“Il vero problema è che questi Tutsi non sono di qui. Sono nilotici, vengono dall’Egitto e hanno sempre oppresso la popolazione locale, gli Hutu. Vogliono tutto il potere per loro e noi abbiamo il dovere di difendere la popolazione”.
Queste parole le ho sentite nel giugno 2007 a Bujumbura pronunciate da un missionario italiano che vi risiede da quarant’anni. Sono state per me l’ennesimo esempio delle idee propagandate da buona parte della Chiesa Cattolica sui conflitti che hanno funestato per decenni la regione africana dei Grandi Laghi (Ruanda, Burundi, regioni orientali del Congo – Kinshasa): la stessa tesi la sento esprimere ormai da anni, ogni volta che mi trovo a viaggiare per quella regione, sempre da esponenti della Chiesa o comunque culturalmente o politicamente vicini agli ambienti della Chiesa Cattolica.
Nel 2004 e nel 2006, durante i miei viaggi precedenti nella zona, a Bukavu (Congo orientale al confine con il Ruanda) gli allarmi per un’imminente nuova invasione ruandese (e quindi “tutsi”) erano all’ordine del giorno delle conversazioni con chiunque fosse vicino alla chiesa locale, quella stessa Chiesa i cui esponenti nel 2000, in occasione della mia prima visita, affermavano con sicurezza di saper distinguere un hutu da un tutsi già al primo sguardo (salvo poi non sapere rispondermi quando chiedevo loro quali fossero questi tratti esteriori – somatici?- di distinzione).
La Chiesa cattolica ha avuto indubbiamente un ruolo di primo piano nelle vicende della regione africana dei Grandi Laghi sin dai tempi della colonizzazione tedesca e belga. Quel ruolo è stato per lungo tempo di appoggio alle strategie coloniali di sfruttamento e sottomissione delle popolazioni locali e su questo la Chiesa non ha mai fatto – che io sappia – una chiara autocritica.
Oggi la situazione non è più quella coloniale e anche la Chiesa è cambiata. Numerose figure di religiosi cattolici della regione dei grandi laghi africani si sono battuti in questi anni in difesa delle popolazioni, contro le violenze e l’oppressione. Figure come quelle di mons. Christophe Munzihirwa, vescovo di Bukavu, che ha pagato con la vita il proprio impegno, o di mons. Emmanuel Kataliko, che arringava la piazza contro l’occupazione ruandese del 1997 rischiando la vita[1], o i tanti esponenti della società civile cattolica che sono stati uccisi, incarcerati, esiliati, vanno ricordati come esempio.
Eppure c’è il serio rischio che, finché quell’autocritica non verrà, finché tutta la Chiesa locale e quella missionaria presente in zona non avranno radicalmente rivisto la propria impostazione culturale, il ruolo svolto dalla Chiesa (e dagli ambienti politici ad essa legati) in questa regione, anche al di là delle intenzioni, non sarà quello di chi lavora per la pace, che è un processo tuttora instabile, ma finisca per contribuire alle ragioni del conflitto.
Si tratta di un’affermazione pesante, me ne rendo conto, e vorrei bastasse il fatto che io stesso nel 2001-2 ho pubblicato articoli in favore della resistenza dell’est del Congo contro l’invasione ruandese[2], resistenza guidata principalmente dalla Chiesa cattolica, per sgombrare il campo dal sospetto che quanto scrivo adesso sia dettato da pregiudizi anticattolici (o “filoruandesi”).
Inoltre, le posizioni della Chiesa che considero sbagliate, sembrano coinvolgere anche parte del mondo pacifista e associativo italiano, che proprio nella Chiesa ha spesso gli unici punti di riferimento e informazione relativi alle crisi dei Grandi Laghi africani. Anche questa parte del mondo pacifista forse dovrebbe avviare una riflessione.
Hutu e Tutsi
Il primo punto da discutere è quello dell’interpretazione etnicista dei conflitti che hanno scosso la regione. Questa interpretazione è stata ormai talmente tante volte autorevolmente confutata che sembrerebbe inutile tornare a discuterla: eppure essa ricorre ancora nelle argomentazioni degli esponenti religiosi locali. Nessuno storico sostiene più che i cosiddetti hutu e i cosiddetti tutsi hanno elementi di diversità che li possano classificare come differenti “etnie” (ammesso che il termine stesso di etnia abbia una qualche valenza analitica effettiva, cosa che non è qui il luogo per discutere[3]) e la tesi della provenienza “nilotica” o “abissina” dei tutsi non ha alcun fondamento scientifico ed è stata ormai smascherata per quello che è (cioè un’invenzione dell’antropologia europea ottocentesca). “Hutu” e “tutsi” parlano la stessa lingua, praticano la stessa religione, hanno gli stessi usi e costumi, vivono perfettamente mischiati negli stessi villaggi e negli stessi quartieri urbani e non hanno alcuna netta distinzione somatica come vorrebbe la versione più arcaicamente razziale dell’etnicismo; hanno praticato inoltre storicamente indifferentemente agricoltura e allevamento, a sconfessione di quell’altra interpretazione “sociale” dell’etnia che vedeva negli hutu un popolo di agricoltori oppressi dai pastori tutsi, e oggi ormai si intrecciano a caso nelle mille professioni e nei mille mestieri della società moderna, a tutti i livelli sociali: dai giovani disoccupati dei quartieri poveri di Kigali alla buona borghesia legata all’amministrazione e ai commerci internazionali che abita le lussuosissime ville sulle colline ai margini di Bujumbura, alle donne dei villaggi del Sud e Nord-Kivu.
Perché allora c’è chi continua a parlare di conflitto tra due etnie, di oppressione degli hutu da parte dei tutsi? E soprattutto quali conseguenze ha continuare a diffondere affermazioni ormai smentite dalla ricerca scientifica, dalla storia e dal buon senso?
La teoria dell’origine “camitica” (egiziana o abissina) dei tutsi, etnia malvagia di oppressori degli hutu (questi ultimi dipinti come gli abitanti “originari” dei Grandi Laghi) gioca su questo scenario lo stesso ruolo che ha per la questione ebraica il “protocollo dei savi di Sion”. Di quest’ultimo testo – com’è noto – è stata dimostrata varie volte la falsità storica (fu costruito ad arte nella Russia zarista), eppure il presunto complotto ebraico che vi sarebbe contenuto viene periodicamente riesumato per giustificare l’antiebraismo: così è stato per i nazisti, così nella Russia staliniana, così per l’odierno estremismo islamico (edizioni moderne del “Protocollo” sono in vendita nelle librerie di numerose città arabe, dove viene presentato come testo autentico). Allo stesso modo la falsa storia dell’invasione dei Grandi Laghi da parte di una popolazione estranea (i tutsi camitici) che opprime gli “abitanti originari” (gli hutu) continua a circolare a più livelli, nonostante sia palesemente falsa, e serve a “dimostrare” la necessità dello scontro tra queste presunte etnie. Attore principale della sopravvivenza di questo mito è proprio la Chiesa Cattolica, molti dei cui esponenti che vivono e agiscono nell’area continuano a parlarne cose se fosse una verità dimostrata.
Ma se si trattasse solo di spiegare a qualche prete missionario che le sue concezioni – recepite in lontani anni di studio nei seminari – sono ormai superate, sarebbe tutto sommato cosa secondaria. Il problema è però che continuare a propagandare queste arcaiche e definitivamente erronee “verità” risponde – ne siano o meno coscienti quei sacerdoti che se ne fanno strumento – a ben precise posizioni all’interno del panorama politico dei paesi dell’Africa equatoriale, delle forze politiche di una nutrita diaspora in Europa e Nordamerica, dei “padrini” politici di questo o quel governo, di questo o quel partito ruandese, burundese o congolese. Corrisponde cioè allo spirito di quelle forze politiche e sociali che non vogliono sentire le ragioni della riconciliazione e della pace, e che continuano invece ad agitare la minaccia “tutsi” o “ruandese” come strumento di consenso politico.
Tutti sanno ormai come in Ruanda e Burundi la suddivisione della popolazione in base alla supposta etnia sia stata un’invenzione degli amministratori coloniali, tedeschi prima e belgi poi, che introdussero la menzione dell’etnia anche sulle carte d’identità. Chiunque voglia ancora mettere in discussione questo tema farebbe bene a leggere i più approfonditi studi disponibili, come quello di Michela Fusaschi[4] o quello di Jean-Pierre Chrétien[5]. Ma nessuno, tra i sostenitori ancora esistenti dell’etnicismo come ragione dello scontro, osa confrontarsi sul piano scientifico con questi testi: semplicemente li ignorano.
Dire che in Ruanda, Burundi e Congo due “etnie” di hutu e tutsi non sono mai esistite non significa negare l’esistenza di una dinamica storica tra gruppi socialmente diversi. È piuttosto l’esatto contrario: significa mettersi nelle condizioni di indagare senza pregiudizi che cosa sono stati storicamente i tutsi e gli hutu in quest’area del continente. L’indagine però dal piano “etnico” (un tempo si diceva persino “razziale”), che disegna appartenenze “naturali” inamovibili che si perpetuano per discendenza, va spostata appunto sul piano sociale.
Varrebbe la pena in tal senso – per i superstiti sostenitori della tesi etnica – leggere per una volta gli storici africani, che forse ne sanno un po’ più di loro su questo tema. Joseph Ki-Zerbo[6], il più noto tra questi storici, descrive chiaramente nell’antico Ruanda precoloniale l’esistenza di due gruppi sociali all’interno di uno stesso popolo, la cui diversità stava nella diversa posizione in relazione al potere: tutsi era il nome assegnato all’aristocrazia. Ciò che rendeva i tutsi “superiori” era il possesso della ricchezza, cioè soprattutto del bestiame (non il fatto di essere pastori, ché pastore – cioè dipendente del proprietario del bestiame – poteva essere chiunque) e l’appartenenza al potere aristocratico, rappresentato dalla monarchia locale. Questa “premessa d’ineguaglianza – scrive E. M’Bokolo[7] – si è rapidamente incarnata in un contratto di servaggio pastorale”: gli hutu diventavano clienti del signore tutsi e gli fornivano prestazioni in cambio di protezione, proprio come avveniva nell’Europa medievale”. Essendo figure sociali e non “etniche”, le due categorie non erano affatto statiche e naturali: gli esempi e le procedure sociali di mobilità ascendente o discendente di individui tra le due classi sono ben documentati storicamente. E José Kagabo[8] ricorda come la tradizione orale e la storiografia non riportino alcun conflitto tra questi gruppi in quanto tali: “anche quando talune popolazioni si ribellavano, gli attacchi erano diretti contro le autorità…Le parole hutu, tutsi e twa non sono certamente nate con la colonizzazione, ma è l’utilizzo dell’epoca coloniale che ha consacrato la connotazione odierna. Nella cultura ruandese antica, esse avevano un significato più vicino a classe sociale che a razza, tribù o casta, concetti dell’etnologia europea”.
La conquista coloniale si inserì su una società complessa attraversata da distinzioni di classe che si disegnavano in relazione all’accesso alla ricchezza e al potere. Come altrove in Africa, il potere coloniale – uno sparuto gruppo di amministratori, militari, medici e religiosi – poggiò il proprio dominio sulla minoranza privilegiata, che divenne sua intermediaria. Il ruolo delle classi sociali ne risultò trasformato: mentre la maggioranza (ormai classificata per volere dello stesso potere coloniale come hutu in senso “etnico” e quindi immutabile) veniva impiegata nelle piantagioni o spedita nelle miniere, la minoranza godeva di nuove fonti di relativo privilegio date dall’accesso alla formazione scolastica, ai bassi gradi dell’amministrazione e dell’esercito (soprattutto la milizia burundese fu strutturata come “monoetnica” tutsi) e da una limitata partecipazione all’economia esportatrice instaurata dal potere coloniale. In cambio, questa minoranza divenne garante dell’oppressione della maggioranza, dell’imposizione degli obblighi lavorativi, del pagamento delle imposte e della connessa repressione violenta di ogni trasgressione o ribellione. Al termine del periodo coloniale, le due classi avevano ormai ruoli rigidamente predeterminati dalla relazione con il potere e l’economia coloniali e l’appartenenza all’una o all’altra classe era ormai iscritta sulla carta d’identità come appartenenza etnica e quindi naturale.
La Chiesa cattolica e il colonialismo
Durante questa fase coloniale, la Chiesa cattolica ebbe un ruolo ideologico fondamentale nel diffondere l’ideologia dell’origine “naturale” della divisione etnica e quindi della sua inamovibilità.
La prima presenza di missionari nella zona data alla fine dell’800, con l’arrivo della Congregazione dei Padri Bianchi, i quali avevano ricevuto precise istruzioni su come comportarsi: “in una società violenta, suddivisa in una moltitudine di tribù che vivono allo stato patriarcale – scriveva il cardinale Lavigerie nel 1878 – ciò che importa soprattutto è conquistare lo spirito dei capi. … Non si dovrà mai omettere di far osservare che questa dottrina è di fatto favorevole al loro potere, poiché essa insegna chi sono i veri rappresentanti di Dio sulla terra dal punto di vista temporale”[9]. La Chiesa sceglie cioè di rafforzare la locale struttura di potere, che l’amministrazione userà per i propri fini, mentre gli “hutu”, la maggioranza oppressa, restavano per la Chiesa solo oggetto di pratiche religiose consolatorie e carità. Tuttavia proprio tra le classi povere fu reclutata la maggioranza degli esponenti del clero indigeno, in quanto i poveri, gli “hutu”, nelle missioni “vedevano la possibilità di sfuggire al duro regime delle corvées imposte dai capi e dai militari”[10]. La collaborazione tra potere coloniale e Chiesa cattolica si fece più intensa con il passaggio del dominio dai tedeschi ai belgi, dopo la prima guerra mondiale. Come scriveva padre Léon Classe, vicario generale in Ruanda nel 1918, “la nostra volontà è che il governo belga possa il più presto possibile restare il padrone definitivo dei destini di questo paese”[11].
A sua volta il potere coloniale belga sapeva bene che per controllare il paese aveva bisogno di appoggiarsi al ceto dominante tradizionale e non ne faceva certo mistero: la politica belga – si legge in un memorandum del ministro delle colonie del 1920 – “ha per base il mantenimento delle istituzioni indigene … i nostri amministratori manterranno l’autorità legale e la rinforzeranno … al fine di non ridurre troppo o annichilire il ruolo dei grandi feudatari”; gli hutu, i sottomessi, vanno protetti, “ma non andremo oltre. Non si deve, sotto il pretesto dell’eguaglianza, toccare le fondamenta dell’istituzione politica; noi troviamo i Watuzi stabiliti da antica data, intelligenti e capaci: rispetteremo questa situazione”[12]. Politica dell’amministrazione coloniale e politica della Chiesa condividevano quindi l’obiettivo di mantenere ed estendere il dominio dell’aristocrazia (riletta come “etnia” tutsi) sulla maggioranza dei dominati (reinterpretati anch’essi come etnia).
La Chiesa diede a quest’obiettivo politico il contributo di una serie di studi etnografici che sostenevano l’analisi razziale della realtà locale e la superiorità naturale dei tutsi, in particolare con il testo di Padre Pagès Un royaume hamite au centre de l’Afrique e con l’opuscolo Ruanda del canonico Louis de Lacger, che ebbe amplissima diffusione, nei quali si affermava che i tutsi erano una razza camita che aveva invaso circa 350 anni prima una terra occupata sin da tempi antichi dagli hutu (“I Bahima o bahuma – altro nome con cui si indicano i tutsi – sono dunque di razza camitica”, proclamava con certezza il missionario francese R. P. Césard nel 1935). A quell’epoca, la “razza” camitica dei tutsi veniva presentata come naturalmente superiore e incline al comando e quindi come l’alleato ideale del potere coloniale.
Così quando il potere coloniale mise mano ad una riforma amministrativa che indeboliva l’autorità del sovrano tradizionale a vantaggio di una rete di amministratori locali direttamente dipendenti, questi ultimi furono scelti unicamente presso l’aristocrazia tutsi, con il sostegno esplicito della chiesa che – ancora padre Classe – scriveva: “Tutti i capi devono essere scelti unicamente tra i Batutsi, con l’esclusione totale dei Bahutu”[13]. L’educazione di questo ceto di amministratori venne effettuata presso istituti appositamente creati dal potere coloniale belga, mentre gli hutu potevano solo accedere – e in numero limitato – alle scuole missionarie, dove l’insegnamento era indirizzato “nel senso della riaffermazione dei presupposti culturali di quella gerarchizzazione etnico razziale che nella realtà si stava realizzando come fondamento della politica dell’amministrazione coloniale”[14].
A un certo punto, a seguito di queste politiche, si innescò un processo di conversione di massa dei notabili tutsi; “convertirsi al cattolicesimo costituiva l’unica possibilità per costoro di assumere la funzione di capo e, di conseguenza, di procurarsi uno status sociale”[15]. Finalmente, con il censimento generale degli anni trenta, la base etnica delle distinzioni sociali fu formalmente sancita dall’introduzione delle menzione dell’identità etnica sulla carta d’identità.
Con la fine della seconda guerra mondiale, il potere coloniale iniziò anche qui a sgretolarsi, sotto la spinta di chi a livello mondiale premeva per una “liberalizzazione” dei mercati e quindi per lo smantellamento degli ambiti privilegiati di sfruttamento quali erano appunto gli imperi coloniali, e di chi a livello locale vedeva finalmente presentarsi l’occasione per una propria emancipazione dalla tutela coloniale. Anche qui – come in altre parti dell’Africa – il potere coloniale vide nascere la più radicale opposizione interna proprio tra quelli che erano stati i ceti locali da esso privilegiati: in Ruanda e Burundi fu l’ex aristocrazia (adesso più propriamente definibile come piccola borghesia amministrativa, militare e commerciale) definita “tutsi” a guidare i sentimenti indipendentisti. E anche qui, come altrove, il potere coloniale fece l’ultimo tentativo di conservare un controllo almeno indiretto sui nuovi stati indipendenti e sulle loro risorse, iniziando ad appoggiare la costituzione di forze politiche locali più moderate e più disposte e collaborare con l’ex potenza coloniale. Nel caso specifico del Ruanda e del Burundi questo significò sostenere la creazione di forze politiche espressione degli “hutu”, cioè di quella maggioranza povera e lontana dal potere, fino ad allora tenuta fuori dalla dialettica politica. Il compito di creare una intellighenzia politica hutu fu assunto in prima persona dalla Chiesa Cattolica, che in tal modo otteneva due importanti risultati.
Il primo fu di apparire finalmente come paladina della maggioranza oppressa (missione che fino a quel momento aveva sacrificato all’appoggio alla gerarchia tradizionale). Questa svolta fu del resto preparata dall’avvento di una nuova generazione di missionari, più attenti alle questioni sociali, che quindi si schierarono facilmente a fianco della maggioranza povera, iniziando a denunciare i soprusi degli amministratori “tutsi”. L’abbandono da parte della Chiesa della posizione pro-tutsi e l’abbraccio della posizione pro-hutu avvenne però ancora all’insegna dell’ideologia razziale: “ci sono realmente in Ruanda – scriveva nel suo messaggio per la quaresima del 1959 (alla vigilia del primo massacro dei “tutsi”) Monsignor Perraudin, massimo rappresentante cattolico in Ruanda – diverse razze nettamente caratterizzate … Le ricchezze da una parte e il potere politico e giudiziario dall’altra sono in realtà in proporzione considerevole nelle mani di genti di una stessa razza”, quella tutsi[16]. In questo clima risulta comprensibile come nella memoria di Padre Walter Aelvoet, che visse gli avvenimenti del 1959, quel primo massacro di tutsi sia ricordato come un necessario passaggio per la fondazione della nuova storia hutu: “Tutto ciò che precedeva era la cultura tutsi. La rivolta degli hutu l’ho vissuta in modo molto doloroso, perché c’erano dei cadaveri. Ma in fondo ero felice”[17].
Il secondo risultato che la Chiesa otteneva con questa svolta “pro-hutu” era di agire ancora una volta per la continuità sostanziale dei rapporti di potere, venendo in aiuto delle nuove scelte politiche del potere coloniale. In una situazione di forte risentimento della maggioranza della popolazione verso le imposizioni e repressioni subite nei decenni coloniali, questo risentimento venne incanalato non verso lo stesso potere coloniale, ma verso chi ne era stato in qualche modo l’interfaccia locale: il ceto privilegiato “tutsi”, adesso fautore di una più radicale versione dell’indipendentismo. A livello politico, a fianco della Chiesa era del resto l’intero movimento politico democratico cristiano internazionale, il cui segretariato aveva sede proprio a Bruxelles, che appoggiò il nascenti partiti autodefinitisi “hutu” come espressione della lotta contro l’aristocrazia “tutsi” (un appoggio che è durato nel tempo: nel 1995, poco dopo il genocidio, il partito unico “hutu” ruandese, che il quel genocidio ebbe ampie responsabilità, era ancora invitato ai congressi dell’internazionale democristiana).
Dal dopoguerra, la stampa locale cattolica (e in particolare il periodico Kinyamateka), fino a quel momento interessata solo a temi religiosi o tecnico-agronomico, iniziò a trattare di questioni sociali. Nel marzo 1957 un gruppo di intellettuali vicini alla Chiesa Cattolica (a quanto pare con un diretto intervento della congregazione dei “Padri Bianchi”) pubblicava la Note sur l’aspect social du problème racial indigène au Ruanda, meglio nota come “Manifesto hutu”, nella quale la questione sociale del lungo sfruttamento subito dalla maggioranza della popolazione da parte del potere coloniale, con il tramite di una minoranza relativamente privilegiata, veniva presentata come questione “razziale” tra hutu e tutsi. “Nel corso dei decenni successivi all’indipendenza, questo Manifesto assumerà un ruolo di riferimento per gli hutu al potere e ulteriori elaborazioni e rivisitazioni lo trasformeranno in punto di partenza per le politiche di repressione della minoranza tutsi”[18]. Da quegli stessi circoli istruiti nei seminari religiosi si formò il Partito per la Promozione del Popolo Hutu (Parmehutu), il cui leader Grégoire Kayibanda era il segretario del vescovo della diocesi di Kabgayi ed era stato direttore di Kinyamateka e segretario dell’associazione di amicizia belga-congolese. Nello stesso periodo, le autorità belghe sostituivano gli amministratori locali “tutsi” con esponenti di queste nuove tendenze politiche di rivendicazione “hutu”.
Con queste premesse, la rivolta contadina del 1959 assunse facilmente una coloritura etnica e fu l’atto di nascita dei massacri perpetrati verso chi veniva identificato come facente parte della minoranza tutsi (avesse o meno fatto parte personalmente dei circoli di potere, ormai non aveva più alcuna importanza) dietro lo stimolo di forze politiche che dichiaravano di rappresentare il riscatto della maggioranza oppressa. In questo scontro sia la Chiesa Cattolica che il potere belga si schierarono apertamente a fianco degli “hutu”: “noi – scriveva in quell’anno il colonnello Guy Logiest, residente generale belga – dobbiamo favorire gli elementi di ordine e indebolire gli elementi di disordine, in altri termini favorire l’elemento hutu e sfavorire l’elemento tutsi perché l’uno sarà obbediente e l’altro no”[19].
Iniziavano così la serie dei massacri e le fughe di profughi verso i paesi vicini, che nel corso dei decenni della vita indipendente del Ruanda avrebbero ammassato decine di migliaia di persone oltre frontiera, in Uganda, Congo e Tanzania (ma anche nel vicino Burundi che subiva già analoghe tensioni). I massacri si sarebbero ripetuti nel tempo, con i principali episodi nel 1963-4 e nel 1973, culminati poi nel genocidio del 1994.
Iniziava al tempo stesso, con la campagna per le elezioni amministrative del 1959, l’ascesa del ceto politico che gestirà il potere ruandese per tre decenni. Una campagna elettorale in cui i partiti “hutu” sostennero la necessità di ricacciare il “colonizzatore di razza etiope” costringendolo a tornare “in Abissinia”. Questo ceto politico assumerà ben presto – e soprattutto dopo la deposizione del primo presidente Kayibanda per mano dell’estremista “hutu” Juvenal Habyarimana nel 1973 – la connotazione di famelico clan aggrappato al potere e allo sfruttamento delle risorse del paese, mascherando le proprie pratiche di arricchimento dietro l’ideologia del riscatto “hutu”, mentre la maggioranza della popolazione – proprio quegli “hutu” che avrebbero dovuto essere riscattati – sprofondava ulteriormente nella miseria.
Ad una simile polarizzazione – e per le stesse ragioni – si assistette in Burundi, dove le forze politiche non etniciste furono eliminate anche fisicamente dagli estremismi etnici creati in epoca coloniale. Qui però furono i cosiddetti “tutsi” ad avere la meglio, grazie al fatto che l’esercito locale creato dai belgi era interamente nelle loro mani e interveniva con violenza sugli scenari politici. Conquistate in tal modo le leve del potere burundese, negli anni ’60 e ’70, “i Tutsi reagirono a tre successivi tentativi di impadronirsi del potere da parte degli Hutu (…), con il selvaggio massacro delle élite hutu. In questo modo fu assicurata, almeno provvisoriamente, la supremazia tutsi, ma anche il permanere di una sanguinosa ostilità tra i due gruppi”[20].
Intanto, la “cultura” propagandata nelle scuole missionarie, spesso le uniche esistenti, non era cambiata: “quando giunsi per la prima volta in Burundi nel 1964 – ricorda lo storico Jean-Pierre Chrétien – mentre il paese non disponeva di alcun insegnante di storia, neppure di scuola media, un piccolo manuale missionario insegnava che ‘i primi Bantu sono venuti dall’Asia dell’epoca del diluvio’ e che ‘i tutsi sono dei camiti semitizzati, la cui culla è l’Asia occidentale, dalla quale sono passati in Africa attraverso lo stretto del Bab e-Mandeb”[21].
Questa vulgata diffusa dal potere coloniale e perpetuata dalla Chiesa era talmente radicata in quegli anni da farne il senso comune sulla storia e il presente della regione. Ecco alcune perle tratte da un’enciclopedia geografica italiana del 1964 a proposito del Ruanda e del Burundi: la pacifica convivenza tra Bahutu e Batwa “ebbe bruscamente termine nel XV secolo allorché apparvero ai confini del Ruanda nuove genti: i Batutsi. Si trattava di tribù di pastori, provenienti dalla regione etiopica”; “tutte le terre alte del paese sono dominio dell’allevamento, introdotto dalle popolazioni camite dei Batutsi”; per i Batutsi il bestiame aveva un “valore economico e sacro [che] in nessuna altra parte dell’Africa si riscontra così accentuato, nemmeno presso i camiti al loro paese d’origine”; “i Bahutu, rimasti per secoli sottomessi ai pastori Batutsi, costituiscono la parte preponderante della popolazione del Ruanda. Col referendum che ha portato il paese all’indipendenza nel 1962 essi hanno preso in mano il governo dello Stato, approfittando di ciò per sfogare contro gli antichi padroni il loro secolare risentimento”; “i Batutsi erano e sono rimasti essenzialmente dei pastori, spregiatori di ogni lavoro manuale e adoratori della mucca, più o meno come gli antichi Egizi veneravano il bue Api”[22]. Sembra proprio che l’autore di questi brani nella zona non ci avesse mai messo piede (un culto del bue semplicemente non è mai esistito nella zona), ma si limitasse a ricucire il comune sentire della cultura europea dell’epoca, presto smentito dagli studi storici e antropologici.
Il nuovo scenario degli anni ‘90
Nel corso degli anni gli esuli ruandesi fuggiti ai vari massacri, in maggioranza esponenti di famiglie classificate come “tutsi” provenienti da tutti i ceti sociali, iniziarono ad organizzarsi e costituirono una crescente minaccia per il potere “hutu” insediato a Kigali. Ma anche in Ruanda, come in molti scenari africani, la vera e propria svolta poté concretizzarsi solo dopo la fine della guerra fredda.
Cosa c’entra la caduta del muro di Berlino con il Ruanda? Prima del 1989 gli interessi francesi e statunitensi sul suolo africano, per quanto occasionalmente divergenti sul piano economico, erano accomunati dalle strategie di contenimento della concorrente presenza sovietica. Francia e USA sostenevano insieme regimi corrotti e sanguinari come quello di Mobutu in Congo, mentre potevano al contempo appoggiare l’hutu power ruandese e un regime politico monopolizzato dai partiti “tutsi” in Burundi.
Dopo quella data però le divergenze tra i due paesi occidentali sono diventate evidenti in molti scenari africani, dalla Costa d’Avorio, al Congo Brazzaville, al Sudan e anche nell’area dei Grandi Laghi. Nel 1986 era andato al potere in Uganda un movimento guidato dal guerrigliero “di sinistra” Yoweri Museveni. Nel giro di pochi anni – e più rapidamente proprio dopo il 1989 – questo governo sarebbe diventato uno dei migliori allievi del Fondo Monetario Internazionale e uno dei migliori alleati degli Stati Uniti nella regione. Proprio dall’Uganda di Museveni e dal seno del suo stesso movimento originò quel Fronte Patriottico Ruandese (FPR) che dal 1990 iniziava attacchi armati alle frontiere del potere “hutu” di Kigali. Che il FPR fosse appoggiato dagli Stati Uniti come lo era Museveni è un dato evidente e significativamente testimoniato dal fatto che l’addestramento militare del suo leader Paul Kagame sia avvenuto proprio negli USA. Altrettanto evidente era che la Francia si fosse schierata a difesa dell’hutu power di Kigali, mantenendo questa difesa anche dopo che quest’ultimo aveva mostrato il proprio più atroce volto con il genocidio del 1994. USA e Francia sono stati quindi indubbiamente attori importanti di quella tragedia, che non è possibile spiegare senza considerare il ruolo di queste due potenze extra-africane.
L’evoluzione che dall’attacco del FPR nel 1990 ha condotto al genocidio del 1994 e al crollo dell’hutu power ruandese è ormai nota, anche se c’è chi continua a mettere in dubbio anche le cose più ovvie, come il fatto che il massacro sia stato preparato con largo anticipo dal potere “hutu” insediato a Kigali, che la Francia abbia ampiamente appoggiato questa preparazione e che l’assassinio del presidente Habyarimana sia stato non la causa ma un pretesto scatenante di una strategia già predisposta (e questo a prescindere dalla risposta alla domanda su chi abbia perpetrato tale assassinio, se gli “hutu” estremisti – che eliminavano così il presidente che aveva “ceduto” sottoscrivendo gli accordi di Arusha per la condivisione del potere con i “tutsi” e creavano un martire da addebitare al FPR – o effettivamente proprio il FPR per sbloccare una situazione di stallo facendo precipitare la crisi).
La caduta del muro di Berlino aprì in molti paesi africani una fase di rivendicazioni democratiche: anche in Ruanda cominciò a farsi sentire l’opposizione al regime predatorio del cosiddetto “hutu power”, opposizione che non era né “hutu” né “tutsi”, ma semplicemente popolare. Al contempo in Burundi, il dopo guerra fredda lasciava – come in altre parti del mondo – più spazio alla dialettica interna, non più bloccata dalla necessità di mantenere in vita regimi di qualsiasi genere purché fossero schierati con l’occidente. Così le elezioni del 1993 – dopo decenni di potere del partito “tutsi” – furono vinte dal partito “hutu” guidato dal moderato Melchior Ndadaye, aperto a un dialogo riconciliatorio. Ma ancora una volta l’esercito bloccò ogni ipotesi di transizione. La situazione burundese fu ulteriormente esacerbata nel 1994 quando in Ruanda fu abbattuto l’aereo che trasportava, oltre al presidente ruandese Habyarimana, probabile principale obiettivo dell’attentato, anche il neoeletto presidente burundese Cyprien Ntaryamira.
Sono avvenimenti noti, su cui esiste un’ampia letteratura[23] e non torneremo qui quindi sulla descrizione di quegli anni, se non per sottolineare ancora una volta le posizioni assunte dalla Chiesa Cattolica.
La Chiesa cattolica e il genocidio ruandese
Schierata con l’élite “tutsi” in epoca coloniale, levatrice delle forze politiche “hutu” dagli ultimi anni del dominio belga ai primi decenni dell’indipendenza, affermatrice “scientifica” dell’esistenza di “etnie” contrapposte, quando non di vere e proprie “razze”, come si comportò la Chiesa durante il genocidio?
“La Chiesa in Ruanda ha pagato un prezzo altissimo. Nei massacri perpetrati dai miliziani hutu, la Chiesa ha visto morire circa un terzo del suo clero; un altro terzo è rimasto in funzione e gli altri sono fuggiti all’estero. La gerarchia ecclesiastica è stata decapitata. Sono noti i casi di singole comunità o di singoli sacerdoti che hanno offerto rifugio ai fuggitivi di etnia opposta mettendo a rischio le loro vite. Ma non sempre il comportamento degli uomini di chiesa è stato così esemplare. Sono numerosi i casi di sacerdoti o religiosi accusati di essere autori di eccidio o quanto meno responsabili di incitamento al massacro”[24].
Non ci interessa qui dilungarci sul comportamento di singole persone. Durante una tragedia grande come il ’94 ruandese vi sono stati certamente numerosi atti di eroismo insieme ad altrettanto numerosi atti di cinismo e di vigliaccheria contro la popolazione indifesa. Alcuni casi emblematici di religiosi implicati direttamente nel genocidio sono stati oggetto di procedure giudiziarie e di inchieste giornalistiche. Alcune pubblicazioni, molte delle quali di origine cattolica, hanno già fatto il punto su queste implicazioni e sui processi che ne sono seguiti, alcuni dei quali conclusisi con condanne esemplari verso religiosi e religiose[25].
Quello che qui ci interessa è piuttosto il comportamento della Chiesa come corpo collettivo e le posizioni politiche assunte dai suoi esponenti rappresentativi, da cui derivano poi le spinte per il comportamento concreto dei suoi membri e dei suoi fedeli. Più che gli atti di partecipazione attiva al massacro ci interessano le dichiarazioni e le posizioni ufficiali.
Una posizione ufficiale fu quella del sinodo dei vescovi africani, riunito a Roma proprio nell’aprile 1994, che quattro giorni dopo l’inizio dei massacri emise un comunicato di sostegno al governo ruandese. Secondo Human Rights Watch, che ha pubblicato uno studio sul genocidio considerato un’opera di riferimento sul tema[26], la Chiesa fu molto lenta nel decidere di denunciare i massacri e questo spinse molti religiosi, sia cattolici che protestanti a darvi tacito assenso partecipando ai “comitati per la sicurezza” governativi. Peggio ancora pare abbia fatto la Chiesa Anglicana: “ben lontani dal condannare il tentativo di sterminare i tutsi, l’arcivescovo Augustin Nshamihigo e il vescovo Jonathan Ruhumuliza della Chiesa Anglicana si presentarono come portavoce del governo genocidiario ad una conferenza stampa a Nairobi. Come molti altri che cercavano di rigettare i massacri, essi rimisero la colpa del genocidio al FPR che aveva attaccato il Ruanda. Alcuni giornalisti stranieri erano talmente disgustati da queste affermazioni che lasciarono la conferenza”[27].
Ma ben al di là dei comunicati ufficiali altre dichiarazioni di prelati cattolici devono fare riflettere. Come quella di Mgr. Phocas Nikwigize, vescovo di Ruhengeri dal 1968 al 1996: “un hutu – dichiarava il religioso a un giornale fiammingo diciotto mesi dopo il genocidio – è semplice e diretto ma un tutsi è furbo e ipocrita; egli si mostra gentile, educato e affascinante, ma quando viene il momento ti attacca. Un tutsi è profondamente malvagio, non per educazione, ma per la sua stessa natura”[28]. O quella dei Padri Bianchi, la più antica ed influente congregazione missionaria presente in Ruanda, che in pieno 1994 riescono sul loro bollettino a coniugare l’ideologia razzista antitutsi con una classica sessuofobia, denunciando come “belle ragazze tutsi ruandesi abbiano infiltrato le organizzazioni umanitarie – quelle che denunciavano la politica criminale dell’hutu power – e conquistato terreno con il loro fascino ineguagliato”, confondendo così le idee a queste ONG su chi fossero i veri colpevoli e le vere vittime[29]. Un Padre Bianco, Padre Desouter, presidente del Comitato delle Istituzioni Missionarie, spiegava lo stesso anno a un giornale di Ginevra che il genocidio era “un atto suicida che il Fronte Patriottico Ruandese ha commesso verso i suoi proprio congeneri”; con la propria offensiva, il FPR ha “incitato al massacro tanti hutu disperati”. Msg. Vincent Nsengiyuma, vescovo di Kigali dal 1976 al 1994, fu a lungo membro del Comitato Centrale del Mouvement Révolutionnaire National pour le Développement, il partito unico al potere dal colpo di stato della fazione estremista “hutu” del 1973, da cui si dimise solo nel 1990 su espressa richiesta di Giovanni Paolo II.
È del maggio 1999 un articolo dell’Osservatore Romano nel quale, per difendere Monsignor Misago, vescovo di Gikongoro arrestato per sospetta complicità nel massacro di 150.000 tutsi della sua diocesi, si sosteneva che era in corso una campagna diffamatoria verso la Chiesa e il suo ruolo conciliatorio e – cosa più importante – il Vaticano prendeva ufficialmente posizione sul genocidio, affermando che bisogna parlare di doppio genocidio: quello dei tutsi da parte degli hutu (sarebbero circa 500.000) e quello degli hutu da parte del Fronte Patriottico Ruandese nelle zone via via occupate e nei campi profughi allestiti in Zaire. Questo secondo genocidio avrebbe fatto oltre un milione di morti. Per inciso Monsignor Misago, arrestato nel 1999 e poi assolto per gli episodi di partecipazione diretta al genocidio che gli venivano contestati, era quello stesso che pochi giorni dopo il genocidio del ‘94 invitata la sua stessa Chiesa Cattolica d’appartenenza a farla finita con i preti tutsi, “di cui la popolazione non vuole più sentire parlare”[30].
Ma anche al di là delle dichiarazioni dei singoli, ciò che risalta nelle prese di posizione della Chiesa sulla tragedia del Ruanda è il fatto che mai vi sia stata un’autocritica sul ruolo storico della Chiesa stessa nell’appoggiare il potere coloniale prima e il corrotto e criminale potere ruandese dopo. Anzi, la tendenza a minimizzare l’importanza del genocidio dei “tutsi”, che sarebbe stato più che controbilanciato da un genocidio opposto perpetrato dai “tutsi” stessi (cioè dal FPR) lascia trasparire una totale continuità di posizioni con il passato.
La tesi del doppio genocidio
La teoria del “doppio genocidio” è diventata nel tempo l’ultimo rifugio di coloro i quali tentano di minimizzare l’importanza del massacro dei “tutsi” avvenuto nel 1994 in Ruanda. Dapprima, sin dai giorni stessi dei massacri, la comunità internazionale ha dibattuto se nel caso ruandese si dovesse utilizzare il termine “genocidio” o meno. Successivamente, una volta note le proporzioni del massacro (si parla di circa 800.000 vittime in poche settimane), ha cominciato ad apparire chiaramente come esso fosse stato pianificato e organizzato dall’élite al potere in Ruanda, con complicità internazionali (in particolare la Francia) e il colpevole silenzio della comunità internazionale, comprese le Nazioni Unite e comprese le gerarchie ecclesiastiche locali (anche – come detto – al di là della effettiva complicità di alcuni ecclesiastici nelle violenze e del tentativo di pochi altri di difendere le potenziali vittime).
La tesi allora iniziata a circolare tra gli esponenti politici del regime genocidiario fuggiti all’estero e fatta propria anche da esponenti politici stranieri, soprattutto francesi, e dalla Chiesa è stata a quel punto quella del “doppio genocidio”: vero è che ci sono stati massacri di “tutsi”, ma è anche vero che lo stesso FPR, prima e dopo il 1994 ha effettuato altrettanti, se non maggiori massacri. Come dire: tutti colpevoli, quindi nessun colpevole, nell’ambito di un conflitto che altro non è se non un episodio di uno scontro secolare tra due etnie.
Ora, che il FPR si sia reso colpevole di un gran numero di episodi violenti è evidente e non avrebbe alcun senso negarlo: la logica della guerra è la stessa dovunque. In particolare non si può negare che il FPR una volta al potere abbia cercato sistematicamente di perseguire i responsabili del deposto regime, rifugiatisi nei campi profughi situati nel vicino Congo (allora ancora Zaire) insieme a masse di popolazione, e che nel farlo abbia coinvolto nelle rappresaglie anche numerosi civili innocenti.
Ma la logica del genocidio è un’altra: creare ad arte un nemico, identificato con una parte della popolazione, sulla base di caratteristiche di tipo “etnico”, sociale e persino somatiche; propagandare dalla stampa di regime la necessità di disfarsi di questo nemico; attribuire a questo settore della popolazione tutte le responsabilità dei problemi del paese (coprendo le vere responsabilità del famelico e corrotto regime al potere); distribuire armi alla popolazione affinché si faccia giustizia da sé eliminando il nemico designato; dare ordini precisi alle autorità politiche, militari e amministrative a tutti i livelli per stilare le liste dei cittadini da massacrare e pianificare lo svolgimento del massacro; creare apposite bande armate che fomentino e incentivino lo scontro: tutto questo fa parte di una logica che non è solo logica di guerra, è una strategia politica di sterminio che ha portato infine la comunità internazionale a riconoscere il carattere genocidiario del regime al potere a Kigali fino al 1994. E se il nuovo governo ruandese guidato dal FPR ha attaccato i campi profughi, non bisogna dimenticare che quei campi profughi erano stati letteralmente presi ad ostaggio dagli esponenti del vecchio regime che vi si erano rifugiati e che ne facevano le basi per incursioni verso il confine del paese che avevano dovuto abbandonare, saccheggiando gli aiuti umanitari, tanto da indurre il ritiro tra le proteste delle organizzazioni umanitarie internazionali (tra cui Médecins sans Frontières). Il che, ovviamente, non giustifica i bombardamenti dei campi, ma li inserisce nella disgraziata logica della guerra.
Una ricerca dell’Università Cattolica di Lovanio[31], l’unica a mia conoscenza che abbia cercato di verificare la veridicità dell’esistenza di un “doppio genocidio” con le cifre alla mano, giunge alla conclusione che nel caso dei crimini perpetrati dal FPR nell’ambito della sua presa del potere e subito dopo, non si possa impiegare il termine genocidio così come internazionalmente definito. Basti citare, tra i dati della ricerca, quello secondo cui, mentre il 92,7% delle famiglie classificate come “tutsi” nelle località oggetto della ricerca avevano perso da uno a tutti i componenti a causa delle violenze, per le famiglie classificate come “hutu” tale percentuale è dell’8,2% e che il 21% di queste vittime “hutu” erano state assassinate in realtà dai cosiddetti “interahamwe, cioè dalle squadre armate dell’hutu power. Nelle tre prefetture prese in considerazione dalla ricerca (Gytarama, Gykongoro; Kibuye), le percentuali di vittime nei mesi del genocidio sono, per le famiglie classificate dalla carta d’identità come tutsi, del 45,1%, 89,2%, 47,8%; per quelle classificate hutu del 4,4%, 0,6%, 1,6%.
Eppure, anche a livello internazionale, chiunque vuole ridurre le responsabilità non solo del regime dell’hutu power, ma anche le proprie, ha abbracciato la tesi del “doppio genocidio”. Il governo francese, prima di tutti: Patrick de Saint Exupéry, giornalista francese testimone oculare del genocidio, ha dedicato un libro intero alla confutazione di questa tesi[32], apertamente sostenuta dalla classe politica del suo paese, a cominciare da François Mitterand e Dominique de Villepin.
La tesi del doppio genocidio in generale è però respinta dalla comunità internazionale e da organizzazioni quali Human Rights Watch, la Federazione internazionale dei Diritti dell’Uomo, Amnesty International, SOS RACisme, ecc.. Il prof Yves Ternon, autore di diverse opere sui genocidi del XX secolo e membro della Commissione d’inchiesta sul genocidio ruandese istituita dal Parlamento francese considera questa tesi come una maniera di nascondere una sostanziale negazione del genocidio stesso.
Le tesi revisioniste del genocidio sembrano suscitare un certo fascino anche tra esponenti del mondo pacifista italiano. Il bollettino Congo attualità (redatto dalla Rete Pace per il Congo) del 15 maggio 2007, dopo aver espresso l’encomiabile proposito di far spazio anche a interpretazioni del genocidio ruandese che non siano quella ufficiale propagandata dai vincitori (cioè dal FPR) e accettata dalla comunità internazionale “per senso di colpa”, riferisce di un volume pubblicato da Bernard Lugan, docente universitario francese, il quale attacca il Tribunale Penale Internazionale che indaga sul genocidio e “confuta la tesi della pianificazione del genocidio da parte degli ‘estremisti Hutu’ e rievoca ‘una crisi di follia collettiva’, talvolta incoraggiata dalle stesse autorità”. Nessun commento accompagna questa “confutazione” del prof. Lugan (tra l’altro esponente dell’estrema destra francese, che nelle sue opere usa il termine “razza” e sostiene che hutu e tutsi si distinguono per i tratti somatici), che evidentemente fa parte delle “altre interpretazioni” cui bisogna dare spazio contro la propaganda dell’attuale regime di Kigali.
Nello stesso numero del bollettino, ampio spazio è dato al canadese Robin Philpot, il quale in scritti e interviste sostiene che in Ruanda “ci sono stati parecchi massacri, ma che sono stati perpetrati da tutte le parti implicate nel conflitto”. Secondo la sua tesi, “il dramma ruandese è stato provocato dalla guerra condotta dal Fronte patriottico ruandese (FPR) che, secondo lui, era sostenuto dagli americani. L’autore allega che il genocidio è una conseguenza di un complotto fomentato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito che appoggiavano un movimento tutsi di guerriglia, il FPR, per rovesciare il governo repubblicano a maggioranza hutu di Juvénal Habyarimana”. Ancora: “interrogato in una conferenza stampa se, all’epoca, gli Hutu avessero ideato un piano in vista di eliminare i Tutsi, Philpot ha dichiarato che il Tribunale Penale Internazionale non aveva ancora trovato delle “prove documentate” di un piano ideato dalle milizie hutu per sterminare i Tutsi”. Qui il commento del bollettino invece c’è ed è che il libro di Philpot “ha il merito di rendere pubbliche delle questioni che disturbano l’ONU e certi paesi occidentali implicati nella situazione Ruandese di quel periodo”.
C’è infine sempre nello stesso bollettino un pezzo di bravura non firmato – e quindi presumibilmente attribuibile alla linea politica del movimento – a proposito dell’attuale situazione ruandese:
<<Una cosa è certa: il malessere è dovunque palpabile e ci si mescola poco, anche a Butare, principale città universitaria del paese, finora ricca di meticci. I matrimoni misti … sono meno numerosi rispetto a prima del genocidio. Certamente, c’è il discorso ufficiale: siamo tutti ruandesi. È vietato parlare di Hutu (l’85% della popolazione), di Tutsi (il 14%) e di Twa (l’1%), sotto pena di essere perseguiti per “divisionismo”. Anche se la menzione dell’appartenenza tribale è sparita dalle carte di identità, l’unità di facciata si screpola rapidamente. “Nessuno osa dirlo in pubblico, ma è abbastanza facile sapere chi è chi”. “Non per l’aspetto fisico – perché ci sono stati tanti matrimoni misti durante gli anni – ma per i dettagli di lingua o di percorso. Per esempio, sei francofono (piuttosto Hutu) o anglofono (piuttosto Tutsi)? Hai lasciato il Ruanda dopo il 1959 (data dei primi massacri di Tutsis da parte degli Hutu)? Dove vivevi prima del genocidio, in Uganda, in Tanzania, in Burundi (Tutsi anglofono) o nel Congo (Tutsi francofono)? E quando sei ritornato in patria, nel 1994 (Tutsi dell’esterno) o dopo il 1996 (Hutu)?”. E poi, “dire che siamo tutti ruandesi, ciò permette di camuffare un dato essenziale: che cioè il potere è nelle mani della minoranza tutsi anglofona, ritornata nel 1994 dopo che il Fronte patriottico ruandese (FPR) di Kagame abbia vinto la guerra”… Col passare degli anni, il potere tutsi non ha smesso di rafforzarsi.>>[33]
Se ne deduce che non solo le “etnie” esistono, ma il governo ruandese – che ovviamente è “tutsi” – avrebbe la grave responsabilità di cercare di nasconderle. Vien da pensare che sarebbe invece desiderabile riesumarle e riprendere lo scontro “etnico”. Che poi tutto questo sfoci nella totale difesa del vecchio regime ruandese, quello appunto che pianificò il genocidio, a questo punto quasi non stupisce più. Il supplemento allo stesso numero del bollettino riprende l’elogio del libri di Philpot per sostenere che i problemi in Ruanda sono iniziati nel 1990, data dell’attacco del FPR contro il regime autodefinitosi hutu power: a quella data fanno seguito “una guerra omicida di tre anni e mezzo; l’imposizione, in piena guerra, del multipartitismo che minerà la capacità del governo ruandese e del suo esercito di combattere l’invasore; l’imposizione da parte della comunità internazionale, gli Stati Uniti in testa, di un sedicente processo di pace che darà, di fatto, il potere all’invasore”. Nessuna vergogna sembrano provare gli amici della Rete Pace per il Congo nel far passare per catastrofiche imposizioni straniere il multipartitismo e il processo di pace, pur di difendere quel regime monopartitico, corrotto, famelico, responsabile dell’impoverimento della popolazione (fosse hutu, tutsi, o qualunque altra diavoleria etnica). Sullo sfondo di tutto questo, naturalmente, il “doppio genocidio”: “se si tenta di riassumere l’idea di Philpot, i massacri ruandesi non sono stati messi in atto da una sola parte e si inserivano in una guerra che aveva per finalità il controllo politico del paese, non uno sterminio genocida”: tutti colpevoli, nessun colpevole.
La psicosi dell’attacco ruandese in Congo
Oggi, mentre i missionari residenti in Burundi – come quello citato in apertura – continuano a diffondere il vecchio schema etnicista (“tutsi” straniero oppressore contro “hutu” autoctono oppresso), nelle regioni orientali del Congo la psicosi del tutsi si sta trasformando in una nuova versione: la psicosi dell’attacco ruandese (del resto, il potere insediato a Kigali è “tutsi”…). Le voci dell’imminente attacco ruandese verso il Nord e Sud Kivu si ripetono da anni, almeno da quando le truppe ruandesi nel 2002-3 hanno lasciato la zona che occupavano dal 1997 insieme a forze politico-militari fantoccio congolesi da loro stessi create (il Rassemblement Congolaise pour la Démocratie, RCD). Personalmente me le sento ripetere, insieme alla storiella dello scontro tra etnie, proprio dal 2003 e fino ad oggi da esponenti della società civile del Kivu legati alla Chiesa, i quali sostengono che bisognerebbe chiudere le frontiere con il paese vicino e da religiosi sia locali che missionari che mettono continuamente in guardia dall’imminente attacco. Come recita un comunicato diramato dal VIS, ONG italiana di ispirazione cattolica, il 27 giugno 2007, l’attuale arcivescovo di Bukavu (capoluogo del Sud-Kivu) Msg. François-Xavier Maroy “parla di un’infiltrazione massiccia e sistematica dal Ruanda” di militari o agenti incaricati di reclutare.
La psicosi dell’invasione ha contagiato anche osservatori giunti dall’esterno: sembra che questa stessa fobia del “tutsi” o del “ruandese” (i due termini in Congo tendono ormai ad assimilarsi) fosse presente anche all’interno della missione degli “osservatori” che i Beati Costruttori di Pace italiani hanno organizzato in Congo nel 2006 in occasione delle elezioni presidenziali, in stretto legame con la Chiesa congolese, come mi testimonia un amico che ha fatto parte di questa missione e che poi – per il secondo turno delle elezioni nell’ottobre dello stesso anno – ha preferito affiliarsi ad un’altra rete europea degli osservatori.
A questa missione di osservatori dei “Beati costruttori” ha partecipato anche Eugenio Melandri, ex deputato europeo ed ex padre saveriano. Raccontando la propria esperienza[34], Melandri riferisce testimonianze su carichi di armi trasportati in Congo in cambio di minerali, dietro i quali “è opinione corrente che ci sia il governo ruandese che – le voci corrono – proporrebbe a chi è in carcere la via della guerriglia in cambio della libertà”. La principale paura oggi nell’est del Congo – scrive Melandri – è l’invasione dal parte del “paese di fronte”: un nemico che tiene il proprio paese “sotto un regime di vero e proprio terrore”, “una dittatura che non ammette opposizione”.
Certo Melandri non è uno sprovveduto e non appartiene alla schiera dei sacerdoti che hanno studiato solo sui vecchi testi divulgativi religiosi, quelli che disegnavano i problemi dei Grandi Laghi come derivanti dalla composizione “etnica” della popolazione. Egli sa che i conflitti africani non sono frutto “della volontà e della bellicosità delle persone o dei gruppi etnici diversi”, ma piuttosto della “lotta per accaparrarsi le enormi risorse del territorio”, tuttavia le semplificazioni della propaganda cattolica traspaiono anche nel suo ragionamento: così come nel sud Sudan secondo lui “da quasi trent’anni il Nord musulmano combatte il Sud cristiano e animista” (come se entrambi non avessero espresso élites politiche armate che si sono scontrate sulla spartizione delle risorse petrolifere), in Burundi “per anni le due etnie dei tutsi e degli hutu si sono combattute con conseguenze enormi per la popolazione”. È quindi comprensibile che anch’egli cada nelle semplificazioni anche rispetto alla situazione di questi ultimi anni: “Kagame [il leader del FPR adesso presidente del Ruanda] – afferma convinto Melandri – continua a destabilizzare l’area” e questo sembra spiegare tutto ciò che avviene nella zona.
Non so tuttavia se egli condivida la conclusione tratta da chi soffia sul fuoco della psicosi antiruandese nell’est del Congo. Mgr, Maroy non esita ad esortare: “che la popolazione dell’Est della Repubblica Democratica del Congo, che non ha mai tradito, apra bene gli occhi come in passato. Il nemico è ancora lì”. [corsivo mio]. Non si deve ripetere – recita il proclama del vescovo – ciò che è già avvenuto in occasione di episodi precedenti quando i militari congolesi “hanno continuato a dormire sonni tranquilli senza effettuare alcun tipo di intervento a difesa delle persone inermi”; oggi è necessario che il neopresidente congolese “affronti le sue responsabilità e mandi truppe scelte a contrastare l’imminente guerra nel Kivu Settentrionale e Meridionale prima che sia troppo tardi”, è necessario “che il Governo, interrompendo ogni altra attività, studi il problema della sicurezza dello Stato nell’est come priorità e smetta di distrarre l’opinione pubblica con Piani di Negoziati, dialoghi e Tavole Rotonde che non portano da nessuna parte”. Il concetto è chiaro: basta con i negoziati, si preparino le armi. Si vis pacem para bellum.
È innegabile che da quando la guerra è finita e le truppe straniere sono state ritirate dall’est del Congo, quelle regioni abbiano continuato ad essere teatro di episodi violenti, i più gravi dei quali condotti dalle truppe del generale Nkunda, ex “ribelle” filoruandese, poi reintegrato nelle forze armate congolesi e adesso dichiarato dal governo congolese nemico pubblico e colpito da mandato di cattura. Ora, che Nkunda sia un criminale e vada perseguito non vi è nessun dubbio, ma alcuni osservatori, a cominciare da quelli vicini alla Chiesa, tendono a vedere in lui una longa manus del Ruanda e quindi la “prova” che questo paese avrebbe interesse a destabilizzare nuovamente la zona e addirittura – scrivono alcuni – a perpetrare un nuovo genocidio degli “hutu”.
La radice del permanere dell’instabilità nell’est congolese è invece probabile che si debba cercare, piuttosto che a Kigali, tra le stesse fazioni politiche congolesi, oltre che tra fazioni militari della ex ribellione filoruandese non ancora sazie di saccheggi o non appagate dalle nuove spartizioni del potere nella capitale. Durante il processo politico che dalla fine ufficiale della guerra ha condotto alle elezioni del 2006, i capi della guerriglia (personaggi patibolari come Azarias Ruberwa dell’RCD o Jean-Pierre Bemba, capo della fazione filougandese) hanno seduto sulle più alte poltrone di Kinshasa grazie agli accordi di coabitazione e hanno parlato il linguaggio della pace, ma hanno continuato a muovere uomini e armi nell’est del paese per rafforzare il proprio potere contrattuale sul tavolo delle trattative. Gruppi armati, per lo più formati da mercenari e da ex-guerriglieri sbandati, anche ruandesi, continuano a infestare le zone rurali dell’est. Nkunda, additato da più parti come il nuovo rappresentante militare di Kigali in Congo, è saldamente impiantato in una zona ricca di risorse che la sua posizione di “ribelle” gli consente di sfruttare.
Del resto, che i mandanti dell’insicurezza dell’est del paese siano da ricercare a Kinshasa è ben chiaro allo stesso presidente congolese, Joseph Kabila, secondo il quale “l’insicurezza nel Nord-Kivu è fomentata anche da certe autorità locali e altri parlamentari, locali e nazionali, che organizzano e mantengono delle milizie”[35]. Inoltre, non bisogna dimenticare che oltre a milizie suppostamente filoruandesi agiscono ancora nell’est del Congo altre milizie, di origine queste sì chiaramente ruandese, derivanti però dalle forze del vecchio regime genocidiaro, che fuggirono in Congo (allora Zaire) dopo la presa del potere da parte del FPR di Kagame, prendendo letteralmente ad ostaggio migliaia di profughi: milizie ruandesi che adesso è decisamente difficile pensare come “filoruandesi” o mosse da Kigali.
Le supposte nuove intenzioni belliche da parte del Ruanda in Congo sono quindi tutte da dimostrare ed è ridicolo cercare di farlo, come ha fatto un missionario saveriano, sostenendo che i ribelli sono guidati dal colonnello Mutebusi e dal generale Nkunda, “tutti e due dai tratti fisici ruandesi”[36] (questi “tratti fisici” sono “ovviamente” quelli “tutsi”: l’ideologia della razza è proprio dura a morire presso certi religiosi). E un discorso analogo vale per certa parte del pacifismo italiano: cito ancora ad esempio il bollettino Congo attualità, secondo il quale “Laurent Nkunda è un Tutsi di origine ruandese” (a dispetto comunque del fatto che è nato a Kisangani, in pieno Congo), e questa sembra essere di per sé una prova della “volontà di sterminio ruandese verso gli hutu congolesi” (è proprio così che afferma il bollettino)[37]. Essere “tutsi” evidentemente è una categoria assoluta di interpretazione della storia e della politica, nonostante il fatto che ogni analisi seria dimostri che non significa proprio niente.
Il governo di Kigali, sia chiaro, non si può certo dire che non abbia mai avuto mire sul ricco suolo (e sottosuolo) congolese. Quando nel 1996 ha iniziato ad appoggiare il movimento congolese che portò alla caduta del corrotto regime del maresciallo Mobutu, non fu certo per aiutare i congolesi a uscire da quella trentennale dittatura, bensì per mettere mano alle ricchezze del grande vicino. Quando poi il nuovo governo congolese guidato da Laurent Désirée Kabila, in principio suo alleato, rinnegò gli accordi di spartizione, il Ruanda con l’Uganda e il Burundi (tutti guidati dallo stesso ceto politico filostatunitense) non esitarono a scatenare un’invasione, appena camuffata da nuova ribellione. In quegli anni il saccheggio delle risorse congolesi è stato intenso, andando ad arricchire anche i clan personali di Kagame e del suo collega ugandese Museveni (ex protettore e poi anche ex alleato del primo: i due paesi si scontreranno proprio sulla spartizione delle zone di saccheggio in Congo); intensa è stata l’oppressione delle popolazioni dell’est del Congo durante quegli anni, coraggiosamente denunciata proprio dalla Chiesa cattolica.
Quel governo ruandese, inoltre, non è certo un campione di democrazia (quale governo lo è, sul continente africano?). Il suo modello di sviluppo è basato sulla relazione privilegiata dei ceti imprenditori con i mercati internazionali, un modello tipico di molti paesi (Tunisia, Thailandia, per citare qualche esempio) che ha sempre l’effetto di creare economie interne a due velocità: di rapido arricchimento per alcuni ceti urbani e di persistente povertà nelle campagne e nelle periferie, e che ha come corollario apparentemente indissolubile la repressione del dissenso.
Tuttavia ci sono altri aspetti da considerare. Il Ruanda, dopo il genocidio ha espressamente cancellato dalle proprie leggi ogni riferimento alla divisione etnica, e vietato la costituzione di partiti etnici, a differenza dello stesso Burundi, che ha invece sancito le “quote etniche” nelle istituzioni (che questa scelta di buon senso del Ruanda sia denunciata da alcuni come un tentativo di camuffare la struttura etnica del regime ha semplicemente dell’incredibile). Ha inoltre cercato una strada che coniugasse riconciliazione e desiderio di giustizia, separando le principali responsabilità direttive nel genocidio da quelle delle migliaia di esecutori materiali, con il ricorso a forme tradizionali di giustizia popolare. Quando nell’agosto del 2007 il Presidente del Consiglio Prodi ha consegnato un premio al premier ruandese Kagame per aver abolito la pena di morte, gli ambienti religiosi hanno sostenuto che “si trattava solo di una misura politica”: probabilmente è vero, ma non è altrettanto frutto di calcolo politico, a volte persino elettorale, il mantenimento della pena di morte, ad esempio negli USA? Personalmente tra un governo che per calcolo politico uccide i condannati e uno che per calcolo politico abolisce la pena capitale continuo a preferire il secondo. Una politica di riconciliazione, quella ruandese, non certo priva di difficoltà e contraddizioni. Ma chi sarebbe stato maggiormente capace di superare senza scatenare ulteriore odio il trauma del massacro di centinaia di migliaia di persone in un piccolo paese?
Le ricchezze minerarie, il legname, il lavoro e le imprese saccheggiate in Congo durante la finta ribellione dell’est manovrata dai ruandesi e dai loro alleati hanno contribuito ad avviare quel processo di sviluppo legato al mercato mondiale (mentre di certo impoverivano il paese vicino). Oggi però la fase sembra essere cambiata: proprio perché quel processo è avviato, il governo di Kigali sembra interessato a mantenere un’immagine del proprio paese come luogo attraente per gli investitori internazionali, partner affidabile dei paesi ricchi e dotato di una sufficiente stabilità per garantire i profitti. Una nuova guerra difficilmente può far parte di questi piani. Inoltre, le posizioni internazionali del Congo e del Ruanda non sono più inconciliabili, dopo che anche Kinshasa ha riallacciato relazioni politiche privilegiate con Washington.
Tutto questo non presuppone pensare che il governo ruandese sia improvvisamente diventato “buono”: la bontà o la cattiveria non sono categorie di analisi dell’operato dei governi. È solo questione di calcolo politico-economico. Certo, non siamo in grado di affermare con certezza che in futuro la situazione non cambi nuovamente, ma oggi chi si ostina a fomentare la paura dell’invasione ruandese nell’est del Congo non aiuta certo i processi di pace e a volte – come si è visto – magari dietro buone intenzioni di protezione di popolazioni che ne hanno già subite troppe, chiama apertamente al riarmo.
E allora la Chiesa?
Allora la Chiesa cattolica dovrebbe forse prendere atto degli errori commessi, non dalle singole persone, ma come istituzione. Dovrebbe dire chiaramente (non mi risulta che l’abbia mai ammesso) che l’ideologia etnicista propagandata per un secolo nelle parrocchie e nelle missioni è un’invenzione che non corrisponde alla storia reale e ha avuto una funzione di un appoggio al potere coloniale prima e al potere criminale dell’hutu power dopo. Dovrebbe riconoscere e dichiarare pubblicamente – come ha fatto padre Rigobert Minani Buhuzu s.j., un religioso costretto a fuggire da Bukavu per le minacce subite durante la guerra del 1998-2003 – che “il conflitto in Africa centrale sembra essere un’impresa del tutto razionale nell’ottica dei suoi mandanti, tra cui un certo numero di interessi finanziari, politici e diplomatici” e che deriva “dal deragliamento dei processi politici ed economici”, non da supposti odi etnici[38]. Dovrebbe inoltre ripensare la presenza e il ruolo di missionari europei che continuano a vedere la realtà dietro le lenti di ideologie superate.
La Chiesa dovrebbe finalmente ammettere con umiltà che nella tragedia del genocidio la sua posizione è stata quantomeno ambigua e quella di diversi suoi eminenti esponenti è stata di connivenza con il regime genocidiario. Sarebbe un’operazione di verità e giustizia storica di portata paragonabile alle scuse chieste ai popoli nativi d’America per l’appoggio dato all’oppressione coloniale durata 500 anni. Dovrebbe riconoscere che continuare a parlare in termini di aggressione “tutsi” contro gli “hutu” nell’est del Congo è un modo per precludersi ogni comprensione degli avvenimenti e per parteggiare per una delle due supposte parti contro l’altra, aizzando gli animi.
Chiesa e società civile dovrebbero spingere perché si giunga a una forza di pace africana incaricata di disinnescare le continue provocazioni alla pace nell’est del Congo rappresentate non solo dalle milizie di Nkunda, ma anche dalle milizie guidate dagli ex genocidiari ruandesi (Interhamwue ed ex FAR), consegnandone i responsabili alla giustizia. Dovrebbero spingere perché ci siano più e non meno negoziati, e viceversa meno e non più eserciti nella zona. Dovrebbero appoggiare gli sforzi di riconciliazione tra i paesi dell’area, stimolando la cooperazione tra le società civili e non attizzando il fuoco della paura reciproca
Perché comunque non è dai governi, che a Kigali come a Kinshasa sentono più la pressione dei poteri economici che l’urgenza della lotta alla povertà, che ci si può aspettare una pace duratura: la società civile ha molto da fare, nella regione dei Grandi Laghi come in Europa. Con chi vuole stare la Chiesa cattolica?
[1] È morto poco dopo a Roma, alcuni dicono avvelenato.
[2] Congo, cuore di tenebra, in Carta 27/7/2001; Il saccheggio del Congo, in Il Manifesto 28/8/01; L’ostinata resistenza del Kivu, in Il Manifesto 19/8/01.
[3] Ho discusso la valenza analitica di questo termine in un lavoro sulle guerre in Africa in corso di pubblicazione (A. Sciortino, L’Africa in guerra, contro la menzogna etnica, Milano, previsto nel 2008).
[4] M. Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Torino 2000.
[5] J.-P. Chrétien, L’Afrique des Grands Lacs, Parigi 2000.
[6] J. Ki-Zerbo, Storia dell’Africa nera, Torino 1977.
[7] E. M’Bokolo, L’Afrique moderne, Parigi 1977.
[8] E. Kagabo, in Limes, n, 3, 1997.
[9] Nota citata in M. Fusaschi, cit., pag. 98-9.
[10] Fusaschi, pag. 106.
[11] Cit. in Fusaschi, pag. 108.
[12] Citato in Fusaschi, pag. 109.
[13] Citato in F. Reyntjens, Pouvoir et droit au Rwanda, 1985.
[14] Fusaschi, cit., pag. 117.
[15] Fusaschi, cit., pag. 119.
[16] Citato in J-P. Gouteux, Le rôle de l’Eglise au Rwanda, in La nuit rwandaise, n. 1, aprile 2007.
[17] Citato in C. Braeckman, Rwanda – Histoire d’un génocide, Parigi 1994.
[18] J.-P. Touadi, Congo, Ruanda, Burundi. Le parole per conoscere, Roma 2004.
[19] Citato in Reyntjens, 1985.
[20] C. Coquery-Vidrovitch, Africa Nera: mutamenti e continuità, Torino 1990.
[21] Chrétien, cit.
[22] Il Milione, Enciclopedia di geografia, usi e costumi, vol. XIII, Novara 1964.
[23] Vale la pena di leggere, tra gli altri, P. Gourevitch, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con la nostre famiglie. Storie dal Ruanda, Torino 2000.
[24] J.L. Touadi, Congo, Ruanda, Burundi. Le parole per conoscere, Roma 2004, pag. 71.
[25] Basti citare il periodico cattolico francese Golias-Magazine (n. 48-9, estate 1996), che denuncia l’operato di sacerdoti italiani, belgi, francesi e ruandesi durante i massacri; il volume di J.-D. Bizimana (ex seminarista presso i Padri Bianchi), L’Eglise et le génocide au Rwanda: les Pères Blancs et le Négationnisme, Parigi 2001; la lettera aperta che l’associazione African Rights ha indirizzato il 13 maggio 1998 aGiovanni Paolo II, senza mai ricevere risposta; il volume collettivo a cura di Christian Terras, Rwanda: l’honneur perdu de l’eglise, 1999; o ancora l’analisi critica di un gruppo di sacerdoti ruandesi contenuta nel volume Rwanda, l’Eglise catholique à l’épreuve du génocide (ed. Africana, Canada 2000).
[26] Human Rights Watch, Leave None to Tell the Story: Genocide in Rwanda, 1999.
[27] Human Rights Watch, cit.
[28] Citato in Gouteoux, cit.
[29] Ivi.
[30] Gouteux, pag. 184.
[31] Ph. Verwinp, Testing the Double-Genocide Thesis for Central and Southern Rwanda, in Journal of Conflict Resolution, agosto 2003, pag 423.
[32] P. de Saint Exupéry, L’inavouable. La France au Ruanda, 2004.
[33] Congo attualità, Rete Pace per il Congo, 15 maggio 2007.
[34] E. Melandri, L’alba della democrazia. Viaggio nel Congo che cambia, Bologna 2007.
[35] Cfr Radio Okapi, 20.09.’07 e Misna, 20.09.’07, citati in Congo Attualità del 25 settembre 2007.
[36] Padre Luigi Stocco, missionario nell’est del Congo, Lettera aperta a Romano Prodi in occasione della consegna da parte di quest’ultimo a Paul Kagame di un premio per aver abolito la pena di morte nel proprio paese, 1 settembre 2007.
[37] Congo Attualità, n. 72, 25 settembre 2007.
[38] Rigobert Minani Bihuzu s.j., Costruire la pace in Africa centrale, in “Argomenti Sociali”, 1, 2006.