La lotteria. Dentro le commissioni asilo

Scenery of Lithuanian Village | Pranas Domsaitis © CC
  Nel 2016 cento persone ne hanno giudicate centomila. Alcuni membri delle commissioni interne si sentono la personificazione della "frontiera interna", l'ultimo baluardo contro quelli che "vengono a prenderci in giro". Ma un diniegato è sempre un finto profugo? E un migrante senza documenti che fine fa?
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Ellis Island, New York. Primi anni del ‘900. Un gioco, domande in inglese, test di intelligenza. Un compito esaminatore scuote la testa e respinge un’anziana contadina siciliana.
La donna protesta: “Voi decidete chi entra e chi no? E chi siete, Domeneddio?”

[piena src=”/wp-content/uploads/2017/05/urn-gvn-SFA03-SFA022818944-large.jpeg” alt=”Ellis Island”]

È una scena di “Nuovomondo”, film di Emanuele Crialese. Gli USA di cento anni fa – imbevuti di positivismo – selezionavano sani e intelligenti. Oggi l’Europa garantisce l’ingresso in base a una curiosa priorità della sciagura. In cima ci sono le guerre e le condanne a morte, in fondo epidemie e fame.

Venuto in Italia per…

“Queste sono cose vere, non sono parole di carta” – Nuovomondo

Chi riesce ad arrivare in Italia evita la clandestinità solo chiedendo asilo. Di fatto, non esistono canali legali di ingresso. L’Unione Europea ha imposto l’“approccio hotspot” per scremare subito chi ha diritto a restare e chi no. Al momento, il metodo è naif. Una crocetta su una fotocopia A4.

 


Uno dei moduli usati negli hotspot

Il documento si intitola “Venuto in Italia per:”. Occorre scegliere tra “lavoro”, “raggiungere i familiari”, “fuggire dalla povertà”, “asilo”, “altri motivi”.

Avete già capito che “asilo” è la risposta giusta per evitare il respingimento. Chi prosegue questo gioco dell’oca finisce in un “Cas” (centro di emergenza) oppure un “Cara”, centri più grandi gestiti dallo Stato.

Passano mesi. Presenti domanda col modulo C3 e aspetti. La questura di Catania, per esempio, non rilascia ricevute e quindi il richiedente non ha certezza della data. “Eat and sleep, eat and sleep”, si lamenta un nigeriano in attesa. Si può aspettare fino a un anno. Cosa? Il momento che deciderà della tua vita. L’audizione con la commissione.

Le commissioni

“Su questa terra il peccato che paga può andare in ogni luogo e senza passaporti, mentre la Virtù, se è povera, viene fermate a tutte le frontiere!” – Hermann Melville, Moby Dick

Un funzionario di prefettura, uno di polizia, un delegato degli enti locali e uno dell’Unhcr. Poi un interprete, spesso decisivo se il colloquio si svolge in un dialetto che non nessuno comprende. L’intervista – quasi sempre – è condotta da un solo membro, ma nel verbale non è indicato. L’interprete è identificato con le iniziali.

Fino al 2013 fa le commissioni erano appena dieci, poi sono raddoppiate. In pratica, nel 2016, circa 150 persone hanno giudicato 123600 richiedenti. L’asilo è un preciso obbligo internazionale, non un atto di bontà. Nel 1951, decine di nazioni che uscivano dalla Seconda Guerra Mondiale firmarono la convenzione di Ginevra, impegnandosi ad aprire le proprie frontiere a chi fugge da persecuzioni.

[piena src=”https://c1.staticflickr.com/3/2487/3698619018_7096bbc424_o.jpg” alt=”Profughi afghani”]

Come funziona oggi questo meccanismo che decide del destino di essere umani scampati a conflitti e naufragi? Per capirlo abbiamo intervistato membri di commissione, richiedenti asilo, avvocati e volontari di associazioni. Abbiamo analizzato centinaia di verbali e sentenze. Il risultato? Una lotteria. Che, come tutte le lotterie, può essere truccata.

L’interrogatorio

“Ecco: ci sono domande che diventano risposte” – Max Ophuls, Lola Montès

E. ha studiato e vuole fare il meccanico. “È un lavoro da uomo” dice, ma Addis Abeba è una città piena di gente emancipata. Nel 2010 lascia la Somalia e arriva in Etiopia, dove sposa un uomo col matrimonio tradizionale. E tradizionale è pure la famiglia etiope di lui, che non l’accetta.

Paga anche il clima di guerra fredda tra i due paesi: per gli etiopi è una spia eritrea. Non può proseguire gli studi né lavorare. Non è la vita che sognava. Decide di partire e raggiungere la sorella in Sudan. Il marito è indeciso: ha problemi di salute e non se la sente di lasciare il paese.

Non riesco a capire, perché ha lasciato suo marito?

A Khartoum il marito della sorella la violenta. Ha paura di rivolgersi alla polizia. Lui la terrorizza. “Se avessi parlato, mi avrebbe ucciso”. Scappa dal Sudan e si rifugia in Libia.

In una stanza di Ragusa E. sta raccontando la sua storia alla Commissione asilo. Il suo intervistatore inizia a dubitare. Perché ha lasciato il Sudan? Khartoum è una città molto grande. Poteva semplicemente cambiare quartiere.

L’intervista adesso è un interrogatorio. “Non riesco a capire, perché ha lasciato suo marito dopo pochi mesi di matrimonio? Perché non si è sposata ufficialmente prendendo la cittadinanza etiope? Perché non conosce i motivi dell’arresto della madre? In Etiopia la consideravano una spia? E quindi che problema c’era?”

Dalla Somalia alla Sicilia

Neppure il racconto degli altri stupri subiti in Libia (dal padrone di casa dove lavorava come domestica e dai trafficanti) cambiano il tono dell’intervista, se non per il consiglio di fare visite mediche.

[piena src=”https://c1.staticflickr.com/3/2828/8972220637_f12d6da5d6_b.jpg” alt=”Profughi in viaggio”]

Le linee guida Unhcr sulle audizioni consigliano un tono rassicurante. Qui abbiamo di fronte un vero interrogatorio di polizia:

– Perché non è rimasta in Libia? – Sono stata violentata da uno dei trafficanti, in quel paese non c’è libertà per le donne.

– È la prima volta che ha chiesto asilo? – Sì, in Sudan non l’ho fatto perché stavo da mia sorella. – Cosa c’entra il fatto che non ha chiesto asilo col fatto che stava da sua sorella?

– Mia sorella è stata arrestata in Sudan, faceva da tramite, raccoglieva soldi che poi mandava in Eritrea – Non capisco perché qualcuno dovrebbe dare soldi a un estraneo. Non mi nasconde qualcosa?

E. arriva finalmente ad Agrigento nel 2013. Un anno dopo la commissione non la riconosce come rifugiata. Ci vorranno due anni ancora perché il tribunale ribalti la decisione.

L’errore copia-incolla

“Quantu fummu nni sti cammari / cu li pinzeri orbi / ca truzzano ai li mura / e restano mpinnulati a lu tettu” – “Quanto fumo in queste camere/ con i pensieri orbi /che cozzano ai muri / e restano appiccicati ai soffitti” – Ignazio Buttitta, Li vuci di l’ommini

Gambia, agosto 2013. Un uomo denuncia alla polizia che il fratellastro ha violentato la sorella. In quel paese non è facile denunciare un militare. E infatti non gli credono. Gli amici del fratello lo minacciano di morte.

Senza parenti e senza protezione, non gli resta che la fuga. Dopo aver attraversato il Senegal, la Mauritania, il Mali, l’Algeria riesce a imbarcarsi dalla Libia all’Italia.

È solo l’inizio della sua odissea. Per un “clamoroso errore di copia – incolla nella stesura della motivazione” la commissione territoriale gli nega l’asilo. Infatti nel testo si parla di un cittadino del Bangladesh. Hanno incollato la motivazione di un altro.

Il giudice finalmente concede lo status di rifugiato e riconosce “la grave situazione in cui versa il Gambia – nell’ambito del quale deve quindi essere calata la situazione personale del ricorrente”. In quel paese la sua vita sarebbe in serio pericolo.

Per un clamoroso errore di copia-incolla, ha perso un anno della sua vita

Ci è voluto tutto il 2016, da gennaio a ottobre, per arrivare a questa sentenza. In totale, tre anni bruciati per scappare e per aspettare.

Gli errori come questo sono abbastanza frequenti, specie da quando i numeri sono aumentati. E dimostrano che il verbale finale non viene letto per intero, come invece prevede la legge.

Integrato

“A quale Dio piaceremo così come siamo?” – Scritta sul muro della parrocchia di un quartiere periferico a Messina

I. è pronto per l’intervista. In un’ora spiega che il padre faceva politica in Costa d’Avorio, nel paese devastato dalla guerra; che è stato ucciso dai sostenitori dell’ex presidente; che tornando lì rischierebbe la vita; infine, che ci sono aree ancora in conflitto, di cui non si parla.

La commissione non gli crede. Citando qualche sito web dice che la guerra è ormai finita. Il suo destino sembra segnato. Tra lui e l’espulsione imminente c’è solo un’ultima domanda. Frequenta corsi? Questa volta non risponde in dialetto djoula, ma in italiano. È la sua salvezza. Tutto il resto viene rigettato, ma i “positivi segnali d’integrazione” gli valgono un permesso umanitario.

Rispondendo in italiano e non in djoula, I. si salva

L’integrazione è un criterio tanto soggettivo quanto diffuso. Non c’entra nulla con le norme internazionali con l’asilo ma piace sempre più sia ai Tribunali che alle commissioni.

[piena src=”https://c1.staticflickr.com/3/2656/4192917417_099ca276d9_b.jpg” alt=”Gambiani in partenza @ Nacho Fradejas Garcia © Flickr CC”]

Il criterio dell’integrazione aumenta il carattere di lotteria delle commissioni. Se ti sbattono in un Cas improvvisato in aperta campagna, non avrai accesso neppure al corso d’italiano. Se finisci in una buona struttura, avrai buone opportunità.

Vladimir, per esempio, pur scappando dalla guerra ucraina vive in una bella casa (“un appartamento idoneo”) e la madre ormai parla italiano. Che abbia fatto politica nel suo paese fino a rischiare la pelle conta infinitamente meno.

Equilibri

In questa lotteria anche una sola frase può essere decisiva. Per esempio: mai sbagliare la domanda-chiave: “Cosa teme tornando al suo paese?”. Un nigeriano risponde: “Non so cosa potrebbe accadermi”. E si auto-condanna all’espulsione. È una risposta sincera e sensata: “cosa potrebbe accadere” dovrebbe essere dedotto dalla storia e non dalle sensazioni dell’intervistato.

Poi ci sono le decisioni già prese. Lo schema è questo: se la tua storia è credibile, allora il tuo paese è sicuro. Se il tuo paese è pericoloso, allora la tua storia è contraddittoria. Le commissioni territoriali ricordano quelle dei concorsi universitari. Equilibrismi verbali per nascondere quello che è già stabilito.

Se la tua storia è credibile il tuo paese è sicuro. Se il tuo paese è in guerra, la tua storia non è credibile

Se la tua storia è lineare e credibile, possiamo dare un ugualmente un diniego. Basta considerare sicura anche la Libia in fiamme del post-Gheddafi, le zone curde militarizzate dai turchi e la Costa d’Avorio in guerra. Sono tutti casi realmente accaduti.


Arrivi in Italia. Confronto 2016-2017 tra principali nazionalità

Se vieni da un paese in conflitto possiamo notare che la tua storia è piena di contraddizioni. Per esempio “il viaggio in Algeria non è credibile perché non ricordi i paesi che hai attraversato”. Oppure “non puoi aver lasciato tuo marito dopo tre mesi di matrimonio”.

Nel caso di una nigeriana, invece, contraddizioni e omissioni sono accettate, perché – secondo il giudice – in quel caso dipendono dal timore di subire vendette. Ovviamente, cambia tutto quando l’interrogato è assistito da un legale o un’associazione, specie per le vittime di tratta.

Ha avuto altre donne prima di sua moglie?

Poi c’è il sospetto sulle storie prese in rete. Anche qui l’interpretazione è libera. Se su “Internet non risulta”, per molte commissioni questa è una prova sufficiente di menzogne. Ma può valere anche il contrario. “La tua storia l’abbiamo trovata su Internet, quindi l’hai presa da lì”, dicono a un richiedente ucraino.

Poi ci sono i casi che non combaciano col diritto. N. è vittima di una faida in Pakistan. In questo caso le linee guida delle Nazioni Unite dicono che si tratta di un rifugiato. Tuttavia, nota con sottigliezza la commissione, non si può parlare di faida perché non è un’intera famiglia a volerlo morto ma un singolo membro.

Altre donne

Il Tribunale di Roma, per scoprire se in Turchia c’era la guerra, ha fatto una ricerca su Wikipedia (trascrivendolo nella sentenza). Commissari e giudici citano abitualmente “Viaggiare sicuri”, il portale degli Esteri dedicato ai turisti italiani. C’è chi ha aspettato due anni in un centro sperduto nel nulla per poi essere liquidato in mezz’ora di colloquio. Al contrario, in un altro caso, quattro ore di intervista sono state verbalizzate in due paginette. La commissione di Roma in pochi mesi ha analizzato 1200 domande.

[piena src=”https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/5/52/20151030_Syrians_and_Iraq_refugees_arrive_at_Skala_Sykamias_Lesvos_Greece_2.jpg/1600px-20151030_Syrians_and_Iraq_refugees_arrive_at_Skala_Sykamias_Lesvos_Greece_2.jpg” alt=”Rifugiati da Siria e Iraq arrivano in Grecia © Wikicommons”]

C’è chi ama le domande fuori contesto: “Ha avuto altre donne prima di sua moglie?”, “Perché è andato a vivere da solo?”. Oppure: se sua padre era benestante, perché non l’ha fatta studiare?

Una donna ha appena raccontato una storia spaventosa. I terroristi di Al Shabab hanno ucciso una collega nello spiazzo di un supermarket, davanti ai suoi occhi. Domanda: esistono posti sicuri in Somalia?

Il quiz

I profughi dell’Africa occidentale si lasciano alle spalle epidemie e conflitti inter-etnici. Per loro la diffidenza è fortissima. C’è chi si sente dire: “Puoi ritornare al tuo paese, temi solo l’Ebola”. Oppure: se tua moglie vive ancora lì, allora il tuo paese è sicuro.

Puoi ritornare al tuo paese, temi solo l’Ebola

P. ha visto il fratello morire sotto i colpi dei ribelli in Mali. Fuggito dal colpo di Stato, ha superato nell’ordine i militari a caccia di disertori, il deserto algerino, il braccio di mare assassino che lo separava dall’Europa. Non aveva previsto l’ultimo ostacolo: i quiz della commissione.

“Come si chiama lo stadio di Goa?” “Non lo so”. “E il ponte sul fiume” “Non lo so”. “E il fiume?” “Niger”.

P. qualifica lo stadio come “municipale”, il nome proprio non lo ricorda, ammesso che lo stadio ne abbia uno. In realtà è un rudere diventato famoso per una foto artistica che ritrae i bambini che ci giocano sul tetto.

[piena src=”https://c2.staticflickr.com/4/3223/2765586797_4091133da2_b.jpg” alt=”Campagne del Mali”]

Il commissario si fida sempre meno. “Quali sono i nomi dei paesi che ha incontrato per andare in Algeria?” “Non so, erano località piccolissime”. Arriva il diniego, soltanto “i positivi segnali di integrazione” lo salvano dall’espulsione e gli consegnano un permesso temporaneo.

La lotteria truccata

Solitamente le domande vertono sul soggetto e sulla sua credibilità e non sull’oggetto, cioè la persecuzione subita. Per esempio, se dichiari di essere omosessuale occorre verificare “il fondato timore di essere perseguitato”; non bisogna fare domande a raffica per scoprire se sei davvero omosessuale.

Cosa si dovrebbe giudicare? Il fondato timore di subire persecuzioni nel paese di origine. Cosa si giudica? La sincerità dell’intervistato

“Lo stesso caso può essere presentato in quattro diverse commissioni e può ottenere quattro diversi risultati” dice Bruce Leimsidor, esperto di diritto d’asilo all’Università di Venezia intervistato dal New York Times. In parole povere è una lotteria. Ma le lotterie possono anche essere truccate.

Dove sono “insediate” le commissioni? In caserme, Cara e prefetture. I presidenti delle commissioni sono tipicamente viceprefetti. Il governo mantiene il controllo della situazione, due uomini su quattro sono “governativi”. Si concede lo status di rifugiato (massima protezione) nel 5% dei casi. Nel 60% abbiamo un diniego. In pochi anni sono quasi raddoppiati, dal 35% del 2013 al 60% attuale.

Dal diniego capiamo che si tratta di finti profughi?
Secondo il prefetto Angelo Trovato, presidente della Commissione nazionale asilo, nel 2014 il 65% dei diniegati ha presentato ricorso. E nel 75% dei casi ha vinto. In tre casi su quattro, dunque, la magistratura ribalta le decisioni delle commissioni.

A casa loro

Negli ultimi anni la prassi prevedeva una protezione quasi “automatica” per chi proveniva da alcuni paesi (Eritrea, Sudan, …) e un altrettanto automatico diniego per altre aree (Nigeria, Egitto, etc.).

Il criterio non è corretto, perché secondo la Convenzione di Ginevra occorre giudicare la situazione dell’individuo e non quella del paese di provenienza. Ma adesso le maglie sembrano ulteriormente restringersi.

Molte commissioni sembrano influenzate dal senso comune (“sono finti profughi che vengono a prenderci in giro”). Il tono inquisitorio di molte audizioni indica che alcuni commissari si sentono “frontiera interna”, ultimo baluardo contro “l’invasione”.

Ma anche questa è un’illusione. Dopo il diniego non avviene quello che si augura parte dell’opinione pubblica (“mandiamoli a casa loro”). Vediamo un esempio.

Il diritto etnico

Il decreto Minniti – Orlando affronta il problema dei tribunali intasati cancellando il ricorso in appello. Si potrà ricorrere solo in Cassazione entro 30 giorni. “Sono norme manifesto di nessuna utilità pratica che incidono solo nel creare marginalizzazione sociale e costi per un sistema giudiziario già precario”, dichiara Lorenzo Trucco, presidente di Asgi. Si crea un “diritto processuale civile speciale” basato sulla nazionalità. Ventisei nuove sezioni si occuperanno di quasi tutti i temi legati all’immigrazione, dall’asilo ai permessi di soggiorno.

Alcune norme sembrano complicate da applicare. Per esempio, la videoregistrazione: due-tre ore di audizione da inviare ai giudici in caso di ricorso. Infine, i responsabili dei centri di accoglienza diventano “pubblici ufficiali”. Dovranno gestire le notifiche giudiziarie ai richiedenti asilo. Una norma che ha già suscitato la protesta degli operatori.

Cosa succede dopo il diniego?

G. viene dal Gambia. È stato salvato al largo della Libia e trasportato nel porto di Pozzallo. Quindi il trasferimento in un Cas siciliano in aperta campagna. Qui non ha avuto nessuna assistenza legale o medica. Soffre di problemi mentali gravi, ha subito torture in Libia e ogni notte urla per gli incubi: i suoi carcerieri ritornano ogni notte. Era prigioniero degli Asma Boys, bande di libici che rapiscono i neri e li tengono prigionieri finché non pagano un riscatto. Dove trovano i soldi? Se i familiari non li spediscono, lavorano gratis o si indebitano. Oppure rimangono rinchiusi in stanze sovraffollate in cui subiscono ogni genere di violenza.

O. guarda la campagna siciliana e vede se stesso come da una telecamera di sorveglianza. Soffre di sindrome di dissociazione perché vorrebbe allontanare per sempre tutto quello che ha sofferto.

In commissione non gli credono. Parla male l’inglese e per niente l’italiano. Sembra la solita storia confusa. Diniego totale. Fa ricorso; o piuttosto un avvocato gli fa firmare un foglio di cui non capisce l’importanza. Vorrebbe i documenti e andare via, abbandonare quel casolare dove gli danno pasti scandenti e una branda.


Simulazione del viaggio dall’Africa occidentale alla Sicilia

Anche il Tribunale boccia il suo ricorso. A questo punto dovrebbe lasciare l’Italia. Non ha più diritto all’accoglienza. E neppure ai documenti. Per la legge è un irregolare.

Dove finiscono quelli come G.? In strada. Solo una piccolissima percentuale viene “riportata al suo paese”, come vuole l’italiano da bar. Perché logisticamente è complesso organizzare i voli, perché è costoso e perché servono accordi di riammissione con ciascun paese. E serve che ciascun paese abbia voglia di applicarli.

[piena src=”https://c1.staticflickr.com/3/2805/13655188725_f135e6baee_b.jpg” alt=”Manifestazione a Washington contro le espulsioni © Flickr CC”]

In pratica i diniegati finiscono in strada. Non hanno accesso ai diritti (documenti, sanità, formazione) e non possono lavorare in regola. Se va bene, per così dire, G. finirà in un ghetto del Sud, in mano ai caporali. Oppure in una grande città, sempre più in basso nei gironi dell’illegalità in cui lo ha spinto lo Stato.

G. finisce a Milano, non ci sta con la testa e dorme in stazione. Ha preso un treno dalla Sicilia ed è alla ricerca di connazionali. Miracolosamente il controllore ha chiuso un occhio, ha avuto pietà del suo sguardo perso nel vuoto.
Un militare lo ferma fuori dalla stazione, sotto i colonnati della Centrale. G. ha paura, rivive quello che è successo in Libia, vede i fucili delle milizie. Come lui centinaia di diniegati scendono sempre più in basso. La gente li osserva con paura. Diventano la prova che “non è possibile accoglierli tutti”. Sono l’ultimo passaggio di un gioco dell’oca che produce emarginazione e poi ci specula sopra.

* Alcune circostanze e tutti i nomi sono stati modificati per proteggere l’identità dei richiedenti asilo

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