso dire che in parte è vera questa cosa qua, perché essendo l’ultimo figlio i miei fratelli già lavoravano, magari io ancora frequentavo la scuola, a mio padre gli dicevo: papà, vorrei un jeans della “levi’s”, me lo compri?
Mio padre lavorava una giornata per comprarmi un jeans. Anche se ora, tuttora penso che è sempre sbagliato, perché uno si deve comprare un jeans di marca quando con quella cifra se ne può comprare anche due o tre di un’altra marca. E tuttora me ne sono pentito perché fino a che i soldi sono miei uno può disporre come vuole ma quando tuo padre li deve guadagnare, si deve alzare la mattina, torna la sera, magari per quel jeans lavora una giornata proprio per te, cioè uno è contento, dice: mio padre mi vuole bene. Anche se il bene non si vede soltanto da questo.
Comunque uno dice: mio padre mi vuole bene, però in fondo in fondo uno si dispiace, dice: ho fatto lavorare mio padre per una giornata per comprarmi questa cosa qua.
Che carattere ha tuo padre?
Comprensivo, affettuoso, vuole bene a tutti i figli, darebbe la vita per i figli mio padre. Infatti ci ha educati in questo modo, come ti ho detto prima, e io sono fiero di essere una famiglia in questo modo. E uno può pensare: te l’ho detto, mio padre è fascista, avrà un modo rigoroso. Mio padre mi ha vietato alcune cose, tipo: non portare i capelli lunghi, l’orecchino… (indica l’anello che porta all’orecchio) però questo è finto. L’altro giorno appunto ho avuto una discussione, gli ho detto io: papà, siccome canto, il look dell’orecchino ci vuole, è finto, me lo posso mettere?
Lui essendo fascista, mi potrebbe dire no, completamente. Tu penso che sai che il fascismo si basava su tre principi: ordine, giustizia e disciplina. Quindi dovrei essere ordinato: però, se tu vedi come sono vestito sono “stile sinistra” e quindi non mi ha detto niente, ha abbassato la testa… cioè, se è per una questione – mio padre ha pensato sempre – se è per una questione di spettacolo, l’orecchino, i capelli lunghi li puoi portare, però se non sei nessuno a chi lo fai? Cioè tu copi gli altri, capisci? Infatti io l’orecchino ce l’ho, non lo vorrei mettere, però me lo metto così, lo vorrei mettere soltanto per cantare, però…
Le idee politiche di tuo padre da dove vengono?
Allora, qui ti dovrei raccontare tutta la storia della nostra famiglia. Allora, mio padre è nato nel ’43. Nel ’43 ancora c’era la guerra e mio padre è nato a Reggio, a Reggio Calabria. Perché in quel periodo mio nonno che era di Caltanissetta si trovava a Reggio e c’era mia nonna incinta di mio padre e c’erano chiaramente altri fratelli più grandi di mio padre, là. Mia nonna era incinta là, e mio nonno ti posso dire, guarda: mio padre è cresciuto in un clima di famiglia non molto bello perché mio nonno era un militare e fin da bambino con i suoi fratelli ha lavorato nelle miniere, ti posso dire fin da 6 anni lavorava nelle miniere quindi puoi capire come una persona già a 6 anni non andando a scuola, lavora nelle miniere, non avendo affetto di suo padre, quindi immaginati.
Anche se è sbagliato, non avendo affetto mio nonno con i figli si comportava malissimo, infatti quando mio padre mi racconta alcuni episodi anche se suo padre – no lo rinnega – ricordando alcuni episodi della sua infanzia ci resta male e specialmente ci resto male io, però malgrado tutto mio padre subendo – no subendo queste cose – cioè vedendo queste cose di suo padre sia nei suoi confronti sia nei confronti dei fratelli di mio padre, mio padre con noi figli si è comportato sempre
bene. Ad esempio se mio nonno gli ha fatto mancare qualche cosa, mio padre mai ci ha fatto mancare niente. Su qualsiasi cosa: mai. Si levava anche i soldi dalla bocca per farci piacere a noi.
Ti stavo raccontando che mio nonno era militare e però c’è una cosa bella di mio nonno, mi ha raccontato mio padre: che quando erano bambini e mio nonno era militare, ai militari gli passavano dei biscotti tipo gallettine e un litro, una bottiglia di vino, a ogni soldato. Mio nonno ha pensato alla famiglia: avendo dei bambini a casa gli dava il vino a un collega suo, a un soldato, e quel soldato gli dava i biscotti. Ha riempito una scatola di scarpe piena di biscotti e li ha portati ai suoi figli. E io ci sono rimasto. Però era sempre ùbbido, lo sai cos’è?
Ŭbbido noi lo definiamo tipo… no rozzo, non si curava dei figli, capisci? Cioè si stava sempre nel suo, se si stava a tavola lui si alzava e si metteva da solo a mangiare, poi è stato sempre anche un poco tirchio, cioè per i suoi figli non ha mai uscito un soldo. Doveva lavorare mia nonna per comprargli un paio di scarpe a mio padre o ai suoi fratelli. Mio padre anche uscendo dalla quinta elementare, no uscendo, dalle elementari lavorava sempre, cioè faceva di pomeriggio lavori, la mattina a scuola. E di sera si faceva i compiti.
È stato anche privato dell’infanzia, cioè l’infanzia non è stata bella per lui. Perché? Lui mi racconta che si metteva a lavorare e magari vedeva dalla finestra dove lavorava lui nel cortile i bambini che giocavano. E magari diceva: perché io no, capisci?
Però, malgrado tutte queste cose mio padre non m’ha forzato mai nel lavoro, se io non ci volevo andare diceva: non ci andare, non ti preoccupare e me li dava lui i soldi, tuttora me li dà.
E la storia che stavi raccontando?
Mio padre non è che è diventato fascista, io non lo so come è nata questa cosa qua, questa idea politica di mio padre. Comunque so che fin da bambino, fino a quando ho cominciato a capire un poco le cose vedevo mio padre che si registrava i filmati di Mussolini, i filmati di guerra.
E magari parlava con i miei fratelli, parlava di Mussolini, qua, là…
E poi facevo domande io, per capire che cosa era questo fascismo. E niente, diciamo che mi sono interessato sempre di più a questa idea politica, cioè: tu puoi dire come mai questa cosa qua? Io penso che ognuno avendo la sua idea dice secondo me è giusto così, chiaramente. E vedendo anch’io i filmati oppure all’inizio non mi interessava molto però sentivo parlare male del fascismo, magari dicevo a mio padre: sai, papà, hanno parlato qua… e lui mi spiegava invece come erano andate le cose. Anche se la verità magari non si saprà mai, cioè ognuno… io ad esempio questa cosa la vedo in un modo, tu la vedi in questo modo, la verità non si saprà mai, però è bello anche sentire le altre opinioni, per avere un confronto.
Mi puoi dire tu: ma il fascismo ha fatto questo, e io ti posso dire: no, il fascismo ha fatto questo. Tu puoi dire: ah, ma hanno fatto questo, no è sbagliato. Capisci? O può essere sbagliato come dico io, questa idea qua la porterò per sempre.
Tua madre che tipo è?
Come mio padre, comprensiva, anche se gli faccio partire un poco la testa a casa. Cioè, essendo un ragazzo sempre allegro magari… poi siccome mi piace Lucio Battisti lo metto sempre a casa, e lei mi fa: leva questa lagna. Però in fondo in fondo (è) come mio padre, ha un carattere come mio padre. Comprensivo, e per noi darebbe tutto.
Come la definiresti?
Una persona comprensiva, per noi figli qualsiasi cosa.
I tuoi fratelli cosa fanno?
Mio fratello, quello sposato, per ora è disoccupato. Ha fatto il militare nei pompieri, faceva i 20 giorni. Per ora non lavora. Mia sorella lavora in una fabbrica dove fanno vestiti, queste cose qua, a Messina.
Quanto guadagna? Non lo so, guarda. Perché mia sorella lavora senza richiesta, mio padre anche. Al mese, diciamo mio padre può prendere attorno ai due milioni, però se ne vanno molto di più. No, non paghiamo l’affitto. Lavorando senza richiesta il prezzo è quello. “Senza richiesta” nel senso che non è messo in regola. Sì, lavora in una ditta.
Guardi la televisione?
Io? Sì, molto spesso. Specialmente “mai dire gol”, poi mi piacciono i film polizieschi, tipo “Nico”, queste cose qua. Siccome di mattina frequento un corso, la posso guardare due ore al pomeriggio, poi mi corico… la sera la guardo dalle 8 e mezza fino alle 11, mezzanotte, così. Mio padre arrivato ad un certo orario la sera, tipo dieci – dieci e mezza – va e si corica perché è stanco chiaramente dal lavoro.
Mia madre molto prima perché è stanca anche, tipo la mattina si alza presto per chiamare mia sorella di andare a lavorare, mio fratello che deve partire là in servizio, io che devo andare la corso: quindi si alza presto.
E la radio? Che musica ascolti?
La radio, te l’ho detto, siccome mi piace Battisti la sera, rientrando… ad esempio, esco il sabato con gli amici e rientro, mi metto una cassetta di Battisti, quasi ogni sera. Per ora mi piace un poco il rap, mi piacciono questi cantanti tipo Battiato, Baglioni, 883, Jovanotti, queste cose qua, Neri per caso, soprattutto. Però Battisti è il migliore per me.
E giornali?
Giornali non ne leggo. Cioè, difficilmente: mi deve interessare un articolo. Gli articoli che mi interessano possono essere extraterrestri, oppure (se) parla del fascismo, come t’ho detto.
Ma soprattutto l’occulto. Vedi, mi interessa anche l’occulto. Io mi guardavo la trasmissione ‘Misteri’, l’hai vista mai? Mai l’hai vista? Comunque quella là, parlava di fantasmi, extraterrestri, esorcismi, queste cose qua.
In famiglia che giornali si leggono?
Che giornali? “Gazzetta del Sud”, “Focus”. Vabbè… “Affari” non è… “Affari” per cercare lavoro lo leggo io, ogni tanto.
Gli amici?
Con gli amici posso dire che ho una comitiva abbastanza – no comprensiva – abbastanza buona, cioè andiamo d’accordo tutti – diciamo. Diciamo che andiamo d’accordo tutti. Io sono il punto d’appoggio di tutti, cioè non vorrei fare il capo, no. È come se sono stato io che ho formato questa comitiva, all’inizio eravamo 3. Erano amici miei d’infanzia, tipo 2 erano alle elementari con me, però uno già (lo) frequentavo prima; l’altro l’ho conosciuto siccome avevamo in comune le imitazioni, queste cose qua, abbiamo fatto questa comitiva a 3; poi l’anno scorso s’è aggiunto un altro compagno che era alle elementari con me e con quest’altro e un altro ragazzo d’infanzia che giocava con me.
Sì, usciamo ogni sabato sera, frequentiamo un paio di locali tipo Pegaso o Mara pub, oppure frequentiamo i biliardi, oppure andiamo a ballare; ballare no in discoteca, ballare nelle feste tipo in locali che si paga poco, verso Spadafora, così.
Cosa avresti voluto cambiare dell’infanzia?
Le amicizie, forse. Perché, sai, quando uno è bambino c’è una specie di antagonismo fra i bambini, cioè: tu hai una cosa e io non ce l’ho e tu mi rendi in giro perché io non ce l’ho. E quindi da bambino ho avuto amicizie poco buone e quindi volevo cambiare soltanto l’amicizia. Se dovrei ritornare indietro le amicizie sicuramente. Magari io da bambino, anche se mio padre mi permetteva qualsiasi cosa, avevo delle amicizie che il padre degli amici miei magari gli permetteva qualcosa in più, quindi magari… ti prendevano in giro perché o non avevi il motorino, capisci, queste cose qua.
Della scuola media non ricordi niente?
Diciamo di no perché nella scuola media mi comportavo bene. Qualcosa che mi è successo? Mah, sì. Quando sono entrato in seconda media e hanno fatto entrare quel ripetente là ti stavo dicendo che in seconda media ci aveva deviato a tutti, non ci faceva studiare. E siccome nella prima media erano rimasti un paio di ragazzi bocciati, nella mia classe, noi siamo passati, e avevamo la classe, cioè: c’era il corridoio, il bagno alla fine e noi eravamo prima di quelli là; eravamo prima di quella classe là (dove) era(no) stati bocciati i miei compagni.
E siccome eravamo là, nella ricreazione uscivamo fuori, fuori nel corridoio: e un giorno è passato un ragazzo, un mio compagno, che era stato bocciato. E questo qua lo avrà fatto per scherzare, non lo so. Ci ha detto: andiamogli di dietro e lo buttiamo nel rubinetto, c’era il rubinetto (il lavandino) quello tipo vasche. Mi fa: “e gli facciamo fare un bagno”.
Noi siamo andati, e l’avevamo buttato lì dentro. Io e un altro no, però eravamo là che guardavamo; e niente, è passato. Il secondo giorno, invece, gli sono andati di nuovo dietro e gli hanno fatto… tipo mosse di dietro, gesti di dietro. E questo qua poi che ha fatto? Ah, poi c’erano anche i suoi compagni, che erano entrati nella prima media e ci hanno visto, io e altri due eravamo davanti alla porta, pensavamo… cioè chiaramente stavamo, stavano scherzando gli altri.
Però eravamo là tranquilli: questo qua che ha fatto? Con i suoi compagni l’ha raccontato alla professoressa. Ci hanno chiamato uno per uno. Ci stavano facendo perdere l’anno. Ci hanno detto: che cosa avete fatto? Noi non avevamo fatto niente, specialmente io e gli altri due. Non avevamo fatto niente, e invece ci stavano facendo perdere l’anno, per colpa di questo ragazzo qua.
Il quartiere come lo descriveresti?
Mh. Una bella domanda. Il quartiere ti posso dire che è… come si dice, in ogni paese ci sono usanze, com’è? Non mi ricordo, comunque. Qua nel quartiere di San Paolo, chiaramente come negli altri quartieri spacciano, si bucano, fumano erba, penso tireranno anche di naso, ruberanno, rubano sicuramente. Magari non questi di qua, quelli dell’altra sponda (dell’altro lato del quartiere).
Però, a differenza degli altri quartieri… ad esempio: sali tu che non ti conosce nessuno, non ti dicono niente, capisci? Se tu ad esempio vai a Giostra o in un altro quartiere, già trovi quello che ti rompe le scatole.
Qua invece no: qua fanno quello per i cazzi suoi, cioè ognuno si fa quello che vuole fare, però alle persone che salgono nuove non gli dicono niente. Per il resto è un ottimo quartiere. Anche perché la maggior parte dei ragazzi frequentiamo tutti la parrocchia qui sopra, quindi la maggior parte dei ragazzi dell’età fra i 15 fino ai 30 anni, mettiamo, siamo tutti in parrocchia. Cioè, sono in minoranza, le mele bacate sono in minoranza. Hai capito cosa voglio dire?
Qui cosa pensano i ragazzi, cosa vogliono fare, vogliono lavorare?
Mah, lavorare difficilmente. A parte che c’è grossa disoccupazione, però se tu li vedi, magari non li puoi sapere quali sono, però se tu sali qua di sera vedi – di sera o anche di mattina o di pomeriggio – li vedi sempre fermi, difficilmente vogliono lavorare. Appunto trovano guadagno con lo spaccio, difficilmente lavorano.
È un quartiere violento?
Violento in che senso, picchiare? Diciamo che qua difficilmente esistono le liti, a parte che è come un paese questo quartiere, cioè ci conosciamo tutti.
Qua i ragazzi o le persone, se litigano, litigano con persone o che salgono da altre zone e intendono fare gli scaltri qua. Sennò, o fra di loro, cioè sia brave persone sia cattive persone. Difficilmente c’è la cattiva persona che stuzzica la brava persona, perché ci conosciamo tutti, capisci? Quindi, o tramite conoscenze, sanno che sei il fratello di tizio che è amico di quell’amico tuo, quindi difficilmente qua si litiga, guarda.
I ragazzi cosa sognano?
Mah, c’è il ragazzo che sogna di lavorare e basta; c’è il ragazzo che sogna di entrare nell’Arma perché non c’è lavoro, c’è il ragazzo come me che sogna di entrare nell’Arma anche se c’è lavoro perché piace l’Arma, c’è il ragazzo che vorrebbe fare l’attore, c’è il ragazzo che vorrebbe fare il cantante, c’è il ragazzo che vorrebbe suonare in un gruppo, per dire: è così. C’è il ragazzo che non vuole fare un cazzo e basta.
Come è la tua vita quotidiana?
Te l’ho detto, la mattina frequento il corso di termoidraulico, esco verso le due, salgo a casa, mangio, guardo un po’ di televisione poi mi corico. Verso le 5 – non ho un orario preciso – verso le 5, 5 e mezzo, mi alzo, scendo qua al Centro (sociale), poi la sera per ora sto facendo la recita con la parrocchia, la sera poi verso le 8, 8 e mezza, rientro a casa, mangio, guardo di nuovo la televisione e poi mi corico.
Al Centro, per ora non tanto, qua venivano invitate persone che magari non erano della nostra nazione, erano di un’altra nazione, per sapere i pensieri, le idee politiche, come vivevano, i ragazzi com’erano là; oppure è venuto anche una volta due ragazzi, un maschio e una femmina, omosessuali… Abbiamo parlato, abbiamo discusso un poco della questione.
Io cosa ho pensato? Mah, se ti dico il mio pensiero su queste persone, tu dici: allora è perché sei fascista. No.
Non lo so: umanamente sono sempre persone. Però non condivido… sarà una malattia, ma non lo condivido il loro modo di pensare, capisci? Secondo me nella vita c’è una linea da seguire: il maschio e la femmina, si accoppiano e fanno i figli, si lavora, maschio e femmina, i figli si sposano, sempre così. Quando tu incontri una persona di queste, sia maschile e femminile che omosessuale, tu non sai che caz… che ruolo ha nella vita? Dici, può lavorare, può avere una famiglia? La può avere? Non penso. Se ce l’ha sarà attivo e passivo. Giusto? Attivo e passivo, cioè si mette con sua moglie però anche con i maschi e sia anche la donna. Però secondo me, due maschi che si sposano non ha senso. Non è che non li posso vedere, secondo me esistono, purtroppo esistono – no purtroppo – ormai esistono.
Chi erano le persone di altri paesi?
Come posso dire? Erano gente che era missionaria nel Salvador, nel Brasile, in questi posti qua un poco… meno civilizzati.
Pensi che ci siano persone come te, della tua condizione, in quei paesi?
Là? Beh, già, nelle mie condizioni, in quei paesi io penso che già starei bene.
Non c’è qualcosa di comune al di là dell’essere italiano o brasiliano?
Difficilmente, non credo. Perché ognuno ha la sua storia e ha un modo di pensare. Io non ho visto mai una persona che gli dicono, così ad esempio vedono una persona non italiana: ma ti piace l’Italia? Sì è bella, è una bella nazione, però in fondo in fondo gli piace sempre (il suo paese) come d’altronde tutti, è giusto che sia così. Se io sono italiano mi piace l’Italia, anche se vado in America: è bella l’America. Vado in una città: è bella l’America, però il cuore è sempre italiano.
Non avete niente in comune?
A parte che… Quando sono venute queste persone qua, parlando, vedendo. Loro ci dicevano le loro opinioni, le loro cose di vita, a confronto di qua noi stiamo molto meglio, là c’è troppa povertà, troppa delinquenza.
Se tu non trovi lavoro di chi è la colpa?
Sicuramente dello Stato. I datori di lavoro? Non hanno neanche tanta colpa perché se io ho bisogno di una persona… lo Stato è come quello che ti viene e ti chiede il pizzo, capisci? Non ti dà poi nessuna garanzia. Tu paghi le tasse, alla fine poi non ti ritrovi niente. Ad esempio: un operaio, lavora una vita, cioè deve lavorare 35 anni e poi deve raggiungere anche l’età 65 anni per prendere la pensione che poi è un milione e due, un milione e 4, non so quanto sia ogni 2 mesi. E io ho lavorato una vita, ho dato 600, 700mila lire di contributi mensili allo Stato per avere che cosa?
Se aspetti l’autobus e non passa in orario, anche se non è colpa dello stato, comunque, della ditta Atm.
Vai all’ospedale e non trovi l’assistenza giusta, l’infermiere non c’è, il dottore dorme.
Nelle strade i vigili non ci sono mai, c’è ad esempio una battuta: tu lo sai che differenza passa tra un cornetto e un vigile? Nessuna differenza, non ce n’è, perché quando li cerchi stano tutt’e due al bar. Per dire. Se ci sono i vigili fanno danno e non fanno altro, c’è più casino.
Come ti posso dire? Le strade sempre scassate. Quando viene qualche persona importante il Comune si preoccupa di aggiustare le strade. Chiaramente io vorrei che farebbe un giro di tutta Messina periferia e vedrebbe i problemi che ci sono. Ce ne sono tantissimi.
Il datore di lavoro non ha nessuna colpa?
Non è colpa loro perché secondo me tutto parte dall’edilizia. Se lo Stato, ad esempio a Messina e in altre città ci sono le baracche, giusto? Ci sono le baracche; se loro si premurassero a fare – come si dice? – un piano regolatore, a fare uno sbaraccamento totale, giusto?, quanto sono, 5mila baraccati? 10 mila? magari un poco alla volta, si fa un piano regolatore e si prende una zona e si fanno le palazzine per queste persone qua e tutto, guarda, l’economia salirebbe, sai come? al massimo, perché: con l’edilizia lavorerebbe il manovale, il fabbro, il tubista, l’elettricista, il pittore, il pavimentista e tante altre persone…
Chiaramente, ad esempio: se io non lavoro non vengo da te ad esempio a comprarmi un maglione; e non vengo io, e non viene neanche quell’altro operaio, non viene quello… tu chiaramente, che non guadagni, non vai e ti compri la spesa, non vai tu e non va quell’altro negoziante; cioè, è tutto un giro, è una cosa… l’Italia ormai va avanti così, tanto per andare avanti, non lo so ormai neanche come va avanti, con quali soldi. Tutto questo è il problema.
Al corso cosa fai?
Al corso? Il corso dura 2 anni. E ci insegnano a lavorare i tubi, cioè il corso è termoidraulico, il primo anno è termoidraulico, cioè è idraulico, il secondo ci insegnano ad usare le caldaie, perché chiaramente i professori ci spiegano: dovete imparare anche le caldaie, dovete andare a fare l’impianto in una casa, glielo fate sbagliato, fate morire una famiglia, una palazzo intero.
E quindi, oltre a insegnarci un mestiere, ci insegnano anche i problemi della vita oppure come comportarci sul lavoro, se abbiamo un datore di lavoro che magari non ci rifornisce di maschere, tute, cose; come ci dobbiamo comportare nell’ambiente di lavoro, perché facciamo anche infortunistica, quindi infortunistica parla dell’igiene sul lavoro, la prevenzione agl’infortuni, la fatica sul lavoro: perché la fatica sul lavoro in due modi, ci sono due tipi di fatica sul lavoro: mentale e fisica, cioè ad esempio: ti porto l’esempio del professore, se tu ad esempio sei stanco fisicamente – giusto? – e ti metti a tagliare un tubo, ti fa male il braccio, ti scivola il braccio e magari gli tagli il braccio a un collega che è vicino a te, per dire; oppure mentale: stai lavorando al seghetto alternativo – non sai che cos’è forse? – è un seghetto che lavora da solo, automatico, fa il lavoro e taglia…
Magari tu sei stanco mentalmente, ti viene un colpo di sonno, caschi, e magari ti tagli un braccio. Quindi, oltre ad insegnarci un lavoro ci insegnano tante altre cose, come comportarci nella vita, nella nostra vita.
Chi lo organizza il corso?
Non è proprio organizzato il corso. È dell’ente “Ial”, non mi ricordo, Istituto al lavoro… Sì, è la Regione, chiaramente è la Regione che finanzia questi corsi.
Nella tua vita quotidiana fai altre cose?
No, varia qualche volta, non lo so… Ad esempio, fra il sabato e la domenica può cambiare. Te l’ho detto, il sabato usciamo con gli amici. Il sabato corso non ce n’ho, quindi la mattina magari mi alzo qualche ora più tardi, faccio colazione e giro un poco per la città, incontro qualche amico, poi ritorno a casa, mangio, poi il pomeriggio esco con gli amici, magari scendiamo a piazza Cairoli, poi magari saliamo di nuovo a casa, ci cambiamo per uscire la sera.
La domenica mattina ti alzi sempre più tardi, fai colazione, giri un poco. Sport no, non ne ho mai fatto. Magari ci facciamo qualche partita, così, di calcetto, di calcio, ma sport no. Qua avevano organizzato una specie di torneo ma poi non se ne è più parlato, del torneo di calcetto.
Cosa è cambiato nel quartiere?
Ho scritto una canzone che parla dei problemi che ci sono nel quartiere. Parla di un ragazzo che si veste troppo alla moda e si sente arioso, è arioso, però alla fine gli rompono il culo, capita persone che gli rompono il culo. Questa qua l’ho fatta quando frequentavo il corso di computer. Un’altra parla di un negro che (ha un) contatto con un paio di ragazzi, che prima questi ragazzi lo trattano male poi lui si spiega chi è e magari fa vedere chi è, si riscatta con questi ragazzi e magari poi loro gli chiedono scusa, capiscono che hanno sbagliato, che non si deve fare di tutta l’erba un fascio, di tutti i neri si deve pensare male. E allora gli chiedono scusa.
Che cosa recitate?
No, qua abbiamo fatto soltanto una recita, si chiamava ‘U votu, cioè parlava di elezioni in un paese che in pratica tutti gli chiedevano a una persona il voto, all’ultimo questo qua non gliel’ha dato a nessuno, insomma all’ultimo poi se la sono presa con lui. Io facevo il socialista.
Qua come (è) penso in tutte le città, a Messina viene uno, sempre… poi si fanno vedere sempre nel periodo delle elezioni si fanno vedere tutti, persone che lavorano magari al Comune, persone di partiti. No, ora no. Magari vengono un mese prima delle elezioni, una settimana prima: “oh, guarda che per ora, c’è aria di lavoro. Cerca di farmi salire a me”.
Per dire, va. E secondo me l’Italia non va avanti per questo, perché la maggior parte delle persone non hanno l’idea politica basata, cioè vengo io e ti dico: dammi il voto e ti do questo, poi salgo io e di te, come gli altri, me ne frego, basta che salgo io e mi prendo lo stipendio.
Cioè io vorrei che ognuno avesse la sua idea. Quando io devo andare a votare ormai ho la mia idea, può venire chiunque, mi dice ti do lavoro, ti do questo e ti do quello, ormai ho la mia idea.
Sono venuti anche alle ultime elezioni?
Sì. Devo dire i nomi, no? E non lo so i partiti chi erano, mi sembra l’Ulivo, non lo so. L’Ulivo mi sembra, una persona dell’Ulivo mi sembra, è salita qua, voleva i voti. Ma non so neanche se è di questo partito.
In parrocchia che recita avete fatto?
No, in parrocchia io non ho mai recitato. Ora sto provando a recitare, anche perché ho avuto quell’esperienza con l’altra recita, e sarebbe questa qua il continuo, si chiama ‘A prumisa. E parla sempre che riscatta… una persona vuole riscattare una promessa che gli hanno fatto perché ha dato il voto al sindaco, e quindi è bellina come recita.
Quali episodi importanti ricordi della tua vita?
A primo impatto ora sto pensando a quando mi sono messo con una ragazza, che gli ho voluto bene, gli ho voluto bene. Mi sono messo 3 volte. Allora, la prima volta siamo rimasti un mese e 3 giorni, perché non ci conoscevamo bene e mi ha lasciato lei, poi mi ha ricercato lei e siamo rimasti 6 mesi.
In questi 6 mesi io gli ho voluto bene però lei sparava calci, cioè faceva quella là che non mi voleva bene, poi se n’è pentita. Poi mi ha ricercato di nuovo perché l’ho lasciata io stavolta, m’ha ricercato di nuovo però io non provavo niente, mi sono messo così tanto per prenderla per il culo, e poi l’ho lasciata di nuovo e ora mi sta ricercando di nuovo.
Lei, come sicuramente tutte le ragazze – come posso dire? – hanno la testa malata che se uno le tratta bene ti trattano con i piedi loro. Se uno gli fa fare in culo, cioè li tratta lui con i piedi a loro, ti stanno sempre di sotto, capisci? Questo qua. Questa tesi qua l’ho avuta sempre nella vita e mi sono trovato sempre bene.
Il modello di ragazza? Comprensiva, affettuosa, intelligente,… bella. Ecco, questa è un’altra cosa interessante: nella vita c’è quello che dice: della vita non è importante la ragazza bella, è una gran cazzata, perché secondo me se tu vedi una ragazza per la strada, se non t’attira in faccia, tu neanche vai a conoscerla, quindi ti deve piacere in faccia, fisicamente. Quindi il primo impatto è quello che vedi, se ti piace ti deve piacere fisicamente, chiaramente in faccia, e poi cerchi di conoscerla. Ma non è: a me m’interessa il carattere, questo sicuramente, perché nella vita è importante anche essere belli, avere un carattere buono, andare d’accordo col partner.
Però secondo me uno prima guarda la bellezza e poi guarda la bellezza del carattere.
La tua famiglia come sarà?
La mia famiglia? Chiaramente educherei i miei figli allo stesso modo come ha fatto mio padre, cioè se spero di avere un lavoro perché se non lavoro non mi sposo chiaramente, un lavoro buono per fare una famiglia giusta, corretta, e di non fargli mancare mai niente ai miei figli e soprattutto a mia moglie.
Se mia moglie dovrà lavorare? Allora, io sono contrario alla moglie che lavori. Alla moglie che lavora sono contrarissimo. Perché secondo me la moglie deve curare la famiglia. Secondo deve lavorare l’uomo, cioè l’uomo deve mantenere la famiglia, in tutti i sensi.
E quindi magari lavorerei di notte di giorno, tutte le ore basta che non lavori… Poi se ho un lavoro che sono retribuito poco, se ho bisogno magari mia moglie… Ma non un lavoro tipo: manderei mia moglie a lavare le scale, assolutamente. Un lavoro buono: mia moglie è diplomata e lavora a impiegata… se no niente. Non farei mai abbassare mia moglie a lavorare.
Libri ne leggi?
Dylan Dog, ogni tanto, mi piacciono i fumetti di Dylan Dog. Quelle storie un po’… siccome – te l’ho detto – mi piace l’occulto, Dylan Dog parla dell’occulto e mi interessa un po’.
Poi qualche cosa leggo… per ora non mi viene niente.
Il futuro come lo immagini?
Fine del mondo. Fine del mondo… a parte che si sta vedendo oggi come oggi la fine del mondo, le nascite sono scarse, i morti sono di più.
La fine del mondo certa gente la immagina che scompare tutto in una volta o che salta tutto in una volta. Io ho un’idea diversa: secondo me la fine del mondo sta accadendo oggi, ora come ora. Sta accadendo ora la fine del mondo.
Perché: a parte che ci ammazziamo l’uno con l’altro. E poi, guarda: c’è gente… tutte le cose che stanno accadendo nel mondo, violenze, stupri, morte per droga, assassini, un bordello di cose.
Secondo me non potrà mai andare il mondo così avanti.
Sei soddisfatto della tua vita?
Diciamo di sì, l’importante nella vita non è avere soldi, questo qua l’ho pensato sempre, ma stare bene in salute, stare bene con la famiglia, avere rapporti d’amicizia con le persone.
Se dovessi dire chi sei, senza pensarci?
Un bravo ragazzo. Un ragazzo a posto, che sa quello che deve fare, sa come comportarsi in diverse situazioni. Poi come ti ho detto io sono un ragazzo di destra, quindi dovrei essere ordinato. Sono ordinato, però (lo) stile è di sinistra. Che vuol dire “sinistra”? Come ti vesti, portare l’orecchino – a parte che è finto, cioè senza buco – perché magari canto.
Sull’immigrazione per esempio cosa pensi?
Hai scelto un tema fantastico. Allora: l’immigrazione. Come ho detto prima, l’idea politica (è) di destra, uno potrebbe pensare: ce l’ha con i negri, con qualsiasi altra persona che migra, non è così.
Come ragazzo di destra, penso che l’immigrazione sia giusta. Giusta, però: io ammiro e accetto le persone extracomunitari, albanesi, jugoslavi, negri, marocchini, tunisini che vengono in Italia, lavorano, portano avanti la nostra nazione, come d’altronde hanno fatto i siciliani e gli italiani emigrando in America, che magari c’è stato anche il siciliano, l’italiano che ha scelto la strada sbagliata là, però la maggior parte, cioè su 100 penso che 1 ha preso la strada sbagliata, però gli altri 99 hanno dato l’anima in America, hanno lavorato sempre onestamente facendo sacrifici.
E io penso che i negri – cioè: gli extracomunitari, non li vorrei chiamare negri perché penso che è un’offesa – gli extracomunitari se vengono qua vorrei che lavorassero.
Io sono d’accordo che stanno ai semafori, se stanno penso che guadagnano; anche attraverso la pioggia, con il caldo, se gli piace che stiano, però non mi piacciono le persone che sono ospitate in Italia e sparano calci, cioè ci violentano le persone, si comportano male: li prenderei a calci nel culo. Proprio: li manderei a calci nel culo, là.
Tu puoi dire: ma anche gli italiani stessi si comportano male, ma è del tutto sbagliato perché appunto già abbiamo le nostre di persone che si comportano male, che cazzo c’entrano loro? Ci bastano i nostri? Loro non c’entrano, vengono qua, lavorano; non pagano le tasse? Va bene. Lavorano, si trovano…, però devono stare con due piedi in una scarpa.
La religione è importante?
La religione? Ti posso dire che io credo in Dio. La religione secondo me in una persona fa molto, perché – è difficile, comunque – se ogni persona non credesse in un Dio, nel nostro Dio, nel nostro Dio, ci comporteremmo tutti male.
Se ogni persona non credesse in un al di là, in un ente superiore a noi, ci ammazzaremmo l’uno con l’altro. Ogni persona secondo me deve avere – no timore di Dio – però deve pensare che dopo la morte ci sia una vita, e quindi ci comportiamo anche bene – relativamente – cioè magari non ammazziamo le persone, però secondo me in fondo in fondo la religione fa qualcosa in una persona.
Secondo te tra destra e sinistra qual è la differenza?
Allora, la sinistra secondo me si basa più che altro sulla democrazia, la destra è più… no più repressiva, più dura come… come posso dire?
Diciamo un poco autoritaria, però secondo me la destra specialmente in Italia farebbe qualcosa. Io mi immaginavo che dopo le elezioni saliva la sinistra. Devo dire la verità, sono stato contento per presa per il culo, sono stato contento per gli italiani che hanno votato sinistra per fargli vedere quello che accadrà con la sinistra. Sicuramente l’Italia cadrà a pezzi, già era a terra, l’economia non si riprenderà.
Cioè, aspetta: riprendendo la domanda (sul)la differenza tra destra è sinistra, la differenza è che la destra è l’Italia, la sinistra è niente. Tu la pensi sicuramente diversamente, la destra pensa di più all’Italia, la sinistra non tanto.
Perché se tu guardi i telegiornali sono su una persona di destra – che non lo so neanche come è stata imputata di tangenti, di cose – ce ne sono 10 di sinistra, cioè ti posso elencare quelli di sinistra: Cirino Pomicino, De Mita, Craxi, De Lorenzo, Poggiolini, capisci?
Sono in maggioranza, sicuramente, guarda.
Sulla mafia cosa pensi?
La mafia. Essendo un uomo di destra la mafia la vorrei distruggere. Perché: a parte che la mafia secondo me è Stato, politica; metti politica-Stato-mafia, c’è tutto un collegamento, come un ponte. soltanto che lo Stato, cioè i personaggi dello Stato sono tutelati, mentre la mafia… la gente ha un’opinione sbagliata della mafia, pensa che quello che spaccia è mafioso. No: è sbagliato, la mafia è Stato, dove c’è giro di soldi è mafia e chiaramente tu hai visto le tangenti, quelle cose, là è mafia. Che si fanno sempre sulla gente povera. E chi la prende nel culo – scusando la frase – è sempre la gente povera, gli operai e i pensionati. Lo Stato intacca sempre queste persone qua, sul pensionato che prende una misera pensione, che ha lavorato una vita e prende una misera pensione gli mette le tasse, però loro si aumentano 2 milioni di stipendio al mese, per fare che cosa?
Secondo me è sbagliato, un operaio dà l’anima una vita per prendere un milione, un milione e 2 ogni due mesi; uno che magari – diciamo – ha onorato l’Italia, facendo magari il generale dell’esercito, quello ha fatto quello, e deve prendere magari il doppio di quanto prendeva quand’era in carica.
Nel quartiere cosa pensano della mafia?
Mah, nel quartiere non è che ci sia mafia, c’è quello che si sente malandrino, ma se trova la persona giusta gli finisce questa cosa qua. Voglio dire: nella vita c’è sempre quello più intelligente di te.
Per dire: io vengo da te e faccio lo scaltro, vado da quello e faccio lo scaltro, vado da quello… ma nella vita sicuramente capiterà qualcuno che farà lo scaltro su di me, e mi farà passare la voglia, e mi farà pentire di aver fatto…
E chiaramente nel quartiere c’è il ragazzo che vuole fare il malandrino, però poi magari sa chi sei e poi magari viene e ti chiede scusa. Quindi non sono malandrini, perché secondo me il malandrino per se stesso non dovrebbe avere paura di niente.
E poi malandrini non si nasce, ci si diventa: anche un bravo ragazzo può diventare malandrino.
Per farsi rispettare?
Mah, guarda, secondo me è tutta un’idea sbagliata. Il malandrino non si fa rispettare, il malandrino è la “fezza” delle persone, cioè in una nazione… io parto da un principio, secondo me è meglio essere onesti e poveri che essere ricchi e disonesti. Capisci? Cioè io mi accontenterei di morire di fame però essere un ragazzo a posto, che avere i soldi in tasca e non essere nessuno.
Perché i ragazzi oggi come oggi pensano – a parte che non hanno nessuna idea politica – e pensano, appunto come hai detto tu, un senso di rispetto. Forse i ragazzi che hanno un poco paura, ma la gente per sé stessa quando sa che sei malandrino e fai e dici ti tratta con i piedi, non hanno rispetto completamente. E quindi è sbagliata questa cosa qua. Se i malandrini spacciano? Dici i ragazzi, no i malandrini. Tu dici quelli che fanno gli scaltri? Chiaramente sì.
Secondo te a Messina c’è la mafia?
In tutti i posti, Paese che vai usanza che trovi. La mafia, la mafia – come posso dire – mafia può essere Stato e mafia, può essere ospedale e mafia, ditta e mafia, per dire.
Ditta? Ad esempio, magari un politico… c’è un mafioso che ha una ditta, il politico gli dà magari un appalto in una zona a quello là perché sa che è magari c’è un giro di tangenti, di cose, e questa qua è sempre mafia, è tutto un giro che non finisce mai.
Secondo me ci vorrebbe un governo col pugno pesante, non un regime, però un governo un po’ pesante, con delle regole severe.
………………………….
3.2. Analisi – G e s t i o n e d e l l a c r i s i p e r m a n e n t e
3.2.1. La famiglia
………………
Comprensiva. Rosario definisce più volte così la sua famiglia (sia come insieme si in riferimento ai genitori). Da ciò che si legge nel racconto, si potrebbe interpretare la definizione in questo modo: comprensiva nel senso di comprendente; etimologicamente: “cumprehendere”, che significa sia “capire” che “circondare” e “abbracciare”: “cum” + “prehendere” = prendere insieme.
Appena subisce il primo distacco dalla famiglia, Rosario vi fa subito ritorno. È il primo giorno di scuola, e inizia con una fuga. Il giorno dopo sarà ritentata e fallirà. Il distacco – minimo – si compie. Ma la famiglia rimane l’indispensabile punto di riferimento: “non fa mancare niente”, sostiene Rosario nelle difficoltà.
Dal racconto di Rosario, si può capire molto anche della situazione di Carlo e della sua infanzia in una quartiere popolare. Si comprendono quali sono i “codici rituali” e quale l’incidenza della violenza; si capiscono i motivi del giudizio positivo che Carlo formula nei confronti della sua famiglia.
Dal testo si evince che la famiglia, nella situazione di Rosario (quella, cioè, dei quartieri popolari), svolge questi compiti principali:
- Lavoro di riproduzione e cura: è affidato principalmente alla madre; in una realtà senza servizi sociali, senza socializzazione delle funzioni primarie, dove i servizi funzionano in base alla logica clientelare e strumentale e ignorano l’interesse collettivo, lo svolgimento di questa funzione da parte della famiglia permette la sopravvivenza stessa degli individui, sia nella vita quotidiana che nelle emergenze, come il terribile incidente che sconvolge l’esistenza di Rosario bambino.
- Sostegno economico: permette a Rosario di frequentare la scuola dell’obbligo, quindi di abbandonare lavori pesanti e sgraditi, attualmente di frequentare i corsi professionali. Al riparo da ristrettezze economiche troppo pesanti, Rosario può strutturare la sua vita in maniera relativamente libera, sicuro di trovare il sostegno materiale della famiglia:
“Quando facevo il benzinaio dovevo rinunciare all’estate, lavorare di domenica. Mio fratello mi ha detto: chi te lo fa fare, te li do io i soldi”.
Lo stesso accesso al lavoro è garantito dalle reti familiari-parentali: “[Il lavoro dal benzinaio l’ho trovato] con mio padre che conosceva questa persona qua”…
- Protezione: in una situazione dove la violenza è sempre presente, essere conosciuto come appartenente ad un nucleo familiare, che all’occorrenza è pronto ad intervenire in soccorso, è una garanzia di incolumità:
“Ci conosciamo tutti, sanno chi sei, che questo è fratello di quello che è amico di…”
- Socializzazione: v. par 3.2.3.
3.2.2. Fasi e mondi vitali
……………………..
Fasi | evento contrassegno | mondi vitali |
Infanzia | primo giorno scuola | famiglia, quartiere |
Adolescenza | fine scuola media | scuola, amici, quartiere |
Gioventù | corso,amici,centro |
La prima fase, quella dell’infanzia, dei giochi e della vita protetta totalmente dall’ambiente familiare si conclude bruscamente con la prima incombenza che la società richiede a Rosario: lasciare la famiglia per andare a scuola. Un passaggio traumatico, caratterizzato dai tentativi di fuga.
Nella seconda fase, è la scuola il mondo principale in cui Rosario vive. La sua vita è scandita dai tempi scolastici, dalle promozioni e dallo studio. La famiglia diminuisce notevolmente d’importanza, ora è il gruppo dei pari a divenire un punto di riferimento. L’area in cui Rosario vive è soprattutto il quartiere.
La fine della scuola dell’obbligo introduce Rosario in una nuova difficile fase: prima, tutto era determinato dai tempi dell’istituzione scolastica. Ora è Rosario che deve scegliere cosa fare. L’ingresso nel mondo del lavoro è, per vari motivi, fallimentare; la frequenza dei corsi professionali sembra un ritorno al mondo della scuola, prematuramente interrotto. Lo spazio frequentato da Rosario si è allargato: il quartiere rimane il baricentro, ma ci sono anche il centro cittadino e alcune zone della provincia, frequentate il sabato sera, con gli amici.
Il centro sociale non rappresenta un nuovo mondo vitale, ma una ‘ristrutturazionè del mondo del quartiere; prima ci si incontrava in piazzetta o in sala giochi: nel ‘centro’ si incontrano più o meno le stesse persone, ma ci si rapporta in maniera diversa (l’amicizia, il ‘sentirsi qualcuno’) e si fanno cose diverse (cantare, recitare).
3.2.3. Socializzazione
………………….
Gli agenti di socializzazione, nella vita di Rosario, sono facilmente individuabili. Il ruolo principale lo svolge, ovviamente, la famiglia, che gli ha trasmesso:
– l’ideologia politica
– l’etica dell’onestà
I racconti del padre, la storia delle generazioni precedenti hanno avvicinato Rosario all’ideologia di destra, come lui stesso dice:
“Senza mio padre non avrei un’idea politica”
In famiglia gli viene insegnata l’etica, sostanzialmente di matrice piccolo-borghese, dell’accontentarsi (“meglio poveri che disonesti”); del rispetto delle regole (“sono un bravo ragazzo, vengo da una famiglia sana”); del conservatorismo; dell’obbedienza alle regole sociali (“nella vita c’è una linea da seguire”).
Il secondo elemento, il gruppo dei pari, ha un ruolo secondario. Nell’ambiente dei ragazzi del quartiere, presumibilmente, circolano idee diverse: la politica è quasi del tutto assente, mentre sono in tanti che preferiscono spacciare piuttosto che rinunciare ai soldi. Perché l’etica trasmessa dalla famiglia è vincente rispetto a quella del quartiere? Le ragioni sono da rintracciare nell’analisi delle funzioni familiari, fatta nei paragrafi precedenti. La famiglia è vincente perché funzionale, garantisce la sopravvivenza economica e – cosa non trascurabile – momenti di affetto, intimità e sicurezza preziosi in un ambiente violento e competitivo fino al darwinismo.
La scuola di Rosario somiglia a quella di Carlo. È una istituzione assente, distante, che premia il comportamento conformista e inventa crudeli punizioni per i devianti.
La trasmissione del sapere scolastico è fallimentare per una serie di motivi:
– l’insegnamento è burocratico, non coinvolgente, per nulla interessante (nel senso etimologico: interesse = inter esse, “essere tra”);
– l’attività dello studio è vista come comportamento conformista, svolta per ragioni del tutto diverse dalla voglia di sapere o apprendere o ragionare autonomamente; nei quartieri popolari è forte l’idea che il sapere sia sostanzialmente empirico, derivato dalla vita quotidiana o dalle esperienze trasmesse dalle generazioni precedenti. Andare a scuola serve soprattutto a prendere ‘il pezzo di carta’ che garantisce l’accesso al lavoro (anzi, al ‘posto’).
Lo scontro è tra insegnanti che invitano a ‘mettersi la testa a posto’ e ragazzi con ‘la testa al gioco’. Senza che nessuno si chieda il senso di ciò che sta facendo.
In questo quadro sono comprensibili due degli episodi raccontati:
– il “deviante” che da solo, col suo comportamento, convince un’intera classe a non studiare, per poi essere inglobato nel modello conformista (“l’anno dopo anche lui si è messo la testa a posto”).
– la scelta di non continuare e l’inevitabile pentimento.
È un copione classico delle periferie: il ragazzo studia a stento, se è ripetente viene visto come ‘eroè positivo, chi studia è giudicato negativamente (sono soprattutto le ragazze a studiare), il rapporto coi professori è di scontro e sfida; si ha la testa al gioco, allo scherzo. Non si vede l’ora che la scuola finisca. Alla fine è rimasto poco o niente, l’indispensabile per superare le interrogazioni e le prove scritte. Le idee sono sempre confuse (“l’Italia ha una storia, una cultura, con le invasioni dei popoli…”).
Ancora, il ragazzo della periferia si sente furbo, ha ottenuto la licenza media col minimo sforzo, ora al massimo frequenta un corso professionale “per imparare un mestiere” (lui non lo sa che l’epoca dell’artigianato ha lasciato da tempo il posto a quella dell’operaio-massa intercambiabile). Poi, puntuale, arriva il momento del pentimento. Pensava di iniziare subito a lavorare, tanti sognano di “fare il meccanico”, intascare i primi soldi e spenderli come gli pare.
Poi scoprono che per fare il netturbino ci vuole il diploma. Che per ottenere un posto ci vuole la ‘spintà. Che il lavoro che può ottenere è in nero, precario: sfruttamento puro. La delusione, fortissima, porta tanti a scegliere il rischio e il guadagno facile: spaccio, estorsioni, rapine.
Perché si ripete questo copione? È comprensibile che un ragazzino di 12-14 anni non si renda conto che al proseguimento degli studi è subordinata non tanto la mobilità sociale, quanto la sopravvivenza stessa. Occorrerebbe che tale consapevolezza sia patrimonio degli adulti, che troppo spesso vivono nella mitologia dell'”imparare un mestiere”, lasciare la scuola “dove non c’insegnano niente”, etc.
Tornando alla socializzazione, anche dagli insegnamenti proviene in genere la trasmissione di un modello culturale piccolo-borghese conformista, simile all'”etica dell’onestà” descritta prima.
Generalmente, in uno scontro culturale con l’etica del quartiere, il modello scolastico è perdente. La scuola di periferia, inoltre, è un ambiente estremamente violento, con un clima da caserma (v. l’episodio del ragazzo buttato nel lavandino), sia per il comportamento dei ragazzi che per le reazioni dei docenti: interrogatori e punizioni, che esasperano il clima, pongono i due elementi in una condizione di scontro frontale e pregiudicano le possibilità di comunicazione.
Se la televisione aveva un ruolo marginale nella formazione di Carlo, ed al contrario ne avevano uno importantissimo i libri ed i giornali, per Rosario è esattamente il contrario.
Non legge libri, per ciò che riguarda i giornali si limita a sfogliare quelli che gli capitano in famiglia, cioè la “Gazzetta del Sud”. A questo proposito, è importante sottolineare il ruolo di agente di socializzazione di questo quotidiano, che per le sue caratteristiche ha un pubblico transclassista ed arriva dove la parola scritta fa fatica a giungere, cioè le periferie. Il modello antropologico che traspare dalle pagine della Gazzetta contribuisce a confermare i caratteri culturali presenti nei quartieri popolari: maschilismo, nostalgia del ventennio, omertà (v. la campagna contro i pentiti “giuda” e traditori), sciovinismo regionalista…
Rosario dice di stare 5 ore al giorno davanti al più potente educatore dei nostri tempi. A differenza dell’educatore scolastico, viene ascoltato volontariamente, non giudica né interroga, si preoccupa di essere attraente e vivace.
La realtà virtuale che emerge dal televisore è talmente potente da sconfiggere elementi culturali sedimentati da generazioni. Dagli schermi tv prende corpo la società dello spettacolo, fatta di personaggi strani, discutibili, distanti ma ricchi e affermati, popolari e positivi.
Se ha la possibilità di far parte di questa società di privilegiati, il padre di Rosario gli concede di portare l’orecchino e vestirsi ‘stile sinistra’. La realtà televisiva come termine di paragone (“se lo fai per spettacolo va bene, altrimenti a chi lo fai, solo per imitare?”) e di giudizio, che sconfigge persino uno dei tre principi fondamentali del fascismo, la disciplina.
Inoltre, la tv funziona da fabbrica dei sogni per tanti giovani disoccupati (chi vuole fare l’imitatore, chi il cantante) che proiettano le loro speranze in una dimensione lontana ma non impossibile: derivano dallo schermo tv le uniche possibilità – per via legale – di mobilità sociale e realizzazione personale, di successo insomma.
Rispetto alla mentalità dominante nelle periferie meridionali, Rosario presenta una importante specificità: vuole fare il poliziotto, non solo per lavorare ma anche per adesione ad una figura che nel quartiere non è granché apprezzata (“‘u sbirru”). Ciò è comprensibile, visto che ci troviamo in una zona che si basa sull’economia illegale, dove si ha sempre qualcosa da temere dalla “giustizia”. Generalmente, anche chi vive nella legalità sviluppa un forte senso di rifiuto della legge e dello Stato. Le cause sono facili da rintracciare (oltre che nella situazione presente, anche) nella storia del Meridione, sin dopo l’Unità, quando lo Stato unitario si presentò sotto le vesti del carabiniere e dell’esattore delle ‘imposte (v. per es. “I Malavoglia” di Verga). Impose una lingua diversa (ma il dialetto ancora resiste) e tasse pesanti. Giustamente, Rosario osserva che lo Stato è “come quello che ti chiede il pizzo” e poi non ti dà niente in cambio. Lo Stato sociale qui non è mai esistito, la repressione militare è stata la risposta più frequente al disagio (v. per es. ad inizio anni ’90 la dislocazione dell’esercito nelle regioni meridionali).
Dall’altra parte, le colpe sono numerose: si sono preferite le briciole, la sopravvivenza, il rapporto di scambio col disprezzato politico (v. più avanti, par. 3.2.4).
Ma c’è stato anche il fascismo. Che ha ottenuto il consenso delle classi dominanti siciliane mettendo l’uso monopolista della forza al servizio dei proprietari (cfr. il diario del prefetto Mori, “Con la mafia ai ferri corti”, Mondadori 1933); ha salvato i “manutengoli” cioè i protettori altolocati della mafia, durante i processi; ha tollerato la classica ondata trasformistica e gattopardesca.
Ma ha ottenuto anche il consenso della classi subalterne per almeno due motivi:
– grazie all’uso spregiudicato della forza ha garantito quella sicurezza della vita e dei beni che buona parte degli abitanti dell’isola non avevano mai conosciuto in precedenza;
– utilizzando l’impiego pubblico come settore-spugna, di assorbimento della disoccupazione, ha creato un consenso fortissimo nei ceti piccolo-borghesi, che hanno sviluppato un’ideologia conformista, tutta ‘legge e ordinè, oltre che nazionalista.
Le stesse colonie avevano il compito di assorbire i contadini espulsi dal mercato a causa della crisi economica. Rimane quindi ancora vivo il rimpianto per un regime che
– assicurava la tranquillità (la famosa “porta che si poteva lasciare aperta”);
– garantiva il lavoro per tutti, o almeno si impegnava a garantirlo;- si preoccupava prima per gli italiani, al punto da conquistare nazioni straniere (“i popoli meno civilizzati”) pur di venire incontro alle esigenze dei disoccupati.
Di fronte a tutto questo, la mancanza di libertà e la violenza sfrenata (le torture di Mori, interi paesi assediati, donne e bambini presi in ostaggio) apparvero come dettagli, spesso non vennero neanche percepiti negativamente da chi la violenza l’aveva conosciuta fin da bambino, e la libertà non sapeva cosa fosse.
Questa serie di valori sono stati trasmessi a Rosario dalla famiglia, dal padre in particolare: sogna un regime che dia lavoro, identità (essere italiani), ordine (tranquillità).
Nel mondo popolare siciliano si trovano essenzialmente due tipologie: la prima è questa descritta (legge ordine Italia conformismo); la seconda è molto diversa, si basa sul culto dell’onore e del rispetto, sulla furbizia (violazione delle leggi), sull’omertà (non si parla agli sbirri), sull’uso privato della violenza e sulla ricerca dell’arricchimento facile.
So bene che si tratta di una suddivisione grezza: ma ritengo che ciò che attualmente differenzi le due categorie sia essenzialmente un elemento: gli appartenenti alla prima tipologia hanno (o aspirano ad avere) il “posto” dallo Stato. I membri della seconda categoria vi hanno rinunciato.
Il secondo motivo che spinge Rosario a giudicare positivamente la figura del poliziotto ci riporta agli altri due agenti di socializzazione: scuola e televisione.
La cosiddetta “educazione alla legalità” sembra essere diventato un valore indiscutibile, specie se rivolta ai ragazzi definiti “a rischio”. La scuola è appunto un mezzo di trasmissione di questi valori, che poi sono riconducibili all'”etica dell’onestà”.
Il ruolo della tv potrebbe essere quello decisivo: Rosario dice di amare molto i polizieschi, definisce il poliziotto come quello che lotta contro il male, sconfigge la droga; e poi gira in macchina, si veste anche in borghese.
Esattamente come nei telefilm polizieschi, dove l’eroe si comporta generalmente come il suo antagonista (spara, uccide, aggredisce) ma è, a priori, l’eroe positivo: vive fantastiche avventure, vince sempre, spesso è arricchito degli elementi tipici dell’eroe (bellezza, intelligenza, forza). L’identificazione è completa se si aggiunge che la finzione televisiva si basa sullo schema elementare fondamentale per la nostra cultura: da una parte il buono, dall’altra il cattivo.
La rottura con la cultura del quartiere si compone parzialmente con la descrizione (o l’idealizzazione?) del poliziotto che – se c’è un caso umano – ti aiuta. L’idea dell’impersonalità della legge, del ruolo esecutivo, appunto l’idea del “braccio della legge” appare insopportabile nella subcultura periferica. E come, arresta un padre di famiglia? E che fa, “attacca” (arresta).l’amico suo, dopo che avevano mangiato e bevuto insieme?
Un ulteriore elemento di contrasto deriva dall’ideologia consumista. In breve, la situazione delle periferie è più o meno questa.
fini | oggetti di consumo (desiderio indotto da mass media, pubblicità) |
mezzi | precari, scarsi (disoccupazione, lavoro nero, crisi economica) |
………………………………………………………………
Non occorre spendere troppe parole sul primo processo: i soli spot televisivi sono più che eloquenti; un’intera categoria, quella dei pubblicitari, passa la vita ad inventare nuovi metodi per la persuasione ad un consumismo sempre più sfrenato.
Sono i consumi stessi a dare un’identità: nel quartiere, oltre che per la tradizionale adesione ai modelli dominanti, vieni riconosciuto se possiedi:
“Tu hai una cosa e io non ce l’ho e tu mi prendi in giro perché io non ce l’ho. […] Magari ti prendevano in giro perché non avevi il motorino”.
È il possesso delle cose a costruire un’identità, oppure a determinare crisi, mancanza di autostima, auto/colpevolizzazione.
Questo accade quando mancano i mezzi adeguati per raggiungere lo scopo. Perché le merci costano; e chi non possiede denaro non può raggiungerle, quindi non ottiene il riconoscimento sociale dovuto a chi ha.
“Se non lavoro non mi sposo, chiaramente”
La considerazione è intrisa di rassegnazione, vede come naturale la subordinazione del matrimonio al denaro: non ha nulla né dell’attonita denuncia del protagonista di un romanzo di Orwell, il quale scopre che nella società in cui vive tutto (amore compreso) dipende dal denaro:
“Or queste tre cose durano al presente: fede, speranza e denaro; ma la maggiore di esse è il denaro.” [Orwell 1966, 8]
Né è presente alcuna traccia della protesta di Eduardo Galeano di fronte all’ingiustizia:
“In Sudamerica, anche il numero dei matrimoni dipende dalla Borsa di New York”
Il consumismo non è certo un problema locale, si tratta di un grande fenomeno mondiale che coinvolge tutti i Sud del mondo e le culture ‘perdenti’, prima fra tutti quella Rom.
Se, rimanendo nell’ambito della legalità, non è possibile raggiungere l’oggetto del desiderio, il passo successivo è quello di uscirne. Spacci una dose e ti ritrovi in tasca i soldi che nella tua vita non hai mai visto tutti insieme. Chi si impegna nell'”educazione alla legalità”, così come chi si occupa dei “centri sociali nei quartieri a rischio” non può ignorare questa fondamentale contraddizione. Altrimenti il lavoro nelle periferie si traduce in una “socializzazione alla rinuncia” dei beni di consumo, in diretta concorrenza col mezzo televisivo…
Il confronto tra Rosario e il consumismo sembra un romanzo: da bambino soffre del confronto con i suoi amici che si possono permettere qualcosa in più; appena più grande, c’è chi lo prende in giro perché non ha il motorino; chiede al padre di acquistargli i jeans di marca: il padre che per i figli “si toglie il pane di bocca”, come un eroe di Verga.
Poi, quando prova l’esperienza del lavoro, capisce la difficoltà di procurarsi il denaro, vede gli oggetti di consumo in maniera più distaccata: il desiderio irrazionale deve confrontarsi con la ragione calcolatrice: “con quello che costa un jeans firmato se ne possono comprare cinque”. Scrive persino una canzone che esemplifica la voglia di vendetta nei confronti di chi ha: “parla di un ragazzo che si veste troppo alla moda, si dà troppe arie: e alla fine gli rompono il culo”. L’etica dell’onestà fa da barriera all’ideologia consumista: “meglio poveri che disonesti”. Rosario ha aderito ad un’altra etica, alternativa a quella dominante. Molti altri, nel suo quartiere, pensano invece che è meglio essere disonesti che poveri.
L’ideologia consumista non è però definitivamente sconfitta, inevitabilmente affiora (Rosario passa cinque ore al giorno di fronte al televisore…) e spesso si scontra con altri valori, sedimentati da generazioni:
“Mia moglie dovrà lavorare? Mai! Certo, se abbiamo bisogno…”
3.2.4. Antropologia
……………….
È vecchio di secoli, sa di polvere e di scirocco. Tutto è stato scalfito, è arrivato lo Stato unitario, il mercato, i consumi, le autostrade, la modernità e le sue contraddizioni.
Tutto è stato scalfito, tranne il secolare fatalismo siciliano.
“Bisogna accettare la vita per come viene”
“Secondo me nella vita c’è una linea da seguire, il maschio e la femmina, si accoppiano e fanno figli, si lavora, maschio e femmina, i figli si sposano, sempre così.”
Il fatalismo si accoppia col conservatorismo, la vita di Rosario è già tracciata nella sua mente, il progetto di vita è già deciso a priori: un caso estremo di etero-strutturazione.
Nel caso di Carlo, la vita non si accettava “per come veniva”: Carlo, lo abbiamo visto, è stato sconfitto: il fatalismo siciliano, vecchio di secoli, torna a trionfare.
La società contadina e popolare era essenzialmente irrazionale, magica e religiosa. Nello scontro con la cultura della modernità è stata sconfitta: la razionalità, vincendo, ha ridicolizzato la magia; la scienza ha battuto l’irrazionale. Ma la vittoria, è ovvio, non è mai totale: le permanenza culturali stanno appunto ad indicare che la vittoria non è stata completa. L’interesse di Rosario per la magia, l’occulto, l’irrazionale può appunto essere interpretato come una permanenza culturale della società contadina.
Ancora una permanenza culturale è rintracciabile nella ideologia maschilista: il rifiuto dell’emancipazione femminile (“sono assolutamente contrario alla donna che lavori” “la donna deve badare alla famiglia”) e il disprezzo per l’omosessualità. Naturalmente, rispetto al tradizionale virilismo siciliano, quello di Rosario è temperato da tre decenni di cultura della parità e dei diritti: i toni che riguardano gli omosessuali sono abbastanza sfumati (e questa è già una novità assoluta); il lavoro femminile è accettato, oltre che in caso di necessità, nell’ipotesi in cui non sia degradante.
Quando Rosario si riferisce alla distinzione tra destra e sinistra, afferma che quest’ultima “è più per la democrazia”.
Occorre capire che l’idea di democrazia diffusa nei quartieri popolari è ben diversa da quella che si intende altrove: “democrazia” indica il regime in cui essi hanno vissuto dopo la caduta del fascismo, si riferisce più alla Democrazia cristiana (intesa come partito-Stato) che alla sovranità (alla partecipazione) popolare, del resto ampiamente sconosciute e mai sperimentate.
3.2.5. Struttura sociale
……………………
Come hai trovato lavoro?
“[…] il benzinaio con mio padre che conosceva questa persona qua.
Nella ferramenta un amico mio che ci lavorava
prima di me e quindi mi ha fatto entrare. A corriere, a
portare medicine, tramite un amico mio che conosceva questa
persona qua”.
C’è poco da aggiungere, la descrizione rende bene l’idea delle reti parentali e di amicizia che permettono l’accesso al lavoro. Con un vantaggio e molti svantaggi.
Se vieni assunto per amicizia, per rispetto, perché altrimenti il richiedente “si offende”, puoi trovare lavoro anche quando non c’è, nel senso che vieni assunto da chi magari non ha bisogno di altra manodopera. Anche le condizioni (contributi, sicurezza) non dipendono solo dalle esigenze dell’imprenditore ma anche da altri fattori.
Gli aspetti negativi sono numerosi:
– “se non conosci nessuno, se non hai la spinta, che fai, muori di fame?”
– se, come spesso avviene, il territorio è controllato da un boss e da una cosca criminale, questa utilizza la “sistemazione” di altre persone come mezzo per accrescere il proprio potere, ottenere riconoscenza, creare rapporti con imprenditori;
– l’assunzione si basa sul rapporto di scambio: io faccio un favore a te, tu a me. Questo crea una rete di dipendenze che blocca la società e cancella il conflitto, specie se la riconoscenza è dovuta ad una persona posta in posizione asimmetrica (il politico, l’imprenditore, il boss);
– – diretta conseguenza del ‘do ut des’ è la solidarietà verticale. Se sei assunto per “favore”, non puoi certo pretendere di lavorare regolarmente, di avere i contributi, di lavorare in condizioni di sicurezza; e meno che mai puoi scioperare, parlare male del proprietario, non essergli riconoscente.
E come, io ti ho assunto, e tu così mi ringrazi?
Per cui qui l’imprenditore non si chiama “padrone”, come avviene dove esiste la lotta di classe e c’è il sindacato, ma “principale” (non è importante, come nel feudo, di chi sia la proprietà: quello che conta è chi comanda) oppure “donatore di lavoro”.
La struttura dei cantieri edilizi, per esempio, riproduce la tradizionale struttura del latifondo: la protezione della cosca, il pagamento del pizzo, le assunzioni regolate dai protettori, la conseguente mancanza di conflitto.
Se in Sicilia il lavoro è ‘travagghiu’ (travaglio), questo non è certo dovuto a pigrizia atavica, ma alla struttura sociale ed al peso della Storia.
Reti di amicizia basate sul rapporto di scambio, solidarietà verticale, uso strumentale della violenza. Sono queste le parole-chiave per rispondere alla domanda di Carlo (“perché non c’è sinistra nei quartieri popolari?”) e per interpretare le considerazione di Rosario, che non attribuisce nessuna colpa agli imprenditori e se la prende con lo Stato, nonostante ammetta di essere stato sfruttato, quando lavorava alla ferramenta.
Il sistema politico funziona alla stessa maniera: i voti si scambiano. Durante il periodo elettorale si apre un mercato dei voti. Così funziona il sistema di riproduzione sociale allargata (v. par. 3.2.5), per il quale la maggioranza ha votato anche nelle più recenti elezioni siciliane. Nelle aree in cui è presente un gruppo mafioso, questo funziona da collettore dei voti, legittimandosi sia agli occhi del politico che nel quartiere. Si crea così una struttura triangolare che è la vera base del fenomeno mafioso.
Politico (P) – Imprenditore (I) – Mafioso (M)
M P
………………………………………………………..
-> voti, gestione del consenso
<- protezione (leggi favorevoli, interventi nei processi, etc.)
I M
………………………………………………………………
-> sub-appalto, sub-contratto, partecipazione azionaria
<- denaro da riciclare, controllo e selezione del lavoro, “guardanìa”
P I
…………………………………………
-> assegnazione di appalti
<- tangenti
Lo schema, anche se ridotto all’essenziale (esiste una molteplicità di rapporti che investono più componenti sociali; i ruoli possono essere sovrapposti o diversificati; etc.) rende l’idea della complessità del sistema mafioso che soffoca il Meridione.
Ha anche il merito di mostrare le diverse componenti del sistema, appartenenti a gruppi sociali diversi. Questo elemento evidenzia una impostazione ‘classista’ nella percezione del fenomeno mafioso.
I settori ‘altolocati’ pongono l’accento sulla mafia delle periferie, quelle in cui si talvolta si costituiscono centri d’intervento per salvare i giovani “a rischio”. La stampa borghese si entusiasma per gli arrestati del “braccio militare” (la manovalanza), ma è molto più cauta (alcuni decisamente contrari) quando si indaga sulle banche, sulla massoneria, sui politici collusi.
Il punto di vista nelle periferie è specularmente opposto:
“La mafia secondo me è Stato, politica; metti politica-Stato-mafia, c’è tutto un collegamento, come un ponte. Soltanto che lo Stato, cioè i personaggi dello Stato sono tutelati. La gente pensa che quello che spaccia è mafioso. No: è sbagliato, la mafia è Stato, dove c’è giro di soldi è mafia e chiaramente tu hai visto le tangenti, quelle cose, là è mafia. Che si fanno sempre sulla gente povera. E chi la prende nel culo – scusando la frase – è sempre la gente povera, gli operai e i pensionati. […]
Mah, nel quartiere non è che ci sia mafia, c’è quello che si sente malandrino, ma se trova la persona giusta gli finisce questa cosa qua. […] Se i malandrini spacciano ? Dici i ragazzi, no i malandrini. Tu dici quelli che fanno gli scaltri? Chiaramente sì. […] La mafia – come posso dire – mafia può essere Stato e mafia, può essere ospedale e mafia, ditta e mafia, per dire.
Ditta? Ad esempio, magari un politico… c’è un mafioso che ha una ditta, il politico gli dà magari un appalto in una zona a quello là perché sa che è magari c’è un giro di tangenti, di cose, e questa qua è sempre mafia, è tutto un giro che non finisce mai”.
Due voci, una nelle periferie ed una nel centro, reciprocamente si accusano: “la mafia siete voi”.
3.2.6. Modello di gestione della crisi permanente
………………………………………….
………………………………………………………………
fattori psicologici
– identità: nazionalismo, fascismo, sicilianismo
– etero/colpevolizzazione: stato, politici
– autostima: illusione dell’indipendenza
………………………………………………………………
fattori strutturali
– cura, emergenze e riproduzione: famiglia
– lavoro: rete basata sullo scambio
– economia: riproduzione sociale allargata
– sopravvivenza: gestione della violenza
………………………………………………………………
La società di Rosario è un mondo in piena crisi (“Il futuro? Fine del mondo”). La descrizione apocalittica (“guerre, violenze, stupri, tutto quello che sta succedendo”) è tipica del punto di vista di chi è stato sconfitto. L’allegria di Rosario (“sono un ragazzo allegro, il jolly del gruppo”) è una felicità televisiva, costruita, dietro cui si nasconde un pessimismo cosmico.
La società delle periferie proviene dal mondo contadino, che aveva un’identità e una cultura forte, sconfitta dalla modernità. Non possiede i mezzi per raggiungere i fini che il nuovo mondo richiede (lavorare per consumare). Si trova in una situazione di crisi permanente. A differenza di altre realtà, le periferie messinesi non hanno cercato di uscire dalla crisi, bensì si sono ridotti a gestirla.
Dal punto di vista psicologico, le ideologie nazionalista, fascista e/o sicilianista danno un’identità relativamente forte, per i motivi già espressi.
Altro strumento di identità è l’etero/colpevolizzazione dello Stato e della politica: uno strumento comodo, efficace, tranquillizzante: sfida il principio di non-contraddizione (“i vigili sono al bar a non fare niente, ma anche in strada a creare più casino”: qualunque cosa faccia, lo Stato è sempre in colpa).
Se poi questo non basta ad assicurare l’autostima, c’è sempre l’illusione (in termini freudiani: “negazione”, nel senso di autopoiesi della realtà): Rosario, per esempio, dice di essere indipendente, di amare l’indipendenza, anche se poi la realtà e diversa.
Infatti, la famiglia – come abbiamo visto – è un indispensabile strumento di sopravvivenza, che assolve a compiti fondamentali. Lo stesso accesso al lavoro avviene attraverso reti parentali e di amicizia.
Le stessi reti hanno un ruolo politico-economico, attraverso lo scambio tra voto e flusso di denaro pubblico. Senza questo sistema di protezione, oggi fortemente in discussione, la situazione di Camaro sarebbe molto simile a quella di una favelas brasiliana.
L’interazione col centro (politici, imprenditori) si basa anch’essa sul rapporto di scambio.
Un sistema così può garantirsi la sopravvivenza solo
comportandosi in maniera diversa per ciò che riguarda le risorse: qui la riproduzione deve essere “allargata”, i soggetti al potere devono cioè redistribuire quote di risorse, per evitare la fine del consenso di cui godono.
Ed allora: al centro un nucleo forte, un’oligarchia organizzata in strutture rigide (famiglie, logge, club service…) che gestisce il potere (economico, politico, universitario…) come fosse, appunto, una questione di
famiglia. Le risorse che il centro gestisce sono poi redistribuite: ovviamente la quota maggiore rimane al centro, ma il sistema garantisce una certa soddisfazione diffusa.
Solo così si spiega l’assenza totale del conflitto sociale in una città con altissimi tassi di disoccupazione (in particolare giovanile e femminile). Così si potrebbe spiegare il livello dei consumi in presenza di alti tassi di
disoccupazione e di bassi livelli di redditi (il lavoro nero è una spiegazione parziale).
La stessa organizzazione urbanistica è divisa in maniera rigida con quartieri residenziali per l’alta borghesia e periferie dove ancora resistono le baracche del dopo-terremoto.
L’effetto di tutto questo? Clientelismo come pratica normale, pacchetti di voti, presenza di soli rapporti
strumentali e quasi assenza di rapporti affettivi, morte civile, rapporti di lavoro ed assunzioni legati ad appartenenze…
Le risorse da redistribuire provengono prevalentemente dai flussi di denaro pubblico e spesso dai proventi delle attività criminali e illegali. Ciò è abbastanza ovvio, in una società costituzionalmente riproduttiva, in quanto non esistono le attività di produzione (industria, agricoltura, …). Una società che non produce e che ha come obiettivo quello di rimanere in vita: appunto, riprodursi.
La finalità riproduttiva di questa società, del resto, è lucidamente descritta da Rosario: “maschio e femmina si sposano, fanno figli, sempre così…”. Niente altro.
L’ultimo elemento strutturale riguarda l’economia criminale e la gestione della violenza: in questo caso, le risorse vengono reperite per via illegale e violenta.
4 . C o n f r o n t o
4.1. Origine sociale
………………..
Il confronto tra le due interviste deve tenere conto dei due momenti che Carlo attraversa (l’utopia dei vent’anni e la successiva sconfitta).
Per entrambi i primi venti anni trascorrono in un quartiere popolare: Carlo ne esce, mentre per Rosario non vi sono prospettive di uscita, anzi è lui stesso che sembra immaginare la sua vita nel luogo in cui è nato.
Le motivazioni sono diverse e di carattere strutturale :
– gli anni ’60-’70-’80 sono stati un periodo di forte mobilità sociale, generalmente le generazioni di quegli anni hanno titoli di studio superiori a quelle dei genitori.
– attualmente, anche a causa della crisi del ruolo dello Stato, il processo si è invertito: per chi nasce in periferia è sempre più difficile lasciare il posto in cui si è nati (v. i paragrafi su scuola e lavoro del cap.3).
4.2. Utopia e fatalismo
…………………..
I vent’anni del primo intervistato erano contrassegnati dall’utopia (v. paragrafo “antropologia di un decennio”), quelli del secondo sono pieni di rassegnazione e pessimismo (vedi par. “antropologia” del cap. 3). Uno dei percorsi più interessanti dell’intero lavoro riguarda il fatalismo: all’inizio si confronta duramente nelle figure del padre e della madre di Carlo, quindi in lui, mediante uno scontro ampiamente descritto nell’Analisi del cap.2. Il fenomeno macro-sociale di sconfitta dell’utopia di rinnovamento si ripercuote in Carlo, già predisposto alla sconfitta: il fatalismo sembra vincere, una vittoria simboleggiata dalla fase di etero/strutturazione che Carlo attualmente vive.
La vita di Rosario, la sua mentalità, sono invece intrise di fatalismo sin dall’inizio. Sembrano suggerire un percorso storico del Sud, scosso da venti di cambiamento, ma tornato rapidamente nel suo “sonno eterno” (quello del dialogo tra Chevalley e il principe di Salina, nel Gattopardo).
4.3. Televisione
…………….
Questo schema,
Carlo prima fase |
utopia (auto/strutturazione) |
Carlo seconda fase |
Fatalismo (etero/strutturazione) |
Rosario |
fatalismo (etero/strutturazione) |
trova conferma anche nel ruolo che la televisione ha nei rispettivi percorsi biografici. Per Carlo, da bambino, la televisione è una scoperta fantastica, ma da guardare poco e con distacco; aveva ancora un ruolo il cantastorie, e la tv non era onnipresente. Adesso, invece, Rosario la guarda anche “quando non [ha] voglia di pensare”.
Sul ruolo della tv nella vita di Rosario (5 ore al giorno, tutti i giorni) si è ampiamente detto nel par. sulla Socializzazione.
4.4. Rapporto col femminile
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Ancora un elemento in comune: il rapporto con l’altro sesso. Per entrambi c’è una visione “disimpegnata”, vedono il pericolo di farsi coinvolgere emotivamente e poi pagarne il prezzo (esperienza già vissuta per il primo, potenziale per il secondo).
- “Non prenderle sul serio è stato fondamentale”
- “Se uno le tratta bene, ti trattano male loro [e viceversa]”
Si arriva ad una “filosofia” analoga, fatta di distacco e noncuranza. Anche risultati sono analoghi: l’incapacità di costruire rapporti stabili, anche se accompagnata alla soddisfazione (“sto meglio rispetto ai vent’anni”, “mi sono trovato sempre bene così”).
Anche in questo caso sono morte almeno due utopie (nel caso di Rosario, non sono mai nate):
– l’amore romantico, coinvolgente, ma anche gratificante: quello da romanzo ottocentesco;
– l’amore libero, felice, aperto: quello da “eros alato” della Kollontaj, delle utopie del privato anni ’70.
4.5. Come cambia il gruppo
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Continuiamo questa lunga serie di fallimenti con la metamorfosi del gruppo: per Carlo (prima fase) era una dimensione fondamentale, luogo di socializzazione e realizzazione, in molti casi sostitutivo della famiglia, descritto con superlativi che tradiscono grandi rimpianti:
“facevamo tutto assieme, era tutto molto bello”.
Il gruppo di Rosario serve soprattutto ad organizzare il godimento dei consumi: uscire il sabato per andare a ballare “dove si paga poco”, etc. C’è una importante eccezione, che vediamo subito.
4.6. La musica
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È la musica ad interrompere la serie dei fallimenti: per Carlo era qualcosa di fondamentale, che gli dava un’identità, lui insieme ad altri. Ascoltavano ritmi sovversivi (il rock che scuoteva la tradizionale melodia italiana) e le parole della contestazione, quelle dei cantautori.
La musica – quella di qualità contrapposta a quella di consumo – rimane una permanenza di quegli anni: ed ancora è capace di innovarsi e dare una nuova visione del mondo: la musica “contaminata” (world music) è figlia delle migrazioni di fine millennio, della scoperta di culture altre e dimenticate.
Rosario vive certamente nel mondo della musica commerciale, ma con due importanti eccezioni:
– intanto, apprezza le canzoni melodiche, diretta discendenza della musica popolare italiana (figlia di Verdi e della canzone napoletana), anche se nella versione involgarita della musica di consumo; rimane comunque relativamente immune dall’omologazione del pop di stampo anglosassone, che negli anni ’80 sembrava dominante al punto da omologare tutti i gusti musicali.
– apprezza e prova ad imitare il rap delle ‘possè, prova cioè a cantare un testo su una base pre-registrata.
Questo è elemento è importantissimo: si tratta dell’unico in controtendenza. Infatti, Rosario – non consuma passivamente ma produce; non ascolta ma scrive; non assimila pensieri altrui ma pensa da solo.
– è raggiunto dall’unico elemento di anomalia che è riuscito a penetrare nel quartiere, e cioè la moda delle ‘possè.
Questo dimostra che un elemento forte degli anni ’90, nel mondo della sinistra, è stata la presenza dei centri sociali autogestiti, in grado attraverso il messaggio musicale di arrivare in luoghi solitamente impermeabili alla controcultura.
È ovvio che il messaggio (non potendo contare sui media) è arrivato confuso, vago, debole: ed infatti gli unici risultati che produce riguardano l’abbigliamento (“mi vesto stile sinistra”) e la pratica del rap, mentre i contenuti sono inesistenti.
Ma si tratta di un segnale, importante appunto perché è l’unico in controtendenza.
4.7. Fine: l’utopia morta, la gestione della crisi
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A questo punto, richiamando quanto detto fin qui, è facile costruire un percorso unitario basato sugli intervistati:
– come casi emblematici e relativamente rappresentativi;
– come “fornitori” di spunti per l’approfondimento di tematiche che, di volta in volta, si presentavano all’attenzione.
L’ipotesi finale, riferita all’area dello Stretto e non solo, si può riassumere così: l’utopia è morta, non resta che gestire la crisi permanente.
Occorre ribadire, come si vede nel cap.2, che l’utopia è morta sul nascere: anzi, è stata uccisa da due fattori convergenti:
- La famiglia, la cultura, la società delle reti di relazione basate sul rapporto di scambio: tutti i fattori di conservazione che la società siciliana possiede, la cui azione è bene esemplificata dalla biografia di Carlo (tra l’anomalia e il cordone ombelicale, ha vinto quest’ultimo).
- La repressione militare: è stata svolta ovviamente dalle forze di polizia, ma non solo; la città di Messina presenta infatti una specificità unica rispetto ad altre zone: l’utopia è stata soffocata sul nascere attraverso una invasione mafiosa e fascista (v. par. “Messina anni ’70”).
Gli effetti sono ancora presenti, e lo saranno anche in futuro (v. analisi cap. 3, par. “Struttura sociale”). Il risultato è stato l'”urbicidio”: una realtà urbana morta, ridotta a gestire – in permanenza – la sua crisi.
Bibliografia
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Il Mulino, Bologna.
1986 D. Levinson
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- Saraceno (a cura di),
Età e corso della vita,
Il Mulino, Bologna.
1966 George Orwell
Fiorirà l’aspidistria,
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1979 Leonardo Sciascia
La Sicilia come metafora,
Mondadori, Milano.
1983 L. Sciolla
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Complessità sociale e identità,
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1983 V. Seitler
Riscoprire la mascolinità,
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Interviste realizzate nel giugno 1996. Revisione e adattamento, novembre 2004