La freccia gli aveva spappolato il cuore e la punta era uscita dall’altro lato, un colpo terrificante. Il centroafricano cadde seduto, con il volto deturpato da un’espressione di stupore immenso, per la scortesia che gli facevano togliendolo dal mondo in quella maniera primitiva.
Tutt’intorno al signor Peròn c’erano facce costernate, come quelle dei bimbi che stavolta sentono di averla fatta grossa e temono l’arrivo dei genitori.
Il signor Peròn stava con la balestra in mano, e ripeteva a bassa voce come si fa col rosario – era uno spacciatore, una prostituta: ché per la paura del momento confondeva i sessi e i ruoli; ed era in stato confusionale.
Gli abitanti di via Giussano cominciavano a defluire:
– Beh, Peròn, buona fortuna, noi si va via…
– Si è fatto tardi Peròn, domani si lavora…
L’amico Lino Fusinieri, commercialista in pensione, fu l’unico a sentire il dovere di qualche parola in più:
– Non temere, testimonieremo tutti che era un fottuto spacciatore…
Ed andò via di buon passo. E via Giussano divenne in pochi attimi popolata solo dal signor Peròn con la balestra in mano e dal centroafricano col cuore spappolato dalla freccia del signor Peròn, il quale in quel momento assurdo ebbe un pensiero inadeguato, e si rammaricò di non poterla più recuperare, quella freccia meravigliosa di raro ebano.
Una abitante in via Giussano, la signora Borlotti titolare della gioielleria “Borlotti e figli – Dal 1984”, chiamò indignata la polizia, dicendo che era uno schifo, che era una vergogna.
– E che cosa è uno schifo, signora, se non le dispiace ? – chiese al telefono il poliziotto stanco di sentirsi quella serie di improperi senza costrutto.
La rabbia del momento e l’accento napoletano del poliziotto mandarono in bestia la signora, la quale disse disperata che solo la loro pazienza permetteva tutto questo, la loro di quelli che pagavano le tasse, e li mantenevano, e loro mandavano i figli a scuola e poi si trasferivano da loro, ad insegnare i loro poeti e non quelli veneti; e infine che era ora di finirla.
E finalmente chiarì l’oggetto del suo profondo disgusto: – Ed è uno schifo che un negro mi viene a morire qui davanti, dico uno di colore perché poi mi dite che sono razzista, insomma questo mi viene a sanguinare davanti alla vetrina, che da un’ora nessuno ha il coraggio di entrare perché c’è il rischio di macchiarsi, e che qualcuno dovrebbe venire a pulire, o a controllare se trattasi di ferito o cadavere.
Il poliziotto mise giù in gran fretta e corse in via Giussano. Vide la scena surreale di un cadavere trafitto di fronte a una vetrina cosparsa di ori e diamanti. Vide le signore che schivavano il morto sul marciapiede, e passavano ritraendo le borsette, specie quelle che le avevano bianche, con degli “oh” delicati.
Le indagini portarono rapidamente al signor Peròn, che nel frattempo era tornato nella sua abitazione e stava guardando in tv una partita di rugby. Suonarono, entrarono.
– Scusi se disturbiamo… – disse il poliziotto con ironia.
– Di nulla – disse il signor Peròn con cortesia affettata.
– Lei ha ucciso un uomo con la sua balestra un’ora fa circa? – chiese il poliziotto, con puntigliosa professionalità.
– No! disse il signor Peròn contrariato. – Era un negro spacciatore.
***
Il signor Peròn abitava all’inizio di via Giussano, al terzo piano. Da tre settimane un gruppo di centroafricani avevano piazzato la loro bancarella accanto al portone. Ogni mattina, il signor Peròn scendeva per andare al lavoro e trovava tre venditori di statue d’ebano che stazionavano lì davanti e gli deturpavano il paesaggio (composto da un sottopasso e un semaforo).
Sconvolto da tanta sfrontatezza, era andato immediatamente dai vigili urbani, che si erano presi l’impegno di sgomberare gli africani a calci e pugni, se necessario.
Lo sgombero era avvenuto un paio di volte, seguito da una pronta re-installazione di fronte allo stabile abitato – tra gli altri – dal signor Peròn. Stanchi di quella noiosa vicenda, i vigili avevano preteso cento euro da ciascuno e li avevano lasciati in pace.
Il signor Peròn, ignaro del complotto ordito alle sue spalle, decise di rivolgersi nell’ordine alla polizia, ai carabinieri, alla guardia forestale, alla polizia provinciale e ai vigili del fuoco.
Ma i tre centroafricani erano sempre lì.
– Voi andare via! – sillabava il signor Peròn la sera, quando tornava a casa, ignorando il poveretto che i tre parlavano correntemente tre lingue, e che lui mai ne avrebbe imparato una seconda.
I centrafricani – va da sé – avevano dei nomi. Ma da quando la signora Domitilla – proprietaria della tabaccheria di via Giussano – aveva scoperto che venivano dal Centroafrica, per tutti divennero i “centrafricani” (chiaramente nessuno aveva una seppur vaga idea di che razza di paese fosse quello, ognuno immaginava cannibali e capanne di paglia e riti selvaggi, balletti orgiastici, animali feroci da documentario).
Il signor Peròn – deluso dall’inefficienza e dall’assenza dello Stato – si recò dalla signora Domitilla, che aveva il nonno pugliese e faceva di tutto per nascondere questa infamia che si portava nel sangue e probabilmente in qualche remoto documento anagrafico.
– Li ho visti signora mia, li ho visti. Spacciano droga, sotto casa mia – disse il signor Peròn dopo aver preso da parte la signora Domitilla, a voce bassa e con fare da cospiratore.
Il signor Peròn non aveva un problema degno di questo nome. Aveva una casa, una seconda casa, un lavoro tranquillo all’ufficio del catasto, il circolo degli amici, l’abbonamento della squadra del cuore, la passione per il rugby, non aveva famiglia e le tasse non sapeva neanche cosa fossero, gli venivano prelevate direttamente in busta paga (va da sé che se ne lamentava in continuazione).
La droga, poi, era per lui un concetto simile a quello del demonio. Ne aveva un’idea vaga – una volta aveva visto al cinema una sostanza simile allo zucchero – ma era il concentrato del male. Lo spacciatore era dunque il distributore del male. Ma alla signora Domitilla non servivano troppe parole.
– Bisogna agire – disse, e si ripromise di parlarne a quello stoccafisso del marito. – Dobbiamo fare da noi, e non aspettare quei parassiti, le truppe di Roma (così chiamava la polizia).
Incoraggiato, il signor Peròn fece il giro dei negozi di via Giussano, ed ovunque trovò ampia disponibilità e formare quella che nei suoi sogni si sarebbe chiamata la “squadra degli sterminatori”. La parola sgombero gli apparve la sola degna di significato, e iniziò ad accarezzare una vecchia balestra acquistata anni fa durante una gita sulle Dolomiti.
Si immaginava capo militare e caposquadra. Brillante stratega e comandante inflessibile, terrore di ogni essere dalla pelle nonbianca. Sognava la signora Borlotti sconvolta di amore e di riconoscenza, che lo sposava e gli co-intestava la gioielleria.
Era una visione celestiale via Giussano libera da quelle orrende cianfrusaglie dense di germi e di malattie infernali. Quelle statue di legno dai volti deformi. Quegli uomini dalla lingua subumana e dai lineamenti scimmieschi.
Il cronista della “Nostra Città” aveva sentito di un comitato che si proponeva di liberare via Giussano dalle bancarelle degli africani. E siccome era agosto e le uniche cose da scrivere erano che si moriva di caldo e che c’erano tante code in autostrada, decise che quella era una buona occasione per tirar su le vendite.
– Signor Peròn, ci descriva dunque l’increscioso dramma di via Giussano. Una polveriera, è vero, pronta ad esplodere…
– Non ne possiamo più. Quelle bancarelle sono solo la copertura per attività di spaccio e di prostituzione. Lo Stato è assente. È uno schifo. Ed hanno pure il coraggio di aumentare le tasse! La gente è stanca! Il cittadino non ne può più!
Il giorno dopo la prima pagina era infestata da un titolo enorme “Via Giussano, la casba della droga” – dove casba era messo lì a caso, solo perché sapeva di esotico.
Un sottotitolo incoraggiava – Ma si è già costituito il comitato per lo sterminio della droga.
***
Il signor Peròn non credeva ai suoi occhi: poter andare in giro con la pagina del giornale che riportava le sue parole, la sua fotografia.
Per creare continuità tra le parole ed i fatti, il signor Peròn ed i suoi amici si radunarono al centro di via Giussano.
C’era chi aveva un bastone, chi una mazza da baseball. Il signor Peròn esibiva con orgoglio spropositato la sua balestra, che aveva lucidato con amore per ore ed ore.
Si avvicinarono grugnendo a ciascuna bancarella, spiegando a monosillabi e borbottii che dovevano andar via. Di fronte alle mazze e ai volti lividi, i centroafricani ripiegavano le loro cose e andavano via in fretta, contando di tornare il giorno dopo, sperando nel buonumore di quella gente lunatica, strana e ricca.
Restava solo la bancarella sotto il portone del signor Peròn. La squadra si diresse di buon passo in quella direzione. Quando erano arrivati, ogni oggetto era stato impacchettato. I tre erano sul punto di andar via. Il signor Peròn puntò trionfante la sua balestra in direzione del centroafricano che gli stava più vicino.
Quest’ultimo offrì una conferma inoppugnabile alla teoria secondo cui la pazienza – in ogni caso – ha un limite. Si produsse in uno sputo olimpico che descrisse un arco e centrò l’occhio sinistro del signor Peròn.
Mentre intorno l’aria echeggiava delle parole – germi – malattie – il dito del signor Peròn aveva lanciato una freccia mortale.
***
“La Nostra Città” titolò il giorno dopo “L’inferno di via Giussano – Arrestato il capo della squadra antidroga”, e bisognava andare in fondo alla pagina per apprendere un particolare insignificante, e cioè che un uomo di pelle scura era stato assassinato.
Le pagine seguenti erano piene delle interviste degli abitanti di via Giussano, che dicevano basta; e che con questa droga era proprio l’ora di finirla; e che noi abbiamo già gli spacciatori nostri; e che ci mancano proprio loro, che al loro paese queste cose sono punite con severità, gli tagliano le mani; ed è per questo che vengono qui, perché sanno che qui la legge non esiste; e che non è che io voglio giustificare quello della balestra; ma il fatto è che con questi extracosi come si chiamano è ora di finirla.