Migranti. I quiz della vergogna

Migranti. I quiz della vergogna

  Le commissioni per l’asilo decidono chi ha diritto a restare in Italia e chi no. Nel 2016, 150 persone ne hanno giudicate 120mila. Negli ultimi anni i dinieghi sono quasi raddoppiati. “Arrivano finti profughi”, dice il senso comune. Però le decisioni sono ribaltate dai Tribunali. Siamo entrati dentro le commissioni. E abbiamo visto come il diritto internazionale diventa una lotteria
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Pubblicato su l’Espresso

“Sei stata violentata? Perché hai cambiato paese e non quartiere?”. M. è una donna eritrea. Sta raccontando la sua storia alla commissione territoriale, una di quelle che decidono quali migranti possono restare e quali no. Ha studiato ad Addis Abeba, dove voleva fare il meccanico. “In quel paese si può fare un lavoro da uomo”, spiega. Nel 2010 sposa un etiope col matrimonio tradizionale. Ma tradizionale è pure la famiglia di lui, che la rifiuta. Per gli etiopi sarà sempre una spia eritrea. Non può proseguire gli studi né lavorare. Decide di partire e raggiungere la sorella in Sudan. Da sola. A Khartoum il cognato la violenta. “Se avessi parlato mi avrebbe ucciso”, dice. Ha paura di rivolgersi alla polizia e scappa in Libia.

Qui iniziano i dubbi del suo intervistatore. Perché ha lasciato il Sudan? Khartoum è molto grande. Poteva semplicemente cambiare quartiere. Perché ha deciso di cambiare nazione?

Le linee guida Unhcr consigliano un tono rassicurante e domande pertinenti. Invece l’audizione diventa un interrogatorio. “Non riesco a capire, perché ha lasciato suo marito dopo pochi mesi di matrimonio? Perché non si è sposata ufficialmente prendendo la cittadinanza etiope? Perché non conosce i motivi dell’arresto di sua madre? In Etiopia la consideravano una spia? E quindi che problema c’era?”.

La stupreranno anche il padrone di casa dove lavora come domestica e i trafficanti. Il tono dell’intervista non cambia: “Perché non è rimasta in Libia?”. M. arriva finalmente ad Agrigento nel 2013. Un anno dopo la commissione non la riconosce come rifugiata. Consiglia semplicemente di “fare visite mediche”. Ci vorranno due anni perché il tribunale ribalti la decisione.

Si tratta di un caso isolato? Non proprio. Siamo entrati nel mondo chiuso – e finora inesplorato – delle commissioni. Abbiamo letto centinaia di pagine di documenti ufficiali. È venuta fuori una lotteria: domande da telequiz, errori di copia-incolla, domande da inquisizione.

Le donne nigeriane sono spesso vittime di tratta. Le aspettano interrogazioni del tipo: “Anche oggi sono morte cento persone nel Canale di Sicilia, l’altra opzione era fare la prostituta in Libia. Capisce che non ha molto senso che è venuta in Italia solo perché glielo ha consigliato un uomo che conosceva da due mesi?”. Quelle del Corno d’Africa scappano da dittatori e guerre endemiche. Subiscono numerose violenze di ogni tipo prima di arrivare in Europa. Una donna ha visto una collega uccisa dai terroristi nello spiazzo di un supermarket. In commissione le chiedono: perché è venuta in Italia? “Non esistono posti sicuri in Somalia?”

Il quiz

I profughi dell’Africa occidentale si lasciano alle spalle epidemie e conflitti inter-etnici. Per loro la diffidenza è fortissima. C’è chi si sente dire: “Puoi ritornare al tuo paese, temi solo l’Ebola”. Oppure: se tua moglie vive ancora lì, allora il tuo paese è sicuro.

M. ha visto il fratello morire sotto i colpi dei ribelli in Mali. Fuggito dal colpo di Stato, ha superato nell’ordine i militari a caccia di disertori, il deserto algerino, il braccio di mare che lo separava dall’Europa. È un sopravvissuto. Ma non aveva previsto l’ultimo ostacolo, i quiz della commissione. “Come si chiama lo stadio di Goa?” “Non lo so”. “E il ponte sul fiume” “Non lo so”. “E il fiume?” “Niger”.

Il commissario si fida sempre meno. “Quali sono i nomi dei paesi che ha incontrato per andare in Algeria?” “Non so, erano località piccolissime”. Arriva il diniego, soltanto “i positivi segnali di integrazione” lo salvano dall’espulsione e gli consegnano un permesso temporaneo.

L’errore copia-incolla

Gambia, agosto 2013. Un uomo denuncia alla polizia che il fratellastro ha violentato la sorella. In quel paese non è facile denunciare un militare. E infatti non gli credono. Gli amici del fratello lo minacciano di morte. Senza parenti e senza protezione, scappa in Senegal, Mauritania, Mali e Algeria. Infine riesce a imbarcarsi dalla Libia all’Italia.

La sua odissea non è finita. Per un “clamoroso errore di copia – incolla nella stesura della motivazione”, la commissione territoriale gli nega l’asilo. Infatti nel testo si parla di un cittadino del Bangladesh. Hanno incollato la motivazione di un altro.

Il giudice, dopo dieci mesi, concede lo status di rifugiato e riconosce “la grave situazione in cui versa il Gambia”. Nel complesso, tre anni bruciati a scappare e aspettare.

Il grado di integrazione

Le domande si basano spesso sulla credibilità del soggetto intervistato. La Convenzione di Ginevra parla invece dell’oggetto, cioè il fondato timore di subire una persecuzione in patria. Da poco si sta imponendo un nuovo criterio, quello dei “positivi segnali di integrazione”. Un concetto non definito dal diritto internazionale e spesso arbitrario.

Prendiamo il caso di G., che si salva dall’espulsione per un paio di parole in italiano. In un’ora spiega che il padre faceva politica in Costa d’Avorio, nel paese devastato dalla guerra; che è stato ucciso dai sostenitori dell’ex presidente; che tornare lì significa rischiare la vita perché ci sono aree in conflitto di cui non si parla.

La commissione non gli crede. Citando qualche sito web, dice che la guerra è finita. Il destino sembra segnato. Tra lui e l’espulsione c’è solo un’ultima domanda. Frequenta corsi? Questa volta non risponde nel dialetto bambara, ma in italiano. È la sua salvezza. Tutto il resto viene rigettato, ma i “positivi segnali d’integrazione” gli valgono un permesso umanitario.

L’integrazione è un criterio soggettivo, ma piace sempre più sia ai tribunali che alle commissioni. J., per esempio, pur scappando dalla guerra ucraina vive in una bella casa (“un appartamento idoneo”) e la madre ormai parla italiano. Ha anche fatto politica nel suo paese rischiando la pelle, ma questo non è preso in considerazione.

Credibilità

Alcune risposte sono decisive. Per esempio, quelle alla domanda-chiave “Cosa teme tornando al suo paese?”. Un nigeriano risponde “non so cosa potrebbe accadermi” e si auto-condanna all’espulsione.

Poi ci sono decisioni che sembrano già prese. Lo schema è questo: se la tua storia è credibile, allora il tuo paese è sicuro. Se il tuo paese è pericoloso, allora la tua storia è contraddittoria. Ci sono commissioni che hanno considerato “paesi sicuri” anche la Libia in fiamme del post-Gheddafi, le zone curde militarizzate dai turchi e la Costa d’Avorio in guerra civile.

C’è chi ama le domande di controllo. Sono quelle che servono a capire se l’intervistato sta mentendo. Ma possono diventare un tribunale delle scelte personali: “Perché è andato a vivere da solo?”. Oppure: “Se suo padre era benestante, perché non l’ha fatta studiare?” E ancora: “Hai avuto altre donne prima di tua moglie?”.

Infine ci sono le sottigliezze giuridiche. N. è al centro di una faida in Pakistan. In questo caso le linee guida delle Nazioni Unite dicono che si tratta di un rifugiato. Tuttavia, nota la commissione, non si può parlare esattamente di faida perché non è un’intera famiglia a volerlo morto ma un singolo membro.

Dinieghi

Nel 2016 le commissioni hanno respinto il 60% dei migranti arrivati in Italia. Per il senso comune è la prova che si tratta di “finti profughi”. Ma è davvero così?

Secondo il prefetto Angelo Trovato, presidente della Commissione nazionale asilo, nel 2014 il 65% dei diniegati ha presentato ricorso. E nel 75% dei casi ha vinto. In tre casi su quattro, dunque, la magistratura ribalta le decisioni delle commissioni.

Al momento sono venti in tutta Italia. Ogni commissione è composta da quattro membri: un funzionario di prefettura, uno di polizia, un delegato degli enti locali e uno dell’Unhcr. Poi c’è l’interprete, decisivo se il colloquio si svolge in un dialetto africano che non nessuno comprende. L’intervista spesso è condotta da un solo membro, ma nel verbale non è indicato di chi si tratta. Nel 2016, circa 150 persone hanno giudicato 123.600 richiedenti.

È importante ricordare che l’asilo è un preciso obbligo internazionale. Nel 1951 decine di nazioni che uscivano dalla seconda guerra mondiale firmarono la convenzione di Ginevra, impegnandosi ad aprire le proprie frontiere a chi fugge da persecuzioni.

La coda

C’è chi fa questo lavoro con preparazione e dedizione. Ma le decisioni delle commissioni ribaltate dai tribunali hanno creato un contenzioso enorme. Al Tribunale di Catania un giudice è stato “applicato” con un preciso compito: smaltire 3200 fascicoli di ricorsi pendenti. Alcuni risalgono al 2012. Se rispettasse la media record di quattro al giorno, finirebbe tra due anni.

Il decreto Minniti – Orlando, recentemente approvato, affronta il problema dei tribunali intasati cancellando il ricorso in appello. Si potrà ricorrere solo in Cassazione entro 30 giorni. “Sono norme manifesto di nessuna utilità pratica che incidono solo nel creare marginalizzazione sociale e costi per un sistema giudiziario già precario”, dichiara Lorenzo Trucco, presidente di Asgi. Si crea un “diritto processuale civile speciale” basato sulla nazionalità. Ventisei nuove sezioni si occuperanno di quasi tutti i temi legati all’immigrazione, dall’asilo ai permessi di soggiorno.

Alcune norme sembrano complicate da applicare. Per esempio, la videoregistrazione: due-tre ore di audizione da inviare ai giudici in caso di ricorso. Infine, i responsabili dei centri di accoglienza diventano “pubblici ufficiali”. Dovranno gestire le notifiche giudiziarie ai richiedenti asilo. Una norma che ha già suscitato la protesta degli operatori.

 

* I nomi sono stati modificati per proteggere l’identità dei richiedenti asilo

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