H&M. Italiani e migranti bloccano la filiera globale degli abiti low cost

Filckr © CC
  La logistica tra Pavia e Piacenza era un tipico lavoro da stranieri. Oggi è uno snodo fondamentale della filiera degli abiti a basso costo tra Europa e Asia. Ci lavorano tanti italiani, in gran parte donne. Insieme ai migranti sindacalizzati, chiedono diritti per tutti. Così, un’inedita alleanza di arabi, latini, africani e italiane ha bloccato la produzione di H&M
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A che ora inizia il turno? Ti avverte un sms, ma solo qualche ora prima. E puoi cominciare anche alle quattro del mattino. Quando torni a casa? Lo scopri durante la giornata. C’è chi lavora anche dodici ore di fila. La vita privata non esiste più. Chi ha figli è disperata. Nonostante condizioni di lavoro spaventose, se protesti l’azienda minaccia di andare via.

La logistica tra Lombardia ed Emilia – con epicentro Piacenza – era un tipico lavoro da immigrati. Quello che “gli italiani non fanno più”. Poi c’è stata la crisi e il boom dell’e-commerce e dei centri commerciali. È diventato un buon ripiego per tanti italiani. Però il sistema delle cooperative negli anni si è trasformato in una specie di caporalato legalizzato, denunciano alcuni sindacati. Le condizioni di lavoro sono diventate sempre più difficili.

In questo concentrato di tecnologia e filiera globale, sono gli occhi delle donne ad assicurare un percorso senza intoppi

Molte giovani donne e migranti – che da anni guidano le lotte nel settore – si stanno organizzando per conquistare diritti. In queste settimane un’inedita alleanza di arabi, latini, africani e italiane ha bloccato la produzione di H&M – una multinazionale, ma non l’unica – che usa una filiera globale per produrre abiti a basso costo.

Il magazzino italiano serve a distribuire le merci in dodici paesi nel quadrante sud dell’Europa, nell’Est e negli stati baltici. Si rifornisce dal deposito centrale europeo che si trova ad Amburgo. In Germania i pacchi arrivano da un altro continente. Grandi cargo trasportano gli abiti direttamente dalle fabbriche asiatiche. La materia prima come il cotone arriva da mercati come quello turco.

In questo concentrato di tecnologia e mercato globale sono gli occhi di alcune donne ad assicurare un percorso senza intoppi. Quando i pacchi arrivano, occorre controllare che il codice a 12 cifre in entrata sia uguale a quello in uscita. Altri lavoratori dividono il materiale imballato per taglia e per destinazione (tecnicamente: “unpacking and allocating”).

In Turchia il cotone, in Bangladesh le fabbriche, ad Amburgo il deposito, vicino Pavia il magazzino per il Sud Europa. La sede vera è in Svezia, ma lì non c’è niente

I problemi sono legati soprattutto agli orari di lavoro. Un sms avverte la sera prima dell’inizio del turno. Spesso si comincia in piena notte. L’annuncio di fine lavoro arriva solo mezz’ora prima.

Con il meccanismo delle cooperative, non è difficile sostituire i lavoratori “ribelli”: c’è chi lavora nello stesso posto dal 2011 ed è stato assunto da quattro coop diverse. Per ottenere lavoratori flessibili, si applicano contratti part time, anche se poi l’orario di lavoro arriva a 50 ore.

Dopo un primo blocco del magazzino di Stradella, ad agosto lo sciopero si è esteso a Casalpusterlengo. Italiani e migranti si sono trovati uniti nelle richieste e hanno trovato disponibilità nelle controparti. La vertenza è stata avviata e condotta dal Si.Cobas.

La filiera globale del basso costo

Una signora entra in outlet di Marsiglia (o Varsavia, o Vilnius) e sceglie il suo nuovo vestito. È bello e costa molto poco. Non sa che quella stoffa nasconde una serie di storie spaventose.

Per una serie di coincidenze sono emerse pesanti criticità nella filiera di H&M. Una Ong  ha inviato ad alcune aziende un questionario sulla possibile presenza di profughi siriani (in particolare minori) nella filiera del cotone in Turchia.

La filiera globale degli abiti

Un esempio della filiera H&M: produzione (in viola) nei paesi asiatici, logistica (verde acqua) in Germania e Italia, vendita (giallo) in Est e Sud Europa

La multinazionale svedese ha risposto che è possibile e che si impegna a prendere provvedimenti. Le altre grandi aziende hanno scelto la strada del silenzio.

Parallelamente, la Clean Clothes Campaign ha chiesto la messa in sicurezza della fabbriche in Bangladesh. Tre anni dopo la tragedia di Rana Plaza, quando una grande fabbrica andò a fuoco, le multinazionali della moda non avrebbero ancora fatto abbastanza. H&M, in particolare, non avrebbe preteso la messa in sicurezza del 60% delle fabbriche da cui si rifornisce.

In estate l’opinione pubblica svedese è rimasta scossa da “Modeslavar” (Gli schiavi della moda), un libro che tra le altre cose denuncia l’uso di lavoro minorile in Myanmar da parte di due fornitori di H&M. L’azienda ha prontamente risposto chiedendo verifiche su età e orario di lavoro nelle due fabbriche. 

Più chilometri, meno euro

La filiera di H&M è un caso di studio da anni. Paradossalmente, le merci attraversano i continenti per costare meno. Il mercato di produzione è asiatico (da Turchia a Cina e Bangladesh), quello di consumo europeo, con in testa la Germania.

Tra i documenti dell’azienda, di alcuni anni fa è apparsa una slide in cui si segnalava (come un problema) l’aumento del costo del lavoro in Cina. La soluzione? Spostarsi in Vietnam.

Allo stesso tempo H&M si dice molto attenta al sociale, ospita sul proprio sito molte pagine sui codici di condotta e dice di voler assicurare paghe minime ai propri fornitori. Nella sede di Stoccolma non si produce nulla ma si disegnano gli abiti. La sfida dell’altro ieri era la qualità, quella di ieri il prezzo. Oggi è la logistica.

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