Di Gabriella Scolaro – Capo d’Orlando, febbraio 1997.
Fotografia: Portella della Ginestra.
I N D I C E
INTRODUZIONE ……………………………….. Pag. 1
I FASCI SICILIANI DEI LAVORATORI
– Premessa ……………………………….. >> 12
1. Economia e società nella Sicilia dei Fasci …. >> 15
2. La costituzione dei primi Fasci urbani …….. >> 30
3. Il processo di formazione dei Fasci rurali …. >> 40
4. La strage di Caltavaturo. La diffusione dei
Fasci nelle campagne. I primi scioperi agrari >> 48
5. L’organizzazione regionale dei Fasci siciliani >> 54
6. Composizione e attività sociale dei Fasci ….. >> 59
7. Il ruolo dei contadini nella lotta politica.
Iniziale atteggiamento di apertura da parte del
Partito Socialista Italiano ………………. >> 68
8. La conquista dei poteri pubblici ………….. >> 71
9. Il Congresso di Corleone e gli scioperi agrari
d’autunno ………………………………. >> 76
10. La reazione del Governo e il programma agrario
del Partito Socialista Italiano …………… Pag. 85
11. Le manifestazioni tumultuose contro le tasse .. >> 91
12. I Fasci siciliani dei lavoratori e la mafia … >> 103
13. I tumulti. Gli eccidi ……………………. >> 112
14. Lo stato d’assedio. Gli arresti. Le condanne .. >> 120
– Note …………………………………… >> 129
IL MOVIMENTO CONTADINO E LA LOTTA ALLA MAFIA
DALL’INIZIO DEL NOVECENTO ALLO SCOPPIO DELLA
PRIMA GUERRA MONDIALE
– Premessa ……………………………….. >> 135
1. Il movimento cattolico siciliano ………….. >> 139
2. La Sicilia nel volgere del secolo XIX e nel
primo quindicennio del nuovo secolo ……….. >> 151
a) Il <<Progetto Sicilia>> ……………….. >> 152
b) Il <<Comitato Pro-Sicilia>> e la Sicilia
<<contro>>! ………………………….. >> 160
c) L’emigrazione ………………………… Pag. 172
3. La riorganizzazione del movimento contadino
siciliano: socialismo rurale più cattolicesimo
sociale ………………………………… >> 178
4. Il movimento cooperativo della affittanza
collettiva ……………………………… >> 186
5. La lotta economica e sociale nelle campagne
siciliane di inizio secolo: le organizzazioni
sindacalie gli scioperiagricoli …………. >> 200
6. Giarratana, Castelluzzo, Grammichele: ancora
tre eccidi di contadini siciliani …………. >> 219
7. Il declino del movimento cooperativistico ….. >> 227
8. Il movimento cooperatistico siciliano e la mafia >> 234
9. La restaurazione del blocco agrario ed il calo
del movimento cooperativistico durante la prima
guerra mondiale …………………………. >> 244
– Note …………………………………… >> 248
PRIMO DOPOGUERRA IN SICILIA: RIPRENDE LA LOTTA PER
IL RISCATTO SOCIO-ECONOMICO DELLE MASSE RURALI
1. La guerra ’15-18 e il <<ritorno alla pace>> … Pag. 255
2. Il movimento contadino nel primo dopoguerra … >> 262
3. Il movimento operaio palermitano ed i tentativi
di costituire un fronte di lotta unico
tra operai e contadini. Ma questa unione
“Non s’ha da fare” ………………………. >> 275
4. Un <<Biennio Rosso>> … di sangue! ……….. >> 285
5. Il <<riassorbimento>> del movimento popolare
del primo dopoguerra e la parziale liquidazione
del latifondo …………………………… >> 294
6. Dal biennio <<Rosso>> al ventennio <<Nero>> … >> 302
a) La (mancata) <<irreggimentazione>> dei
contadini siciliani …………………… >> 319
b) L’offensiva contro la mafia ……………. >> 321
– Note …………………………………… >> 328
ANNI QUARANTA, CINQUANTA E SESSANTA: APOGEO, DECLINO
E FINE DEL MOVIMENTO CONTADINO ANTIMAFIA
1. Lo sbarco alleato ed il riemergere della mafia Pag. 335
2. Il movimento separatista …………………. >> 340
3. Il <<benvenuto>> della mafia a Girolamo
Li Causi, ed il difficile inverno 1944-45 ….. >> 359
4. Le lotte per l’applicazione dei decreti Gullo >> 375
5. Ricomincia la tattica mafiosa di sfruttamento-
repressione del movimento contadino ……….. >> 390
6. Dall’assassinio di Accursio Miraglia alla strage
di Portella della Ginestra ……………….. >> 405
7. Le ripercussioni della svolta politica del ’47
sul movimento popolare …………………… >> 421
8. La <<campagna elettorale>> della mafia per le
elezioni politiche del 18 aprile 1948: gli
omicidi di Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e
Calogero Cangelosi ………………………. >> 426
9. L’inizio dell'<<era>> democristiana ……….. >> 441
10. Le lotte per la terra del 1949-50 …………. >> 451
11. La riforma agraria: finalmente il movimento contadino … viene sconfitto! ……………. Pag. 464
12. Gli ultimi caduti del movimento contadino
antimafia ………………………………. >> 476
– Note …………………………………… >> 482
APPENDICE – Interviste a testimoni privilegiati dell’associazionismo antimafia degli
anni Ottanta e Novanta ……………. >> 493
NOTE BIBLIOGRAFICHE …………………………. >> 597
INTRODUZIONE
Nei primi anni Novanta, l’attenzione di numerosi giornalisti, sociologi e intellettuali in genere, è stata attirata dal <<fenomeno>> del movimento antimafia siciliano.
Ad accendere l’interesse nazionale ed internazionale sono stati tre avvenimenti che hanno fortemente caratterizzato questo movimento.
Mi riferisco innanzitutto, primo avvenimento, alla rivolta di Capo D’Orlando – un paese di circa dodicimila abitanti, in provincia di Messina – i cui commercianti, dopo aver ricevuto le prime richieste e minacce estorsive, hanno deciso di non seguire un copione già recitato troppe volte in altre parti della Sicilia (e non solo), il cui finale vede il completo asservimento del commerciante all’organizzazione mafiosa e il controllo del territorio da parte di quest’ultima. NO, i commercianti orlandini hanno scritto essi stessi il loro copione. Hanno dimostrato che <<L’unione fa la forza>> non è solo un semplice proverbio ma un percorso da seguire se si vuole uscire vittoriosi dalla lotta contro la mafia. Essi, nel 1990, hanno costituito l’ACIO (Associazione Commercianti e Imprenditori Orlandini), la prima associazione antiracket, e forti dell’appoggio reciproco, hanno denunziato, hanno fatto arrestare e condannare chi voleva loro togliere denaro, libertà e dignità (vedi appendice, intervista a Tano Grasso).
La vicenda orlandina ha dato vita ad un vero e proprio movimento antiracket: numerose sono le associazioni nate, non solo in Sicilia, sull’esempio dell’ACIO (nel 1996 in Italia si sono contate oltre quaranta associazioni; vedi appendice, intervista all’ASAEC).
Gli altri due avvenimenti, che hanno profondamente scosso le coscienze dei siciliani, sono: la strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani; e la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, che ha visto come vittime il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina.
Questi due attentati mafiosi hanno raggiunto lo scopo di eliminare proprio quei giudici che, più di tutti, erano riusciti ad infliggere duri colpi all’organizzazione Cosa Nostra, grazie anche alla preziosa collaborazione dei cosiddetti <<pentiti>> ed al lavoro in pool con i giudici Antonino Caponnetto, Giuseppe Ayala, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Negli anni in cui operò il pool antimafia – dal 1983 al 1988 – e cioè durante l’istruzione e subito dopo la sentenza del maxiprocesso a Cosa Nostra, solo una piccola parte di coloro che dopo le stragi del ’92 avrebbero preso parte ai cortei ed alle varie iniziative, erano impegnati attivamente nel movimento antimafia. Quest’ultimo si basava, allora, su alcune importanti associazioni – ancora esistenti – come il Centro Siciliano di Documentazione <<Giuseppe Impastato>>, operante dal 1977 (vedi appendice, intervista ad Anna Puglisi); l’Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, ufficialmente costituita nel 1984 (vedi appendice, interviste a Giovanna Terranova, Elvira Rosa ed Antonia Cascio); l’Associazione coordinamento antimafia, nata nel 1986, dopo un tentativo fallito di costituire un coordinamento operativo tra le associazioni antimafia allora esistenti; il Centro sociale S. F. Saverio costituito nel 1986 (vedi appendice, intervista ad Augusto Cavadi). I più, invece, seguivano a distanza il lavoro di questi magistrati, facendo mancare loro quella solidarietà che, forse, avrebbe reso un pò meno pesante il loro lavoro. Pochi furono, in quel periodo, gli episodi in cui i cittadini di Palermo – mi riferisco, naturalmente, a quella gran parte che non era impegnata nelle suddette associazioni – espressero chiaramente il proprio sostegno ai giudici; protagonisti di questi pochi episodi furono soprattutto i giovani, come ricorda lo stesso Antonino
Caponnetto, il quale sottolinea l’importanza da loro attribuita a queste manifestazioni:
“Lavoravamo anche diciotto ore al giorno. E qualche soddisfazione, in quel periodo, cominciò a venirci proprio dalla società civile. Furono soprattutto gli studenti a darci un grosso sostegno morale. Ricordo in particolare la presentazione del film di Ferrara <<Cento giorni a Palermo>>. Fu forse l’unica volta che vidi un film in quegli anni. C’eravamo tutti noi del pool. Quella sera sentimmo particolarmente vivo il calore dei tantissimi giovani che affollavano la platea; alla fine ci si strinsero attorno in un abbraccio solidale, affettuoso, chiedendo le cose più disparate (…) In quel momento sentimmo che una parte di Palermo ci era vicina. Paolo amava dire ‘Fanno il tifo per noi. Andiamo avanti così, perché stanno facendo il tifo per noi’. Giovanni, nei suoi giudizi, era invece più scettico, più distaccato: ‘E’ difficile che io cambi idea. Mi sembra che questa città stia alla finestra a vedere come finisce la corrida’” (A. Caponnetto, 1992, p. 50)
Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio forte ed alto si levò, invece, il grido di ribellione di migliaia di siciliani, e quell’affetto e quella stima che troppo spesso erano mancati a Falcone ed a Borsellino in vita, vengono espressi dopo la loro morte.
Già i funerali del giudice Falcone videro la commossa e massiccia partecipazione dei palermitani, e fusubito percepibile che qualcosa era cambiato: si aveva la voglia di esprimere i propri sentimenti e si sentiva la colpa per non averlo fatto prima.
Da quel giorno si susseguirono le manifestazioni e le iniziative antimafia e l’ennesima, orribile, strage di mafia, quella del 19 luglio 1992, non fermò ma rafforzò questo movimento.
Risalendo indietro nel tempo, si erano già avute ondate di manifestazioni dopo la strage di Ciaculli,del 1963, costata la vita asette militari: “il tenente dei carabinieri Mario Malausa, i marescialli della stessa arma Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, i carabinieri Eugenio Altomare e Mario Farbelli, nonché il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio e il soldato Giorgio Ciacci. La reazione a questa ultima crudele violenza agì di spinta decisiva alla istituizione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso, la cui proposta di legge da anni giaceva negli archivi di Montecitorio” (F. Renda, 1993, p. 5).
Ma soprattutto dopo l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di polizia Domenico Russo, il 3 settembre 1982. Questa strage catapultò il fenomeno mafia alla <<ribalta>> della stampa e dell’opinione pubblica nazionale, ed accelerò l’approvazione della legge antimafia Rognoni-La Torre, il cui principale autore, Pio La Torre, era morto per mano mafiosa il 30 aprile 1982.
Rispetto a queste precedenti ondate di reazione, le manifestazioni del ’92 contaronouna più massiccia partecipazione popolare: a Palermo, il 27 giugno 1992, oltre 100.000 persone provenienti da tutta Italia, parteciparono alla manifestazione congiunta organizzata dai sindacati; circa 150.000 furono i partecipanti al corteo del 23 maggio 1993. A <<contare>> però, non erano i numeri ma la partecipazione veramente sentita della gente. Sono nati anche nuovi strumenti di espressione, di comunicazione, di protesta, come il lenzuolo (vedi appendice, intervista a Beatrice Monroy), il segnalibro, il digiuno antimafia (vedi appendice, intervista a Elvira Rosa); e si è realizzato, finalmente, un coordinamento cittadino – denominato <<Palermo Anno Uno>> (vedi, appendice, intervista a Nino Lo Bello) – tra le varie associazioni.
Sono state proprio queste novità del movimento antimafia siciliano – le associazioni antiracket, la massiccia partecipazione popolare alle varie iniziative e questi inediti mezzi di espressione – ad avere più che mai attirato l’attenzione nazionale ed internazionale.
Da siciliana e cittadina di Capo d’Orlando (ove risiedo da oltre vent’anni), mi sono sentita molto coinvolta – emotivamente e culturalmente – da questo fermento democratico che sembrava averescosso all’improvviso la cosiddetta <<società civile>> della mia regione.
Prima di tutto l’esperienza dell’ACIO. Ho vissuto il clima di terrore che all’inizio degli anni Novanta si era diffuso nel mio paese per colpa degli attentati mafiosi che avevano cominciato a colpire diversi esercizi commerciali. Per la nostra comunità questo rappresentava una tremenda novità. Questi atti criminali (attuati da due famiglie mafiose di Tortorici, un paese dei Nebrodi) prima che un
attentato ai nostri beni, rappresentavano un attentato alla nostra libertà, al nostro diritto di vivere una vita tranquilla, <<normale>>. Ho seguito con coinvolgimento, profonda ammirazione e riconoscenza, l’esperienza dei commercianti che avevano deciso di ribellarsi, da subito, al tentativo mafioso di <<controllare>> le loro attività (commerciali e non). Nell’ottobre del ’91, ho voluto respirare, anche solo una volta (impegni personali mi hanno impedito di essere, come avrei voluto, più presente) quell’aria di <<fiduciosa tensione>> che vi era nell’aula del Tribunale di Patti – ove si celebrava il processo agli estortori – che era meta, ogni giorno, di scolaresche e cittadini, orlandini e non, che volevano stringersi attorno ai soci dell’ACIO. Ho vissuto la progressiva militarizzazione (a partire dal giorno dopo l’uccisione di Libero Grassi) del mio paese, difendendo – con fervore – la scelta civile dei commercianti di fronte a coloro (per fortuna non molti) che accusavano <<loro>> di aver fatto perdere a Capo d’Orlando la sua rinomata tranquillità e vocazione turistica, non rendendosi – stupidamente – conto che, al contrario, i commercianti stavano rischiando anche per noi, proprio per difendere quella tranquillità e per far sì che il nostro paese continuasse a rimanere <<nostro>>.
Tutta questa esperienza ha fatto nascere in me la voglia di conoscere, prima, e analizzare, poi, altre esperienze di
rivolta alla mafia che si stavano svolgendo o si erano svolte in Sicilia; anche perché quando la fase processuale dell’ACIO era ancora in corso (si sarebbe conclusa in Cassazione nel giugno del ’93) si verificarono le stragi di Capaci e di via D’Amelio e, quindi, la commossa reazione popolare. Cosicché, nel 1993, ho deciso di svolgere la mia tesi di laurea proprio sul <<fenomeno>> del movimento antimafia siciliano.
L’opinione prevalente, allora, era che l’esperienza dell’ACIO e del movimento antiracket – che si è sviluppato, di fatto, solo nella Sicilia orientale – e le tragiche stragi del ’92, avevano segnato, una sorta di spartiacque tra un vecchio e un nuovo modo di porsi dei siciliani nei confronti della mafia: mentre prima essi avrebbero avuto, quasi tutti, un atteggiamento nel migliore dei casi indifferente e nel peggiore di collusione e sostegno, con questi avvenimenti si sarebbe attuata una <<rivoluzione delle coscienze>> e quell’atteggiamento sarebbe completamente cambiato, fino ad arrivare ad una netta contrapposizione al fenomeno mafioso.
Mi è bastato approfondire un pò l’argomento per rendermi conto che questa immagine – veicolata dai mass-media – era distorta. Già durante la realizzazione delle interviste ad alcuni protagonisti del movimento antimafia (realizzate nell’inverno ’93-94) ho potuto constatare che
alcune delle associazioni che avevano organizzato i cortei e le manifestazioni antimafia del dopo-stragi erano attive, in realtà, già da diversi anni. Per di più, in vari testisulla storia della mafia ho letto che la scalata al potere dell'<<Onorata società>> era stata fatta anche sul sangue di numerosi contadini, uccisi dai mafiosi perché avevano osato ribellarsi all’ordine costituito.
Pertanto, per meglio capire ed analizzare la resistenza degli anni Novanta, che per tanti versi appariva rivoluzionaria, ho sentito l’esigenza di ricostruire una storia del movimento antimafia, di scavare, cioè nella storia contemporanea siciliana – sino al periodo in cui può farsi risalire la nascita della mafia – per evidenziare passate esperienze di lotta alla mafia.
Ho potuto così accertare che, contrariamente a quanto generalmente creduto, la ribellione alla mafia non rappresenta assolutamente per il popolo siciliano – o quanto meno per la parte migliore di esso – una novità degli ultimi anni. Al contrario, essa conta una storia quasi altrettanto lunga di quella della mafia. Infatti, mentre la caratterizzazione di quest’ultima in vera e propria organizzazione criminale ed in sistema di potere economico e politico è avvenuta in concomitanza con la costituzione dello Stato unitario in Sicilia, la prima cosciente ed organizzata reazione popolare contro la mafia risale al
1893, anno in cui si diffusero nelle campagne dell’entroterra i Fasci dei lavoratori. Può dirsi, dunque, che il movimento antimafia si è sviluppato parallelamente al potere mafioso, nascendo come la più nobile reazione di quei soggetti sociali che erano direttamente soggiogati da tale potere, che impediva loro qualunque reale processo di evoluzione economica e sociale. Mi riferisco, in particolar modo, a quelle centinaia di migliaia di contadini che per sessant’anni furono coraggiosi protagonisti di una lotta
cruenta, che li portò al sanguinoso scontro fisico, direi quotidiano, con i <<mammasantissima>>, combattendoli sul piano economico, avanzando concrete rivendicazioni volte a scardinare le posizioni privilegiate che costoro si erano costruite sul sudore, ed il sangue, dei <<viddani>>.
Oltre che dalla origine centenaria del movimento antimafia, la mia attenzione è stata rapita, perciò, dalla intensità, dallo spessore delle lotte contadine, dal loro carattere di massa, dalla loro continuità nel tempo e progressiva, costante evoluzione verso obiettivi sempre più <<azzardati>>, dallo sterminio cui andarono incontro.
Ho cercato, allora, di raccontare – innanzitutto a me stessa – come erano nate e si erano sviluppate nell’Isola queste prime battaglie popolari contro il sistema di potere mafioso. Questo lavoro ha finito per <<assorbirmi>>. Così, ho deciso di dedicare ad esso tutta la tesi, e di
<<rilegare>> in appendice le interviste che avevo fatto ad alcuni testimoni privilegiati dell’associazionismo antimafia degli anni ’80-90.
I FASCI SICILIANI DEI LAVORATORI
Il movimento dei fasci siciliani dei lavoratori del 1892-94 è stato il primo movimento organizzato che si è contrapposto alla mafia ed al sistema di potere economico e politico che essa apertamente appoggiava.
Ciò che distinse i fasci dei lavoratori dalle rivolte contadine che erano già scoppiate in Sicilia durante tutto il XIX secolo, fu proprio il loro essere <<organizzati>>. La protesta rabbiosa che era stata espressa precedentemente dai contadini nelle sommosse, non era stata incanalata, coordinata, guidata, ed era rimasta, quindi, fine a se stessa. Nel 1892, invece, l’organizzazione nacque contemporaneamente alla protesta, chiarendone e rafforzandone i contenuti:
“(…) le forme tradizionali assunte dal malcontento dei contadini furono estremamente primitive, e praticamente prive di qualsiasi contenuto ideologico, programmatico od organizzativo. In ogni tempo, i contadini hanno odiato i padroni, i loro intendenti e la borghesia; i <<berretti>> (…) odiavano i <<cappelli>> (…) In tempo di rivoluzione, e cioè ogni qualvolta una delle grandi e cronicamente sediziose città dell’isola – Palermo, Catania o Messina – dava il segnale, i contadini insorgevano con cieca e selvaggia violenza, occupando le terre comuni, saccheggiando i municipi, gli uffici delle imposte, gli archivi comunali, le case e i ritrovi della nobiltà (…) Il XIX secolo è un continuo succedersi di queste sommosse; nel 1820, nel 1837, nel 1848, nel 1860 e nel 1866. Il movimento dei fasci, oltre ad essere il più esteso, è anche il primo che possa essere definito organizzato, con dei capi, un’ideologia moderna e un programma; è questo, in effetti, il primo movimento contadino che si distingua da una semplice reazione spontanea dei contadini”. (E.J. Hobsbawm, 1966, pp. 122-123).
Nella storia del movimento dei fasci siciliani si possono distinguere due fasi.
La prima fase è quella preparatoria: iniziò ufficialmente il Primo maggio 1891, con la costituzione del fascio di Catania; finì nell’estate 1892, in seguito alla nascita del fascio di Palermo ed alla costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani (avvenuta al congresso di Genova del 4 agosto 1892). In verità il primo fascio siciliano venne costituito a Messina il 18 marzo 1889, ma ebbe vita effimera in quanto il suo fondatore, Nicola Petrina, venne arrestato nel luglio dello stesso anno, e rilasciato nel 1892; inoltre, e soprattutto, il fascio di Messina (sull’ esempio dei fasci operai nati nell’Italia centro-settentrionale a partire dal 1871) non riuniva i singoli lavoratori ma le società operaie della città, le quali conservavano la propria autonomia, il proprio statuto e indirizzo economico.
A caratterizzare i primi passi del movimento dei fasci furono la sua iniziale diffusione nella Sicilia orientale, soprattutto nel catanese, ed il suo carattere urbano. La situazione cominciò a mutare rapidamente con la costituzione del fascio di Palermo, il 29 giugno 1892: fu proprio da qui, infatti, che il movimento si irradiò in tutta la Sicilia. Altra tappa fondamentale fu la costituzione ufficiale del Partito dei Lavoratori Italiani, in quanto, in seguito al congresso di Palermo del 21 e 22 maggio 1893, tutti i fasci furono obbligati ad aderirvi.
La seconda fase è quella “di maturazione e di sviluppo” (F. Renda, 1975, p.110): il movimento acquistò il suo carattere di massa, grazie soprattutto al diffondersi dei sodalizi nelle campagne della Sicilia centro-occidentale. Questa nuova fase si aprì nel settembre del 1892, con la nascita sempre più tumultuosa di nuovi fasci in tutta l’Isola; culminò con i congressi e le grandi manifestazioni del 1893; e si chiuse drasticamente con lo stato d’assedio e le persecuzioni del gennaio 1894.
Prima di procedere nella trattazione del movimento dei fasci siciliani, tenterò di <<fotografare>>lasituazione economica e sociale dell’Isola negli anni che videro nascere e svilupparsi questo movimento. Inizierò con la Sicilia del latifondo, scenario principale delle lotte del periodo considerato.
1. ECONOMIA E SOCIETA’ NELLA SICILIA DEI FASCI
Per comprendere la grande diffusione dei fasci nei centri rurali, soprattutto della Sicilia centro-occidentale,
e quindi la massiccia e predominante partecipazione dei contadini al movimento, basta esaminare le tristi condizioni in cui versava, ancora ad un trentennio dall’Unità, la classe contadina.
Come si sa, in Sicilia si giunse in ritardo, anche rispetto al Mezzogiorno continentale, alla promulgazione delle leggi eversive della feudalità. Inoltre, per molto tempo queste leggi non vennero effettivamente attuate:
“Nel Mezzogiorno continentale la legge eversiva della feudalità, promulgata nel 1806, era stata subito messa in esecuzione. In Sicilia la legge del 1812 venne invece seguita da provvedimenti degli anni 1816, 1817 e 1818, senza che ancora nel 1820 si potesse dire che la feudalità fosse stata abolita (…) La legislazione eversiva proseguì con decreti e leggi del 1825, del 1838 e del 1841, ma i suoi effetti furono pochi, e diversi da quelli sperati”. (R. Catanzaro, 1991, p. 87).
Benché i feudi fossero stati trasformati in allodi,
vale a dire in proprietà private di pieno titolo, non si
assistette alla formazione di una consistente classe di piccoli e medi proprietari. Le terre vendute dai baroni in
dissestofinanziariofinivano peringrandire ulteriormente o i latifondi di altri ex-feudatari o le già grandi proprietà di gabelloti (affittuari) arricchiti. Il latifondo, quindi, continuava a caratterizzare l’agricoltura e la struttura sociale siciliane. Per di più, le condizioni dei contadini erano peggiorate per la perdita, in seguito alla eversione della feudalità , dei diritti comuni e degli usi civici.
La situazione non mutò,sostanzialmente,neanche con l’unificazione italiana:
“Lo Stato italiano in Sicilia venne meno al compito fondamentale di rispondere alla fame di terra e di promuovere il sorgere di una classe di piccoli e medi proprietari (…)” (Catanzaro, 1991, p. 101).
Infatti, “La censuazione dei demani pubblici e dei beni ex-ecclesiastici non intaccò minimamente il latifondo (…)” (M. Ganci, 1977, p. 99), al contrario, contribuì a rafforzarlo poiché i terreni, concessi in enfiteusi o venduti, vennero in gran parte accaparrati, ancora una volta, dai grandi proprietari terrieri e dai gabelloti:
“Se diamo uno sguardo alla distribuizione dei beni ecclesiastici venduti o dati in enfiteusi fino al 1882, si nota uno squilibrio netto a favore della grande e media proprietà (…) La piccola proprietà ott(enne)soltanto il 7,4%” (Catanzaro, 1991, p. 103).
La figura del gabelloto era nata nel corso del XIX secolo, in seguito alla tendenza dell’aristocrazia siciliana a trasferire la propria residenza nella città di Palermo, cedendo le terre dell’interno, dietro corresponsione di una gabella, a degli affittuari che vennero, per questo, chiamati gabelloti. Il mercato delle gabelle, nella Sicilia centro- occidentale, era in gran parte controllato, gestito, dalle organizzazioni mafiose. Molti gabelloti, di conseguenza, erano affiliati a queste organizzazioni, così come i sovrastanti – uomini di fiducia dei gabelloti – ed i campieri, i quali costituivano una sorta di polizia privata del feudo.
I gabelloti, a loro volta, subaffittavano le terre ai contadini, ad un canone di gran lunga superiore alla gabella che erano tenuti a pagare ai proprietari. Essi speculavano sullo stato di bisogno dei <<villani>>; inoltre, spalleggiati dai campieri e dai soprastanti, ricorrevano alla violenza per tenere assoggettati i contadini e per far desistere i proprietari da eventuali aumenti degli affitti.
“Proprietari di feudi da una parte, mezzadri e braccianti dall’altra. In mezzo la classe dei gabelloti che basa la sua potenza economica sullo sfruttamento limite dei contadini. E se qualcuno di questi cercava di ribellarsi, di far valere il suo diritto ad una vita che potesse dirsi umana, ci pensavano i campieri e la maffia a farlo recedere dal suo proposito (…) Vera e propria classe chiusa, quindi, quella dei gabelloti, che mira ad arricchirsi con ogni mezzo, per sostituirsi all’antica aristocrazia di origine spagnola, nella proprietà della terra” (M. Ganci, 1977, p. 109).
Fu proprio con questi sistemi che i gabelloti riuscirono ad accumulare il denaro che permise loro diacquistarele terre degli ex-feudatari e di partecipare alle aste dei beni ecclesiastici. Di qui,
“Seguì un <<salto di classe>>:il gabelloto, ormai divenuto latifondista, si faceva riconoscere dalla monarchia borbonica e poi da quella sabauda un titolo nobiliare, di solito quello di barone; chi non ci riusciva si contentava di quello di galantuomo” (M. Ganci, 1986, p. 9).
Trent’anni dopo l’Unità d’Italia, e cioè nel periodo in cui cominciarono a sorgere i primi fasci dei lavoratori, i rapporti sociali e di lavoro nel latifondo erano ancora basati sulle seguenti classi: i grandi proprietari terrieri; i gabelloti; i borgesi; i coloni; ed i giornalieri agricoli
(Cfr. Catanzaro, 1991, p. 89).
Dei proprietari terrieri e dei gabelloti abbiamo già parlato. Borgesi venivano chiamati in Sicilia i contadini piccoli e medi proprietari, cioè coloro che, in qualche modo, erano riusciti ad acquistare qualche ettaro di terra, in seguito al processo di commercializzazione della stessa ed alla vendita dei terreni della manomorta ecclesiastica (1).
Le condizioni di questa classe erano rese difficili dalle numerose tasse che gravavano su di essa, e dal continuo ricorso a prestiti usurari, conseguenza inevitabile “dell’immobilizzo di capitale che era stato necessario per l’acquisto della terra” (S.F. Romano, 1959, p. 74).
Tutto questo costringeva, soprattutto i piccoli proprietari, a prendere a mezzadria altri terreni ed a dipendere, anch’essi, dall’economia del latifondo:
“La condizione tristissima di vita dei medi e piccoli proprietari in questo periodo basta a spiegare la presenza, in parte anche la partecipazione, di questo strato sociale almovimento di protesta dei Fasci” (S.F.Romano,1959, p. 75).
La maggior parte dei proprietari, come abbiamo già detto, preferiva cedere la propria terra, ai gabelloti. Costoro la subaffittavano ai coloni, sottoponendoli a dei contratti iniqui ed angarici.
I patti colonici più diffusi, alla fine dell’Ottocento, nella Sicilia del latifondo erano la mezzadria, o metaterìa, ed il terratico.
Sulla base del contratto di mezzadria il concedente metteva a disposizione del colono la terra e anticipava le sementi, il colono era tenuto a fare tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva ripartito con vari sistemi:
“Secondo gli usi dei luoghi la natura dei terreni o la più o meno durezza dei padroni, e la concorrenza dei lavoranti, sono infinite in Sicilia le minute varietà del contratto di metaterìa, e che vertono specialmente sui patti di restituzione della semenza e sul maggior e minor numero di diritti, che deve pagare il contadino sulla sua parte” (S. Sonnino, 1974 (I ed. 1876), p.24).
Nonostante le diverse varianti, alla base del contratto di mezzadria c’era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario o, più spesso, del gabelloto. “Il contadino dell’interno, e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, era indebitato in permanenza col gabelloto per una serie di ragioni. Prima di tutto, il contratto lasciava al coltivatore meno di un quarto del raccolto. Secondo, il contratto era verbale, circostanza che lasciava spazio ad abusi da parte del gabelloto. Terzo, questi usava due misure diverse: una piccola quando distribuiva sementi, prestiti e altri <<soccorsi>> in grano; e una più grande quando reclamava la restituzione di tali anticipi e la sua parte del raccolto al momento della trebbiatura. Quarto, dalla sua misera quota, il mezzadro doveva prelevare diversi <<donativi>>che il gabelloto distribuiva tra i campieri. Questi donativi erano in realtà tributi che il contadino pagava in cambio di protezione. Quinto, i tassi di interesse erano alti: dal 25 a più del 100 per cento. Infine, non bisogna dimenticare che i rischi della produzione gravavano in buona parte sulle spalle del mezzadro”( A. Blok, 1986, p. 61).
Il contratto di terratico era, per il contadino, ancora più pesante e svantaggioso di quello di mezzadria. Mentre in quest’ultimo contratto il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto (il che rendeva il concedente direttamente interessato alla buona riuscita della produzione), nel terratico il colono doveva invece corrispondere al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dalla buona riuscita del raccolto; bastava, quindi, una cattiva annata per costringere il terratichiere a ricorrere all’usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva.
Il terratico fu imposto sempre più diffusamente nel corso del XIX secolo, in seguito alla liberalizzazione della proprietà dai vincoli feudali, e all’instaurarsi di una certa concorrenza tra i nuovi proprietari o tra i nuovi possessori. Costoro, approfittando delle condizioni sempre più misere dei contadini, i quali erano stati privati anche degli usi civici, riuscirono ad imporre loro questo contratto capestro.
Una delle rivendicazioni principali del movimento dei fasci sarà proprio la sostituzione del terratico con la mezzadria.
I giornalieri agricoli o braccianti costituivano, secondo il Sonnino (1974, p. 49), “la classe la più numerosa dei contadini siciliani. Anche il terratichiere o il metatiere diventa(va) bracciante e loca(va) la sua giornata quando non (aveva) lavoro nel suo campo”.
A parere del Catanzaro (1991, p. 93), invece, “Nel latifondo della Sicilia centro-occidentale non esisteva (…) o era esigua (…) una classe di salariati puri o di meri braccianti”, poiché costoro venivano impiegati soltanto nei periodi dell’anno dedicati alla semina e alla raccolta del grano; inoltre i salari erano bassi in quanto, a causa del sistema della gabella e del subaffitto, spesso coloro che li pagavano erano anch’essi contadini e, quindi, poveri:
“Entrambe queste condizioni, accompagnate dal fatto che spesso buona parte del salario veniva pagata in natura, davano luogo ad una serie di figure miste in cui la proprietà o l’affitto di piccole quote di terreno si accompagnavano ad attività lavorative salariate” (R. Catanzaro, 1991, p. 93).
Nei periodi di occupazione, i giornalieri agricoli si offrivano, tutte le mattine, sulle piazze dei loro paesi, sperando di essere ingaggiati dai campieri o dai sovrastanti dei feudi, per una giornata o per una settimana di lavoro.
Alla base della attiva partecipazione dei braccianti al movimento dei fasci, vi era la loro mai soddisfatta aspirazione alla terra, che li portò spesso all’occupazione dei demani pubblici (come ad esempio a Caltavaturo), nella illusione di poter finalmente essere indennizzati dell’usurpazione dei diritti comuni e degli usi civici. Altra loro speranza era, naturalmente, quella di vedere aumentate le loro misere mercedi.
Fin qui la situazione della Sicilia del latifondo, e quindi,soprattutto, di quella centro-occidentale,al tempo dei fasci. Questa fu, come ripetiamo, la zona in cui si assistette alle manifestazioni più intense del movimento.
Ma i primi fasci siciliani nacquero nella Sicilia
orientale, a Messina e a Catania, ed erano essenzialmente di carattere urbano; anche l’attività del fascio di Palermo, d’altronde, nei primi mesi non riguardava che gli operai della città. Inoltre, accanto a questi ultimi ed ai contadini (coloni e braccianti) e borgesi del latifondo, troviamo nei fasci: gli <<zolfatari>>, cioè coloro che lavoravano nelle miniere di zolfo (diffuse soprattutto nelle province di Caltanissetta e di Agrigento); ed i lavoratori, soprattutto braccianti, delle zone costiere. Perciò, ci sembra opportuno accennare anche alla condizione economica nel periodo dei fasci: della Sicilia orientale; dei lavoratori delle città; degli zolfatari; e dei contadini delle zone costiere.
La Sicilia orientale si trovava in una situazione economica migliore rispetto alla Sicilia centro-occidentale.
Questa differenza era dovuta alla presenza, nella parte orientale, di una maggiore divisione della proprietà terriera, e di una più larga diffusione di aree a coltura intensiva, in particolar modo di agrumeti, vigneti e oliveti.
La maggiore estensione di colture arboree:
“Portava un non irrilevante spostamento sia nell’indice di occupazione dei braccianti, dato che tutti i lavori eran fatti manualmente, sia nella iniziale lievitazione dei salari, e non produceva la esasperazione dei rapporti fra i diversi ceti economici, per la inesistenza, in tal tipo di colture, di una grossissima proprietà fondiaria e del fenomeno (almeno al livello di diffusione generale) della classe dei gabelloti” (A. Carrà, 1968, p. 70).
Anche nella Sicilia orientale, comunque, vi erano dei latifondi e, con questi, le figure tipiche che li caratterizzavano:
“Tutta la piana (di Catania, N.d.a.) è divisa a latifondo o ex-feudi, che si affittano ai ricchi gabelloti. Questi (…)subconcedono ai contadini, a metaterìa o retrometateria, la terra da coltivarsi a cereali o a baccelline” (S. Sonnino, 1974, p.35).
“Castroreale e Barcellona (…) Nella parte montana di questi comuni ritroviamo i pascoli naturali, i feudi dati a gabella e i terratici dei villani” (S. Sonnino,1974, p. 79).
Passiamo ora all’analisi della condizione operaia nelle principali città siciliane: Palermo, Catania e Messina. Bisogna, innanzitutto, dire che la scarsa e poco produttiva industria siciliana, sorta nei primi anni dell’ Ottocento (2), alla fine del secolo era già in fase di esaurimento, in quanto, dopo l’Unità d’Italia, si trovò a dover concorrere con la fiorente industria settentrionale.
Palermo, dal punto di vista industriale, nella seconda metà dell’ Ottocento e nei primi quindici anni del Novecento fu dominata dalla dinastia dei Florio. Costoro, secondo Massimo Ganci, costituivano l’unico esempio di grande borghesia industriale nella città e nella provincia di Palermo. Il loro potere economico si rivelò soprattutto nel campo enologico e dell’armamento navale (nel 1881, insieme ai Rubbettino di Genova, fondarono la <<Navigazione Generale Italiana>>, la più potente società armatoriale italiana). Ai
Florio si deve, tra l’altro, la fondazione della fonderia
Orotea e, nel 1896, del Cantiere Navale.
Nell’ultimo decennio del XIX secolo, per quanto riguardava l’industria pesante, oltre alle suddette industrie troviamo soltanto uno stabilimento meccanico e l’usina del gas. L’industria leggera si basava soprattutto sulla lavorazione dei prodotti alimentari, era poco sviluppatae più simile all’artigianato che all’industria vera e propria.
A Catania vi erano gli unici impianti di raffinazione e ventilazione dello zolfo presenti in Sicilia. Questa città presentava:
“(…)un forte quadro operaio, un’altapercentuale del quale era di metallurgici, chimici, tessili, ferrovieri, edili. Intensa l’attività portuale che, seconda rispetto a Palermo, precedeva quella trapanese. Ma la ricchezza della provincia catanese si basava soprattutto sull’evoluzione dell’entroterra agricolo” (M. Ganci, 1986, pp. 14-15).
L’economia di Messina si basava soprattutto sui traffici marittimi. Le attività portuali davano lavoro a un alto numero di operai; ad esse era inoltre legata la piccola industria. Nella città erano presenti numerose fabbriche dedite alla produzione di vini, derivati di agrumi, pelli, pesce conservato e tessuti di seta (P. Amato, R.Battaglia, 1975). Quest’ultima produzione, un tempo floridissima, alla fine dell’Ottocento era in decadenza.
Nel complesso, quindi, scarso poteva dirsi il potenziale industriale dell’Isola, sicuramente inadatto a contrastare la concorrenza della forte industria settentrionale. Questa situazione influiva, chiaramente, sulla condizione degli operai, i quali, più che costituire una moderna classe sociale rimanevano a livello di ceto.
Per quanto riguarda la situazione degli zolfatari, può dirsi che essa non era molto dissimile da quella dei contadini del latifondo in quanto, come questi ultimi, essi erano sfruttati, per lo più, da gabelloti mafiosi.
I gabelloti delle miniere, al pari di quelli agrari, prendevano in affitto le miniere dai proprietari e, per rifarsi dell’elevato estaglio loro richiesto, sfruttavano il più possibile i <<picconieri>> e i <<carusi>>.
I <<picconieri>> erano coloro che estraevano il minerale di zolfo; venivano pagati a cottimo. I <<carusi>> erano ragazzi dai nove ai quindici anni. Il loro compito era quello di trasportare, a spalle, il pesante carico di minerale estratto fino all’imbocco della miniera, luogo dove il picconiere, per contratto, doveva consegnare lo zolfo al gabelloto.
Negli anni che vanno dall’Unità d’Italia al movimento dei fasci, vi fu un aumento della produzione zolfifera,ma non un miglioramento del settore dal punto di vista tecnologico e sociale. Inoltre, lo zolfo si estraevasenza tenere conto della reale domanda di mercato. Questo generò, all’inizio degli anni Ottanta, una crisi di sovrapproduzione, cui si aggiunsero gli effetti della crisi generale (del grano, del vino, degli agrumi e degli zolfi) del 1887.
Nelle zone costiere della Sicilia si praticava la agricoltura intensiva. Le colture più diffuse erano quelle arboree: olivo, mandorlo, gelso, e, soprattutto, agrumi e vite. Queste coltivazioni avevano un rendimento per ettaro nettamente superiore a quello del grano.
La condizione economica dei contadini cambiava da zona a zona,a causa delle diverse forme di conduzione agricola praticate. Queste ultime comprendevano sia la concessione, del giardino, in fitto ad un grosso gabelloto, il quale poi provvedevaad ingaggiare i braccianti necessari per la coltivazione (sistema questo in uso soprattutto nella Conca d’Oro); sia la gestione diretta del terreno da parte del proprietario, il quale trattava, senza intermediari, con i contadini. Inoltre, potevano trovarsi anche vari tipi di contratti di compartecipazione, quali: la mezzadria, con
sistemi di ripartizione dei prodotti diversi rispetto a
quelli in uso nei latifondi; la colonìa parziaria e perpetua;
i contratti a miglioria.
La categoria agricola più numerosa, nelle zone costiere, era quella dei giornalieri o braccianti, i quali ricevevano un salario più alto rispetto alle zone interne. Anche la condizione economica e sociale degli altri contadini era in genere migliore che nel latifondo:
“Sul lato verso marina dei circondari di Trapani, di Patti, Castroreale, Messina, Acireale e Catania, la condizione sociale dei contadini si può ritenere come alquanto superiore a quella del resto dell’Isola” (S. Sonnino, 1974, p. 112).
Ecco quali erano, secondo il Sonnino, le ragioni che spiegavano il migliore status dei contadini di queste zone:
“Economicamente, colla maggiore estensione e varietà delle colture legnose, il contadino ha una maggiore sicurezza del domani; e, socialmente, le sue relazioni colle altre classi, se non cordiali, riposano però sopra un maggiore sentimento dell’eguaglianza civile. Qua la maggiore divisione della proprietà, e il genere delle colture che male si adattano ai fitti ed ai subaffitti, hanno contribuito a togliere la caterva degli’intermediari tra il proprietario e il contadino, e conducendo ad un maggior contatto tra le due classi, hanno temperato alquanto l’asprezza della lotta” (S. Sonnino, 1974, p. 112).
L’elencazione effettuata dal Sonnino, riguardo le zone costiere ove -per le suesposte ragioni -la condizione sociale dei contadini era migliore che altrove in Sicilia, non comprende la Conca d’Oro.
La ragione per la quale uno dei territori più ricchi e lussureggianti della Sicilia non poteva essere incluso in tale elenco è presto detta: la mafia.
Infatti, a dispetto di coloro i quali pensavano che la mafiaprosperassesoltanto negli ambienti arretrati emiseri, la Conca d’Oro, famosa per i suoi redditizi ed estesi giardini di agrumi, era altresì “il regno della mafia”, la quale, scriveva il Sonnino:
“(…)tiene i principali suoi covi nelle cittàe nelle borgate che fanno corona a Palermo, nel distretto dei Colli, a Monreale, a Misilmeri, a Bagheria, ecc.” (S. Sonnino, 1974, p. 68).
La mafia vi esercitava la sua azione violenta, imponendo ai proprietari dei giardini i propri gabelloti e guardiani; e si arricchiva, grazie all’alto rendimento degli agrumi e all’esercizio della <<guardianìa>>. Quest’ultimo <<servizio>> consisteva nel garantire la sicurezza della proprietà, contro <<eventuali>> furti e danneggiamenti, “con una tecnica che sarà riproposta dal moderno racket” (S. Lupo, 1993, p. 10).
Quindi, come ha sottolineato Raimondo Catanzaro (1991, p. 22), la presenza della mafia:
“(…) nelle zone costiere di Palermo e nella sua immediata periferia, costituita dagli agrumeti della Conca d’Oro, dove il latifondo non era presente e dove prosperava un’agricoltura ricca, può essere spiegata soltanto con la considerazione che il fenomeno mafioso sorge in zone caratterizzate non da arretratezza, ma da opportunità relative di sviluppo. In questo quadro si può leggere anche l’origine della mafia nel latifondo in quanto si trattava di un latifondo non isolato dai commerci interni e soprattutto esterni” (R. Catanzaro, 1991, p. 22).
E’ interessante notare come ancora oggi vi sia chi sostiene che la mafia è figlia del sottosviluppo, senza rendersi conto che, al contrario, è la mafia che genera sottosviluppo. Le organizzazioni mafiose (cioè Cosa Nostra e tutte le altre organizzazioni criminali simili ad essa) tendono sempre a sfruttare qualunque potenzialità economica, presente nel territorio da esse controllato, a loro esclusivo vantaggio, impedendo, così, che queste potenzialità, che queste risorse, si traducano in effettivo sviluppo socio-economico.
Tornando alla situazione della Conca d’Oro, alla fine del XIX secolo, bisogna dire che, nonostante la presenza dellamafia, la condizione economica dei contadini era ivi ugualmente superiore a quella dei contadini dell’interno. La stessa cosa, però, non poteva dirsi riguardo alla loro condizione sociale, proprio a causa della “atmosfera
soffocante di oppressione mafiosa” (S.F. Romano, 1959, p. 77).
Dopo questo breve excursus sulle varie realtà economiche e sociali presenti nella Sicilia, alla finedell’Ottocento, passeremo senz’altro ad analizzare quello che abbiamo definito il primo movimento organizzato che si è contrapposto alla mafia, vale a dire il movimento dei fasci siciliani.
2. LA COSTITUZIONE DEI PRIMI FASCI URBANI Il primo fascio siciliano, in assoluto, fu costituito a Messina, il 18 marzo 1889. Esso venne organizzato sull’esempio dei fasci che erano già sorti nell’Italia centro-settentrionale a partire dal 1871.
Come questi ultimi, ma a differenza di quelli che sarebbero nati in seguito in Sicilia, il fascio messinese riuniva non i singoli lavoratori ma le società operaie della città. Inoltre, dal luglio 1889 (cioè pochi mesi dopo la sua costituzione) al marzo 1892, questo fascio restò praticamente inoperante, a causa dell’arresto, e della condanna a due anni di reclusione, del suo fondatore Nicola Petrina.
Fu, quindi, soltanto con la nascita del fascio di Catania, inaugurato il Primo maggio 1891 sotto la presidenza di Giuseppe De Felice Giuffrida, che poté dirsi veramente avviato il processo di formazione dei fasci siciliani.
In base allo statuto, del nuovo sodalizio catanese potevano far parte “tutti i lavoratori, cioè tutti coloro che lavoravano col braccio e con la mente per vivere” (cit. in S.F. Romano, 1959, p. 28).
Il fascio di Catania era, secondo la definizione stessa del suo presidente, “una associazione-propaganda”. Esso, piuttosto che precludere l’ingresso in base a determinati principi e ad un preciso programma socialista, preferiva adottare il “sistema della porta aperta”, che permetteva a qualunque lavoratore di iscriversi liberamente alla associazione. De Felice preferiva questo sistema perché, per il momento si avevano “delle coscienze da formare, dei lavoratori da conquistare, della propaganda da fare, non dei socialisti da raggruppare” (3).
Una più chiara e netta definizione dei principi ispiratori e del programma dei fasci, si ebbe con la
costituzione del fascio di Palermo, il29 giugno 1892, e
con la fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani, il
4 agosto, a cui il fascio di Palermo aderì fin dall’inizio. Nonostante le differenze,di organizzazione e di programma, tra i fasci di Messina, Catania e Palermo, alcuni elementi erano loro comuni:
“(…) l’unione dei ceti lavoratori delle città e l’unione dei giovani repubblicani e socialisti con il movimento dei ceti lavoratori. Mancava ancora quello che sarà l’elemento decisivo per lo sviluppo rapido ed assai largo della organizzazione e della influenza dei Fasci nell’isola: l’incontro e l’unione di queste organizzazioni operaie con le masse contadine” (S.F. Romano, 1959, pp. 165- 166).
Il punto di forza del movimento dei fasci siciliani, che lorese temibile agli occhi e delGovernoedi coloroiquali
beneficiavano del sistema economico e politico che apertamente contestava, fu proprio costituito dall’unione, nella protesta, della città con la campagna.
All’inizio, tuttavia, i fasci ebbero, e conservarono fin quasi tutto il 1892, un carattere nettamente urbano.
Nelle principali città siciliane, la loro nascita
costituiva il punto di arrivo di un lungo processo di
maturazione della classe operaia.
La mancanza nell’Isola di una solida struttura industriale, come abbiamo già detto, si rifletteva nella condizione degli operai. Quest’ultimi, fino alla costituzione dei fasci, non costituivano una progredita classe sociale ma, piuttosto, un ceto. Mancava loro, infatti, un requisito basilare per la trasformazione in classe sociale, vale a dire la <<coscienza di classe>> (v. M. Ganci, 1986, p. 159).
Il processo di acquisizione di tale coscienza – che, ripetiamo, culminerà con la costituzione dei fasci dei lavoratori – ebbe inizio nel 1860, anno in cui cominciarono a sorgere nell’Isola le società di mutuo soccorso. La prima sorse a Corleone, nel luglio del 1860. La seconda fu costituita a Palermo subito dopo. Via via, queste società si diffusero nel resto della Sicilia, nei primi anni in maniera sporadica, poi, soprattutto a partire dal 1875, sempre più velocemente.
Le società di mutuo soccorso:
“Prima dei Fasci dei lavoratori, (…) erano la forma più diffusa e generalizzata di organizzazione dei gruppi proletari più coscienti. Praticavano il mutuo soccorso fra i soci previo il pagamento di quote mensili, e solo eccezionalmente fungevano anche da organizzazioni di resistenza, promuovendo scioperi e agitazioni per miglioramenti salariali nei luoghi di lavoro. L’utilità della loro funzione era indubbia” (F. Renda, 1990b, pp. 192-
193).
Due tappe importanti, nella storia delle società di mutuo soccorso, vennero raggiunte nel 1875 e nel 1882.
Nel 1875, sorse a Palermo la società dei tipografi. Questa società, a differenza di quelle fondate precedentemente, prevedeva nel proprio statuto il ricorso allo sciopero, quale mezzo per la difesa del salario. Essa, inoltre, costituì una cassa mutua, per assistere i soci proprio nei giorni in cui si sarebbero astenuti dal lavoro.
Un’altra tappa importante fu raggiunta, come dicevamo, nel 1882, anno in cui fu attuata la riforma elettorale che allargava il suffragio a coloro i quali, compiuti i ventuno anni di età:
“(…) sapessero leggere e scrivere oppure pagassero una certa somma d’imposta diretta. Il requisito della capacità era pertanto considerato alternativo a quello del censo: in questo modo le popolazioni cittadine erano favorite rispetto a quelle delle campagne ove l’analfabetismo era tuttora dominante (…)” (C. Ghisalberti, 1989, p. 185).
Il diritto di voto agli operai era stata proprio una delle principali richieste avanzate dalle società di mutuo soccorso. Ma una volta ottenuto l’allargamento del suffragio, queste società si trasformarono in:
“(…) un ideale vivaio di voti per gli uomini politici che, da destra e da sinistra, in omaggio al trasformismo alloratrionfante,nesollecitarono i suffragi (…)” (M. Ganci, 1977, p.52).
Quindi, sul piano politico, le società di mutuo soccorso dimostrarono una certa immaturità, mettendo in luce il fatto che, in Sicilia, il processo di formazione di una vera classe operaia non era ancora compiuto.
Passi importanti, verso questa direzione, vennero però compiuti a Palermo: nel 1879, con la creazione della Confederazione delle 72 maestranze, un organo direttivo composto da tre rappresentanti per ogni società operaia rappresentata; e nel 1882, con la tramutazione di questa
confederazione in Consolato operaio. Entrambe queste
organizzazioni, costituirono una risposta al bisogno –
avvertito dalle varie società operaie palermitane – di unità
e di coordinamento. Nel 1891, ben 131 società operaie
facevano parte del Consolato operaio di Palermo. Un Consolato operaio sorse anche a Catania, nel 1883.
Negli anni 1891-92 si tenne a Palermo una Esposizione Nazionale. Questa voleva essere una celebrazione dei successi dell’imprenditoria siciliana, ma finì, invece, per evidenziarne il nascente stato di crisi.
A determinare questa crisi avevano contribuito: la crisi economica, dilagante in Europa sin dal 1874; il fallimento
della politicadiprotezionedoganale, adottatadal Governo
italiano con le tariffe del1887;la persistenzadel divario
tra l’industria del Nord e quella del Sud.
A causare la grande crisi economica, che da lungo tempo colpiva le varie nazioni europee, era stata, principalmente, l’invasione dei mercati da parte degli abbondanti ed economici prodotti agricoli americani (soprattutto del grano). Tale invasione era stata favorita dai progressi raggiunti nel campo dei trasporti marittimi e ferroviari.
In Sicilia la crisi era esplosa intorno alla metà degli anni ’80. I primi prodotti ad essere colpiti erano stati il grano e lo zolfo. La viticultura, invece, era entrata in una profonda crisi qualche anno dopo, in seguito alle distruzioni dei vigneti da parte della fillossera, ed alla guerra commerciale italo-francese. Una delle cause scatenanti di quest’ultima era stata l’adozione nel 1887, da parte del Governo italiano, di nuove tariffe doganali, per arginare la crisi economica.
Alla base di questa politica protezionista, vi era l’alleanza degli esponenti del blocco agrario del Sud – dominato naturalmente dai grandi proprietari terrieri – con gli esponenti del blocco industriale del Nord.
In Sicilia, gli unici a trarre giovamento, dalla svolta politica del 1887, erano stati i già forti e privilegiati latifondisti, i quali avevano ottenuto l’inserimento, tra le misure adottate, di una elevata imposta sui cereali d’importazione.
Secondo le previsioni fallaci del Governo italiano, le nuove tariffe doganali avrebbero dovuto promuovere l’imprenditoria di tutto il territorio nazionale. Ma, ben presto, il protezionismo si rivelò:
“(…)per quelloche effettivamente era: lo scudo economico della borghesia imprenditoriale più forte, cioè di quella settentrionale. In questa logica, l’industria meridionale non poteva non essere sacrificata; il ruolo del sud, infatti, non poteva essere diverso da quello di mercato dei manufatti settentrionali” ( M. Ganci, 1977, p. 71).
Dal 1860 al 1893 il considerevole gapeconomico fra Nord
e Sud era andato lentamente restringendosi. Tuttavia,
l’industria siciliana era ancora in una posizione di inferiorità rispetto all’industria settentrionale, ed era di conseguenza, incapace a reggere la concorrenza di quest’ultima.
Tra i visitatori dell’Esposizione Nazionale di Palermo, vi furono gli attivisti socialisti Carlo Della Valle e Alfredo Casati. Giunti a Palermo, costoro si fecero promotori – tra gli operai organizzati nelle numerose società operaie e di mutuo soccorso – della fondazione di una federazione operaia, sul tipo di quelle milanesi.
L’idea di costituire un’unica associazione che riunisse tutte le classi del proletariato venne subito bene accolta. Gli operai palermitani si rendevano conto che le società mutualistiche allora esistenti non erano in grado di sostenere il loro malcontento e di trasformarlo in rivendicazioni economiche e sociali. Quindi, accogliendo la proposta della delegazione milanese, venne costituita una federazione operaia, tra l’aprile ed il giugno 1892, con il nome di <<Fascio dei Lavoratori di Palermo>>.
Per quanto la nascita del nuovo sodalizio fosse stata sollecitata dagli attivisti milanesi, la sua organizzazione non ricalcò quella delle Federazioni operaie lombarde (poiché non ritenuta adatta per il caso siciliano), bensì si basò sul modello della Bourse du Travail di Parigi.
Come quest’ultima, il fascio di Palermo fu diviso per sezioni d’arti e di mestieri, ma, rispetto alla Camera del lavoro parigina, venne accentuata:
“(…) l’organizzazione <<orizzontale>>, cioè la federazione delle associazioni tra di esse, il <<fascio>> che, oltre a difendere le istanze particolari di ciascuna associazione, avrebbe rappresentato sul piano sindacale l’intera classe operaia” (M. Ganci, 1986, p. 17).
Sin dalla sua fondazione, esso si caratterizzò, come organizzazione unitaria delle masse lavoratrici, di orientamento socialista.
Con la nascita del fascio di Catania e , ancor di più, con quello di Palermo – che assumerà il ruolo di propulsore e di guida dell’intero movimento organizzato – può dirsi giunto a compimento il lungo processo di maturazione della classe operaia siciliana.
I nuovi sodalizi costituirono un superamento delle società operaie di mutuo soccorso. Pur contemplando anch’essi, nei loro statuti, la mutua assistenza fra i soci, i fasci si distinsero per un più preciso ed articolato programma economico, sociale e politico. Soprattutto, però, essi si distinsero per il fatto che tale programma doveva essere attuato non soltanto a beneficio degli associati, ma di tutta la classe lavoratrice.
La nascita ufficiale del fascio di Palermo si fa risalire al giorno dell’inaugurazione del suo gonfalone rosso, avvenuta il 29 giugno 1892. Nella stessa data, probabilmente, venne eletto il comitato direttivo, presieduto da Rosario Garibaldi Bosco. Questi “si può considerare senz’altro la pietra angolare del movimento dei fasci” (M. Ganci, 1977, p. 183). Lo statutofu approvato nella riunione successiva (4).
La nuova organizzazione fu divisa in sezioni, ciascuna delle quali riuniva un minimo di dieci operai dello stesso mestiere, ed eleggeva un consigliere delegato ed un segretario.
Dopo il 29 giugno, a Palermo, numerose società operaie e di mutuo soccorso si sciolsero e consegnarono le proprie bandiere al fascio dei lavoratori. Nell’arco di due mesi, questo raggiunse la quota di 7.500 iscritti.
Il 4 agosto 1892, Garibaldi Bosco partecipò, insieme ad altri rappresentanti dei fasci siciliani, al Congresso di Genova e, quindi, alla fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani (che avvenne in tale contesto).
In seguito a questo avvenimento, l’organizzazione palermitana venne modificata, per essere adeguata alla linea politica del nuovo partito. Per prima cosa, gli anarchici ne furono esclusi. In seguito a questo riordino, gli iscritti scesero, nel dicembre 1892, a 4734.
Di ritorno da Genova, Garibaldi Bosco maturò la convinzione che, in Sicilia, il socialismo si sarebbe potuto diffondere ed avrebbe potuto trovare attuazione solamente attraverso l’organizzazione dei fasci. Riguardo alla composizione di questi ultimi, egli sottolineava l’importanza dell’unione – nella lotta contro gli sfruttatori – della classe operaia con quella contadina.
A partire dal settembre 1892, la nascita di nuovi fasci, che fino ad allora era avvenuta ad un ritmo molto lento, cominciò a divenire più frequente. Tuttavia, ancora pochi erano i centri rurali interessati dal fenomeno.
3. IL PROCESSO DI FORMAZIONE DEI FASCI RURALI
Nella campagna, il processo attraverso il quale si arrivò alla costituzione dei fasci dei lavoratori fu diverso rispetto alla città. In quest’ultima essi costituirono, come sappiamo, il punto di arrivo di un lungo percorso, avviato nel 1860 con la costituzione delle prime società di mutuo soccorso. Nella campagna, invece, non si assisté ad un analogo processo di maturazione.
Nonostante fossero sorte anche nei centri rurali delle società di mutuo soccorso, queste rimasero staccate le une dalle altre, non essendo stato prommosso un loro coordinamento.
Nelle campagne siciliane comunque, prima dei fasci, vi erano state delle importanti esperienze associative, anche se non inserite in un quadro evolutivo, e non sostenute da un movimento di massa. Ci riferiamo alle associazioni citate dal Sonnino, cioè quelle:
“(…) composte di un numero di contadini che riuniscono i loro mezzi e il loro credito per poter prendere in affitto diretto dal proprietario un latifondo, onde poi dividerlo tra i soci in tanti poderi distinti e divisi in proporzione dei mezzi di ognuno. Qui non si tratta tanto di vera associazione di produzione che conduca cooperativamente una vasta azienda rurale, quanto della sostituzione della responsabilità collettiva e solidale di un numero di famiglie coloniche a quella del gabelloto capitalista, e ciò all’intento di far godere i contadini di tutti i guadagni che ora vanno a quell’intermediario tra essi e il proprietario” (S. Sonnino, 1974, p. 245).
Il Sonnino, nel 1876, scorse simili società tra i contadini e tra i pastori di San Fratello e di Mistretta (paesi in provincia di Messina). Egli, inoltre, riferiva che si erano costituite associazioni di contadini anche durante la censuazione dei beni ecclesiastici, per acquistare grandi lotti di terreno da ripartire, poi, tra i soci.
Un altro tipo di sodalizio molto importante – anche questo citato dallo studioso toscano, nell’inchiesta “I contadini in Sicilia” – era stato quello che si era costituito, nel settembre del 1875, ad Alia e a Valledolmo, con centro soprattutto in quest’ultimo Comune. Questa società aveva avuto come principale obiettivo quello di migliorare i gravosi patti di concessione, imposti ai contadini dai gabelloti o dai proprietari.
A questo fine, aveva fatto obbligo ai propri associati (circa 400) di rifiutare tali patti. Ma alcuni affiliati erano venuti meno a tale impegno e, approfittando della resistenza degli altri, avevano potuto scegliersi i migliori appezzamenti da coltivare. I contadini rimasti fedeli all’associazione avevano reagito con violenza a questo tradimento, dando così il pretesto alle autorità per intervenire e sciogliere la società agricola.
“Chi ne uscì vittoriosa fu ancora un volta la mafia la quale in casi simili (come vedremopiù avanti, N.d.a.) sempre si avvalse dei rigori del governo per imporre maggiormente la sua volontà di potere” (F. Brancato, 1973, p. 215-216).
L’esistenza di queste organizzazioni, a parere del Sonnino, dimostrava che:
“Nei contadini siciliani è assai vivo lo spirito di associazione; essi mancano però dell’istruzione e dell’educazione morale necessarie per poter ritrarre dall’associazione tutti i frutti che essa è capace di dare” (S. Sonnino, 1974, p. 247).
Oltre questi casi di lotte contadine organizzate, prima dei fasci vi erano state anche manifestazioni di protesta, disgiunte però da qualsiasi forma organizzativa. Ci riferiamo alle varie dimostrazioni popolari che, dopo l’Unità d’Italia, si erano susseguite in varie parti dell’Isola: ” (…) a Canicattini (Siracusa) nel 1865, a Grammichele nel 1876, a Calatabiano e a Favara nel 1890″ (F. Renda, 1956, p. 81). Ed ancora, ci riferiamo, agli scioperi dei mietitori della pianura di Catania, del 5 e 6 luglio, e alle manifestazioni dell’inverno 1888 “al grido di <<pane e lavoro>>”(F. Renda, 1956, p. 81).
Ad eccezione degli scioperi dei giornalieri di Catania – miranti ad ottenere aumenti salariali – che si svolsero senza incidenti e si conclusero ” a quanto pare con un accordo di transazione tra le due parti” (S.F. Romano, 1959, p. 85), le altre manifestazioni degenerarono “in disordini più o meno luttuosi” (F. Renda, 1956, p. 81).
Tutto questo, come sottolinea lo storico Francesco Renda (1956, p.82), dimostra che fu soltanto con il movimento dei fasci siciliani che si realizzò, finalmente, l’unione tra la protesta generale, la lotta di massa e l’organizzazione:
“In generale quindi si può affermare che sino al 1893 l’organizzazione contadina non è legata direttamente alla lotta di massa dei contadini, la quale, dove e quando esplode, acquista i noti caratteri di movimento tumultuario ed impulsivo. I fasci, invece, realizzano la fusione di questi due importanti elementi, che prima erano stati permanentemente scissi, la lotta di massa e l’organizzazione, dando vita ad un movimento contadino di ispirazione socialista, saldamente legato al movimento operaio italiano”.
Arthur Blok (1986, p. 122) ben sintetizza le vicende che favorirono questa fusione:
“La nuova espressione articolata del malcontento contadino trova spiegazione nel crescente inserimento dei siciliani nella realtà più vasta, esterna al villaggio. Una delle sue manifestazioni fu l’influenza del pensiero socialista sugli intellettuali e gli artigiani urbani che fornì una guida e un programma alle masse contadine oppresse dalla miseria. La seconda fu il servizio militare, in seguito al quale molti contadini tornarono nei loro paesi con nuove esperienze e un accresciuto senso dell’organizzazione. La terza fu l’estensione del diritto di voto a coloro che sapevano leggere e scrivere; diritto che si diffondeva con l’avanzare dell’alfabetizzazione. Anche la vertiginosa intensificazione del movimento migratorio, benché costituisse una valvola di sicurezza che riduceva le possibilità di una rivoluzione in patria, contribuì al superamento della tradizionale rassegnazione”.
I fasci rurali cominciarono a sorgere con un ritmo travolgente soprattutto dal gennaio 1893. Fu la strage di Caltavaturo a determinare la diffusione fulminea dei sodalizi nelle campagne. Ma, questo tragico avvenimento,può essere considerato soltanto come il catalizzatore della reazione organizzata dei contadini.
Le ragioni effettive del dilagare dei fasci rurali, infatti, vanno ricercate nelle sempre più indigenti condizioni di vita delle masse popolari.
Alle storiche cause di sofferenza e di malcontento si erano aggiunte, a partire dalla metà degli anni ’80, i pesanti effetti della crisi agraria. Questa venne causata, come sappiamo, dalla forte concorrenza dei prodotti agricoli americani.
In Sicilia il primo mercato a subirne le conseguenze fu quello del grano, il quale subì un consistente calo di prezzo. Il Governo italiano, su pressione del blocco agrario meridionale e del blocco industriale del Nord, cercò di arginare la crisi economica con l’introduzione, nel 1887, di nuove tariffe doganali, tra le quali fu compreso un dazio protettivo del grano. Questa politica scatenò la guerra commerciale con la Francia, la quale bloccò l’importazione di vino italiano. Cosicché alla crisi del grano si aggiunse ben presto quella del vino, causata anche dalla azione distruttrice della fillossera.
Altro settore agricolo siciliano piegato dalla crisi fu quello degli agrumi, il quale risentì sia della concorrenza d’oltreoceano sia della guerra di tariffe con la Francia. Inoltre, in questo settore la depressione economica si manifestò ancora più duramente, poiché,nel periodo precedente, vi era stata:
“(…)Una corsa all’affitto delle terrecoltivabili ad agrumi (…)in seguito alla congiuntura favorevole alla esportazione (degli stessi, N.d.a) (…)” (S.F. Romano, 1959, pp. 89-90).
Questo aveva causato, naturalmente, un aumento esagerato dei fitti delle terre e della produzione agrumaria.
Un rialzo dei canoni di affitto, nonostante la crisi, si era avuto anche nella zona del latifondo, a causa “dell’aumento di popolazione, della mancanza del lavoro industriale, del rincaro dei generi e della concorrenza tra gli affittuari” (5).
I grandi proprietari latifondisti, di conseguenza,non risentirono gravemente della recessione economica, anche perchè aiutati, notevolmente, dall’introduzione del dazio sul grano.
I gabelloti, al contrario, allo scoppiare della crisi, si ritrovavano a pagare fitti alti. Ritennero allora fosse più che naturale scaricarne il peso sui contadini, rendendo ancora più iniqui e gravosi i patti agrari allora in vigore, e diminuendo le già misere mercedi dei giornalieri:
“I gabelloti, per lo più gente nata e cresciuta nei bassi strati dell’usura paesana, speculatori di derrate, (…) pressati dalla necessità di non stare in perdita, ma di realizzare ad ogni costo un guadagno, si gettarono sopra i contadini come su quelli che dovevanli ricompensare della diminuita produttività, dei bassi prezzi, dei fitti ancora elevati, (…) rendendo più esorbitanti le usure per le anticipazioni, più onerosi e più spoliatori i contratti, più vessatorie le forme di sfruttamento, in modo da riversare sulle loro spalle, anche nelle buone annate, i rischi e le perdite delle cattive” (6).
Conseguenza diretta della crisi, nel latifondo, fu, pertanto, un’ulteriore accentuazione della lotta di classe: da un lato i grandi proprietari latifondisti, i quali videro aumentare il peso della rendita fondiaria e vennero <<protetti>> dal Governo; dal lato opposto i contadini, sui quali “finiva col pesare interamente l’enorme cumulo di rischi e danni, e le male vicende e ogni sorta di oscillazione dell’agricoltura siciliana” (S. F. Romano p. 92); in mezzo vi era la classe dei gabelloti, che, lo ripetiamo, erano il più delle volte dei mafiosi.
Fu soprattutto contro questi ultimi che, nel 1893, i contadini si sarebbero organizzati e avrebbero manifestato la propria protesta e la propria rabbia. A causa dell’assenteismo dei grandi proprietari erano proprio i gabelloti i più diretti, e visibili, responsabili delle loro tristi condizioni:
“L’odio (di classe) non è certo contro i grandi proprietari, che vivono per solito nelle grandi città, bensì contro la borghesia media e piccola, contro i così detti civili, galantuomini o cappelli dei comuni rurali” (7).
Come abbiamo visto, la crisi agricola colpì duramente anche le colture tipiche della Sicilia orientale e delle zone costiere, vale a dire gli agrumi e la vite.
In queste zone, come sappiamo, il latifondo non era diffuso, e vi si trovavano la media ed anche la piccola proprietà.
Qui la crisi, piuttosto che ricadere interamente su di una classe sociale, colpì tutti.
I grossi proprietari di giardinie vigneti – i cui crescenti investimenti nelle colture intensive avevano favorito una momentanea avanzata dell’agricoltura trasformata a danno di quella cerealicola tradizionale -non ricevettero alcun aiuto da parte del Governo. La maggior parte di essi, in seguito al crollo dei prezzi degli agrumi e del vino, decisero di riconvertire le proprie terre alla coltura estensiva.
Moltipiccoliproprietari e molti coloni,acausa della crisi, degli alti fitti, e della distruzione dei vigneti da parte della fillossera, degradarono alle condizioni di contadini senza terra e di giornalieri.
Infine:
“Anche la sorte del bracciante agricolo si (fece) più insostenibile, sia per la diminuita offerta di lavoro sia per l’accresciuta concorrenza fra i lavoratori salariati divenuti più numerosi per effetto della proletarizzazione di larghi strati contadini” (F.Renda, 1975, pp.132- 133).
I salari dei giornalieri scesero inesorabilmente.
La presenza nella Sicilia non latifondistica di rapporti sociali più equi rispetto alla Sicilia del latifondo, e l’assenza in essa di una classe sociale <<protetta>>, fecero sì, dunque, che in questa zona la crisi economica ricadesse su tutte le classi sociali. Di conseguenza non vi si verificarono quegli acuti conflitti cui si assistette nelle zone interne dell’Isola, dove il movimento dei fasci visse le sue vicende più importanti, ma anche le più tragiche.
Tra queste ultime, va sicuramente annoverata la strage di Caltavaturo del 20 gennaio 1893, la quale rappresentò, come abbiamo già detto la causa scatenante del fulminio diffondersi dei fasci nella Sicilia centro-occidentale.
4. LA STRAGE DI CALTAVATURO. LA DIFFUSIONE DEI FASCI NELLE CAMPAGNE. I PRIMI SCIOPERI AGRARI
Alla base della strage di Caltavaturo vi fu il mancato indennizzo dei contadini per la perdita degli usi comuni, subita in seguito alla eversione della feudalità. Ecco, brevemente, i fatti. Il duca di Ferrandina (che possedeva a Caltavaturo 6.000 ettari di terra), dopo lungo tempo, si era finalmente deciso a concedere una aliquota dei propri terreni – quale liquidazione degli usi civici – al comune di Caltavaturo. Quest’ultimo, però, invece che ripartire queste terre tra i contadini, che ne avevano diritto, li concesse:
“(…)ingabella ed in affitto a dei prestanomi dei borghesi che amministravano il municipio, ed in qualche caso anche senza il ricorso a prestanome, come era per esempio il caso del segretario comunale Antonio Oddo, che teneva per otto anni in affitto terre del comune” (S.F. Romano, 1959, p. 168).
Cinquecento contadini, stanchi di questa usurpazione,
e sempre più vessati dagli angarici patti agrari e dalla crisi agricola, all’alba del 20 gennaio 1893 si recarono ad occupare alcune terre di proprietà comunale. Mentre stavano zappando questi terreni, sopraggiunsero dei militari; i contadini decisero allora di ritornare in paese, per manifestare dinanzi al Municipio e per esporre le proprie ragioni al sindaco. Ma quest’ultimo risultò irreperibile. Stanchi per la vana attesa, decisero di ritornare ad occupare i terreni demaniali, ma trovarono la strada sbarrata dalle forze dell’ordine:
“Improvvisamente, senza preavviso di squilli di tromba od altro, una scarica di fucileria sulla folla lasciava undici morti e quaranta feriti, alcuni dei quali, trasportati all’ospedale di Palermo, morivano nei giorni seguenti” (S.F. Romano, 1959, p. 170).
La notizia dell’eccidio fece inorridire l’intera nazione. Il fascio di Palermo manifestò subito la propria solidarietà con le vittime. Esso, inoltre, convocò un’assemblea tra i soci, durante la quale si sottolineò l’urgenza della propaganda socialista fra i contadini, e si aprì una sottoscrizione, che ben presto diventò nazionale, a favore delle famiglie dei caduti.
A Caltavaturo, coloro che avevano partecipato alla manifestazione del 20 gennaio costituirono un fascio dei lavoratori. Una data importante, per questa organizzazione, fu il 23 aprile, giorno in cui si svolse una sentita manifestazione per la consegna, da parte del presidente di Palermo, dei soldi raccolti attraverso la sottoscrizione.
Tra gennaio ed aprile erano sorti, intanto, numerosi fasci rurali (soprattutto nella Sicilia centro-occidentale), sia a causa dello sdegno suscitato dall’eccidio sia per l’opera propagandistica ed organizzativa avviata, in campagna, dal fascio di Palermo.
Alla manifestazione tenutasi in aprile a Caltavaturo parteciparono anche i presidenti dei fasci di Corleone e Piana dei Greci: questi due fasci diventarono ben presto i più attivi e importanti della Sicilia del latifondo.
Il fascio di Corleone fu costituito il 9 settembre 1892, ma le sue attività ebbero inizio soltanto il 9 aprile 1893, giorno della sua inaugurazione ufficiale.
Presidente del sodalizio fu eletto colui che ne era stato il principale fondatore: Bernardino Verro.
Il dirigente corleonese si fece subito promotore della costituzione di nuovi fasci nei paesi vicini; diresse gli scioperi e le lotte contadine che, sin dalla primavera, si svolsero nel circondario e divenne uno dei capi indiscussi del movimento dei fasci.
Ecco cosa scrive Massimo Ganci (1977, pp. 183-184) a proposito di Bernardino Verro:
“(…) dotato di grandi doti organizzative, comprendeva le esigenze dei contadini e si batteva non per ideali più o meno splendidi, ma per obiettivi concreti, quali la revisione dei patti agrari e l’accrescimento del salario dei braccianti. La magnifica lotta sostenuta sotto la sua guida dalle masse agrarie del corleonese, sono l’attestato più bello del suo valore”.
Il fascio di Piana dei Greci sorse il 21 marzo 1893, sotto la presidenza di Nicolò Barbato. Questi esercitava la professione di medico e, negli ultimi tre anni, aveva fatto propaganda socialista nelle famiglie contadine del suo paese. La nascita del fascio di Piana si deve in gran parte al suo lavoro organizzativo, attraverso il quale era riuscito a unire “un arco di forze sociali che ecludeva solo i grandi latifondisti e gli usurai” (G. Cassarubea, 1978, vol. II, p. 110). Sin dalla sua fondazione, stretti furono i rapporti politici con il fascio di Corleone, alla cui inaugurazione parteciparono ben cinquecento contadini di Piana.
Così come il sodalizio corleonese, anche quello di Piana dei Greci divenne il punto di riferimento dei fasci sorti, sotto l’influenza del Barbato, nei paesi vicini.
Secondo Massimo Ganci (1986, p.21), quello di Piana dei Greci:
“Fu certo il Fascio più maturo e più democratico di tutta l’Isola. Lo fu soprattutto per la partecipazione attiva e appassionata di tutti i soci della base. Le decisioni venivano prese dopo lunghe discussioni alle quali partecipavano tutti, e si svolgevano nella calma più assoluta. Alla fine si votava”.
Il 1° luglio 1893, il sodalizio contava già 2.500 uomini e 1.000 donne. Già, 1.000 donne! Infatti, uno dei segni più evidenti della <<maturità>> e della <<democrazia>> di questo fascio fu, senza dubbio, la costituzione, di una numerosa e ben organizzata sezione femminile (questa, comunque, come vedremo più avanti non fu un’esclusiva di Piana).
In aprile, cogliendo l’occasione dell’inaugurazione del fascio di Corleone, si riunirono le delegazioni di numerosi fasci siciliani. Durante questo incontro si delinearono i punti di un programma rivendicativo, che nella sua interezza sarebbe stato elaborato e fissato al congresso che si sarebbe tenuto sempre a Corleone, il 30 luglio successivo.
Tali punti vertevano essenzialmente sull’aumento dei miseri salari dei braccianti, e sulla modifica degli iniqui patti agrari cui erano sottoposti i coloni.
Basandosi su tali rivendicazioni, vennero avviati, all’inizio del mese di maggio, i primi scioperi agrari a Campofiorito e nel circondario di Corleone e Piana dei Greci.
Con le prime agitazioni ebbero inizio anche le reazioni delle autorità di Pubblica Sicurezza e, quindi, le prime denunzie all’autorità giudiziaria ed i primi arresti.
Verro e Barbato, tra gli altri, vennero denunziati per “grida sediziose” e “come eccitatori di tumulti, associati a delinquere per preparare stragi e saccheggi” (S.F. Romano, 1959, p. 180). Numerosi furono anche gli arrestati. Tra questi vi fu anche Nicolò Barbato, tradotto in carcere il 12
maggio e rilasciato il 20 giugno (in seguito anche al grande scalpore suscitato dal suo arresto).
Ma cosa c’era veramente dietro queste denunzie e questi arresti pretestuosi? Vi era:
“(…) la preoccupazione, il risentimento e la preoccupazione dei proprietari terrieri della zona, che in vari modi, e specialmente attraverso i municipi premevano per soffocare sul nascere ogni movimente di rivendicazione delle masse contadine, cui poteva dar luogo la costituzione dei fasci” (S.F.Romano, 1959, p. 181).
Le numerose denunzie e gli arresti, avvenuti nella prima metà del mese di maggio, dei dirigenti e di numerosi soci dei fasci di Corleone, Piana dei Greci e San Giuseppe Jato, raggiunsero – almeno per il momento – l’obiettivo prefissosi: far cessare questa ondata di agitazioni contadine.
Vediamo, per esempio, il caso di Corleone. Guidati da Bernardino Verro, i braccianti ed i mietitori del corleonese, nei primi giorni di maggio, entrarono in sciopero, richiedendo un aumento dei propri salari. I proprietari all’inizio risposero astenendosi dal cercare lavoranti. In seguito, però, grazie all’intervento mediatore del sottoprefetto di Corleone, avviarono delle trattative con i contadini.
In data 9 maggio sembrava si fosse giunti ad un accordo tra le due parti e, per fissarne meglio i termini, si fissò un altro incontro per giorno 15. Ma i proprietari interruppero le trattative e tale incontro non ebbe mai luogo. I motivi della rottura, molto probabilmente, furono i seguenti: la possibilità, per i latifondisti, di far leva sul crumiraggio per la coltivazione delle proprie terre; la sicurezza loro conferita dalle denunnzie e dagli arresti che cominciavano a colpire i dirigenti ed i soci dei fasci.
5. L’ORGANIZZAZIONE REGIONALE DEI FASCI SICILIANI
Considerata la crescita fulminea dei fasci in tutta la Sicilia – in maggio il numero delle organizzazioni era già arrivato a 90 – il fascio di Palermo ritenne fosse giunto il momento di affrontare il problema della loro organizzazione e del loro coordinamento a livello regionale. Inoltre, bisognava chiarire, una volta per tutte, il loro indirizzo politico.
A tal uopo furono organizzati due congressi regionali, che si tennero a Palermo nei giorni 21 e 22 maggio 1893.
Il primo, era il congresso del Partito dei Lavoratori italiani, e mirava alla costituzione in Sicilia di una confederazione di propaganda socialista. Erano invitati a parteciparvi tutti coloro che accettavano il programma del suddetto partito.
Il secondo congresso era quello dei fasci e proponeva il seguente ordine del giorno:
“1) Obbligo di tutti i fasci di aderire al Partito dei Lavoratori Italiani; 2) Federazione Provinciale e Regionale dei Fasci dei Lavoratori” (cit. in M. Ganci, 1977, p. 140).
Per potervi partecipare, i fasci dovevano aderire anche al primo congresso.
Secondo le idee del comitato promotore di questi congressi, i fasci dovevano diventare, oltre che delle organizzazioni di carattere cooperativistico e sindacale, anche delle sezioni socialiste.
Al congresso del 21 maggio parteciparono le delegazioni di 90 fasci e circoli socialisti. Nel suo discorso inaugurale, Garibaldi Bosco ricordò, innanzi tutto, i compagni arrestati nelle settimane precedenti, ed in particolare Nicolò Barbato. Passando ad esporre lo scopo della riunione affermò:
“Noi vi abbiamo convocati (…) per coordinare inostri sforzi, divenire più forti e assicurare in tal modo il trionfo della nostra idea” (cit. in S.F. Romano, 1959, p.194).
Egli, inoltre, pose subito la questione dell’indirizzo politico dei fasci. Evidenziando la necessità di smascherare i “Fasci apocrifi presieduti da borghesi a scopi elettorali” (cit.in M. Ganci, 1977, p.145), propose l’adesione dei fasci al Partito dei Lavoratori italiani: “Solamente con la cooperazione del Partito, potremo ottenere il trionfo delle nostre idee” ( cit. in M. Ganci, 1977, p.145).
Il congresso condivise unanimamente questa posizione e la prima parte dei lavori si chiuse con la ratifica dell’adesione delle organizzazioni siciliane al principio della lotta di classe ed al socialismo
Nella seconda parte si arrivò, dopo una lunga discussione, ad approvare lo Statuto di una costituenda Federazione Socialista Siciliana (8).
Fu costituito un Comitato Centrale, composto di 9 membri e con sede a Palermo, per dare autonomia organizzativa regionale al Partito socialista (9).
Per quanto al suo interno non vi fosse una direzione, le funzioni di quest’ultima vennero di fatto esercitate dal trio palermitano: Rosario Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, Bernardino Verro.
In realtà, ciò che restò della costituenda Lega o Federazione socialista siciliana, fu soltanto questo Comitato Centrale, in quanto in seguito a dei dissensi la Lega venne sciolta già nel luglio dello stesso anno; inoltre, l’organizzazione del partito socialista, in Sicilia, non riuscì a distinguersi nettamente dal movimento dei fasci.
Già all’apertura del congresso dei fasci , che si tenne il 22 maggio, fu, tra l’altro, sottolineata la complementarietà tra i fasci ed il Partito: compito dei primi era, essenzialmente, l’applicazione concreta del programma socialista elaborato dal secondo.
Oggetto di questo congresso era l’organizzazione dei fasci siciliani. L’importanza di quest’ultima venne sottolineata dal Bosco:
“(…) l’organizzazione è necessaria, altrimenti non riusciremo a combattere la borghesia che tiene a sua disposizione l’esercito e l’oro (…)” (cit.inM. Ganci, 1977, pp. 151-152).
Egli propose di ridurre tutti i fasci dell’isola a sette, uno per ogni provincia, e di trasformare tutti gli altri in sezioni di questi fasci provinciali.
Le proposte di Garibaldi Bosco vennero accettate; il congresso si chiuse con l’approvazione dello Statuto dell’organizzazione dei Fasci dei Lavoratori di Sicilia (10), il quale previde anche l’istituzione di un Comitato Centrale,costituito dai presidenti dei sette fasci provinciali. Un articolo aggiuntivo prescriveva la formazione, in ogni provincia, di un sottocomitato, avente, a livello provinciale, gli stessi scopi che il Comitato Centrale aveva a livello regionale.
Questo congresso ribadì l’obbligo di aderire al Partito dei Lavoratori Italiani e, con l’approvazione dello statuto venne praticamente sancita l’identificazione delle due organizzazioni. In base all’art. 4, infatti, il Comitato Centrale dei Fasci veniva a coincidere, nelle persone, con il Comitato Centrale del Partito.
Grazie alla pregiudiziale socialista, come auspicava il Bosco, si riuscì a smascherare i fasci apocrifi, cioè quelli che erano, in realtà, esclusivamente strumenti elettorali in mano a dei borghesi.
Da questi due congressi scaturirono, inoltre, altri due elementi che si sarebbero rivelati molto importanti per il movimento dei fasci.
Uno fu il legame organizzativo che si stabilì traifasci cittadini e quelli rurali, e quindi tra il movimento operaio ed il movimento contadino.
L’altro elemento fu l’attenzione e l’entusiasmo con i quali si discusse del ruolo che le donne siciliane potevano, e dovevano, avere all’interno dei fasci:
“Si propugna da vari congressisti il principio di far entrare nella lotta di classe la donna e tutti ne convengono; si stabilisce di fare ai vari fasci calde raccomandazioni per associare nell’associazione la donna” (Relazione del questore di Palermo, cit. in M. Ganci, 1977,
p. 255).
Già al congresso di Palermo erano presenti alcune donne di Riolo, di Corleone e di Piana dei Greci, paese dove numerose donne parteciparono attivamente al fascio sin dall’inizio. Proprio una rappresentante del fascio di Piana dei Greci prese la parola, esortando, tra l’altro, i soci dei fasci a curare l’iscrizione delle donne.
Ma non fu la sola donna a fare un intervento in quel consesso; il redattore capo del giornale di Sicilia raccontò al giornalista Adolfo Rossi che anche una contadina di Corleone aveva preso la parola: “Non credevo a me stesso. Parlavano a voce alta e chiara, con disinvoltura e coraggio sorprendente” (cit. in J. Calapso, 1980, p. 85).
6. COMPOSIZIONE E ATTIVITA’ SOCIALI DEI FASCI
Il movimento dei fasci siciliani poté poggiare su di un vasto arco di forze sociali, comprendente: i contadini, sia braccianti che coloni; gli operai; i minatori; gli artigiani; i borgesi, cioè i contadini benestanti e proprietari di piccoliappezzamenti di terra; e, in misura minore, i medi proprietari.
Naturalmente la composizione sociale dei fasci mutava da luogo a luogo. Il fascio di Palermo, per esempio, era composto da operai ed artigiani; gli iscritti al fascio di Grotte erano tutti minatori.
In generale, tuttavia, gli iscritti ai sodalizi -soprattutto a quelli rurali – erano in maggioranzacontadini e per il resto persone appartenenti ai vari ceti sopra menzionati; in alcuni casi, inoltre, si contò anche l’adesione di qualche professionista.
“Nel fascio del paese rurale tutto poteva confluire e tutto in realtà confluiva, il bisogno del bracciante ad un lavoro più continuativo ed a mercedi più remunerative, la richiesta del colono o del terraticante a conservare per sé e la famiglia una equa parte dei frutti della terra prodotti dal suo stesso lavoro, il malcontento, la disperazione e la protesta del piccolo proprietario rovinato dalla crisi, bruciato dalle tasse e soffocato dai debiti, il piccolo esercente fallito e l’artigiano proletarizzato, l’intellettuale disoccupato e il professionista senza clienti: la fame di terra, la sete di giustizia, e l’esigenza di libertà, di progresso, di cultura e di rinnovamento, di dignità umana e di fratellanza sociale; era una palingenesi universale della società professata in nome e perconto delle classi lavoratrici” (F.Renda, 1956,p. 77).
In alcuni fasci si registrò financo l’iscrizione di fanciulli intorno ai dodici anni, come, ad esempio, a Modica ed a San Giuseppe Jato, dove si costituì una sezione di trenta ragazzi dai sette ai dodici anni.
Anche le donne parteciparono, come abbiamo già visto, al movimento dei fasci, e la loro partecipazione fu massiccia, importante, significativa! Esse costituirono addirittura dei fasci femminili: a Piana dei Greci, 1.000 iscritte; a Campofiorito, 214 iscritte; a S. Giuseppe Jato, 80 iscritte; a Belmonte Mezzagno, 30 iscritte secondo la polizia, 70 secondo i carabinieri (J. Calapso, 1980, p.89). Inoltre:
Sezioni femminili numerose erano aggregate ai fasci del Parco (Altofonte), Sommatino, Bisacquino, corleone e Chiusa Sclafani. A Marineo era in programma l’apertura di una sezione femminile nel quartiere S. Anna (…) Le contadine di S. Caterina Villarmosa avevano richiesto l’istituzione di una loro sezione. E parecchie donne facevano parte dei fasci di Casteltermini e Mazzara del Vallo. A Campofelice di Fitalia, prima che fosse ufficialmente costituito, il fascio contava addirittura più donne (150) che uomini (130)” (J. Calapso, 1980, p. 90).
Le donne, comunque, così come i ragazzi, partecipavano attivamente alle manifestazioni ed alle agitazioni dei fasci, anche dove non erano iscritte, e furono sempre nelle prime file. A volte erano proprio loro a sollecitare i mariti all’azione:
“In parecchi centri agricoli non vi è un solo contadino che non faccia parte del fascio locale. Dove sono i tentennanti o i timorosi dell’autorità, le mogli riescono in breve a convertirli e li spingono a iscriversi nel grande esercito dei lavoratori” (11).
Le donne, secondo Adolfo Rossi “erano le più ardenti” (cit. in J.Calapso, 1980, p.83), e basta considerare alcuni episodi, di cui si resero protagoniste, per rendersi conto che tale giudizio non era poi tanto azzardato:
“A Villa Floresta non c’era fascio, eppure le donne disarmarono i carabinieri e li fecero prigionieri. In una frazione di Sutera, a Milocca, circa cinquecento manifestanti, esasperate per l’arresto ingiustificato dei consiglieri del fascio, assaltarono la caserma dei carabinieri e liberarono i detenuti. S’impadronirono delle armi che portarono in trionfo per le strade”, e come trofeo portarono sulle proprie braccia un carabiniere che era stato umano e pietoso con loro. “Secondo il racconto del Giornale di Sicilia, i consiglieri (che non volevano uscire a nessun costo di galera) furono portati via sulle spalle dalle donne. Non fu torto un capello a nessuno e i contadini si comportarono benissimo. Il giorno dopo arrivarono i rinforzi. Trentadue donne e sette uomini vennero condotti in carcere a Mussomeli. Alcune erano incinte, altre portavano con sé i figli lattanti” (J. Calapso, 1980, p.93).
Ed ancora:
“A Piana dei Greci (…) la porta bandiera del Fascio (…) aveva affrontato durante un’agitazione le armi dei soldati spianate contro il popolo, dicendo, rivolgendosi ai militari: <<Avreste il coraggio di tirare contro di noi?>> Il soldato aveva abbassato l’arma ed il capitano aveva ritirato i suoi uomini” (S.F. Romano, 1959, p. 229).
Le donne presero parte anche agli scioperi agrari d’autunno che, come vedremo, si svolsero imponenti nelle zone del latifondo: una donna, Caterina Costanza, venne arrestata nella zona di Piana dei Greci in quanto promotrice dello sciopero del 30 ottobre; a Villafrati vennero arrestate sei donne, poiché, insieme ad altre quattro, si erano recate, armate di bastone nei terreni di un signore del luogo per convincere i braccianti che vi lavoravano a scioperare.
Tante donne troveremo anche nelle agitazioni contro le tasse che, a partire dall’estate, si sarebbero verificate in vari centri della Sicilia; così come nei tumulti che sarebbero esplosi a dicembre.
La partecipazione dei fanciulli e delle donne impresse al movimento quel carattere di massa che lo distinse.
Ovviamente, l’adesione femminile non lasciò indifferenti le autorità, i <<signori>> e i giornalisti:
“I prefetti, le autorità e particolarmente il prefetto di Palermo non vi vedevano altro che un rilassamento del costume morale tradizionale” (S.F. Romano, p. 230).
Il prefetto di Palermo Colmayer, in un rapporto al Ministro dell’Interno, del 26 maggio 1893, scrisse: “La donna contadina dimentica il suo tradizionale pudore e la sua missione, prendendo parte all’attuale lotta di classe” e “mostrandosi disposta a scendere essa pure nel campo dell’azione” (12).
Ed ecco cosa raccontava al Rossi una contadina nubile di Piana dei Greci:
“I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono di noi è che siamo tutte le sgualdrine del Presidente” (cit. in J. Calapso, 1980, p.230).
Alcuni giornalisti, al contrario, erano entusiasti di raccontare questa sorprendente realtà siciliana. Sicuramente lo era Adolfo Rossi, il quale, nell’ottobre ’93, svolse un’inchiesta su “La situazione in Sicilia” per il giornale romano <<La Tribuna>>. A tal fine egli si recò, tra gli altri luoghi, a Piana dei Greci, per conoscere la realtà di quello che era uno dei più importanti Fasci dell’Isola.
Tra i vari incontri che ebbe con i soci del Fascio, quello che lo colpì maggiormente fu quello con le donne, le quali gli apparvero “bellissime” e “maestose come tante regine” (cit. in G. Casarrubea, 1978, vol.II , p.107).
Il giornalista era giunto in paese proprio quando si stavano svolgendo i preparativi per l’inaugurazione della bandiera del fascio femminile, e visitò la sede, separata, di questa organizzazione:
“Tre stanze tutte inghirlandate con rami d’ulivo, alloro, edera e altre piante rampicanti. Adorne di festoni con pannocchie, melanzane, piccole zucche giallee bacche rosse. Nella stanza principale c’era la bandiera rossa con ricamate in bianco: FASCIO DELLE LAVORATRICI -PIANA DEI GRECI (…) (cit. in J. Calapso, 1980, p. 85).
Il Rossi si intrattenne a lungo a conversare con le
fascianti. Una contadina sposata, alla domanda: “Cosa sperate dai Fasci?” rispose:
“Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti. Che non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere uguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, e a far tutto, mantre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi” (cit. in G. Casarrubea, 1978, vol. II, p. 107).
Alcuni giornalisti affermavano che le donne aderivano così massicciamente ai fasci per una sorta di nuovo fanatismo religioso, che le portava ad allontanarsi dalla diretta influenza dei preti per abbracciare il socialismo, che per loro costituiva quasi una nuova fede.
I contadini, sia uomini che donne, continuavano a credere ai dogmi della religione cattolica, ed a conservare il culto; tuttavia, rifiutavano le istituzioni e le autorità ecclesiastiche, poiché ne criticavano il carattere reazionario.
Questo loro atteggiamento era, d’altronde, giustificato, poiché:
“(…) la stragrande maggioranza del clero di base di provincia era, per mentalità e per tradizione, una componente importante – seppure in non pochi casi subalterna – della gerarchia sociale che dai piccoli proprietari si innalzava fino ai latifondisti” (G.C. Marino, 1986, pp. 232- 233).
Infatti, per quanto la maggior parte dei preti fosse di estrazione popolare, il clero siciliano era:
“(…)abituato a considerare la dignità del proprio ufficio come la nota distintiva di un conquistato <<innalzamento sociale>>; un clero legato mani e piedi alla classe dominante (in quanto si sentiva esso stesso <<classe dominante>>) che per molti anni fu e rimase borbonico e che, soprattutto nei paesi, non disdegnava qualche volta di partecipare alle attività delle cosche mafiose” (G.C. Marino, 1986, p. 230).
I fascianti erano convinti che la Chiesa ufficiale avesse distorto il Cristianesimo originario, poiché questo, in realtà, era molto simile agli ideali socialisti da essi predicati. Ecco cosa rispose la contadina su citata quando il Rossi le chiese “In quali relazioni siete con i vostri preti?”:
“Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, ed in giugno, per protestare contro la guerra che essi facevano al fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Domini. Era la prima volta che avveniva un fatto simile” (cit. in G.Casarrubea, 1978, vol. II, pp. 107-108).
Abbandonata quasi del tutto quella ufficiale, la loro vera <<Chiesa>> divenne il fascio. Sembrò quindi naturale, soprattutto nei centri rurali, tenere nella sede dell’organizzazione un crocifisso ed un’immagine del Santo protettore del paese, davanti ai quali ardeva continuamente un lumino ad olio; oppure portare in giro, in alcune manifestazioni, crocifissi e/o rappresentazioni della Madonna e dei Santi.
Alcuni giornalisti riferivano, scandalizzati, che qualche socio “quando nasceva un bambino invece di portarlo in chiesa per il battesimo lo portava al Fascio” (13).
Le visite dei capi dei fasci – e in particolar modo di Verro e di Barbato – nei paesi, rurali, venivano accoltecon
piogge di fiori, grande entusiasmo ed ossequio.
Nei contadini nasceva la convizione che l’avvento di un mondo più giusto fosse imminente, poiché questa era la volontà di Dio, ma soprattutto perché: “Era stato loro rivelato che l’unione fa la forza, e che con l’organizzazione si poteva creare una nuova società” (E. J. Hobsbawm, 1966, p. 127).
In realtà, i dirigenti dei fasci, nelle loro propagande facevano leva sul sentimento religioso dei contadini per suscitare in loro entusiasmo e passione per il socialismo, inteso però non come attesa messianica di un futuro migliore, ma come impegno concreto, attivo, di ogni essere umano per la <<costruzione>> di una società migliore.
Il fascio diventava “il nuovo centro di contatto, di unione, degli sfruttati per l’emancipazione, l’educazione, l’elevamento della dignità umana degli oppressi” (S.F. Romano, 1959, p. 236).
I contadini prendevano così coscienza dei propri diritti ed erano pronti a lottare per conquistarli: “Non andiamo più in chiesa – diceva una contadina di Piana dei Greci – ma al fascio. Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti” (14).
Sia nei fasci rurali che in quelli delle città, si tenevano periodicamente delle riunioni domenicali, durante le quali si leggevano i giornali (tra i quali l’organo ufficiale del Partito dei Lavoratori, la <<Giustizia sociale>>),e ci si teneva informati sulla attività svolta dagli altri fasci. Si discuteva, inoltre, dei principi del socialismo, delle proprie condizioni di vita, delle rivendicazioni da avanzare, di come organizzare e condurre uno sciopero o una agitazione.
Queste riunioni costituivano una novità per i contadini e per i minatori. Esse contribuirono allo loro istruzione e alla loro educazione morale e intellettuale. Ma soprattutto contribuirono a far loro acquisire la consapevolezza dei propri diritti. Consapevolezza che si manifestò compiutamente nelle rivendicazioni avanzate, dai contadini, al congresso di Corleone del 30 luglio 1893, e nelle richieste formulate dagli zolfatai, del nisseno e dell’agrigentino, nel congresso che si tenne a Grotte in ottobre.
L’esistenza stessa del fascio rivoluzionava la vita e l’assetto sociale tradizionali dei paesi rurali: al <<circolo dei civili>> ed alla parrocchia si aggiungeva – e contrapponeva -oral’associazionedei lavoratori. Quest’ultima aveva distintivo e bandiera propri; una banda musicale; un servizio d’ordine ed una sede dalla quale erano esclusi i civili che non fossero soci (S.F. Romano, 1959, p. 238).
7. IL RUOLO DEI CONTADINI NELLA LOTTA POLITICA. INIZIALE ATTEGGIAMENTO DI APERTURA DA PARTE DEL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO
I fasci rurali e le lotte coscienti ed organizzate delle masse contadine, erano nate grazie all’esistenza, prima, ed alla propaganda, poi, dei fasci delle città.Tuttavia, una volta propagatosi il movimento nelle campagne, i contadini ne divenirono, di fatto, i veri protagonisti.
Questo fu dovuto, tra l’altro, all’opera indefessa del trio palermitano del Comitato Centrale: Bosco, Barbato, Verro. I tre dirigenti, soprattutto dopo i congressi palermitani di maggio, accentuarono la loro “azione verso le masse contadine, mettendo decisamente in secondo piano quel proletariato cittadino sul quale tanto assegnamento si era fatto in un primo momento” (M. Ganci, 1977, p. 157).
Anticipando di più di un trentennio quelle che sarebbero state le posizioni del movimento proletario, i tre dirigenti palermitani ebbero, nei confronti dei contadini, un atteggiamento di assoluta apertura e attenzione. Questo sia
perché essi costituivano la maggioranza della popolazione siciliana sia perché si trovavano in condizioni economiche e sociali ben più misere e opprimenti rispetto a quelle degli operai delle città.
In Sicilia non poteva attuarsi alcuna reale rivoluzione sociale senza il diretto coinvolgimento dei contadini, i quali, se opportunamente sollecitati, non si sarebbero mostrati <<apatici>> come i lavoratori palermitani:
“Per il Comitato Centrale del Fascio e specialmente pel triumvirato Bosco-Barbato-Verro, erano dunque i contadini il fulcro del rinnovamento sociale dell’isola. Bisognava dare coscienza di sé stessi ai contadini; insegnare loro a resistere con lo sciopero alle prepotenze del gabelloto, del signore, dei campieri, della mafia; ad imboccare decisamente la strada che portava alla revisione dei patti iugulatori ed alla richiesta di mercedi più umane.
Sta di fatto che fu l’azione dei fasci a far uscire i jurnatara, i burgisi, i picconieri, i carusi da quella cupa inazione fatalistica nella quale erano rimasti per secoli; fu l’azione di Bosco, di Verro, di Barbato a squarciare il velo di diffidenza verso il contadino, che aveva costituito come un complesso di inferiorità del movimento proletario italiano” (M. Ganci, 1977, p. 158).
Per quanto riguarda il Partito Socialista Italiano, la sua posizione nei confronti del movimento contadino fu quanto mai confusa e indecisa fino al congresso che si tenne a Reggio Emilia nel settembre 1893; fin troppo chiara e netta nei mesi seguenti.
Il congresso di Genova dell’agosto 1892, che aveva dato vita al partito, non affrontò approfonditamente la questione agraria, e si chiuse con l’approvazione di un ordine del giorno che limitava l’azione socialista, nelle campagne, alle categorie dei braccianti agricoli, dei coloni e dei mezzadri.
Un mese dopo, si tenne a Marsiglia il congresso del Partito Operaio Francese. Questo, rispetto al congresso di Genova, intese in maniera più ampia la politica agraria, in quanto, oltre al proletariato agricolo ed ai coloni, comprese anche i coltivatori diretti, che erano proprietari della terra che coltivavano.
Questa <<apertura>> del Partito Socialista Francese diede vita, in tutta Europa, ad un appassionato dibattito sulla conquista dei contadini al socialismo. In Italia, il programma agrario socialista francese divenne, fino almeno al giugno 1893, un punto di riferimento.
I dirigenti dei fasci siciliani basavano su di esso la loro propaganda nelle campagne, e lo stesso programma agrario dei fasci assunse come modello di riferimento proprio le deliberazioni del congresso di Marsiglia.
Tuttavia, per quanto riguarda il Partito Socialista Italiano, le difficoltà cominciarono a sorgere “quando dalla impostazione programmatica <<operai e contadini uniti sotto il socialismo>> si dovette passare all’elaborazionedi una piattaforma politica e alla indicazione delle forze che avrebbero dovuto esserne protagoniste e beneficiarie” (F. Renda, 1975, p. 142).
Soprattutto a partire dal giugno ’93 si ebbe, nel partito, un ritorno alle posizioni iniziali, cioè a quelle del congresso di Genova:
“All’apertura contadina, che schiudeva al socialismo le campagne di tutta Italia, e soprattutto quelle meridionali, suben(trò), quindi, una impostazione più rigorosamente selettiva di chi fra i lavoratori della terra aveva oppure non i titoli per meritare la qualifica socialista” (F. Renda, 1975, p. 142).
Questo processo di chiususa nei confronti dei contadini non proletarizzati culminò (come vedremo più avanti) con il congresso di Reggio Emilia.
8. LA CONQUISTA DEI POTERI PUBBLICI
La via scelta nei congressi di maggio, per il miglioramento delle condizioni di vita di tutti i lavoratori, fu quella legalitaria. Per ottenere il riconoscimento dei propri diritti, per l’attuazione degli ideali socialisti e per essere, finalmente, i protagonisti e non le vittime del sistema politico, le classi lavoratrici non dovevano ricorrere alla rivoluzione ma alle libere elezioni.
Sin dal febbraio 1893, il Consiglio direttivo del fascio di Palermo aveva inviato ai soci una circolare con la quale li esortava a farsi iscrivere nelle liste elettorali; per curare tale iscrizione il fascio nominò anche un’apposita commissione.
La circolare sottolineava che tutto questo era necessario, perché uno dei <<capisaldi>>del Fascio era proprio “la conquista dei poteri pubblici” (cit. in S.F. Romano, 1959, p. 221). Questo principio, come abbiamo detto, venne ribadito anche in occasione dei congressi palermitani di maggio.
Tuttavia, il fascio di Palermo, in una riunione, tenutasi il 28 maggio, decise, in netta contraddizione con la circolare di febbraio, di non partecipare alle prossime elezioni amministrative di luglio. Esso non si limitò a non presentare propri candidati, ma diede mandato ai soci di astenersi dal voto. Pare che alla base di questa repentina decisione vi fossero state le difficoltà incontrate, a Palermo, nel presentare e nel sostenere una lista di candidati socialisti.
Comunque, il Comitato Centrale non ritornò indietro sui propri passi. Alla fine di giugno, venne inviata atutti i fasci dell’isola ed alle associazioni socialiste una circolare. Con questa si voleva, innanzi tutto, mettere in guardia tutte le organizzazioni contro le provocazioni della polizia e del Governo, poiché era ormai assodato che queste miravano a creare dei disordini, per poter poi intervenire (15).
Il 9 luglio, giorno designato per le elezioni, a Catania, a Messina, a Caltanissetta, a Piana dei Greci e in altri centri minori, vennero presentate, per la prima volta, liste socialiste, composte sia da fascianti poco noti sia da candidati già molto conosciuti, quali: De Felice a Catania; Petrina e Noé a Messina; Barbato a Piana dei Greci.
I risultati premiarono il lavoro organizzativo e propagandistico portato avanti, tenacemente, dall’intera organizzazione regionale. Oltre ai candidati <<di spicco>>, su menzionati, furono eletti anche numerosi operai, contadini, artigiani. L’intera lista socialista risultò eletta a San Giuseppe Jato, a San Cipirello, a Prizzi (paesi in provincia di Palermo), e ad Aragona (in provincia di Agrigento).
Questi successi elettorali furono accolti con grande entusiasmo dai dirigenti del movimento e, ovviamente, dai lavoratori, i quali di tali affermazioni erano stati i principali artefici. Mai, infatti, prima di quelle elezioni, si era registrata una così massiccia e cosciente partecipazione delle masse popolari:
“I contadini si recavano alle urne, in corpo, con la musica in testa – riferiva il Bosco – sprezzandole offerte corruttrici e le minacce dei padroni, a deporre la scheda nell’urna, ubbidendo fedelmente alla tattica imposta dal comitato centrale” (16).
Alla base, comunque,dell’insperato successo c’erano principalmente: le peggiorate condizioni di vita di gran parte della popolazione; il crescente malcontento per la “rapacità della classe locale che, padrona dei comuni, si serviva della finanza locale per <<taglieggiare>> – è il verbo più appropriato – i braccianti e i mezadrisiciliani” (M. Ganci, 1977, p. 119); infine, “specie neipaesi della provincia di Palermo, come San Giuseppe Jato e Piana dei Greci, lo spirito di protesta di larghi strati della popolazione contro le persecuzioni cui erano stati oggetto i Fasci da parte del Governo e delle amministrazioni comunali” (S.F. Romano, 1959, p. 224).
L’effetto più importante delle affermazioni elettorali fu la fiducia che esse impressero all’intero movimento, il quale dopo le minacce e le intimidazioni da parte dei proprietari (spalleggiati dai mafiosi), e dopo gli arresti, poté finalmente rianimarsi.
Sull’onda dell’entusiasmo, crebbe il numero degli iscritti e si costituirono nuovi fasci. Mentre a maggio erano circa 90 le associazioni ed i fasci che aderivano al congresso di Palermo, a luglio il numero delle organizzazioni siciliane in collegamento con il Comitato Centrale era già salito a 116, ed a ottobre tale numero sarebbe arrivato a 162 (senza tenere conto di 35 sodalizi in formazione).
Per quanto riguarda il numero degli iscritti ai fasci, i giornali del tempo e le autorità affermavano che esso ammontava a circa 300.000. Ma, come affermò in seguito Garibaldi Bosco, questa cifra era superiore a quella reale, ed era stata appositamente gonfiata dai dirigenti dei fasci per far credere al Governo di poter essi disporre di forze ingenti, contro le quali al Giolitti non conveniva agire con la forza.
Più vicina alla realtà, anche se approssimata per difetto è invece la stima fatta, nei mesi di ottobre e novembre, dal direttore generale di P.S. Sensales, giunto in Sicilia a fine settembre (come vedremo più avanti) per svolgere, su ordine del Giolitti, un’inchiesta sui fasci. Secondo tale stima in Sicilia si aveva un totale di 70.553 iscritti ai fasci (questa cifra non comprendeva gli iscritti ai fasci catanesi).
9. IL CONGRESSO DI CORLEONE E GLI SCIOPERI AGRARI D’AUTUNNO
I fascidei lavoratori – benché prevedessero nei loro statuti anche scopi di ordine educativo, assistenziale e politico -restavano essenzialmente delle associazioni di carattere economico, atte ad organizzare la classe lavoratrice per il raggiungimento di migliori condizioni di vita.
IL programma economico fissava sia obiettivi immediati, quali – per quanto riguarda i contadini – la modifica dei patti agrari e l’aumento delle misere mercedi dei braccianti, sia prospettive future, le quali, in osservanza ai principi marxisti, consistevano nella abolizione del salario e nella socializzazione della terra e degli strumenti di lavoro.
Napoleone Colajanni e il direttore di polizia Giuseppe Sensales, ritenevano parimenti che vi fosse una netta incomprensione fra le masse e i dirigenti dei Fasci riguardo al fine ultimo delle organizzazioni, vale a dire il collettivismo. Così il Sensales:
“E’ a notarsi però che mentre i capi dei fasci predicano, in modo confuso ed anarchico, il collettivismo; le masse, nella loro ignoranza, interpretano a modo loro queste teorie, e credono che si tratti invece di doversi quanto prima dividere le terre e le ricchezze che presentemente esistono” (Relazione Sensales, in M. Ganci, 1977, pp. 303-304).
Nessuna incomprensione vi era, invece, a proposito delle rivendicazioni economiche immediate.
Gli operai delle città furono i primi ad organizzarsi, e anche i primi a porre in essere delle lotte rivendicative. Sin da febbraio, numerosi scioperi si erano svolti nelle principali città siciliane. Le principali richieste erano: riduzione a otto ore della giornata lavorativa; aumenti salariali.
Scarsi furono però i risultati di tali lotte, poiché”i ceti operai delle città dell’isola erano ancora troppo frammentati e divisi negli interessi e nel grado di sviluppo per riuscire a dare vita ad un movimento unitario che abbracciasse l’intera regione” (S.F. Romano, 1959, p. 281).
Tuttavia queste prime agitazioni furono ugualmente molto importanti in quanto esercitarono grande influenza sugli altri lavoratori: esse costituirono un esempio per il movimento contadino, che adottò proprio le forme di lotta e di organizzazione della classe operaia.
Negli anni 1892-93 anche un’altra categoria di lavoratori diede vita a numerosi scioperi ed agitazioni. Ci riferiamo ai minatori delle zolfare, i quali miravano a bloccare la caduta dei salari, ad ottenere un’esatta misurazione del minerale estratto e mercedi più alte. Ma le lotte degli zolfatari, così come quelle degli operai delle città, non ebbero l’estensione e l’unità d’azione delle lotte contadine.
Gli scioperi intrapresi nel maggio ’93 dai braccianti e dai mezzadri dei circondari di Corleone e Piana dei Greci, come abbiamo visto, erano cessati a causa delle numerose denunzie ed agli arresti dei contadini e, soprattutto, dei dirigenti dei fasci.
Le agitazioni ripresero il 23 giugno, con lo sciopero dei mietitori del fascio di Prizzi, i quali richiedevano un aumento del salario.
Ma gli scioperi agrari più consistenti e diffusi si ebbero subito dopo il congresso dei fasci della provincia di Palermo, che si tenne a Corleone il 30 luglio ’93.
In tale congresso si discusse soprattutto del programma immediato dei fasci rurali. Il dibattito si concluse con la approvazione di un testo dei patti colonici,che doveva valere per l’intera provincia – possibilmente anche per tutta l’Isola – e doveva servire come base per tutti i contratti agricoli dell’annata 1893-94.
Il testo prevedeva, riassumendone il contenuto: l’abolizione del terratico, che era il contratto agrario più angarico allora in uso; l’abolizione di qualunque peso angarico, tranne il diritto di guardia e l’assicurazione contro i danni dell’incendio;
“Per la ripartizione del prodotto si stabiliva che il padrone doveva apprestare la terra, la semente asciutta ed il concime ed il contadino il lavoro ed il trappeto. Il prodotto doveva essere diviso fra loro in parti eguali, salvo che il contadino, quando le terre fossero già coltivate a maggese con tre colpi d’aratro, doveva contentarsi del terzo; quando le terre fossero seminate a fave il prodotto sarebbe stato tutto suo” (S.F. Romano, 1959, p.299).
I Patti di Corleone, come si vede, non intendevano rivoluzionare i rapporti di proprietà allora esistenti, ma, più <<semplicemente>>, essi miravano alla modifica degli iniqui contratti di affitto.
“Tuttavia la lotta per la revisione dei patti agrari era, considerata anche in se stessa, di notevole portata e diremmo anzi essenziale, in quanto di fatto tendeva ad alleggerire il peso dello sfruttamento, o meglio del super-sfruttamento, cui era soggetto il mezzadro, in quanto il suo contenuto specifico tendeva alla liquidazione di ogni angheria o servitù feudale e di ogni sorta di residuo di vecchie schiavitù” (S.F. Romano, 1959, p. 300).
Tali modifiche, inoltre, più che incidere sulla rendita dei proprietari, incidevano sull’utile dei gabelloti mafiosi poiché, in seguito al sistema della gabella e del subaffitto, erano il più delle volte questi ultimi ad affittare le terre ai contadini.
Dal congresso di Corleone uscirono anche altre importanti rivendicazioni: aumenti salariali per i braccianti; divisione dei beni demaniali; affitto diretto, del terreno, dal proprietario, in modo da eliminare la figura intermediaria del gabelloto, fonte solo di aggravi per il contadino, e di potere e ricchezza per la mafia locale (questa coraggiosa rivendicazione sarà al centro del movimento contadino del primo Novecento, oggetto del prossimo capitolo).
Tutte queste rivendicazioni, comprese naturalmente quelle concernenti i patti agrari, avevano un contenuto democratico e avevano come obiettivo la liquidazione dei residui feudali. Esse diventarono la piattaforma rivendicativa unitaria di numerosi scioperi agrari ed agitazioni che, dopo il congresso, si svilupparono in numerose zone della Sicilia, soprattutto di quella centro-occidentale.
Gli scioperi ebbero inizio nei primi giorni di agosto. Da Corleone e da Piana dei Greci si estesero in diversi comuni dell’entroterra palermitano (Bisacquino, Villafrati, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Roccamena, Belmonte Mezzagno), e agrigentino (Casteltermini, Acquaviva Platani, Santo Stefano di Quisquina ed altri centri minori).
I contadini si astenevano dal lavoro dopo aver compiuto i lavori di mietitura e di trebbiatura, e convincevano anche i pastori, e tutti i salariati, a fare altrettanto. A settembre i coloni si rifiutarono di prendere i terreni a mezzadria alle solite condizioni, chiedendo che venissero applicati i Patti di Corleone. I proprietari delle terre e i gabelloti, all’inizio, si opposero categoricamente. Accettare le richieste dei contadini, non conveniva loro economicamente, e, soprattutto essi vedevano leso il proprio prestigio e la propria autorità. Proprietari ed affittuari, non volevano assolutamente né riconoscere né dare legittimità ai fasci dei lavoratori.
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“(…) gli agrari e i gabelloti mafiosi non potevano tollerare una diminuizione del loro potere, temendo più che la perdita di qualche lira la fine di un’epoca; al contrario i contadini per la prima volta cominciavano ad avere consapevolezza della loro dignità di lavoratori e trovavano la forza morale per contrapporsi agli intoccabili di sempre” (D. Paternostro, 1994, p. 32).
Gli agrari erano convinti di poter controllare e interrompere questa agitazione con gli stessi strumenti che si erano rivelati efficaci per gli scioperi di maggio. Indi si rivolsero sia alla forza pubblica sia alla <<forza privata>>.
Indicativo, a tal proposito, l’episodio accaduto a Villafrati. Lo sciopero agrario ebbe ivi inizio il 12 ottobre:
“Ed aveva incontrato una forte opposizione nei proprietari terrieri e nelle autorità locali. Trenta soci del Fascio, recatisi il 13 ottobre nell’ex feudo Stallone per far sospendere il lavoro, erano stati accolti a colpi di fucile dai gabelloti con l’intenzione, dichiaravano questi, solo di intimorirli. I capi del Fascio (…) erano stati subito dopo arrestati come <<provocatori di violenze>>, e denunziati <<per violenza contro la libertà del lavoro>> insieme ad altre quindici persone” (S.F. Romano, 1959, p. 308).
A Corleone i proprietari terrieri cercarono, inutilmente, di convincere Bernardino Verro a desistere dalla sua attività, <<invitandolo>>ascegliere tra un compenso di quindicimila lire, se avesse accettato di farsi da parte, e una fucilata, in caso contrario. Il Verro, per di più, il 12 settembre, fu diffidato dal Sottoprefetto.
I comuni ove si svolgevano le agitazioni richiedevano rinforzi di soldati e di forza pubblica, e venivano in gran parte accontentati. Tali provvedimenti erano sollecitati dai proprietari, soprattutto in seguito ad alcuni episodi di incendi di pagliai, verificatisi nella zona di Corleone, e di taglio delle viti, verificatosi a San Giuseppe Jato.
I proprietari accusavano di questi fatti i soci dei fasci. Ma molto probabilmente, ed in alcuni casi sicuramente, i veri responsabili erano i campieri e le guardie campestri degli stessi feudi danneggiati o di altri feudi. Costoro, come sappiamo,
“erano sempre stati (…) strumenti docili dei padroni o meglio strumenti indocili nel senso che fornivano sostanzialmente l’armatura, per così dire, della mafia locale, che taglieggiava da un lato i proprietari e dall’altro i contadini” (S.F. Romano, 1959, p. 303).
I campieri e i gabelloti mafiosi potevano aver compiuto questi atti vandalici: o per inserirsi nelle agitazioni allora in corso e avanzare anch’essi <<a modo loro>> delle richieste ai proprietari; o per volontà dei proprietari stessi, i quali cercavano, in questo modo, di scatenare la reazione poliziesca contro i contadini.
Tuttavia lo sciopero agrario, al quale, secondo stime ufficiali, parteciparono ben 50.000 contadini, nonostante questi episodi,procedette per mesi sostanzialmente in maniera composta, e senza dare luogo ad incidenti che potessero autorizzare l’intervento della polizia o della magistratura.
Per sostenere a lungo lo sciopero, alcuni fasci costituivano i monti frumentari e/o raccoglievano offerte di denaro, per aiutare soprattutto i braccianti.
I contadini alla fine,grazie soprattutto alla compattezza, alla tenacia e alla maturità dimostrata, riuscirono a fare cedere la maggior parte dei proprietari.
A Corleone – “Nonostante il boicottaggio della mafia e le resistenze di alcuni grossi proprietari terrieri” (D. Paternostro, 1994, p. 33) – trattative tra le due parti vennero avviate già da metà settembre, ed in pochi giorni, con l’aiuto anche dell’attività di intermediazione del Sottoprefetto, si arrivò alla stipulazione di accordi, che recepivano buona parte delle richieste avanzate dai contadini.
Questo successo dei contadini corleonesi ebbe una benefica influenza sugli altri scioperi ancora in corso negli altri paesi.
Sull’esempio di Corleone, trattative vennero subito avviate in altri centri rurali (a Prizzi, a Compofiorito, a Bisacquino, a Palazzo Adriano), e dappertutto i contadini rivendicavano le condizioni che il fascio corleonese era riuscito ad ottenere. Accordi simili a quello di Corleone vennero stipulati: a Bisacquino, a Palazzo Adriano e a Contessa Entellina, alla fine di ottobre; a Villafrati ed in alcuni centri dell’agrigentino (fra gli altri Caasteltermini, Santo Stefano di Quisquina, Acquaviva Platani), ove si distinse per il suo impegno il presidente del fascio quisquinese Lorenzo Panepinto, a novembre.
Nel complesso, dunque,il grande sciopero agrario dell’autunno 1893, rappresentò un importante successo per il movimento contadino siciliano che, grazie alla costituzione dei fasci era riuscito finalmente a dare vita ad una <<agitazione di massa>> che fosse <<organizzata>>.
“Per la prima volta, nella storia dei rapporti fra contadini e proprietari in Sicilia, si era avuta la costituzione di comitati di agitazionee la riunione di proprietari e rappresentanti dei contadini alla presenza delle stesse autorità, il che costituiva un fatto nuovo ed irritante per lo spirito di classe dei proprietari terrieri. Ma il movimento questa volta si era mostrato imponente e bene organizzato e i proprietari avevano dovuto cedere.
Un elemento di forza aveva costituito il nesso e la continuità fra lo sciopero dei braccianti e lo sciopero dei mezzadri nella unità di azione e nella solidarietà attiva nel corso della lotta contro i proprietari gabelloti” (S.F. Romano, 1959, p. 312).
10. LA REAZIONE DEL GOVERNO E IL PROGRAMMA AGRARIO DEL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO
Una prova evidente del successo dell’agitazione contadina, può ravvisarsi nello stato di allarme in cui entrò il Governo in seguito al dilagare dello sciopero agrario. Conseguenza diretta di tale stato di allarme fu l’inasprimento dell’atteggiamento ostile e persecutorio che il Presidente del Consiglio aveva iniziato ad assumere nei confronti dei Fasci a partire dal maggio 1893.Risalgono infatti a questo mese i primi provvedimenti governativi contro i fasci.
A spingere il Giolitti ad intraprendere questa linea politica, furono le incessanti pressioni che gli provenivano da parte dei proprietari terrieri, dei sindaci, dei funzionari di P.S.; tutti allarmati dal dilagante diffondersi dei sodalizi nelle campagne:
“Gli incidenti di San Giuseppe Iato, le denuncie di Barbato e di Verro, come organizzatori di <<Associazioni di malfattori>>, le istruzioni riservate per colpire e denunziare i dirigenti di quelle associazioni, si verificarono tutte nel mese di maggio; quando i fasci stanno ormai largamente diffondendosi nelle campagne e cominciano i primi scioperi agricoli” (S.F. Romano, 1959 p.358).
Alle incessanti richieste di scioglimento dei fasci il Giolitti rispondeva di non ritenere necessari i mezzi eccezionali, ma aggiungeva: “I mezzi che la legge concede li adopererò tutti inesorabilmente” (17).
A maggio egli inviò una circolare alle autorità di polizia invitandole alla più stretta sorveglianza e alla denunzia dei dirigenti dei fasci; e a giugno promosse un’inchiesta amministrativa per indagare se vi fossero <<pregiudicati>>tragli iscritti ai fasci, in modo da colpire, in caso di riscontro positivo, i sodalizi in quanto associazioni per delinquere.
In verità, persone con precedenti penali, e anche qualche mafioso, erano riusciti effettivamente – come vedremo – a iscriversi ai fasci, o a costituirne qualcuno per la conquista dell’amministrazione comunale. Ma il Comitato Centrale, quando riusciva a smascherare questi fasci, li condannava e li dichiarava <<apocrifi>>.
I pregiudicati per statuto non erano ammessi nei fasci. Ma, di certo, il Comitato Centrale non poteva controllare che tutti i fasci rispettassero questo principio; inoltre, a volte, gli stessi dirigenti ritenevano fosse opportuno fare iscrivere alcuni pregiudicati di origine contadina, per allontanarli dalle attività criminose e dalle organizzazioni mafiose (sull’argomento Fasci e Mafia torneremo più avanti).
Questi gruppi di pregiudicati o di mafiosi, tuttavia, non influenzarono il movimento nel suo complesso, e non ne trasformarono l’indirizzo e l’organizzazione. Il risultato dell’inchiesta delGiolitti, quindi, non fu tale da poter giustificare lo scioglimento dei fasci in base alla tesi che essi fossero congreghe di mafiosi e di delinquenti comuni.
Secondo Francesco Renda (1975, p. 139), alla basedella titubanza mostrata dal Giolitti nel ricorrere ad un provvedimento eccezionale di scioglimento dei fasci, che prescindesse da pretesti di ordine giuridico, vi era la precarietà della maggioranza che appoggiava il suo governo. Mentre infatti le forze di destra premevano per lo scioglimento straordinario delle organizzazioni socialiste siciliane, da sinistra giungevano pressioni di carattere opposto. Di qui le varie oscillazioni e ambiguità della politica giolittiana.
Anche in autunno, quando, in seguito all’allarme suscitato dallo sciopero agrario, sempre più insistenti si fecero le richieste di provvedimenti straordinari, il Giolitti,invece di sciogliere immediatamente i fasci, preferì prendere tempo, inviando nell’Isola il direttore generale di P.S. Sensales.
Questi giunse in Sicilia il 29 settembre ’93 con l’incarico ufficiale di studiare il brigantaggio, ma in realtà con il compito preciso di analizzare l’organizzazione e l’attività dei fasci e di individuare i mezzi più opportuni per arrivare allo scioglimento e alla liquidazione del movimento:
“Più che a svolgere un’inchiesta sui fasci il Sensales però si dedicava, nel suo viaggio, a sollecitare le autorità, i sottoprefetti, gli ispettori di polizia e i delegati a svolgere una assidua azione, attraverso fidati confidenti, per raccogliere tutti gli elementi che potessero condurre all’arresto di dirigenti locali o allo scioglimento parziale o generale dei fasci” (S.F. Romano, 1959, p. 379).
A metà novembre, l’organo ufficiale dei fasci <<La Giustizia Sociale>>informava che ben 800 associati si trovavano a soffrire in prigione.
Oltre tutto,in ottobre, come abbiamo visto, sempre più sindaci, preoccupati per le agitazioni allora in corso, richiedevano l’invio di soldati nei loro comuni. Spesso però il rafforzamento militare piuttosto che evitare i conflitti ne diveniva un fattore scatenante, in quanto le autorità facevano abuso delle truppe a loro disposizione, esagerando i pericoli di qualunque manifestazione organizzata dai fasci.
Alla fine dell’esaltante sciopero agrario dell’autunno, comunque, il movimento dei fasci siciliani non si trovò ad affrontare soltanto la violenta repressione scatenata dal Governo, ma anche l’inaspettato cambiamento della politica agraria del Partito del Lavoratori Italiani!
A settembre si era svolto, infatti, il congresso di Reggio Emilia, durante il quale si erano gettate le basi ideologiche e politiche del Partito Socialista Italiano.
Riguardo la questione contadina, le deliberazioni di questo congresso si allontanarono decisamente dal programma agrario francese, che fino all’inizio dell’estate era stato visto con simpatia.
In questo il Partito Socialista Italiano fu sicuramente influenzato dai forti dissensi che, su tale programma, si stavano manifestando in Europa (soprattutto da parte del Parito Socialdemocratico Tedesco).
A Reggio Emilia i socialisti italiani decisero che il partito doveva:
“(…) essere attento solo alle esigenze del bracciantanto agricolo di tipo capitalistico, e non preoccuparsi punto né dei contadini piccoli proprietari né degli stessi mezzadri ed affittuari che sono anche essi, come i contadini coltivatori diretti, destinati a scomparire, travolti dalla trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura; (…) (di conseguenza, N.d.a.) Il movimento dei Fasci siciliani, che è al contempo di braccianti del latifondo, di contadini senza terra, di mezzadri, coloni, piccoli affittuari, ed anche di strati di contadini piccoli proprietari, in una impostazione di tal genere non trova posto, anzi è considerato come un corpo estraneo da guardare con diffidenza” (F. Renda, 1975, pp. 146-147).
A favore degli oltre 50.000 contadini siciliani, che da oltre un mese stavano scioperando per l’attuazione dei Patti di Corleone, non venne espressa, da parte del congresso, alcuna parola di solidarietà; anzi,venne manifestata contrarietà per le rivendicazioni stesse degli scioperanti, in quanto a sostegno e non contro la mezzadria.
Altro deliberato del congresso di Reggio Emilia,che sancì definitivamente il distacco dal movimento siciliano, fu quello che stabilì che il Partito Socialista Italiano doveva rompere qualunque tipo di legame, rapporto o intesa, con i partiti affini e con i singoli che non fossero formalmente socialisti. Questo in Sicilia volle dire la rottura degli stretti legami che fino ad allora il Partito aveva avuto con il movimento dei fasci, alla cui direzione non vi erano esclusivamente militanti socialisti e al quale erano iscritte persone che, in base alle disposizioni adottate a Reggio Emilia, non potevano più fare parte del Partito.
Il movimento dei fasci siciliani venne così abbandonato a sé stesso, proprio mentre si accingeva ad affrontare i suoi momenti più difficili. I dirigenti nazionali del partito socialista – tranne qualche comunicato di solidarietà -non si occuparono più della situazione siciliana.
“Centinaia di migliaia di lavoratori in lotta (furono) lasciati senza guida politica, senza programma di azione, senza sbocchi a breve termine, senza prospettiva nel futuro” (F. Renda, 1979, p. 70).
11. LE MANIFESTAZIONI TUMULTUOSE CONTRO LE TASSE
“Di fatto dopo il Congresso di Reggio Emilia”, il movimento dei Fasci siciliani “cominciò a perdere di lucidità di slancio e di compattezza” (F. Renda, 1975, p. 154).
Le prime agitazioni che i dirigenti dei fasci non riuscirono a controllare furono quelle contro le ingiuste e opprimenti imposte comunali. Questo tipo di lotte ebbero inizio fin dall’estate ’93, ma si svilupparono in maniera massiccia e tumultuosa soprattutto al termine dello sciopero agrario e, forse, proprio in seguito all’entusiasmo da questo suscitato.
La ragione principale per la quale i fasci non riuscirono a guidare veramente queste agitazioni è da ricercarsi nella grande varietà degli strati sociali che vi presero parte.
Ad essere colpiti dalle esose tasse comunali non erano solo i contadini ma tutti i ceti ad esclusione delle classi abbienti, che ancora – conl’eccezione di qualche comune ove la lista socialista aveva vinto le elezioni amministrative di luglio -dirigevano le amministrazioni comunali, e lo facevano a proprio esclusivo vantaggio.
Per rendersi conto di questo, basta analizzare, per l’appunto, il criterio seguito per la distribuizione del peso fiscale locale.
Per quanto riguardava le imposte dirette:
“Il proprietario di qualche ettaro di terreno o di poche are di terra (…) era obbligato a pagare la imposta prediale, le raddoppiate sovraimposte comunali e provinciali, ed anche la tassa della viabilità obbligatoria. Queste imposte gravavano sulla piccola proprietà terriera in misura incomparabilmente più onerosa rispetto alla grande proprietà anche se in percentuale identica”(S.F. Romano, 1959, p. 316).
Questo eccessivo carico tributario era di ostacolo alla formazione di una nutrita classe di piccoli proprietari terrieri.
Anche la tassa comunale sul bestiame veniva in gran parte a pesare sui ceti più umili,poiché l’importo che doveva pagare chi possedeva bestie da tiro e da soma, che costituivano gli animali da lavoro del contadino, era maggiore rispetto a quello che era tenuto a pagare chi possedeva vacche e buoi, cioè i ricchi proprietari.
Ma ad angariare piccoli proprietari, artigiani, contadini e lavoratori in genere, erano soprattutto le imposte indirette, le quali in Sicilia avevano un gettito nettamente superiore a quello delle imposte dirette. Tra le prime, l’aggravio che più di tutti opprimeva ed esasperava le masse popolari, era senz’altro il tristemente famoso dazio consumo: nei comuni aperti si poteva fare entrare liberamente la merce ed il dazio si pagava al momento della vendita al minuto, ricadendo di conseguenza esclusivamente sui consumatori; nei comuni chiusi il dazio si applicava invece su tutte le merci che entravano in paese, cosìcché tutti pagavano lo stesso importo ma, i commercianti, al contrario dei contadini (i quali rientrando la sera a casa portavano con sé i magri frutti del loro lavoro), potevano rifarsi sul consumatore al momento della vendita. In ogni caso, erano i ceti più umili a sopportarne il peso.
Come vedremo, durante i tumulti che esploderanno a dicembre,i casotti daziari posti all’entrata dei comuni chiusi saranno tra i primi bersagli presi di mira dalla rabbia della popolazione.
I cittadini non ricevevano, come contropartita delle gravose tasse pagate, neanche i servizi pubblici cui avevano diritto, poiché alla “servitù economica” si aggiungeva la “servitù amministrativa” (S.F. Romano, 1959, p. 322), anzi, era proprio questa la causa di quella.
In base alla riforma elettorale del 24 settembre 1882, il diritto di voto era riconosciuto a coloro i quali pagassero una data somma di imposta diretta o sapessero leggere e scrivere.
Secondo Massimo Ganci (1977, p. 116), questa legge elettorale consegnò, in pratica, le amministrazioni comunali in mano al “ceto civile”, cioè a quel “ceto di piccolo-borghesi, ad un tempo agrari ed intellettuali”. Una volta acquisito il diritto al voto, questi ultimi strinsero una alleanza politica conservatrice con i latifondisti, diventandone, solitamente, i galoppini elettorali e ricevendone in cambio “favori e privilegi”:
“Mentre i terrieri e i capitalisti miravano ai seggi di Montecitorio i seggi dei Consigli Comunali e delle Giunte rimanevano, quale giusta ricompensa, ai loro fedelissimi”
Le elezioni amministrative si trasformavano in Sicilia in duri confronti tra due o più fazioni della piccola borghesia agrario-intellettuale. Negli scontri comunali si ricorreva senza scrupoli anche all’aiuto di briganti:
“(…)può accadere che i briganti intervengano nei conflitti municipali come braccio armato di una delle fazioni: ad esempio nella faida tra due eminenti famiglie di Partinico gli Scalia si servono del brigante Nobile per uccidere un figlio del notaio Cannizzo il quale per vendicarsi ingaggia alcuni killer di Monreale” (S.Lupo, 1993, p.27).
Nel 1882, con il parziale allargamento del suffragio, erano entrati a far parte dell’elettorato anche i gabelloti e gli affiliati più ricchi delle organizzazioni mafiose.
Costoro poterono così acquisire ancora più potere, inserendosi attivamente, con i loro sistemi, nelle competizioni politiche. Così Gaetano Mosca:
“Pochi anni dopo che fu introdotto in Sicilia il regime rappresentativo le cosche mafiose compresero subito il gran partito che potevano trarre dalla loro partecipazione alle elezioni amministrative. Questa partecipazione diventò più efficace e attiva dopo le leggi che allargarono il suffragio e che diedero il diritto di voto ai membri stessi delle cosche ed alle classi nelle quali questi possono avere più influenza e godono maggior prestigio” (cit. in R. Catanzaro, 1991, p. 127).
Il sostegno dei mafiosi fu ricercato dai vari gruppi politici in competizione, sia per intimorire gli avversari sia poiché essi <<controllavano>> un consistente numero di voti.
Per ogni fazione in lotta ogni mezzo era lecito pur di <<accaparrarsi>>,è proprio il caso di dirlo, l’amministrazione comunale.
Quanto mai illuminante, a tal riguardo, è la descrizione fornitaci da Giuseppe Alongi (nel libro “La Maffia”, scritto nel 1886) del rapporto clientelare che si stabiliva tra elettori – anche facinorosi – e “capi-parte”,edeinefasti
effetti che il ricorso sistematico a tale antico, e purtroppo intramontabile, sistema produceva sulla gestione della cosa pubblica:
“In un Comune i capi-parte avversi furono in gioventù amici,compagni in imprese più o meno arrischiate; in un altro sono parenti anche, ma il desiderio di prepotere è più forte del sangue. Ogni capo ha naturalmente l’interesse di farsi una numerosa e variopinta clientela, dal sicario risoluto ed audace, al grande elettore, e per riuscire non risparmia denaro, favori, protezioni, assistenze di ogni specie. Esso non rifugge da alcun mezzo per difendere e tenersi fido il cliente, anche quando il costui passato non è interamente pulito. Lo si minaccia di ammonizione? Ed eccoti il signor B. in giro dal delegato al pretore, dalla sotto-prefettura alla procura del Re, dall’avvocato al deputato, facendo sforzi inauditi per dipingerlo onesto, vittima di calunnie partigiane (…)
Naturalmente questi favori costano un pò cari al signor B., e nasce quindi il bisogno di porsi in grado di farne altri meno onerosi per lui. Ne trova infatti una miniera inesauribile nell’ufficio comunale. Se diviene sindaco, o per maggiore prudenza vi insedia un amico fedele a guisa di garante responsabile, i suoi aderenti sono sicuri di ottenere quel che vogliono, mentre i contrari han da temere ogni specie di vessazioni. I primi hanno subito certificati di buona condotta, sono il più lievemente possibile colpiti dalle tasse locali, ricevono un posto nel gran banchetto dei beni comunali, delle opere pie, degli appalti, ecc.; mentre pei secondi le cose procedono semplicemente al contrario. Si potrebbe credere che tra padroni e clienti siavi affetto, cordialità di relazioni. Niente di più falso. Quelli proteggono per necessità e per ispirito di supremazia, questi accettano per tornaconto, ed appena trovano di meglio nel campo opposto, dimenticano le proteste di eterna riconoscenza, smettono i vili ossequi di ieri e cambiano di protettore come di camicia.
Che cosa possa essere l’amministrazione ispirata a siffatti criteri è facile pensarlo. Mentre le spese utili vengono trasandate, quelle di lusso o a prò di pochi si succedono rapidamente. I servizi pubblici o non esistono che in apparenza e negli articoli di bilancio o sono affidati ad amici, senza criteri di scelta e di idoneità, d’onde un continuo alternarsi e rinnovarsi peggiorando di impieghi ed impiegati comunali, poiché ogni nuovo venuto fa tabula rasa del vecchio, e rimette tutto (…) a nuovo, secondo i suoi comodi.
Nè l’autorità politica può seriamente infrenare questi disordini, perché, a parte che l’attuale legge riconosce e sanziona l’autonomia dei funzionari elettivi senza una corrispondente responsabilità, nessuno reclama, sapendosi che al di sopra del sindaco vi è il consigliere provinciale e più in alto il deputato che, dovendo appoggiarsi ai grandi elettori, può far passare il quarto d’ora di Rabelais al funzionario un pò troppo zelante” ( G. Alongi, 1977, pp.33-34).
I veri sconfitti in ogni tornata elettorale erano, comunque, le classi povere prive del diritto di voto. La fazione politica sconfitta aveva la possibilità, infatti, di <<rifarsi>> con le successive elezioni amministrative. I ceti umili, invece, erano sempre soccombenti e, quindi, oggetto di tutti i soprusi e le angherie dei gruppi dirigenti locali.
L’assoggettamento delle masse popolari non era solo economico, ma generale. Il Sindaco, che veniva nominato dal Governo, poteva facilmente limitare la libertà dei cittadini più <<ribelli>>, dal momento che era lui a rilasciare i certificati di moralità ed a informare il pretore riguardo le persone da sottoporre alle ammonizioni. Egli, là dove mancava, sostituiva l’ufficiale di polizia, assumendone le funzioni e potendo anche, in alcuni casi, effettuare degli arresti.
Il Sindaco, inoltre, nella tutela dell’ordine pubblico si avvaleva dell’aiuto delle guardie campestri. Queste erano i campieri privati dei feudi che, a partire dal 1866, erano stati organizzati in corpo di polizia municipale, dipendente dal Comune. Le guardie venivano in gran parte reclutate fra i pregiudicati ed i mafiosi del luogo, ed erano addetti di fatto alla tutela delle proprietà del sindaco e dei suoi amici latifondisti. Altro loro compito era la difesa dell’ordine economico e politico costituito, dalle agitazioni e dagli attacchi provenienti dalle masse popolari. Le guardie campestri, di conseguenza, ebbero un grande ruolo nella repressione violenta del movimento contadino.
In alcuni comuni esse erano pagate direttamente dai proprietari terrieri; in altri comuni, invece, venivano pagate con i soldi di tutti i contribuenti, per quanto i loro servigi fossero rivolti soltanto ai gruppi dirigenti ed ai proprietari, mentre, al contrario, le masse erano solo vittime della loro violenza ed oppressione.
Diversi furono, dunque, i motivi di malcontento che stavano alla base delle agitazioni che si svilupparono, negli ultimi mesi del 1893, in numerosi centri rurali.
Intere popolazioni, non avendo altro modo per protestare e per cercare di cambiare le cose, e probabilmente incoraggiate dai successi ottenuti dal movimento dei fasci, diedero vita ad imponenti manifestazioni contro le tasse e le amministrazioni comunali. Tali manifestazioni, a causa, tral’altro, delle difficoltà incontrate dai dirigenti dei fasci nel dirigerle e controllarle, a volte degenerarono in tumulti.
I motivi per i quali i dirigenti dei fasci non riuscirono ad avere un totale controllo dell’agitazione furono legati alle caratteristiche della stessa. Al contrario di quelle precedenti, questa coinvolgeva, come abbiamo visto, svariate categorie sociali: braccianti, contadini poveri, operai disoccupati o sottoccupati delle città, artigiani, commercianti, piccoli e medi proprietari. Per di più, traducendosi in manifestazioni contro i municipi, l’agitazione in alcuni paesi fu strumentalizzata dalla fazione politica borghese avversa al gruppo politico al potere; a volte entrarono in opera agitatori e provocatori con il preciso compito di trasformare le manifestazioni pacifiche in dsordini, in modo da fornire il pretesto alla forza pubblica per intervenire.
Non tutte le agitazioni contro le tasse, tuttavia, sfociarono in tumulti.
Una delle prime dimostrazioni contro le tasse si svolse in agosto a Belmonte Mezzagno (Palermo), la cui amministrazione era praticamente in mano al sindaco Giovanni Migliore: costui aveva riunito tutti gli assessorati nelle sue mani; il consiglio comunale era composto in maggioranza da suoi parenti ed amici. Di conseguenza, come notava l’ispettore Salvatore Castellini (inviato a Belmonte in seguito alle agitazioni popolari),
“La lunga durata in carica, la certezza di niuna opposizione in consiglio, la maggioranza assoluta conseguita sempre nelle elezioni lo han reso arbitro delle sorti del Comune il quale versa in condizioni tutt’altro che felici” (cit. in G. Casarrubea, 1978, vol. II, p. 144).
Il Migliore usava a proprio esclusivo vantaggio le guardie campestri. La moglie, maestra elementare, percepiva lo stipendio senza lavorare. Innumerevoli erano le angherie e le vessazioni cui erano soggetti gli oppositori, ed in particolar modo i membri del fascio locale. Tuttavia, le manifestazioni che si svolsero in agosto non vennero organizzate dai dirigenti del fascio ma furono il risultato della spontanea esplosione dell’odio popolare.
La mattina del 12 agosto una cinquantina di donne protestò, davanti al palazzo municipale, contro le tasse e l’amministrazione comunale. L’indomani una delegazione di donne si recò alla caserma dei carabinieri per chiedere l’abolizione del dazio, la destituzione del Sindaco e lo scioglimento del Consiglio comunale. Il 15 agosto, 600 contadini e contadine sfilarono per le vie del paese. Questo pacifico corteo venne fatto sciogliere dal sindaco “amico della mafia e del prefetto” (G. Casarrubea, 1978, vol. II, p. 147). Tutte le donne presenti alla manifestazione furono arrestate, ed alcuni uomini furono tradotti al carcere di Misilmeri.
In qualche caso la protesta popolare riuscì a raggiungere dei risultati. A Borgetto (Palermo), in novembre, circa 400 uomini e donne, appartenenti al fascio dei lavoratori, protestarono contro le tasse ed ottennero la riduzione del focatico e l’eliminazione della tassa sul valore locativo. Ad Altavilla una manifestazione femminile, svoltasi in dicembre, conseguì la sospensione del dazio sulla vendita del pane (J. Calapso, 1980, p. 91).
In alcuni paesi i fasci locali tentarono di svolgere una funzione di controllo delle amministrazioni municipali, denunziandone gli abusi, le ingiustizie e la sperequazione fiscale. Per questa loro attività i dirigenti dei fasci venivano ritenuti i responsabili di qualunque espressione popolare di protesta si verificasse nei loro paesi. A Bivona (Agrigento), per esempio, a metà settembre un gruppo consistente di donne si recò al Municipio per restituire circa 500 avvisi di pagamento di tasse di acqua, di bestiame e di focatico. Al termine della dimostrazione, i dirigenti del fascio furono subito arrestati.
Il fascio di Corleone organizzò, per il 24 dicembre,una importante manifestazione contro i metodi seguiti dall’amministrazione comunale nella distribuizione delle tasse. In tale occasione si tenne una pubblica assemblea, che si concluse con l’approvazione del seguente ordine del giorno:
“Il comizio (…) delibera sospendere il pagamento di
tutte le tasse comunali, provinciali ed erariali fino a quando il governo, sciolto il consiglio comunale, manderà un regio delegato per assestare la cosa amministrativa; non fare iscrivere elettori né pigliar parte alle lotte delle urne” (18).
Si decise, però, di continuare a pagare il dazio consumo, in modo da evitare incidenti alle porte daziarie, “nocenti al progresso delle idee ed alla nostra organizzazione”. In conclusione si stabilì di:
“(…)telegrafareil presente ordine del giorno ai deputati Colajanni, De Felice, Prampolini e Sonnino nonché alla stampa per attirare la opinione della nazione su questa terra ridotta agli estremi per opera di mafiosi commendatori e cavalieri pregiudicati” (cit. in S.F. Romano, 1959, p. 335).
Alla fine dell’assemblea 4.000 persone si riversarono sulla piazza del Municipio. Bernardino Verro, su sollecitazione dell’ispettore di polizia, invitò la folla a sciogliersi, e la manifestazione si concluse pacificamente.
A Corleone non si verificarono disordini e incidenti, né in quel giorno né nei giorni seguenti.
In qualche centro della Sicilia orientale le agitazioni contro le tasse assunsero subito un carattere tumultuoso. A Siracusa, il 10 ottobre una manifestazione di protesta (per la mancata attuazione delle riduzioni di tasse,che l’amministrazione aveva promesso alla cittadinanza) degenerò in tumulto e fu saccheggiato il palazzo municipale (calmato il tumulto la Giunta approvò i provvedimenti promessi). A Floresta, in provincia di Messina, il 22 ottobre fu assaltata la caserma dei carabinieri.
Con il passare dei giorni la situazione cominciò a degenerare in tutta la Sicilia. I dirigenti dei fasci, prima ancora che si arrivasse alle devastazioni e agli eccidi, condannarono i primi disordini e gli eccessi delle popolazioni.
Ma a partire da dicembre, come vedremo, i tumulti divennero sempre più numerosi:
“(…)molte dimostrazioni contro i municipi, per l’abolizione delle tasse e dei dazi consumo, si trasformarono in veri e propri tumulti. I dirigenti dei fasci non riuscirono a controllare il movimento che si allargava rapidamente e in modo disordinato. Quasi nell’illusione di mettere così fine a tutti i dazi e a tutte le imposte le agitazioni si concludevano con l’assalto alle sedi del comune, la distruzione delle carte, l’incendio dei casotti daziari” (J. Calapso, 1980, p. 95).
La sommossa popolare diventò un facile pretesto per la
liquidazione definitiva del movimento dei fasci. Innanzi tutto, in alcuni centri rurali, la rivolta fu repressa nel sangue.
A sparare sulla folla non furono soltanto le truppe ma anche le guardie campestri – alservizio dei proprietari terrieri e dei capi mafiosi – anzi, il più delle volte furono proprio queste ultime a prendere l’iniziativa del massacro. Così, prima di passare all’esposizione analitica degli episodi turbolenti che si susseguirono nell’Isola (che si conclusero con un consistente numero di vittime di parte contadina), ci sembra opportuno soffermarci sui rapporti che vi furono tra i fasci – in particolar modo quelli rurali – e la mafia.
12. I FASCI SICILIANI DEI LAVORATORI E LA MAFIA
Una delle accuse che venivano mosse ai fasci dai delegati di pubblica sicurezza era quella di essere delle società di malfattori. Proprio sulla base di questa accusa, come abbiamo visto, il Giolitti promosse un’inchieta amministrativa per accertare se vi fossero elementi sufficienti per procedere allo scioglimento dei sodalizi in quanto associazioni per delinquere.
L’inchiesta, però, ebbe esito negativo, vale a dire, i risultati delle indagini non furono tali da corroborare quella pesante accusa. Ecco cosa scriveva il prefetto di Palermo Colmayer nel suo rapporto sui fasci della provincia:
“Dopo un attento esame portato sui singoli fasci ho rilevato che i condannati messi in confronto col numero piuttosto considerevole dei consoci, sono una insignificante minoranza. Ed è perciò che non mi sembra che si possa sotto questo riguardo adottare un provvedimento di rigore a carico dei fasci” (19).
Tuttavia,venne accertato che alcuni pregiudicati ed alcuni mafiosi (per quanto fossero delle eccezioni e quindi non qualificassero l’intero movimento) erano effettivamente iscritti ai fasci o, addirittura, ne avevano costituito qualcuno per fini politici.
Benché numerosi fasci prevedessero nei propri statuti il divieto d’iscrizione “alle persone che diano pubblico scandalo, ai pregiudicati, ai mafiosi” (S. Lupo, 1993, p. 127), ci furono delle deroghe a questo principio nei casi in cui i pregiudicati dimostravano di volersi riscattare e di stare dalla parte dei lavoratori (M. Ganci, 1977, p. 204).
Per quanto riguarda poi gli affiliati mafiosi, secondo Massimo Ganci (1977, pp. 204-205) si trattava:
“(…) di appartenenti agli strati più bassi della mafia, della semplice manovalanza del crimine, le cui fila erano solidamente tenute in mano dai grandi capi”.
Della stessa opinione è Francesco Romano (1959, p.364):
“In genere chi venne attratto e introdotto nei Fasci fu il piccolo mafioso o il semplice pregiudicato di origine contadina, o artigiana, che, spinto al piccolo furtoo ad associarsi per difesa nella mafia, la catena dei metodi di soffocazione sociale esistente aveva fatto cadere nella rete della polizia”.
Il movimento dei fasci e la mafia, quindi, facevano leva sui medesimi gruppi sociali, ma proponevano loro due modelli alternativi di mobilità e di rapporto con la borghesia – che amministrava i comuni -e con i latifondisti: di contrapposizione <<legalitaria>>, il primo; di compromissione <<violenta>> , la seconda. I dirigenti dei fasci ritenevano che, intensificando l’opera di educazione, alla coscienza dei propri diritti e all’azione organizzata, delle masse contadine, queste si sarebbero completamente allontanate dalle organizzazioni mafiose (Cfr. S.Lupo, 1993, p. 127).
Ma, come dicevamo, vi furono anche alcuni fasci fondati o dominati da mafiosi, i quali costituivano queste organizzazioni per usarle come sostegno elettorale di una determinata fazione borghese (20). Questi fasci, comunque, quando si riusciva a rivelarne la fallacia, non venivano riconosciuti dal Comitato Centrale (che li dichiarava <<apocrifi>>).
Vi fu, però, il caso del fascio di Bisacquino, regolarmente riconosciuto dal Comitato Centrale. Ebbene, vice presidente di questo fascio era il mafioso Vito Cascio Ferro, ed alla presidenza del sodalizio vi era un suo amico, Nunzio Giaima. Questo fascio portò avanti le battaglie del movimento, in autunno, per esempio, i contadini attuarono un lungo periodo di sciopero per l’applicazione dei Patti di Corleone, riuscendo ad ottenere la concessione di alcune salme di terra a condizioni più favorevoli.
Probabilmente,in questo caso, così come negli altricasi simili a questo, i mafiosi, come scrive il Blok (1986, p. 126), “stavano pescando nel torbido”. Essi, forse, ricercavano così, una sorta di legittimità popolare; oppure tentavano di controllare dall’interno l’agitazione contadina; o ancora tenevano il piede in due staffe, poiché non era ancora del tutto chiaro chi sarebbe stato il vincitore. Non è da escludere che tutte e tre queste motivazioni, contemporaneamente, abbiano spinto alcuni mafiosi ad inserirsi nel movimento dei fasci.
Bisogna, del resto, tenero conto di una caratteristica fondamentale del fenomeno mafioso, che rimarrà costante nel tempo e che, di conseguenza, ritroveremo anche in altri periodi storici. Ci riferiamo alla “elevata elasticità e capacità di adattamento” (U. Santino, 1989, p. 22) della mafia, la quale: sulle prime cerca di prevenire qualunque mutamento sociale e politico e oppone resistenza alle iniziali manifestazioni del movimento innovatore; in seguito, però, quando il movimento appare ormaiinevitabile, tenta di controllarlo, di strumentalizzarlo e di sfruttarlo a proprio vantaggio (Cfr. R. Catanzaro, 1991, p. 134); quando non vi riesce del tutto, quando la situazione le sfugge di mano, la mafia ricorre alla repressione violenta dei <<riottosi>>.
Sempre a proposito dei rapporti tra i fasci e la mafia, si raccontano degli episodi, a nostro parere, contrastanti.
Durante il processo contro il Comitato Centrale dei fasci, che si tenne (come vedremo) nell’aprile-maggio del 1894 dinanzi al tribunale militare di Palermo, venne raccolta anche la testimonianza dell’avvocato Antonio Marinuzzi. Questi, nella sua deposizione, disse che: “Si sapeva che la mafia non partecipava ai Fasci e intendiamo parlare – precisava – dei caporioni, senza dei quali nulla si organizza. E perché la mafia non vi partecipava?” (cit. in G. Falzone, 1975, p. 185) In una riunione segreta, tenutasi in Piazza degli Aragonesi a Palermo, Garibaldi Bosco “aveva tentato di indurre alcuni capimafia ad unirsi con loro”; ma i mafiosi avevano ormai capito che nella lotta tra i fasci e il Governo “il più forte non era il partito dei fasci e rimasero perciò fedeli al governo” (21).
Quindi, stando a questa testimonianza, i fasci avrebbero ricercato il sostegno dei caporioni della mafia, i quali, però preferirono rimanere <<governativi>>. Ma se teniamo conto di un altro episodio della storia dei fasci sembrerebbe, al contrario, che sia stata la mafia a tentare invano di instaurare dei rapporti di collaborazione con il movimento dei fasci.
Ecco l’episodio al quale ci riferiamo. Alla riunione dei promotori del fascio di Palermo, pare fosse presente anche il mafioso Giuseppe Lupo, sostenitore di Crispi. Nell’ottobre del 1893 il Lupo “propose al fascio palermitano di votare un ordine del giorno antigiolittiano. Ricevette un fermo rifiuto ” (M. Ganci, 1977, p. 204). I grandi capi della mafia “dopo il no del fascio palermitano a Giuseppe Lupo, si schierarono contro l’organizzazione dei lavoratori” (M. Ganci, 1977, p. 205).
Riassumendo, i rapporti tra i fasci e la mafia sarebbero stati i seguenti: ad essere attratti e introdotti legalmente nei fasci furono i piccoli mafiosi di origine contadina, i quali, secondo la tesi forse un pò ingenua dei dirigenti del movimento, videro “nella organizzazione dei fasci un modo di aprirsi una prospettiva, per togliersi dalle condizioni di miseria e di fame che li aveva spinti a farsi strumento criminoso di interessi non propri” (S.F. Romano, 1959, pp. 368-369); costoro, sempre secondo le affermazioni di De Felice, Barbato e Verro, avrebbero tenuto all’interno dei sodalizi un atteggiamento corretto, onesto e moderato; per quanto riguarda i capi-mafia la situazione andrebbe analizzata fascio per fascio, paese per paese, tuttavia può dirsi che essi cercarono, in vario modo, di condizionare il movimento e di strumentalizzarlo.
“(…) la prima forma di organizzazione di classe dei contadini, i Fasci siciliani, evidenziò in tutta pienezza quello che è uno dei caratteri tipici della mafia e uno dei suoi tradizionali punti di forza, cioè di non restare estranea alle trasformazioni sociali” (R. Catanzaro, 1991, p. 123).
A proposito poi delle accuse che vennero avanzate ai capi dei fasci durante i processi dell’aprile-maggio 1894, secondo le quali essi avrebbero cercato, inutilmente, l’appoggio della mafia, bisogna dire che queste accuse erano confuse e non vennero provate.
Un discorso a parte merita la storia dei rapporti tra il presidente del fascio di Corleone, Bernardino Verro, e la locale cosca mafiosa dei <<Fratuzzi>>.
Il Verro con la sua fervente attività di leader del movimento dei fasci si era attirato, assieme alla grande fiducia e simpatia dei contadini poveri, l’odio dei proprietari terrieri e dei gabelloti mafiosi. Già nell’inverno ’92-93 egli percepì chiaramente che la mafia locale voleva ucciderlo, perciò, evitava di andare in giro da solo. Per maggiore precauzione il Verro, insieme ad altri dirigenti del movimento, considerarono l’idea di organizzare i fasci in società segrete, sul modello della mafia. Appresa la notizia, i <<Fratuzzi>>, tramite un loro affiliato, avvicinarono il Verro per informarlo che a Corleone vi era già una <<società segreta>> composta da uomini valorosi e coraggiosi, i quali avevano a simpatia il movimento dei fasci e si erano opposti al suo omicidio (voluto dagli agrari della zona). Inoltre, fu proposto al Verro di entrare a far parte della cosca, la quale avrebbe protetto i contadini! Per quanto perplesso, Bernardino Verro decise di accettare, poiché vi vide un modo “per tentare di neutralizzare un potenziale nemico” e, quindi, per “disinnescare un possibile pericolo per lui e per il suo movimento” (D. Paternostro, 1994, pp. 28-29).
“(…) In questa scelta un ruolo giocò sicuramente la scarsa conoscenza che il movimento socialista aveva dell’organizzazione mafiosa che, a sua volta, non conosceva i socialisti” (D. Paternostro, 1994, p. 29).
Così, in una mattina dell’aprile 1893, avvenne la cerimonia di iniziazione. A presiederla fu un certo Giuseppe Battaglia, il quale
“pronunziò una formula di giuramento a base di reciproca solidarietà che fu ripetuta dall’iniziando, al quale fu poscia, dietro relativo ordine presidenziale, punto con uno spillo l’indice della mano destra risparmiandogli, per deferenza, la rituale puntura del labbro con un pugnale. Il sangue sgorgato dalla piccola ferita venne asciugato con la carta su cui era disegnato il teschio, che fu subito bruciato. In presenza della fiamma il Presidente per primo e poi gli altri fratuzzi scambiarono col Verro il bacio fraterno (…)” (22).
E’ importante notare come numerose siano le affinità riscontrabili tra questo resoconto di una cerimonia di iniziazione del 1893 e le deposizioni rese, nel 1984, dal pentito Tommaso Buscetta sui rituali di Cosa Nostra. Questo a riprova del fatto che la mafia già da allora era una precisa organizzazione a delinquere, con regolamenti e strutture determinati, e non semplicemente una mentalità, un comportamento, un metodo criminali. Una verità, questa, negata per troppo tempo.
Ritornando a Bernardino Verro, egli si rese subito conto che la mafia, piuttosto che difendere i contadini, stava fermamente dalla parte degli agrari. Indi, da suo improbabile affiliato si trasformò in suo instancabile nemico (23).
Dunque, anche tenendo conto di qualunque ambiguità, incoerenza o incertezza possa esservi stata nel rapporto tra il movimento dei fasci e la mafia, una cosa è certa: al momento della radicalizzazione delle lotte agrarie, cioè soprattutto a partire dall’autunno 1893 – quando circa 50.000 contadini siciliani scioperarono per l’applicazione dei Patti di Corleone – gli schieramenti contrapposti risultarono ben delineati.
Da una parte vi erano gli aderenti ai fasci dei lavoratori, ai quali,come abbiamo visto,erano iscritti contadini (braccianti, coloni e borgesi), minatori, operai, artigiani, ma anche alcuni intellettuali e alcuni piccoli e medi proprietari, i quali, a causa della crisi agraria imperante e delle numerose tasse che gravavano sulla piccola proprietà terriera, erano spinti a solidarizzare con le classi povere piuttosto che con quelle abbienti che reggevano i Municipi.
Dall’altra parte troviamo, naturalmente, i grandi proprietari terrieri, i gabelloti mafiosi, i borghesi che amministravano i comuni, il Governo e le guardie campestri (che sappiamorappresentare un’articolazione del potere mafioso),le quali erano al servizio dei latifondisti, dei gruppi dei gabelloti, e dei gruppi dirigenti locali; queste guardie furono responsabili di gran parte degli eccidi di contadini che si verificarono nel dicembre 1893 e nel gennaio 1894.
13. I TUMULTI. GLI ECCIDI
Giovanni Giolitti, travolto dagli scandali bancari, il 28 novembre 1893 si dimise dalla carica di Presidente del Consiglio. La lunga crisi ministeriale che seguì alle sue dimissioni complicò ulteriormente la difficile situazione siciliana.
D’altronde lo stesso Giolitti non aveva fatto praticamente nulla per eliminare, o quanto meno ridurre, le cause del malcontento popolare. Perfino gli stessi funzionari statali nei loro rapporti indicavano chiaramente quali erano le cause delle agitazioni, ravvisandole principalmente: nelle tristissime condizioni di vita dei lavoratori e dei contadini, dovute alla concentrazione delle proprietà terriere in mano di pochi; agli iniqui contratti agrari; alle misere mercedi dei braccianti e dei minatori; alle angherie e vessazioni dei gabelloti “non d’altro preoccupati che del proprio guadagno” (24).
A tutto questo si aggiungeva, come scriveva nel suo rapporto del 22 novembre il Questore di Palermo, la cattiva amministrazione dei municipi, i quali “salvo rare eccezioni sono in mano a persone” che formano “delle vere oligarchie chiuse e circoscritte senza avvicendamenti e senza quella permeabilità ed elasticità che sono le caratteristiche di un buon funzionamento amministrativo” (25).
Le autorità erano perciò ben coscienti che l’esasperazione popolare per questo stato di cose potesse trasformare un “moto isolato e circoscritto” in una “rivolta che gli stessi capi non potrebbero reprimere né disciplinare” (26). Pertanto sollecitavano il Governo ad adottare provvedimenti di carattere economico, sociale ed amministrativo, quali unici mezzi per scongiurare il pericolo di moti sovversivi e per diminuire l’influenza che i leaders dei fasci esercitavano sulle masse immiserite.
Ma Giolitti non comprese appieno la portata politica e il carattere innovativo del movimento dei fasci, ritenendolo un movimento esclusivamente economico teso ad ottenere soprattutto un aumento dei miseri salari. Non mise in atto, alcun provvedimento legislativo che mutasse le condizioni economiche e sociali delle masse popolari siciliane.
Questo disinteressamento del Governo non fece che aumentare l’esasperazione delle classi povere. Ma l’incerto ed ambiguo atteggiamento tenuto dal Giolitti nei confronti del movimento dei fasci non trovava neanche il consenso della classe abbiente, la quale criticava sia la sua riluttanza a ricorrere ad un decreto di scioglimento dei sodalizi sia la disposizione data alle truppe di non usare le armi da fuoco contro i dimostranti.
Caduto il Giolitti vennero meno anche quei freni da lui posti alla aperta repressione del movimento. Fu proprio durante la lunga crisi ministeriale che ne seguì che iniziarono a verificarsi gli eccidi delle masse popolari siciliane.
Da ottobre ormai – come vedemmo – avevano luogo in diversi comuni dell’Isola agitazioni contro le tasse e le amministrazioni comunali. Queste dimostrazioni, che si svolgevano spesso al di fuori del controllo e della direzione dei fasci, divennero sempre più tumultuose, trascendendo,a volte,nell’assalto dei municipi e nella distruzione dei casotti daziari, simboli principali dell’oppressione fiscale.
Tuttavia fin quando vi fu in carica il Giolitti- avendo ordine l’esercito di non sparare sulla folla -non si verificarono episodi sanguinosi.
La situazione cambiò radicalmente nel mese di dicembre.
Approfittando dell’anarchia che si registrò nel lungo periodo di crisi ministeriale, alcune agitazioni popolari, fomentate spesso dalle fazioni borghesi contrarie alle amministrazioni comunali esistenti, vennero represse nel sangue.
La serie di eccidi iniziò a Giardinello il 10 dicembre e non si concluse con la formazione del nuovo Governo Crispi (il 15 dicembre) ma il giorno dopo la proclamazione dello stato d’assedio, avvenuta il 4 gennaio 1894.
Ecco qui di seguito la tragica conta delle stragi:
“A Giardinello il 10 dicembre una dimostrazione contro le tasse e per protesta contro la condotta del Sindaco si conclu(se)conundici morti e numerosi feriti. Il 17 a Monreale una dimostrazione contro i dazi (fu) repressa a fuoco producendo numerosi feriti; a Lercara il 25 dicembre una dimostrazione contro le tasse (fu)repressaconundici morti e numerosi feriti. Nei primi di gennaio la dolorosa catena si allung(ò). A Pietraperzia il primo gennaio una dimostrazione contro le tasse cost(ò) otto mortiequindici feriti ai dimostranti. Lo stesso giorno a Gibellina si (ebbero) ventimorti e numerosi feriti. Il 2 gennaio a Belmonte Mezzagno si (ebbero) due morti; e il 3 a Marineo diciotto morti e molti feriti. Due giorni dopo Santa Caterina chiu(se)laserie con tredici morti e numerosi feriti” (S.F.Romano, 1959, pp. 428-429).
Secondo il calcolo di Napoleone Colaianni, idimostranti uccisi sarebbero stati non meno di novantadue, mentre tra le truppe vi sarebbe stato un solo morto. Bisogna registrare, inoltre, le vittime dell’ira popolare scatenatasi a Giardinello subito dopo l’eccidio: il messo comunale di quel comune e sua moglie.
Se si analizzano i vari episodi sanguinosi su elencati si nota come, sostanzialmente, la scena si sia ripetuta identica in ogni paese, e con gli stessi protagonisti.
Una folla di dimostranti si recava in corteo davanti al Municipio, portando spesso con sé i ritratti dei sovrani, nella convinzione che questi fossero dalla loro parte e per dimostrare che la loro non era un rivolta contro le istituzioni presenti ma una ribellione contro le ingiustizie delle amministrazioni comunali: le manifestazioni non volevano essere rivoluzionarie bensì rivendicative. La più piccola provocazione però (proveniente dal Sindaco, dai consiglieri comunali, dalla guardie municipali, dai delegati di P.S. ecc.) bastava a far esplodere l’ira e il malcontento della popolazione, la quale si scagliava contro le carte e i registri del Municipio – nellavana illusione che distrutti questi non avrebbero più dovuto pagare le tasse – e contro i casotti della guardie daziarie. A questo punto si scatenava la sanguinosa repressione: preceduti o meno dai tre squilli di tromba (che servivano da avvertimento) si iniziavano le scariche di artiglieria sulla folla. Il più delle volte ad aprire il fuoco contro i dimostranti erano le guardie municipali e i campieri mafiosi:
“(…) l’offensiva meno nota e più sanguinosa contro il movimento dei Fasci (…) fu quella dei gruppi mafiosi delle campagne. Un certo numero di tumulti e di eccidi che si verificarono tra la fine del 1893 e i primi del 1894 fu opera dei gruppi mafiosi dei comuni che difendevano la propria egemonia e anzi il proprio potere dispotico nelle amministrazioni locali (…)
Se una parte infatti dei morti in quei disordini fu dovuta all’intervento delle truppe che usarono le armi a fuoco, un’altra parte fu dovuta ai gruppi di guardie al servizio dei capi mafiosi dei comuni, che si inserirono facilmente in quei disordini e sfuggirono, mimetizzandosi alle denunce e alle condanne. Considerando infatti alcuni episodi tipici delle dimostrazioni che si chiusero con morti e feriti al confronto di moltissime altre nelle quali le agitazioni non diedero luogo a tragiche conseguenze, non c’è dubbio che furono gli agenti locali e specialmente le guardie municipali e i campieri a dare l’avvio o a determinare lo spargimento di sangue, a Giardinello, a Lercara e in altri luoghi (…) le vittime erano state prese tra due fuochi: quello dei proiettili sparati dalla truppa (…) e quello dei proiettili sparati dalla guardie campestri” (S.F. Romano, 1963, pp. 176-177).
Ad essere condannati a lunghi anni di carcere o addirittura all’ergastolo per gli eccidi non furono però le guardie campestri, la cui colpevolezza era certa, bensì i contadini e le contadine!
Bisogna comunque tenere presente che, come sottolinea il Romano, non tutte le agitazioni che si svolsero in quel periodo in Sicilia si conclusero tragicamente, anzi, nella maggioranza dei casi le manifestazioni si svolsero senza gravi incidenti, dimostrando che là dove vennero fatte
alcune concessioni ai dimostranti e non si ricorse all’uso delle armi contro la folla, le masse si acquietarono senza giungere ad eccessi tumultuosi, evidenziando, così, il carattere pacifico e rivendicativo del movimento (27). In molti casi, tuttavia, le abolizioni e le diminuizioni di tasse concesse sotto la pressione delle agitazioni popolari furono revocate ben presto, e i sindaci stessi ammisero che quelle concessioni erano null’altro che un espediente per tenere <<buone>> le popolazioni.
Come reagirono i fasci siciliani ai tumulti, prima, e agli eccidi, poi, che si verificarono in quei giorni convulsi? Essi non riuscirono a dirigere e a frenare le tumultuose agitazioni contro le tasse, perché, oltre ai motivi che abbiamo già visto, all’interno del Comitato Centrale cominciarono a registrarsi dissidi e dissapori tra i vari membri proprio a proposito dell’atteggiamento da tenersi nei confronti del dilagante movimento di protesta, soprattutto in seguito alla minaccia di un provvedimento eccezionale di scioglimento dei fasci.
Quantunque vi fosse chi, come De Felice, propugnava una insurrezione armata popolare, capeggiata dall’organizzazione dei fasci, la posizione prevalente fra i dirigenti fu quella di continuare a perseguire la linea gradualistica e legalitaria che aveva caratterizzato il movimento dei fasci (anche perché essi si rendevano conto che le masse contadine erano ancora assolutamente impreparate ed immature per affrontare una rivoluzione). Vennero, di conseguenza, condannati tutti gli eccessi e i danneggiamenti compiuti dalle folle durante le agitazioni, e si presero le distanze dalle manifestazioni influenzate e dirette dai fasci apocrifi. Tuttavia,con il precipitare degli eventi ed il verificarsi degli eccidi, il Comitato Centrale venne sollecitato da più parti ad assumere una chiara posizione di fronte al dilagare dei tumulti e alla aperta repressione, che naturalmente prendeva di mira in particolar modo l’organizzazione di fasci.
Così il 3 gennaio 1894, quando ormai il movimento di protesta era stato praticamente sconfitto e stremato dall’esercito e dalla mafia, venne convocato il Comitato Centrale per decidere il da farsi:
“In sostanza, uno spostamento su posizioni più immediate e meno di prospettiva, in un momento in cui la fame lasciava poco spazio alle ideologie, veniva operato solo quando il processo a catena dei tumulti era stato avviato, e si era anzi concluso” (G.Cassarubea, 1978, vol.II p. 206).
La riunione del Comitato Centrale si concluse con la redazione di un appello che aveva “il tono vibrato di indignazione e di seria protesta, e nello stesso tempo, il carattere di una carta rivendicativa del popolo siciliano” (S.F. Romano, 1959, p. 413).
Per la prima volta venne rivendicata ufficialmente la liquidazione del latifondo, fino ad allora il movimento dei fasci si era battuto, infatti, soprattutto per la modifica dei patti agrari e per gli aumenti salariali. L’appello si chiudeva con una esortazione ai lavoratori affinché continuassero ad organizzarsi, ma pacificamente, senza ricorrere ai tumulti poiché con questi non si “raggiungono benefizi duraturi” (Manifesto citato in S.F. Romano, 1959, p. 414) (28).
14. LO STATO D’ASSEDIO. GLI ARRESTI. LE CONDANNE
Il 4 gennaio venne affisso in tutti i paesi della Sicilia un decreto reale che proclamava lo stato d’assedio nell’Isola.
Aveva così inizio la seconda fase della repressione, e cioè quella in cui si procedette alla liquidazione definitiva del movimento dei Fasci siciliani.
La prima fase repressiva era stata affidata all’iniziativa di amministratori, funzionari governativi, militari e mafiosi, e fu la più sanguinaria.
Della seconda fase fu arbitro assoluto il generale Morra di Lavriano, nominato dal Crispi commissario straordinario con pieni poteri militari e civili.
Il suo primo atto fu l’ordine di arrestare i membri del Comitato Centrale e i dirigenti più importanti dei Fasci dell’Isola. De Felice, Petrina, De Luca, Montalto, Ciralli e Maniscalco vennero arrestati il 4 gennaio; Bosco, Barbato e Verro il 16 gennaio.
Ma gli arresti non colpirono soltanto i capi del movimento ma anche le masse contadine e tutti coloro- anche professionisti e studenti – che furono sospettatidi aver partecipato alle dimostrazioni o semplicemente di simpatizzare per il movimento. In ben 70 paesi furono attuati arresti in massa. Circa 1000 persone furono inviate alle isole senza nessun processo. L’11 gennaio il generale Morra di Lavriano dispose con un editto l’arresto e l’invio a domicilio coatto degli ammoniti e della gente malfamata. Questo editto di conseguenza allargò notevolmente il numero delle persone colpite dalla repressione governativa. Le persone arrestate o inviate al domicilio coatto in virtù di questo decreto furono 1.962 e tra di esse 361 eranodella provincia di Catania e 135 della provincia di Messina, vale a dire di due <<province tranquille>>, ove le manifestazioni tumultuose erano state assai poche.
Naturalmente fu applicata rigorosamente “la sospensione delle guarentigie individuali sancite dallo statuto del Regno, cioè la libertà individuale, l’inviolabilità del domicilio, la libertà della stampa, il diritto di riunione e di associazione” (29).
La sospensione del diritto di riunione e di associazione portò allo scioglimento di tutte le associazioni operaie (compresi ovviamente i fasci) e di tutte le cooperative,ma non disturbò “i luoghi di riunione dei proprietari, il circolo dei nobili, nei piccoli centri il casino dei civili” (S.F. Romano, 1959, p. 474).
Si procedette perfino alla revisione delle liste elettorali. Quest’ultimo provvedimento, così come, del resto, tutti gli altri, fu attuato basandosi su di un criterio ben preciso: poiché i tumulti avevano preso di mira le amministrazioni comunali, non era verso queste ultime che bisognava colpire bensì verso gli oppositori delle stesse. Così molte misure furono adottate seguendo i consigli e le designazioni dei gruppi dominanti.
L’8 gennaio furono istituiti tre tribunali militari (uno a Palermo, uno a Messina e uno a Caltanissetta), davanti ai quali, a partire da febbraio, si svolsero tutti i processi contro i presunti responsabili dei tumulti e delle stragi.
Bisogna dire, innazi tutto che le accuse mosse agli imputati si basavano sulle dichiarazioni dei sindaci, delle guardie campestri, dei carabinieri ecc.. Per rendersi conto della loro attendibilità e della <<fedele>> ricostruzione dei fatti che esse resero possibile, basta considerare che un sordomuto fu imputato per aver emesso <<grida sediziose>> durante i tumulti di Misilmeri.
Numerosefurono le persone – appartenenti agli strati popolari – riconosciute colpevoli dai tribunali militari, e pesanti le condanne loro inflitte senza, per di più, chiare prove a loro carico.
Per l’eccidio di Giardinello, per esempio, furono condannati all’ergastolo tre dirigenti del locale fascio, mentre il capo delle guardie campestri, che era stato il primo a sparare sulla folla, e sulla cui colpevolezza vi erano prove irrefutabili, fu assolto.
Nel processo per i disordini e la strage di Natale a Lercara, venne coinvolto anche Bernardino Verro, il quale nei giorni precedenti al tumulto si era effettivamente recato a Lercara ma soltanto per cercare di risollevare le condizioni del Fascio locale che era in mano a dirigentinon qualificati. Il Presidente del Fascio di Corleone fu condannato a sedici anni di reclusione.
Tutto questo dimostra che:
“La repressione dei Tribunali di guerra, in realtà, fu un aspetto del più vasto piano di attacco alle organizzazioni di sinistra da parte del Crispi, che dopo aver sperimentato il funzionamento della sua tattica in Sicilia si avviò ad una repressione più vasta del movimento operaio nazionale e alla soppressione del Partito Socialista. I processi, per il momento, più che andare alla ricerca delle vere cause dei tumulti e colpire gli autori delle stragi, furono un vergognoso strumento politico di Crispi che colpì in una sola direzione e finalizzando la repressione a questo solo scopo” (G.Cassarubea, 1978, vol. II, p. 245).
In aprile iniziò, dinanzi al Tribunale militare di Palermo, il processo contro i componenti del Comitato Centrale dei Fasci. Essi erano tutti accusati:”1. Di cospirazione per commettere fatti diretti a far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato, per mutarne violentemente la costituzione; 2. Di eccitamento alla guerra civile e alla devastazione, strage e saccheggio in qualsiasi parte del Regno con la consecuzione in parte dell’intento. Reati avvenuti nei mesi di novembre e dicembre 1893 e gennaio 1894 in Sicilia e a Palermo (…)” (30).
Questo processo suscitò interesse e commozione nell’opinione pubblica nazionale. I giornali diedero ampio spazio agli avvenimenti siciliani e seguirono attentamente le varie fasi del processo. Attorno agli imputati si creò un’atmosfera di simpatia e solidarietà, che venne espressa soprattutto dagli esponenti democratici (radicali, repubblicani e socialisti) mediante articoli sulla stampa, lettere, telegrammi e anche testimoniando direttamente al processo.
I membri del C.C. si difesero con passione e grande dignità. Nelle deposizioni ribadirono la loro fede socialista e la fiducia nel futuro dell’umanità. Ecco, per esempio, cosa disse, fra l’altro, Nicola Barbato:
“(…) Noi rivoluzionari, noi socialisti, basandoci sulla storia e sulla sociologia, crediamo che verrà un giorno in cui l’uomo non sarà costretto dai bisogni della propria esistenza ad armarsi di fucile, di cannoni e di codici per andare contro al cosìdetto straniero o al proprio
concittadino e non rare volte contro ai genitori, ai fratelli e alle sorelle. Saremo degli utopisti: ma non dimenticate che la bestia uomo si è distaccata dalla bestia ed è giunta al punto in cui è proprio per virtù di utopie le quali prima di realizzarsi, destarono disprezzo, ira e persecuzione contro i poveri sognatori (…) Certo la nostra propaganda è stata energica, essa fa rialzare la testa alla gente che prima andava curva.I contadini (…)hanno acquistato la coscienza di essere uomini. Non domandano più l’elemosina, chiedono ciò che è loro diritto (…) Davanti a voi abbiamo fornito i documenti e le prove della nostra innocenza (…) (ma) Voi condannerete: noi siamo gli elementidistruttori di istituzioni per voi sacre (…)” (31).
Questo clima che si venne a creare attorno al processo non piacque al Crispi e non giovò, alla fine, agli stessi imputati i quali, il 30 maggio 1894, furono condannati a pene pesantissime, fino a 18 anni di reclusione.
Veniva così definitavamente distrutto il primo movimento organizzato contro la mafia. Lo Stato con la sua azione energica contro i contadini e a favore dello status quo non fece che aumentare il potere di quest’ultima.
“Se la mafia rimase forte e continuò a rafforzarsi fino ad occupare pezzi importanti delle istituzioni, lo si deve alle tante complicità dei governi, di cui il gabinetto Crispi costituì un esempio emblematico.
Col movimento dei Fasci Verro e i contadini corleonesi (e siciliani, N.d.a.) si erano battuti contro la mafia, contro gli agrari e contro le complicità statali di cui entrambi godevano, ma la loro fu una coraggiosa resistenza che non riuscì ad essere vittoriosa perché la congiunta violenza della mafia, degli agrari e dello Stato soffocò col carcere e col sangue i loro sforzi” (D. Paternostr, 1994, p. 37).
La dura sentenza del tribunale militare di Palermo, scatenò la reazione di quanti avevano condiviso le idee che stavano alla base dell’attività sociale e politica dei Fasci:
“Già la sera stessa del 30 maggio 1894, molti studenti si radunarono a Palermo davanti al teatro Bellini e diedero vita ad un corteo cantando l’inno dei lavoratori; il giorno dopo, all’università, votarono un durissimo ordine del giorno contro le condanne e decisero di non presentarsi alle elezioni per protesta (…) La mattina del 31 una grande folla si radunò davanti al carcere per solidarizzare con i capi contadini detenuti, mentre il 1° giugno numerose barchette circondarono al porto di Palermo la nave <<India>>, che stava trasportando verso un lontano penitenziario De Felice, Barbato, Verro, Montalto,Pico e Benzi” (D. Paternostro, 1994, pp. 37-38).
Il 14 marzo 1896 il nuovo governo formato dal marchese Di Rudinì, concesse l’amnistia ai condannati dai tribunali di guerra per i fatti del ’93-94. Il Di Rudinì mantenne però il divieto di ricostituire i Fasci del lavoratori e qualunque organizzazione che avesse gli stessi intenti e mezzi di azione di questi ultimi. Proprio per questo, con un provvedimento del settembre 1896 fu sciolta la federazione <<La terra>> di Corleone – un’organizzazione di contadini con diramazioni a Prizzi e a Bisacquino – fondata da Bernardino Verro. Questi, per sfuggire alla condanna a sei mesi di reclusione e centomila lire di multa, esiliò in America, ove continuò a fare propaganda tra gli emigrati siciliani. Ben presto, però (come vedremo nel prossimo capitolo),sarebbe ritornato al paese natìo per riprendere con passione la sua attività di organizzatore del movimento contadino.
I provvedimenti del Governo non poterono cancellare l’esperienza dei fasci dalle menti e dalle coscienze delle masse popolari siciliane. Le rivendicazioni economiche e sociali dei Fasci sarebbero state riprese dai successivi movimenti di organizzazione della classe contadina che, ricorrentemente, avrebbero interessato la società siciliana fino agli anni Cinquanta.
Alla testa delle cooperative agricole, che nacquero nei primi anni del nuovo secolo, ritroveremo alcuni fra icapi più influenti dei Fasci siciliani (quali ad esempio Bernardino Verro, Lorenzo Panepinto, Giacomo Montalto).
Il movimento di Fasci siciliani, dunque, è stato molto importante soprattutto perché:
“(…) oltre a questo riverbero eroico di lotta popolare, e oltre al contenuto specifico delle rivendicazioni (…) conteneva e proiettava nel futuro anche qualcosa di diverso e di più. Nel movimento dei Fasci anzitutto le masse contadine dell’isola si presentavano per la prima volta come una forza popolare organizzabile, e in certo modo già organizzata in forme moderne, accanto agli artigiani e agli operai (…) La funzione storicaforse più importante che, l’opera di quei pionieri assolse (i dirigenti dei Fasci, N.d.a.) fu nell’educare per la prima volta alla organizzazione a all’azione organizzata, alla discussione democratica e alla coscienza dei diritti e dei doveri sociali, le masse popolari siciliane, e specialmente i contadini: condizione e base essenziale ed insostituibile di ogni possibile futuro sviluppo del movimento democratico in Sicilia.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l’accendersi di una luce nuova nella coscienza di dirigenti e in parte anche nelle masse; senza quel rivolgimento ed elevamento intellettuale e morale, oltre che sociale, politico ed organizzativo, che vedemmo si operò in Sicilia in quegli anni (…) ” (S.F. Romano, 1959, pp. 546-549).
Purtroppo,le lotte contadine susseguenti ai Fasci non ebbero in comune con questi ultimi soltanto le finalità e gli ideali ma anche il tragico destino: la repressione mafiosa. Numerosi continuarono ad essere i capi e i militanti del movimento contadino siciliano che caddero vittime degli attentati mafiosi.
A scatenare la sanguinosa reazione era la natura stessa delle lotte contadine organizzate, che ebbero inizio con il movimento deiFasci. Esse furono il risultato della mobilitazione ed organizzazione di un rilevante numero di uomini e donne sulla base di un preciso programma economico-sociale. Questo programma tendeva a minare oggettivamente gli interessi economici della mafia, poichè prevedeva, tra l’altro, l’abolizione della figura del gabelloto agrario o, quantomeno, l’eliminazione dei soprusi da questo perpetrati contro i contadini. Inoltre, richiedendo l’espropriazione forzata dei latifondi, quel programma minacciava anche il potere economico dei proprietari terrieri, i quali si erano sempre avvalsi dell’aiuto della mafia per tutelare i propri interessi.
I contadini non si batterono soltanto per raggiungere degli obiettivi di carattere materiale. Sebbene fossero le loro tristi condizioni economiche a spingerli ad agire, le loro lotte, anche se con contraddizioni, errori ed incertezze, miravano altresì ad affermare ideali di solidarietà, di uguaglianza, di giustizia e di libertà da ogni tipo di schiavitù. Di conseguenza, anche sotto questo punto di vista, esse erano <<anti-mafia>>.
NOTE AL CAPITOLO PRIMO
(1) – Secondo Sidney Sonnino (1974, pp. 29 e 57), Giuseppe Alongi (1977, p. 19) e Giuseppe Casarrubea (1978, vo. I, pp. 51 e 78), erano i mezzadri ad essere chiamati <<borgesi>>.
(2) – Grazie alla politica protezionistica dei Borboni e all’intervento dei capitale stranieri, soprattutto inglesi.
(3) – G. De Felice Giuffrida, 1901, “La questione sociale in Sicilia”, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 28.
(4) – I suoi punti cardine erano i seguenti:
“1) Stabilire le tariffe dei lavoratori in ragione dei mezzi economici occorrenti per vivere e farle rispettare a favore del socio.
2) Ridurre le ore di lavoro, onde il lavoratore abbia la possibilità di educarsi e di riposare.
3) Prendere parte, indipendentemente da ogni partito, alla lotta pubblica, allo scopo di risvegliare nella classe lavoratrice la coscienza dei propri diritti finora sacrificati all’interesse del capitalista.
4) Appoggiare, con ogni mezzo e coll’organizzazione operaia, divisa per arti e mestieri, la propaganda e l’attuazione della emancipazione sociale.
5) L’istituzione della Camera del lavoro.
6) L’istituzione di società cooperative e di produzione fra i soci del Fascio.
7) L’istituzione di case economiche per i soci” (cit. in M. Ganci, 1977, pp. 130-131).
(5) – G. Salvioli, 1894, “Gabellotti e contadini in Sicilia”,in <<La Riforma sociale>>, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 90.
(6) – Ibidem, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 91.
(7) – A. Di San Giuliano, 1894, “Le condizioni presenti della Sicilia”, cit. in G. Giarrizzo, 1975, p. 62.
(8) – I primi due articoli di questo statuto prevedevano:
“Art. 1 – Le organizzazioni socialiste di Siciliadichiarono di aggregarsi al Partito dei Lavoratori Italiani con sede in Milano come nucleo della grande famiglia internazionale dei lavoratori.
Art. 2 – Conseguenza di tale formazione si è l’obbligo che ciascuna organizzazione socialista ha di aderire al Partito dei Lavoratori Italiani” (cit. in M. Ganci, 1977, p. 148).
(9) – Secondo l’art. 4 dello statuto, tra i compiti del Comitato vi erano i seguenti: “Di coordinare le forze socialiste in Sicilia; (…) Di inviare conferenzieri nei vari paesi dell’Isola dietro richiesta dei singoli gruppi di organizzazione; Di fondare organizzazioni operaie nei paesi dove non esistono; Di promuovere sottoscrizioni in favore di colpiti della questura per cause inerenti alla propaganda; a favore di scioperanti, quando lo sciopero è stato provocato da queste ragioni; Il comitato deve attuare le proposte che dal Partito socialista siciliano e dal Partito dei lavoratori Italiani verranno emanate” (cit. in M. Ganci, 1977, p. 148).
Membri di questo comitato vennero eletti: G. Montalto (Trapani); N. Petrina (Messina); G. De Felice (Catania); L. Leone (Siracusa); R.G. Bosco, N. Barbato, B. Verro (Palermo); A. di Montemaggiore (Agrigento); Lo Piano Pomar (Caltanissetta).
(10) – Il quale si componeva dei seguenti articoli:
“Art. 1 – I Fasci dei Lavoratori di Sicilia dichiarono costituirsiin sette Federazioni Provinciali e ciascuna Federazione porterà il nome della provincia ove ha sede.
Art. 2 – Tutti i fasci di ciascuna Federazione si dichiarono Sezioni del Fascio residente nel Capoluogo ed in mancanza di esso, di altro Fascio riconosciuto dalle diverse sezioni, quale più importante.
N.B. La sede naturale di ciascuna Federazione è nel capoluogo di provincia perché lì si svolge la vita intellettuale ed amministrativa per tutti i Comuni che lo compongono.
Art. 3 – Ogni Federazione Provinciale avrà unico Statuto (…)
Art. 4 – I Presidenti dei Fasci provinciali costituiscono Il Comitato Centrale dei Fasci dei Lavoratori.
Art. 5 – La funzione di tale Comitato è quella di cordinare l’azione di tutti i Fasci e di controllarne le manifestazioni” (cit. in M. Ganci, 1977, p. 152).
(11) – A. Rossi, 1893, ” La situazione in Sicilia”, cit. in J. Calapso, 1980, pp. 83-84).
(12) – Rapporto del prefetto Colmayer al Ministro dell’Interno, del 26 maggio 1893 e ancora in quello del 30 maggio 1893 n. 2682, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 230).
(13) – A. Rossi, 1894, “L’agitazione in Sicilia”, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 231.
(14) – Ibidem, cit. in E.J. Hobsbawm, 1966, p. 127.
(15) – Ecco cosa vi era scritto, a tal proposito, nella circolare del C.C.: “Sentiamo il dovere di rammentarvi che nell’interesse del partito è necessario non raccogliere le provocazioni e restarsene nella calma più completa. Con la calma e nella calma continuiamo ad organizzarci e potremo così solo conseguire quella vittoria che è sempre contrastata dai partiti borghesi e dal governo i quali, spiegava la circolare, si sono coalizzati per la provocazione di questi disordini in modo che dopo averli provocati possano lanciare contro di noi le più vigliacche insinuazioni” (Riservata del Questore al Prefetto, 16 giugno 1893, n. 3094, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 220).
Si intimava, indi, alle organizzazioni di chiedere il parere del C.C. ogni qualvolta avessero dovuto impegnarsi in “qualche manifestazione d’ordine politico ed economico (scioperi, elezioni, ecc.)” (ibidem).
Riguardo alle imminenti elezioni amministrative, la circolare faceva obbligo a tutte le “organizzazioni di comunicare al Comitato Centrale i nomi dei candidati alle lotte amministrative e presentati sempre in nome del partito dei lavoratori e conseguentemente con il programma da essso adottato” (ibidem).
(16)- R.G. Bosco in <<Lotta di classe>>, 15-16 luglio 1893, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 224.
(17) – Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XVIII, tornata del 6 giugno 1893, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 358.
(18) – Rapporto dei Carabinieri n. 19100, 24 dicembre 1893, e denunzia del Tenente dei carabinieri e dell’Ispettore di P.S. Garro al Procuratore del Re di Palermo, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 335.
(19) – Rapporto del Prefetto al Ministro dell’Interno, 17 settembre 1893, n. 4677, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 370.
(20) – Cfr. M. Ganci, 1977, p. 205 e S.F. Romano, 1959, p. 362 e ss.
(21) – Deposizione dell’avv. Marinuzzi al processo del Comitato Centrale dei Fasci, in <<Giornale di Sicilia>> 28 aprile 1894, cit. in S.F. Romano, 1959, pp. 387-388.
(22) – “Processo per l’assassinio di B. Verro”,sentenza di rinvio a giudizio, Palermo, 1917, cit. in D. Paternostro, 1994, pp. 28-29.
(23) – Come vedremo nel prossimo capitolo, i <<fratuzzi>>, nel 1915, avrebbero troncato con unattentato mortale l’attività antimafiosa di Bernardino Verro.
(24) – Riservata del Prefetto di Palermo al Ministro, 19 novembre 1893, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 432.
(25) – Riservata del Questore al Prefetto di Palermo, 22 novembre 1893, n. 5600, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 432.
(26) – Ibidem.
(27) – La dinamica dei tumulti dimostra come la violenza popolare sia spesso una “(…) self-fulfilling prophecy, una profezia che si autorealizza. Il potere giustifica i suoi interventi come <<prevenzione contro le possibili degenerazioni>> e crea in tal modo le condizioni per una risposta violenta”. La violenza, ancora, “non è (…) un attributo necessario dell’azione collettiva. Essa si verifica in certe condizioni strutturali. (…) nasce dall’incapacità del sistema politico di assorbire le domande create dal mutamento, dalla sua rigidità e dalla incoerenza del suo funzionamento (Huntington, 1968; Schneider, 1971). La chiusura dei canali di comunicazione politica, lo squilibrio o l’inefficienza dei principali sottosistemi funzionali, a cui si aggiunge eventualmente una grave crisi economica e l’uso di meccanismi repressivi per controllare la domanda, spiegano il carattere violento assunto dalla protesta sociale” ( A. Melucci, 1976, p. 54).
(28) – Ecco qui di seguito il testo integrale del manifesto firmato da Barbato, Bosco, De Felice, De Luca, Leone, Montalto, Petrina e Verro:
“LAVORATORI DELLA SICILIA,
La nostra isola rosseggia del sangue dei compagni che, sfruttati, immiseriti, hanno manifestato il loro malcontento contro un sistema dal quale indarno avete sperato giustizia, benessere e libertà.
L’agitazione presente è il portato doloroso, necessario, di un ordine di cose inesorabilmente condannato e mette la borghesia nella necessità o di seguire le esigenze dei tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali.
Inquesto momento solenne mettiamo alla prova le declamazioni umanitarie della borghesia e in nome Vostro chiediamo al governo:
I. Abolizione del dazio sulle farine;
II. Inchieste sulle pubbliche amministrazioni della Sicilia fatta con il concorso dei Fasci;
III. Sanzione legale dei patti colonici deliberati nel congresso socialista;
IV. Sanzione legale delle deliberazioni del congresso minerario di Grotte e costituzione di sindacati per la produzione dello zolfo;
V. Costituzione di collettività agricole e industriali, mediante i beni incolti dei privati e i beni comunali dello Stato e dell’asse ecclesiastico non ancora venduti, nonché espropriazioni forzate dei latifondi, accordando temporaneamente agli espropriati una rendita annua che non superi il 3% del valore dei terreni;
VI. Concessione di tutti i lavori delle pubbliche amministrazioni e di quelle dipendenti o sussidiate dallo Stato ai Fasci dei lavoratori senza obbligo di cauzione;
VII. Leggi sociali che basandosi su di un minimo di salario ed un massimo di ore di lavoro valgano a migliorare economicamente e moralmente le condizioni dei lavoratori;
VIII. Per provvedere alle spese necessarie per mettere in esecuzione i suddetti progetti, per acquistare strumenti da lavoro tanto per le collettività agricole quanto per quelle industriali, per anticipare alimenti ai soci e porre le collettività in grado di funzionare utilmente, stanziaresul bilancio dello Stato la somma di 20 milioni di lire.
LAVORATORI!
Seguitate intanto ad organizzarvi, ma ritornate alla calma, perché coi moti isolati e convulsionari non si raggiungono benefizi duraturi.
Dalle decisioni del governo trarremo norma per la condotta che dovremo tenere.
Palermo, 3 gennaio 1894” (cit. in S.F. Romano, 1959, p. 414).
(29) – Gen. Morra di Lavriano “Relazione sull’andamento dello stato d’assedio in Sicilia”, in A.C. dello Stato in Roma, carte Crispi, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 474.
(30) – Sentenza del Tribunale Militare di guerra in Palermo (I sezione) contro De Felice Giuffrida e compagni, 1894, Stamperia Militare, Palazzo Santa Ninfa, Palermo, cit. in S.F. Romano, 1959, p. 486.
(31) – Processo del Comitato Centrale, udienza del 16 aprile 1894, in <<Giornale di Sicilia>>, 16-17 aprile 1894, cit. in S.F. Romano, 1959, pp. 490-491.
IL MOVIMENTO CONTADINO E LA LOTTA ALLA MAFIA DALL’INIZIO DEL NOVECENTO ALLO SCOPPIO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
A partire dal 1896 si registrarono in Italia (così come nel resto d’Europa) i segni di una generale e costante ripresa economica.
Anche in Sicilia si poté notare un certo risveglio delle attività produttive. I settori particolarmente interessati dallo sviluppo economico furono: la produzione dello zolfo, relativamente all’industria; la produzione dei cereali (soprattutto grano), degli agrumi e delle olive, per quanto riguardava l’agricoltura; i trasporti marittimi, il cui incremento fu straordinario, per quanto riguardava il commercio.
Tuttavia, la ripresa economica siciliana, rispetto a quella dell’Italia settentrionale, risultò essere più lenta e difficile. Di conseguenza, il divario economico tra Nord e Sud – che negli anni 1860-1893 si era progressivamente ridotto – tornò a crescere inesorabilmente.
Nonostante che in Sicilia fosse stato avviato un processo di trasformazione del latifondo (grazie alla timida
introduzione delle macchine agricole e dei concimi chimici), tendente a sostituire un sistema di coltura semi-intensiva alla tradizionale coltura estensiva, la struttura economica non sembrava mutare sostanzialmente. Il latifondo continuava, quindi, a caratterizzare la società isolana. E con esso il blocco agrario.
Ecco come Giuseppe Barone (1977, pp. 15-17), riassume gli elementi fondamentali di questo sistema di potere, che rappresentava
una sorta di zavorra che rallentava lo sviluppo
socio-economico siciliano:
“Cerealicultura estensiva e concentrazione fondiaria si incarna(vano) nella figura dell’agrario assenteista, che preferi(va) sperperare la pingue rendita nella vita lussuosa del capoluogo o a Roma, dove spesso l’attende(va) un comodo scranno in Parlamento, per mezzo del quale, in seguito ad un passivo ma calcolato inserimento nella maggioranza ministeriale, ott(eneva) in cambio dal governo la disponibilità del prefetto a manovrare secondo i suoi voleri le fila della politica locale. Nel latifondo resta(va) padrone incontrastato il gabelloto, che, di fronte alla assenza dello Stato, incurante delle necessarie opere infrastrutturali e di bonifica né garante della sicurezza pubblica nelle campagne, trova(va) naturale protezione nelle organizzazioni mafiose, mentre sul piano economico, stretto com'(era) dall’alto canone e dal fitto di breve durata, evita(va) di impegnarsi in qualsiasi trasformazione fondiaria, subaffittando con patti angarici piccolissime quote ai contadini, su cui esercita(va) l’usura più spietata col collaudato sistema dei <<soccorsi invernali>>. Alla base della piramide le masse contadine, frammentate in una estrema gerarchia di ruoli e di figure sociali (piccolissimo proprietario, enfiteuta, mezzadro, obbligato, bracciante giornaliero, ecc.) spesso intercambiabili ma ugualmente condannate a una vita di stenti e di miseria interrotta da improvvise quanto illusorie jacqueries contro i casotti del dazio e le esattorie comunali. Al centro della piramide, la piccola borghesia intellettuale e degli impieghi pubblici, che nel grande o piccolo comune rurale media(va) in qualche modo il consenso delle masse popolari, aggregandosi e scomponendosi attorno a cosche familiari, denominate <<partiti>>, in ragione della conquista e della gestione del potere locale”.
L’asse portante di questa struttura era costituito dall’alleanza tra latifondisti, gabelloti mafiosi e piccola borghesia, contro ogni eventuale attacco proveniente dalle masse contadine. Abbiamo già potuto constatare l’efficacia e la efferatezza di tale alleanza contro il movimento dei Fasci dei lavoratori del 1893-94. Pur tuttavia, nel corso del primo decennio del nuovo secolo, come sottolinea lo stesso Giuseppe Barone, fu proprio dalla base della piramide che provennero i due principali elementi di novità, che misero inevitabilmente in discussione il tradizionale assetto strutturale della società siciliana: l’emigrazione, e il cooperativismo agricolo (di entrambi questi fenomeni parleremo più avanti).
Il blocco agrario, d’altronde, come mette bene in luce Giuseppe Carlo Marino (1979, p. 14), contenevagià in sé profonde contraddizioni: la difesa ad oltranza della rendita fondiaria, spingeva gli agrari “verso il punto di maggiore distacco nella divaricazione città-campagna”, facendo perdere loro “<<credibilità>>” e “peso politico”; lo sfruttamento del lavoro contadino e, quindi, il mancato ricorso all’ausilio della tecnica, “era pagato in termini di depressione produttiva e di paradossale soggezione al privilegio, costituito dal dazio sul grano”; il dominio dei latifondisti sulle masse contadine non era esercitato direttamente, bensì sottoposto “alle condizioni implicite nell’intermediazione parassitario-mafiosa dei grandi gabelloti” (G.C. Marino, 1979, pp. 14-15); inoltre,
“il contesto dei rapporti sociali di produzione era caratterizzato da una mai sopita conflittualità tra le posizioni, di solito parassitarie, corrispondenti all’area della produzione estensiva (la cerealicoltura) e le <<vocazioni>> di tipo imprenditoriale espresse dalle attività legate alle produzioni intensive ed arboree (il vigneto, l’agrumeto, l’oliveto, il frutteto specializzato) e, talvolta dalla zootecnia” (G.C. Marino, 1979, p. 15).
Ma, come abbiamo già detto, oltre a queste sue insite contraddizioni, ad insidiare il blocco agrario furono le nuove ondate di lotte contadine che, a partire soprattutto
dal 1901, interessarono gran parte dell’Isola.
Questa nuova fase del movimento contadino siciliano può essere considerata come la ripresa del faticoso cammino avviato nel 1892 dal movimento dei Fasci siciliani (cammino bruscamente interrotto dalla reazione mafiosa e dalla repressione crispina). Rispetto alla fase precedente, però, presenta diverse novità. Prima fra tutte la partecipazione attiva dei cattolici.
1. IL MOVIMENTO CATTOLICO SICILIANO
L’atto ufficiale di nascita del movimento sociale cattolico italiano può essere considerato l’enciclica <<Rerum Novarum>>, emanata nel 1891 da Papa Leone XIII. In essa il papa evidenziava la necessità di contrapporre alla propaganda e alla organizzazione operaia socialista la propaganda e l’organizzazione operaia cattolica.
In Sicilia, l’azione sociale cattolica ebbe inizio nell’autunno del 1893, cioè nel periodo in cui il movimento dei Fasci stava ormai raggiungendo il suo massimo sviluppo.
Questo movimento aveva profondamente scosso il mondo cattolico. Come abbiamo visto, i contadini, non curanti delle predicazioni antisocialiste dei loro parroci, correvano ad iscriversi ai Fasci.
I sodalizi dei lavoratori invece che occuparsi esclusivamente del loro <<benessere>> spirituale, come faceva la Chiesa, miravano al miglioramento delle loro tristi condizioni di vita. Era logico, quindi, che essi incontrassero grande favore tra le masse.
Per quanto i capi socialisti non mettessero in discussione i dogmi religiosi, i preti videro minacciata la propria influenza (spirituale e politica) sui propri parrocchiani. Un numero crescente di questi, infatti, pur restando credenti preferivano recarsi alla sede del fascio locale piuttosto che in Chiesa.
Fu proprio per reagire al socialismo e, quindi, per cercare di frenare e controllare il comportamento <<rivoluzionario>> delle masse popolari, che sorse, anche in Sicilia, il movimento sociale cattolico:
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“Il socialismo si avanza minaccioso. I fasci dei lavoratori riuniscono centinaia di migliaia di operai nella Sicilia, e tanto uomini che donne in massa disertano dalle Chiese per frequentare le sedi dei fasci. Poniamoci noi a capo di questo movimento, convinciamo il popolo che nella Chiesa è la sua salute, e impediamo che cada nelle branche del socialismo e dell’anarchia” (1).
Nell’ottobre 1893,durantelosciopero agrario per l’applicazione dei Patti di Corleone, il vescovo di Caltanissetta, Guttadauro, fece una scelta molto importante. Invece di schierarsi con gli agrari contro i contadini, egli si schierò con questi ultimi, impegnandosi per il raggiungimento di un accordo fra le parti.
Era la prima volta, in Italia, che un prete si schierava a fianco dei capi socialisti in difesa dei lavoratori della terra: occorreva recuperare i contatti con le masse, e “dimostrare che anche i preti (sapevano) fare quanto i socialisti, e meglio dei socialisti” (F. Renda, 1979, p. 78). L’Opera dei Congressi (2) osservava con interesse e approvava.
La repressione crispina, nel gennaio 1894, interruppe bruscamente questo timido esperimento cattolico. Tuttavia il clero siciliano trasse insegnamento dalla esperienza dei Fasci. Cominciò, indi, ad organizzarsi in modo da non farsi più sorprendere indifeso di fronte ad un eventuale nuovo dilagare del socialismo.
Per prima cosa, i cattolici siciliani tennero, nel luglio del 1895, il loro primo congresso regionale, in collegamento con l’Opera dei Congressi.
In tale assise venne ribadito il principio che stava alla base del pensiero sociale di Leone XIII: la Chiesa doveva essere presente fra le masse operaie e contadine, e doveva organizzarle per la tutela dei loro diritti. Quanto al modo di agire concretamente si decise di dar vita, nelle campagne, a comitati parrocchiali (3), ad associazioni cooperative, ma soprattutto a casse rurali (delle quali parleremo più avanti), secondo la proposta avanzata al congresso da Don Cerruti.
“<<Il prete fuori dalla sacrestia>>” (F. Renda, 1990a, p. 36), fu l’orientamento programmatico sancito dal primo congresso cattolico siciliano.
Non tutti i preti, però, ebbero chiaro il profondo significato sociale e politico della nuova missione loro richiesta. Molti erano preparati dal punto di vista organizzativo ma non lo erano culturalmente e moralmente.
In questa tipologia sicuramnete non rientrava Don Luigi Struzo:
“Un motivo sempre presente nell’attività sociale e politica di Luigi Sturzo fu quello del suo dovere religioso di prete: dovere inteso come <<apostolato>> nel largo senso della parola, come <<alta e sublime missione>>. Sturzo, però, appartenne ad una generazione di sacerdoti che intesero l’apostolato ecclesiastico nella forma nuova di forte impegno sociale, in cui i motivi religiosi e politici si mescolavano strettamente. L’indicazione papale del prete fuori dalla sacrestia in lui divenne, pertanto, stimolo di riflessione più generale circa il ruolo del sacerdote cattolico nella società moderna” (F. Renda, 1990a, p. 41).
Il prete di Caltagirone si rendeva perfettamente conto che per dar vita realmente nell’Isola ad un movimento sociale cattolico occorreva, innanzitutto, riformare il clero siciliano, e costruire dalle basi un ruolo sociale e popolare del prete.
In Sicilia, come abbiamo già visto nel primo capitolo, il clero veniva identificato, dalle masse, con la classe dominante. Di conseguenza, esso appariva – ed in realtà lo era – lontano dai reali problemi di vita quotidiana della gente comune, e più propenso a schierarsi con i ricchi che con i poveri.
Il clero siciliano pensava che suo unico compito fosse quello di occuparsi della vita spirituale del popolo, senza curarsi di quella terrena. Ma, per quanto riguardava gli interessi <<terreni>> propri e della propria famiglia i preti, in genere, sapevano bene come curarli!
Così, affermava don Sturzo, era frequente incontrare “per la via della vita il prete trafficante del denaro, gabelloto di feudi, intricato per commerci”, che si addossava “la responsabilità di padre di famiglia senza esserlo”, e che tendeva quindi “al lucro, all’incremento dell’azienda domestica, cosa che è un dovere per il laico, un vizio per il prete”; allo stesso modo, nella vita pubblica, spesso il prete non teneva conto dei suoi doveri di religioso “perché anche lui (aveva) nipoti e parenti da sostenere, da proteggere, da fare arrivare ai posti ambiti, agli uffici lucrosi; anche lui (aveva) una vita terrena da vivere nel contrasto e nel cozzo degli interessi umani” (4).
Naturalmente,tutto questo contribuiva a creare quel clima di avversione, ostilità e diffidenza nei confronti del clero. Di qui la necessità, secondo Sturzo, di creare un “clero libero, senza impacci familiari e cittadini” (5).
Il futuro fondatore del Partito popolare italiano era inoltre ben cosciente delle tristi condizioni di vita dei contadini siciliani, vittime dell’assenteismo dei latifondisti e dell’oppressione dei gabelloti. Così, criticando la maggioranza del clero, che si schierava con i ricchi proprietari e contro i contadini, Sturzo auspicava una Chiesa che difendesse realmente i più deboli, gli umili, gli oppressi, condannando apertamente gli ingiusti rapporti sociali cui essi erano sottoposti, che erano frutto del regime proprietario vigente. Una scelta, quella di Sturzo, chiaramente classista e democratica, che lo portava spesso a stare dalla stessa parte dei socialisti, pur combattendo e criticando il socialismo , soprattutto per il suo “spirito pagano”:
“Ciò che doveva differenziare un socialista da un democratico cristiano (…) non era il terreno di lotta e di lavoro, che necessariamente doveva essere comune, bensì l’animo che il socialista o il democratico cristiano mettevano nella rispettiva opera di organizzazione delle classi lavoratrici, e lo scopo cui ciascuno tendeva col progresso dell’ impegno e dei risultati che neconseguivano” (F.Renda, 1990a, pp. 63-64).
Riassumendo, Sturzo propugnava, e si adoperava concretamente per, “l’attivizzazione sociale del pretefuori dalla sacrestia” (F. Renda, 1990a, p. 65). Per rendere possibile ciò era necessario: la rottura, da parte del clero, con la classe dominante e con tutti i benefici (potere, ricchezza…) che questo legame comportava; un impegno quotidiano e fattivo per la reale comprensione dei problemi delle classi umili e per la organizzazione delle stesse per il raggiungimento di migliori condizioni economico-sociali.
Bisognava contrapporre al “prete maneggione, intrigante e corrotto (…) un nuovo tipo di prete, il prete-contadino, organizzatore di casse rurali, di cooperative, di leghe sindacali, di agitazioni e di scioperi, di lotte e di proteste, insomma un prete-apostolo, che degli uomini prendesse in cura gli interessi della vita, oltre che quelli dell’anima” (F. Renda, 1990a, p. 65).
Sturzo si era fatto, quindi, interprete del messaggio contenuto nella Rerum Novarum: i cattolici dovevano partecipare attivamente alla lotta sociale e politica, per la difesa dei più deboli e per il trionfo degli ideali cristiani e democratici.
In pochi anni sempre più numerosi furono, in Sicilia, i giovani preti che attuarono, in un impegno fattivo quotidiano, il pensiero sturziano, dando vita ad un imponente e importante movimento cattolico. Innanzitutto essi presero in considerazione quel che, già da tempo, era stato realizzato dai clericali nell’Italia settentrionale e all’estero. Al primo congresso dei cattolici siciliani (che si tenne l’11, il 12 ed il 13 luglio 1895) venne esaminata e approvata la proposta di Don Cerruti di far sorgere anche in Sicilia le casse rurali di prestito. Queste erano delle cooperative di credito agrario il cui obiettivo era quello di raccogliere i piccoli risparmi dei soci (agricoltori, operai e commercianti) per darli in prestito, a mite tasso di interesse, ad altri soci momentaneamente privi di capitale. Esse svolgevano, quindi, nelle campagne, una importante funzione antiusura.
Nate in Germania nella metà del XIX secolo, grazie all’idea e all’opera di Federico Guglielmo Raffeisen, le casse rurali si diffusero ben presto in tutto il mondo. In Italia cominciarono a sorgere nell’ultimo ventennio dell’Ottocento e, così come in Germania, ad organizzarle furono i cattolici. Di conseguenza, le prime regioni interessate dal fenomeno furono quelle dove più forte era il movimento cattolico: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna.
Don Luigi Cerruti era uno dei maggiori ideologi e organizzatori delle casse rurali in Italia. Fu proprio lui a inaugurare a Boccadifalco (Pa), negli stessi giorni in cui si teneva il congresso cattolico, la prima cassa rurale siciliana. Per contribuire alla diffusione di quest’importante istituzione sociale, Don Cerruti si fermò nell’Isola diversi mesi. La seconda cassa rurale fu costituita, il 14 ottobre 1895, a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta.
Alla fine del 1896 il numero di questo genere di sodalizi era già salito a 16. Per quanto fosse un risultato sorprendente, inevitabile fu il raffronto con le regioni del settentrione, ove erano già attive 473 casse rurali (F. Renda, 1990a, p. 74).
Da questi dati alcuni studiosi deducevano che alle masse lavoratrici del Sud mancava lo spirito associativo, cioè quell’insieme di maturità, solidarietà e consapevolezza che spingeva gli operai del Nord ad associarsi per la tutela dei propri interessi. Alcuni dirigenti meridionali si valsero di questo <<dotto>> giudizio per giustificare alcune disfunzioni locali, dovute, in realtà, a loro errori e manchevolezze piuttosto che alla mancanza di spirito associativo tra la popolazione!
Lo storico Francesco Renda (1990a, p. 75) contesta fermamente questo genere di interpretazioni. Egli afferma che il basso numero di associazioni di lavoratori nella Sicilia di fine secolo non era dovuto alla “sordità delle masse popolari” bensì alle condizioni economiche e sociali dell’Isola e, soprattutto, alla tragica repressione militare cui era ricorso il Governo per <<cancellare>> il movimento dei Fasci dei lavoratori. Si era voluto così soffocare sul nascere – aiutati in questo dalla mafia – qualsiasi aspirazione rivoluzionaria, o anche solo riformatrice, delle classi subalterne.
La persecuzione contro le organizzazioni di classe non ebbe termine con lo stato d’assedio. Nel primo capitolo abbiamo visto come, nel 1896, la federazione agricola <<La terra>>fondata, a Corleone, da Bernardino Verro, fosse stata sciolta dal Di Rudinì e il Verro accusato di contravvenire al divieto di ricostituire i Fasci o altre
associazioni ad essi simili. Questo divieto era esteso alle camere del lavoro, alle leghe di resistenza, alle cooperative agricole e di consumo, soprattutto se a promuoverle erano i capi socialisti.
La costituzione delle casse rurali fu invece consentita, in sintonia con l’atteggiamento un pò più tollerante tenuto dai governi di fine secolo (Crispi, Di Rudinì, Pelloux) nei confronti dei cattolici. Contro questi ultimi fu attuata, più che altro, una politica di disturbo, volta a controllarne il nascente movimento.
Nonostante la libertà di costituire casse rurali e l’impegnoprofuso (soprattutto a partire dal 1896) da organizzatori come Don Cerruti e Luigi Sturzo – il quale costituì la cassa rurale San Giacomo di Caltagirone, inaugurata il 3 gennaio 1897 – queste istituzioni sociali, che tanto successo avevano avuto al Nord, stentavano ad affermarsi in Sicilia.
Ciò era dovuto, principalmente, alla persecuzione politica contro i socialisti! Senza l’attività dei leaders del movimento del ’92-94, i quali godevano ancora della fiducia e della ammirazione delle masse, i cattolici da soli non riuscivano a risvegliare la volontà di riscatto e lo spirito combattivo dei contadini siciliani; inoltre, bisogna ribadire che l’impegno sociale cattolico nacque soprattutto come reazione al socialismo, di conseguenza esso trovò maggiore motivazione dopo la caduta del governo Pelloux (18 giugno 1900), vale a dire quando, subentrato il Saracco, i socialisti, finalmente liberi da divieti, poterono riprendere la loro propaganda e organizzazione tra le classi lavoratrici.
Così, se nel 1900 le casse rurali sorte in Sicilia erano appena 50, nel 1903 esse balzarono a 138, e nel 1905 a 145 (con più di 5 milioni d’attivo). In 10 anni la Sicilia arrivò ad occupare il 5° posto fra le regioni italiane, quanto a numero di dette organizzazioni (6): “Non era, dunque, lo spirito associativo che mancava…”! (F. Renda, 1979, p. 79).
Quanto alla distribuizione territoriale,degli enti cooperativi, all’interno dell’Isola, vi era un consistente squilibrio tra le varie province. Si andava, infatti, dalle 40 casse rurali costituite nella provincia di Palermo, e dalle 38 costituite nella provincia di Agrigento, alle 7 casse rurali della provincia di Messina e alle 6 della provincia di Trapani (in provincia di Caltanissetta vi erano 21 casse rurali; in provincia di Catania 20 e in provincia di Siracusa 13). Inoltre, la maggior parte di questi sodalizi sorse nelle zone agricole dell’interno dell’Isola, vale a dire nei latifondi.
Questo avvenne perché la figura sociale ivi più diffusa era quella del contadino, con o senza terra, che prendeva in affitto dal gabelloto, o direttamente dal proprietario, il terreno da coltivare. Nelle annate di cattivo raccolto i contadini si vedevano costretti a ricorrere ai prestiti usurai dei gabelloti mafiosi. Questi ultimi, così, divenivano sempre più ricchi e spavaldi. I contadini, invece, venivano risucchiati in un vortice di debiti, miseria e soprusi. Era logico, quindi, che fossero proprio i coloni, i mezzadri, i coltivatori diretti, i maggiori interessati al diffondersi delle casse rurali. Queste, infatti, offrivano “l’occasione di spezzare il circolo vizioso dell’usura” (G. Barone, 1977, p. 25), prestando a lieve tasso di interesse il capitale necessario alla coltura dei fondi:
“Il ceto medio, dunque, e in particolare il ceto agricolo dei piccoli proprietari coltivatori, e dei piccoli mezzadri e fittavoli, era il destinatario e beneficiario della organizzazione creditizia cooperativa” (F. Renda, 1990a, p. 82).
In qualche cassa rurale (secondo le notizie fornite dal Lorenzoni,nell’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini meridionali) si registrò anche la presenza delle donne:
“Cassa Rurale di Depositi e Prestiti di Caltanissetta: soci 686, dei quali 531 piccoli proprietari, 40 coloni, 35 piccoli fittavoli, 10 giornalieri, 70 donne; (…)
Cassa Rurale S. Giovanni di Campobello: soci 97, dei quali 75 agricoltori, 15 casalinghe, 7 sacerdoti; (…)
Cassa Rurale di Villalba: soci 515, dei quali 423 contadini e coloni, 72 operai, professionisti e civili, 20 donne (…)” (F. Renda, 1990a, pp. 83-84).
Fino al 1906, anno in cui venne promulgata la legge 29 marzo n. 100, che istituiva presso il Banco di Sicilia la <<Sezione speciale di credito agrario>>, i cattolici furono i soli ad organizzare il piccolo credito.
La loro attività sociale, comunque, in quegli anni non si limitò alla costituzione di casse rurali. Un altro campo di azione molto importante nel quale furono impegnati, questa volta non da soli ma in concorrenza con i socialisti, fu quello delle cooperative agricole di produzione e lavoro, con la organizzazione delle cosiddette <<affittanze collettive>>.
Ma prima di trattare questa originale forma di organizzazione, e di lotta, dei contadini, vorremmo volgere l’attenzione alla complicata situazione sociale e politica della Sicilia negli anni a cavallo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX.
2. LASICILIA NEL VOLGERE DEL SECOLO XIX E NEL PRIMO QUINDICENNIO DEL NUOVO SECOLO
A caratterizzare la società siciliana negli anni immediatamente precedenti e nel corso dell’età giolittiana fu tutta una serie di fenomeni politici e socio-economici, che videro come protagoniste le varie classi sociali isolane.
Gli avvenimenti di ordine politico furono, ovviamente, una diretta o indiretta conseguenza del cambiamento del quadro politico nazionale, che avrebbe portato alla svolta neoliberale d’inizio secolo. Questa assunse in Sicilia un significato particolare. L’età giolittiana, infatti, significò la fine di un lungo periodo di protagonismo siciliano sulla scena politica italiana.
Uomini come il Crispi e il Di Rudinì erano stati espressione della classe dominante isolana (leggasi blocco agrario). Quest’ultima, quindi, sapeva con sicurezza che i propri interessi sarebbero stati garantiti e non subordinati ad altri (7). Con la mutazione della situazione politica, tutto diventava incerto. Occorreva, quindi, correre ai ripari!
a) Il <<Progetto Sicilia>>
Al nuovo corso politico, che sembrava privilegiare gli interessi dell’industria del Nord, la classe dirigente isolana reagì (almeno all’inizio) in due differenti modi.
La parte più conservatrice preferì rimanere, comunque, ministeriale, percorrendo, così, la via più facile e sicura per continuare a vedere, se non privilegiati, quanto meno salvaguardati i propri interessi (per quanto questo volesse dire la sostanziale accettazione della subordinazione del Sud, agricolo, al Nord, industriale).
Al contrario, una parte dei proprietari terrieri capì che non era più tempo di continuare a difendere adoltranza il tradizionale assetto socio-economico; era ormai diventato necessario un rinnovamento delle vecchie strutture agrarie, che portasse, tra l’altro, ad un nuovo rapporto tra proprietari e contadini.
Dopo l’esperienza dei Fasci, i proprietari erano divenuti ben consapevoli delle potenzialità rivoluzionarie delle angustiate masse rurali. Alcuni ritennero, perciò, fosse più conveniente attuare delle riforme in senso favorevole a queste ultime piuttosto che vedere nuovamente minacciate le fondamenta del proprio potere e della propria egemonia nelle campagne.
Così, la parte più <<illuminata>> degli agrari, alla perdita di egemonia politica a livello nazionale, reagì, inizialmente, aderendo al cosiddetto <<Progetto Sicilia>> (M. Ganci, 1986, p. 54).
Questo era un’ambiziosa proposta di trasformazione economica, lanciata da Ignazio Florio – l’ultimo della famosa dinastia di imprenditori alla quale abbiamo accennato nel primo capitolo – alle diverse forze sociali siciliane (dai contadini ai grandi proprietari e imprenditori).
Il Progetto Sicilia rispondeva alla necessità di riformulare – vista l’evoluzione politica nazionale – “la partecipazione meridionale alla direzione del Paese” (F. Renda, 1990a, p. 101). In realtà, alla sua base vi eranole difficoltà economiche in cui si trovavano i Florio; i quali, caduto il Crispi, non potevano più contare su privilegi o facilitazioni da parte del Governo italiano. Passati all’opposizione, “La ricerca di coperture sociali e politiche (era) dunque una necessità” (F. Renda, 1990b, p. 249):
“Ignazio Florio, senatore del regno, dagli affari si butt(ò) in politica (<<scese in campo>>! N.d.a.); (mise) il suo prestigio e la sua borsa al servizio di un ambizioso progetto: promuovere la formazione di un partito o meglio di una forza d’ordine, che racco(gliesse) le frazioni sparse della classe dominante isolana attorno alla bandiera della difesa degli interessi siciliani” (F. Renda, 1990b, pp. 249-250).
Per lanciare e sostenere questo suo proposito, l’industriale palermitano, nell’aprile del 1900, fondò persino un quotidiano: <<L’Ora>> di Palermo.
Pur se legati da vincoli familiari e da interessi alla aristocrazia siciliana, i Florio erano prestigiosi esponenti della alta borghesia. Per cui, al centro dei loroprogrammi vi era la volontà di sostituire al blocco agrario un blocco industriale-agrario, che potesse far valere gli interessi del Sud nell’inevitabile scontro con gli interessi del Nord. Essi desideravano che anche in Sicilia venisse finalmente riconosciuto il potere e la forza trainante del denaro, e che venisse di conseguenza ridimensionata l’egemonia della grande proprietà terriera (F. Renda, 1990a, p. 122).
L’iniziativa del Florio raccolse subito vasti consensi, e riuscì a schierare sullo stesso fronte imprenditori e agrari, borghesi e aristocratici, cattolici e socialisti. Essendo, però, la Sicilia una regione prevalentemente agricola, il Progetto Florio si colorì ben presto “di verde campagnolo, e acquist(ò) le caratteristiche di una formazione agraria moderata, non però reazionaria e forcaiola – com'(era) sempre stata la destra agraria isolana – bensì moderna e vagamente riformatrice” (F. Renda, 1990b, p. 250).
Il 9 novembre 1899 fu istituito a Palermo, sotto la presidenza del Florio, il Consorzio Agrario Siciliano. Questo fu l’espressione più chiara e importante dell’interclassismo e della volontà riformatrice che animava il Progetto Sicilia.
Il Consorzio mirava a riunire tutte le forze sociali che avevano a cuore lo sviluppo dell’agricoltura siciliana. Del suo consiglio di amministrazione (eletto dall’assemblea costituente, alla quale parteciparono centinaia di cooperative e produttori agricoli) fecero parte: membri dell’aristocrazia e della grossa borghesia terriera (fra gli altri,il principe Lanza Di Scalea, il conte Monroy, l’avv. R. Raimondi); rappresentanti del clero (il cardinale di Palermo e l’arcivescovo di Monreale); il liberale V.E. Orlando; il demo-radicale N. Colajanni; e i socialisti e sostenitori dei Fasci G. Salvioli e F. Lo Vetere. Quest’ultimo, eletto segretario, fu l’ideologo di tutta l’operazione.
Il Lo Vetere sosteneva che per risolvere i numerosi e complessi problemi dell’agricoltura, occorreva, per l’appunto, la sincera collaborazione di tutte le classi sociali interessate (8): grandi e piccoli proprietari terrieri, coloni, mezzadri, contadini poveri, braccianti.
Il programma del Consorzio Agrario era all’insegna del riformismo rurale. Tra i suoi punti principali, figuravano: la ristrutturazione socio-economica dell’agricoltura estensiva, mediante la sostituizione della colonia parziaria al regime della gabella; la riorganizzazione e modernizzazione dei settori zolfifero, agrumario e vinicolo; “l’intensificazione delle colture e la trasformazione industriale dei prodotti agricoli pregiati” (G. Barone, 1977, p. 53); lo sviluppo del credito agrario.
Gli obiettivi, come si vede, erano tutti molto importanti e fondamentali per un effettivo rinnovamento della organizzazione economica siciliana. Tuttavia, il piano di trasformazione si rivelò subito un’illusione!
L’auspicata collaborazione tra agrari e contadini fallì ancor prima di iniziare. A causare questo fallimento fu, sostanzialmente, “l’invincibile misoneismo dei grandi proprietari terrieri” (G.C. Marino, 1979, p.19). Costoro avevano aderito al Consorzio con il recondito, preciso intento di salvaguardare esclusivamente i propri interessi, minacciati dal nuovo corso della politica italiana. Essi volevano trarre vantaggio dall’operazione Florio senza sacrificare minimamente la propria egemonia ed il proprio potere economico:
“Presupposto indispensabile del successo (del piano Florio, N.d.a.) era che i grandi agrari dell’isola, dinanzi al pericolo di perdere tutto, accettassero l’egemonia borghese locale, cioè della Casa Florio, divenendone in qualche modo subalterni. L’aristocrazia latifondistica, invece, si mostrò solo disposta ad accogliere quel che poteva esserci di utile nella ideologia floriana, l’affermata esigenza cioè che nell’isola si affermasse a tutti i livelli ed in tutte le classi la cosiddetta <<coscienza agraria>>, e il conseguente riconoscimento delle difficoltà strutturali in cui versava l’agricoltura meridionale” (F. Renda, 1990a, p. 125).
Avendo coscienza che la Sicilia era in condizioni di arretratezza e di disagio economico e che, di conseguenza, si trovava in svantaggio rispetto al Nord, gli agrari sostenevano che, prima di qualsiasi riforma, bisognava difendere quello che, a fatica, riusciva a resistere alla crisi. I contadini, quindi, sarebbero dovuti essere comprensivi nei confronti dei proprietari. Essi, ad esempio, non avrebbero dovuto pretendere contemporaneamente l’abolizione del dazio sul grano e l’aumento dei salari agricoli, poiché l’una richiesta era inconciliabile con l’altra.
A dimostrazione dell’atteggiamento di chiususa degli agrari, basta considerare quanto segue: il primo punto del programma originario del Consorzio agricolo, vale a dire quello che prevedeva l’abolizione del sistema dei grandi affitti – che si basava sull’intermediazione parassitaria, e spesso mafiosa, dei gabelloti – a favore della colonia parziaria, fu soppresso a causa della forte opposizione dei proprietari terrieri. Tale indicazione non risultò, quindi, nello statuto ufficiale.
Questo irrigidì i rapporti tra le varie componenti sociali che avevano aderito all’iniziativa del Florio.
A peggiorare ulteriormente la situazione contribuirono le elezioni amministrative di Palermo, del 15 settembre 1900. In questa occasione Ignazio Florio promosse una <<Concentrazione monarchica>>, per fronteggiare i socialisti, i cattolici ed i radicali. Tale lista riunì tutte le forze moderate e, grazie anche al <<prezioso>> appoggio della mafia, trionfò. La <<Concentrazione monarchica>> conquistò tutti gli 80 seggi del Comune di Palermo.
La rottura dei socialisti e dei democratici con il Florio e con i terrieri divenne inevitabile. Il Progetto Sicilia fu accantonato. Il Consorzio Agrario, svuotato di ogni contenuto, fu sciolto ben presto. Unici suoi risultati: l’avere sollevato, per un breve periodo di tempo, l’interesse dell’opinione pubblica isolana sui problemi dello sviluppo agricolo e sulla necessità di una riorganizzazione e di un rinnovamento delle strutture produttive siciliane, creando così un clima favorevole al nascente movimento cooperativistico (sul quale ci soffermeremo più avanti); la istituzione, con legge 29 marzo 1906, presso il Banco di Sicilia, di una sezione speciale di credito agrario.
Gli agrari, gettata la maschera del riformismo e abbandonata l’improbabile alleanza con i popolari, tornarono a privilegiare il ministerialismo.
Il Giolitti stesso, del resto, si trovò costretto a ricercare, in Parlamento, l’appoggio del blocco agrario (avendo questo, ancora, un controllo pressappoco totale della vita sociale e politica dell’Isola) per poter formare la maggioranza necessaria per governare. Egli – a dispetto delle sue aspirazioni ideali liberali e progressiste – per garantirsi e rafforzare quest’ultima, ricorse nel Meridione, durante le consultazioni elettorali, a quei mezzi <<non ortodossi>> (interventi indiscreti dei prefetti a sostegno dei candidati governativi; abuso di potere da parte dei delegati di P.S.; collusioni con la criminalità) che avevano caratterizzato, in particolar modo, i ministeri Depretis e Crispi (9).
Il Giolitti fu accusato di occuparsi della Sicilia “solo nella misura dei suoi interessi elettorali” (G. Falzone,
1975, p. 221). Gaetano Salvemini lo definì il “ministro della malavita” (10), e, stando a quanto riferito da S.F. Romano, l’invettiva non era azzardata:
“Con il ritorno di Giolitti al governo, all’inizio del nuovo secolo, si avrà un nuovo riassorbimento dell’azione mafiosa in quella del clientelismo politico ed elettorale protetto dal governo. La mafia diviene per così dire un elemento organico del sistema di cui si serve in Sicilia e nel Mezzogiorno in genere (…) il presidente del consiglio.
Agenti del governo e mafiosi agivano a gara (…) in Sicilia per ottenere i risultati elettorali favorevoli al governo. Pastette elettorali e collusioni mafiose dominano infatti nella vita politica dell’isola nell’età giolittiana” (S.F. Romano, 1963, pp. 179-180).
Il giolittismo, pertanto, si qualificò in Sicilia (e nel Meridione) non come un elemento di cambiamento bensì di conservazione (F. Renda, 1990b, p. 248).
Si ripropose, dunque, anche se in chiave liberale e con alcune modifiche, il blocco storico fra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud (inaugurato dal Crispi con le tariffe doganali del 1887), con un occhio di riguardo, questa volta, più per i primi che per i secondi. Le forze che, in Sicilia, lottavano per un reale rinnovamento sociale, economico e politico, furono, invece, abbandonate a se stesse (F. Renda, 1990b, pp. 244 e 248).
b) Il <<Comitato Pro-Sicilia>> e la Sicilia <<contro>>!
Un altro avvenimento politico molto importante, che interessò la Sicilia nei primi anni del Novecento, fu la costituzione del Comitato Pro-Sicilia. Anche questo, come il Progetto Sicilia, può essere considerato una reazione della classe dominante siciliana alla perdita di peso politico in campo nazionale. In questo caso, la reazione assunse i caratteri netti del <<sicilianismo>>.
Il Comitato Pro-Sicilia nacque nell’agosto del 1902, in seguito alla condanna dell’onorevole Raffaele Palizzolo per l’omicidio,di stampo mafioso,del commendatore Emanuele Notarbartolo, assassinato il primo febbraio 1893 su di un vagone ferroviario in corsa sulla linea Termini-Palermo.
Il Notarbartolo era membro di una delle più influenti famiglie aristocratiche siciliane. Sindaco di Palermo dal 1873 al 1876 e direttore generale del Banco di Sicilia dal 1876 al 1890, si era distinto in entrambi gli incarichi per la sua onestà e dirittura morale e per le sue capacità amministrative. Furono proprio queste sue rare qualità a determinarne il triste destino: la cocciuta rettitudine con la quale aveva amministrato l’importante banca pubblica siciliana aveva <<disturbato>> troppi interessi:
“Emanuele Notarbartolo era uomo di specchiata onestà, che aveva diretto (…) con scrupolosa rigidezza e correttezza l’amministrazione del Banco di Sicilia.
Il Notarbartolo non poteva di conseguenza non impegnare un duello all’ultimo sangue con le cosche mafiose interessate al perpetuarsi delle anormalità amministrative che egli voleva stroncare e dalle quali esse traevano cospicui vantaggi” (M. Ganci, 1986, p. 65).
A rappresentare questi interessi nel consiglio di amministrazione dell’istituto di credito era proprio Raffaele Palizzolo, deputato nazionale dal 1882, “creatura del Crispi” (N. Dalla Chiesa, 1976, p. 173), protettore di mafiosi e delinquenti.
In seguito alla pressione “dei più alti notabili della politica siciliana” (N. Dalla Chiesa, 1976, p. 172), il comm. Notarbartolo fu rimosso dall’incarico di direttore del Banco di Sicilia. Ma egli continuava ad essere un personaggio <<scomodo>>, a causa delle irregolarità che era riuscito a scoprire. Così, allorquando si profilò una inchiesta generale sulla situazione delle banche italiane, resasi necessaria dopo la scoperta dei brogli della Banca Romana, la soppressione del commendatore divenne essenziale ed improrogabile.
Il delitto Notarbartolo può essere considerato il primo <<omicidio eccellente>>. Era la prima volta, infatti, che la mafia colpiva così <<in alto>>. Tuttavia, sarebbe stata anche l’unica fino al 1971, cioè fino all’assassinio del procuratore generale Pietro Scaglione:
“Questo delitto segna un salto di qualità, ma per certi versi rimane un picco isolato, un segnale di sviluppi futuri. Per avere la giusta scala di riferimento, si pensi che per più di un secolo la mafia ha ardito colpire così in alto solo in questo caso. Quello di Notarbartolo è il primo dei cadaveri eccellenti, nonché l’ultimo sino alla morte del procuratore generale Pietro Scaglione, e quindi dall’Unità al 1971” (S. Lupo, 1993, p. 68).
L’iter processuale si protrasse per anni ed anni, finché, grazie all’impegno del figlio della vittima, Leopoldo, dell’avvocato di parte civile Giuseppe Marchesano e di Napoleone Colajanni, si raccolsero elementi sufficienti per l’incriminazione di Raffaele Palizzolo quale mandante dell’omicidio.
Ottenuta dalla Camera dei Deputati l’autorizzazione a procedere, il processo ebbe inizio il 9 settembre 1901, presso la Corte d’Assise di Bologna e si trascinò per 195 sedute.
Davanti alla Corte sfilarono, come testimoni, i più importanti esponenti della vita politica ed economica siciliana e “venne fuori tutta la rete di connivenze e di omertà di cui il Palizzolo aveva beneficiato” (F. Renda, 1990b, p. 245).
Tra i nomi di coloro che testimoniarono a favore del Palizzolo risulta anche quello di Ignazio Florio, il quale “pare avesse largamente beneficiato delle irregolarità amministrative del Banco di Sicilia” (N. Dalla Chiesa, 1976, p. 174). La sua deposizione è emblematica in quanto, come generalmente fecero gli altri testi a discolpa del Palizzolo, egli negò l’esistenza della mafia e criticò aspramente l’uso che di questa parola veniva fatto per calunniare la Sicilia! (11).
Il processo Notarbartolo portò alla ribalta nazionale il fenomeno mafioso ed i suoi perversi rapporti con il mondo politico. Gli intellettuali e l’opinione pubblica di tutta Italia seguirono con grande interesse le varie fasi processuali. Ci si rese conto che la mafia non era un problema che riguardava esclusivamente la Sicilia, poiché erano ormai emerse le connivenze e le protezioni di cui essa poteva godere all’interno dell’apparato statale:
“L’opinione pubblica si rendeva conto sia pure non senza difficoltà che la mafia era una questione nazionale; investiva le istituzioni fondamentali del paese; coinvolgeva le responsabilità dei ministeri e dei rappresentanti più qualificati del governo e dello Stato non sempre e non necessariamente di origine siciliana. Perciò, si voleva sapere di più, conoscere meglio” ( F. Renda, 1990a, pp.404-405).
Così, si sviluppò, sulla mafia, un intenso dibattito che trovò spazio sulla stampa isolana e nazionale. Sull’argomento vennero pubblicati anche diversi libri e inchieste, che portarono avanti “la denuncia della mafia come il cancro che corrodeva le più intime fibre della società isolana e nazionale” (F. Renda, 1990a, p. 110) (12).
Anche Luigi Sturzo si occupò della mafia, schierandosi “a fianco di coloro che la denunciavano come un male di eccezionale gravità” (F. Renda, 1990a, p. 372). Egli scrisse un dramma di denuncia, intitolato per l’appunto “La mafia”, con il quale cercò di comunicare agli altri “il senso più profondo e significativo del fenomeno” (F. Renda, 1990a, p. 372). Ecco cosa scriveva lo Sturzo – in un articolo apparso il 21 gennaio 1900 su <<La croce di Costantino>>, n. 22 – a proposito del processo Notarbartolo, prima che si giungesse all’incriminazione del Palizzolo e cioè quando si stava tentando di insabbiarlo:
“Chi ha seguito con attenzione il processo, vedrà come anche quest’ultimo fatto è un effetto della mafia, che stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica; di quella mafia che oggi serve per domani esser servita, protegge per esser protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche a Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini creduti fior di onestà ad atti disonorati e violenti” (cit. in F. Renda, 1990a, p. 374).
E’ interessante notare che questo brano dell’articolo si sarebbe potuto scrivere anche in anni ben più vicini ai nostri!
Il processo di Bologna si concluse il 31 luglio 1902, con la condanna del Palizzolo a trenta anni di reclusione.
Se la parte più democratica dei siciliani e degli italiani accolse questa sentenza come una dura condanna della mafia, le forze tradizionali siciliane – e cioè gli appartenenti alla classe dominante, che tanto agio avevano avuto nella vita politica isolana e nazionale – reagirono con violenza. Basandosi su di un insensato sillogismo, queste ultime vollero vedere nella condanna dell’onorevole Palizzolo, in quanto mandante di un omicidio mafioso, anche la condanna della Sicilia, poichè questa veniva identificata spesso con la mafia:
“(…)poiché la mafia era e veniva considerata un fenomeno tutto siciliano, la sua condanna suonò anche (o qualcuno tentò o a taluno sembrò che significasse) condanna della Sicilia” (F. Renda, 1990b, p. 245).
Inoltre, da parte dei notabili, si disse che con la sentenza di Bologna a vincere non era stata la giustizia bensì i socialisti ed i radicali.
Così, appena conosciuto il verdetto, “la Sicilia prese fuoco” (M. Ganci, 1986, p. 66). In alcuni importanti negozi di Palermo vennero esposte strisce nere con su scritto <<Lutto cittadino>>. Si indissero dimostrazioni di protesta. Ma soprattutto fu costituito il <<Comitato Pro-Sicilia>>. Questo nacque su iniziativa dell’etnologo Giuseppe Pitré, il quale aveva una concezione folkloristica della mafia:
“La mafia – sosteneva il Pitrè – non è né setta né asssociazione, non ha né regolamenti né statuti, il mafioso non è un ladro, non è un assassino (sic). La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, d’ogni urto d’interesse e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre” (13).
Secondo lo studioso, la mafia era una cultura, una forma di comportamento, basata su presunti valori siciliani (il senso dell’onore, l’attaccamento alla famiglia ed agli amici, l’orgoglio, il coraggio, la baldanza, la generosità), a volte degeneranti ma pur sempre da rispettare.
Obiettivo ufficiale del Comitato Pro-Sicilia era l’organizzazione di una vasta e vibrante mobilitazione popolare a sostegno dell’on. Palizzolo, ritenuto vittima di un clamoroso errore giudiziario ed emblema della discriminazione in atto, all’interno dello Stato italiano, nei confronti della Sicilia.
Il movimento innocentista voleva, allo stesso tempo, “ributtare le accuse di mafiocrazia mosse alla società siciliana dall’opinione pubblica nazionale” (N. Dalla Chiesa, 1976, p. 173). Ma in realtà, esso rappresentava la “<<riscossa della mafia>>”(F. Renda, 1990a, pp. 381e 397) (questo il parere della stampa settentrionale), ed un estremo tentativo, portato avanti dalla classe dirigente siciliana per: riconquistare l’autorevolezza e il potere di cui, fino a qualche anno prima, essa godeva incontrastata in campo politico; contrastare l’avanzata dei socialisti.
“Partendo (…) dalla protesta per la condanna del Palizzolo, e strumentalizzando la situazione di scontento largamente diffuso fra le popolazioni isolane, i dirigenti del Pro Sicilia riproposero, all’insegna dell’onore siciliano offeso, l’audace quanto spregiudicato disegno politico, volto a ridare peso e prestigio nazionale alla vecchia aristocrazia isolana esautorata dalle ultime vicende (…)
Come osservava il Cammareri Scurti sull’Avanti!, i notabili di Palermo non erano insorti contro il verdetto di Bologna per i begli occhi di Palizzolo e compagnia, ma perché non volevano che attraverso quel successo così clamoroso il partito socialista in Sicilia riuscisse a svolgere <<una vera e soda azione>>” (F. Renda, 1990a, pp. 389, 394-395).
Basta, del resto, scorrere l’elenco dei partecipanti all’assemblea costitutiva del Comitato per rendersi conto delle intenzioni reazionarie dello stesso. Vi parteciparono: seideputati; numerosi avvocati, professionisti e commendatori; rappresentanti della aristocrazia terriera. Inoltre,si aggregarono ben presto esponenti della destra parlamentare.
Con un’abile operazione politica (facendo leva sul sentimentalismo delle popolazioni oppresse) gli organizzatori del Pro Sicilia riuscirono a far dirottare il tradizionale malcontento delle masse – per le proprie condizioni sociali ed economiche – in direzione della classe politica nazionale e, più in generale, dei settentrionali, colpevoli, tra l’altro, di non riconoscere, anzi di infangare, l’alto valore della civiltà isolana. L’ideologia campanilistica derivante da questa operazione è conosciuta come <<sicilianismo>>:
“Il tema di fondo dell’ideologia sicilianista è indubbiamente il tentativo di proiettare all’esterno dell’isola la responsabilità di sfruttamento e miseria, fissando da una parte il blocco degli stranieri oppressori, dall’altro quello dei siciliani poveri solo perché oppressi: in essi ogni contorno di classe, ogni responsabilità di ceti dirigenti si sfuma fino ad annullarsi” (S. Lupo, 1977, p. 154).
A questa operazione di deresponsabilizzazione dei politicisiciliani – per i gravi problemi che affliggevano l’Isola – e di difesa degli interessi colpiti dal verdetto bolognese, partecipò attivamente la mafia. Essa, del resto, ha da sempre strumentalizzato i codici culturali siciliani (S.Lupo, 1993, p. 107) _e quindi il sicilianismo (14),per rafforzare il proprio dominio e per celare la sua reale natura di organizzazione criminale antipopolare, volta esclusivamente all’accrescimento del proprio potere (a discapito di un reale sviluppo economico della Sicilia).
Ritornando al <<Pro-Sicilia>>, grazie all’ideologia sicilianista che lo caratterizzava, esso riuscì a raccogliere vasti consensi anche tra la gente comune. Sedi del Comitato sorsero un pò ovunque in Sicilia, ma soprattutto nel palermitano. Due importanti quotidiani, <<L’Ora>> di Palermo e <<La Sicilia>> di Catania, si fecero portavoce del movimento innocentista.
Tuttavia, nonostante la sua ampiezza e la sua vivacità, il Comitato Pro-Sicilia contò, all’interno dell’Isola, anche numerosi oppositori.
Contro di esso si schierarono, fermamente, i circoli socialisti e radicali, e alcuni giornali popolari, quali <<Il Giornale di Sicilia>> – che si distinse per i suoi coraggiosi articoli contro il Palizzolo e contro la mafia – e il <<Corriere di Catania>>.
Tra le voci più impegnate nella denuncia degli interessi mafiosi e degli intrecci tra mafia e politica, figuravano quelle di Napoleone Colajanni, Giuseppe De Felice Giuffrida e del socialista Giuseppe Marchesano (15),avvocato della famiglia Notarbartolo.
Il Colajanni, che già nel suo saggio “Nel regno della mafia” aveva denunciato gli intrighi che stavano dietro il delitto Notarbartolo, esortava, dalle pagine del <<Corriere di Catania>>, a non cadere nella trappola del sicilianismo: “Ritengo una aberrazione intellettuale e morale confondere la mafia, il processo Palizzolo e la Sicilia” (cit in F. Renda, 1990a, p. 391).
De Felice Giuffrida sottolineava la netta contrapposizione tra sentimento mafioso e sentimento socialista e “rivendicava la funzione antimafiosa del movimento dei Fasci” (F. Renda, 1990a, p. 414). Egli metteva in luce il carattere reazionario del Pro-Sicilia, e ribadiva la necessità di un movimento in antitesi con esso:
“(…)alle lagnanze sterili di chi dorme ed aspetta la manna dal cielo ministeriale, opponiamo la protesta necessaria contro una rappresentanza politica o dormiente o tiepida o incurante, e l’attività energica di chi ha diritti e li fa valere, di chi ha lena e sa agire (…) insomma, alla Sicilia dormiente sotto il sonnifero di un tentativo pro-Sicilia, illogico, palizzoliano, reazionario (…) preferiamouna Sicilia desta, forte, libera e moderna” (16).
A dimostrazione del fatto che accanto ad una Sicilia <<pro-Palizzolo>> vi era anche una Sicilia <<contro>>, basta considerare che nel dicembre 1899, quando ancora non si era arrivati all’incriminazione dell'<<onorevole>>, si costituì a Palermo un Comitato per onorare la memoria di Emauele Notarbartolo “in senso di affermazione dei principi di moralità e di giustizia, e di protesta contro gli autori dell’esecrato delitto” (17).
Il Comitato era composto da cittadini di ogni partito, compreso quello socialista, e alla sua testa vi erano i principi di Trabia e di Camporeale. Venne subito aperta una pubblica sottoscrizione per erigere un busto di marmo alla memoria del Notarbartolo, ed anche per sostenere le spese processuali che il figlio Leopoldo non era in grado di affrontare.
Il 17 dicembre si svolse, su iniziativa dello stesso comitato, un silenzioso corteo di commemorazione, al quale presero parte circa 30.000 persone! (F. Renda, 1990a, p. 109). Questa può essere considerata, a nostro avviso, la prima imponente manifestazione pubblica (di piazza) contro la mafia! Il primo febbraio venne collocato un busto marmoreo nell’atrio del Palazzo delle Finanze.
Ma, purtroppo, a trionfare fu, alla fine, la Sicilia <<pro-Palizzolo>>. L’agitazione Pro-Sicilia assunse una tale dimensione, e poté contare su appoggi e protezioni così forti, che si arrivò all’annullamento – per vizio di forma – della sentenza di Bologna. Il 24 luglio 1904 si celebrò, quindi, presso la Corte di Assise di Firenze, il nuovo processo contro il Palizzolo, che si concluse con la assoluzione per insufficienza di prove!
“Inebriati del successo, oltre che vincere, si volle anche stravincere” (F. Renda, 1990b, p. 246): per riportare a casa il Palizzolo fu noleggiata una nave; all’arrivo a Palermo lo accolse una folla festante.
Passiamo ora ad analizzare i principali fenomeni socio-economici che caratterizzarono la Sicilia nel primo quindicennio del Novecento: l’emigrazione e il cooperativismo agricolo (della prima parleremo, brevemente, qui di seguito; il secondo sarà invece analizzato nei prossimi paragrafi).
c) L’emigrazione
Fra il 1900 ed il 1913 si calcola che circa un milione e mezzo di siciliani abbandonarono l’Isola. Essi fuggivano dalla miseria delle loro terre, con in animo la speranza di un avvenire migliore. Le mete degli emigranti siciliani erano, soprattutto, gli Stati Uniti, l’Argentina ed il Brasile:
“E’ uno dei fenomeni più straordinari di tutta la storia della Sicilia. Alcuni comuni persero gran parte della loro popolazione maschile e in un solo anno si ridussero a un quinto di quello che erano” (Finley-Mack Smith-Duggan, 1992, p. 305)
Secondo F. Renda, a scatenare l’esodo dei contadini dell’entroterra fu, tra l’altro, la violenta repressione con la quale lo Stato italiano e la mafia posero fine alla esaltante esperienza del movimento dei Fasci dei lavoratori. Questo movimento rappresentava, infatti, per le plebi rurali un’importante occasione di riscatto economico e sociale, fallita la quale non restava che l’emigrazione.
L’abbandono della propria terra, oltre al significato suo proprio, assunse anche un peculiare significato di protesta contro il Governo e gli agrari, per l’insensibilità dimostrata nei confronti delle tristi condizioni di vita delle popolazioni siciliane:
“(…) l’emigrazione transoceanica era legata con tutta la vicenda dei Fasci, e aveva una sua pregnante motivazione politica, che i contemporanei non passarono sotto silenzio. Venuta meno la prospettiva di una rapida quanto efficace soluzione dei problemi sociali dell’isola e del paese, l’insoddisfazione e la protesta presero la forma dell’esodo dalle campagne, della fuga dalla terra, della ricerca di nuove possibilità di vita fuori dall’isola. Il primo impulso, conseguenza della sconfitta ma anche segno di speranze perdute, fu di andarsene e di abbandonare tutto, varcando l’oceano e affrontando rischi e pericoli di ogni sorta, pur di uscire da una situazione non più tollerabile” (F. Renda, 1990a, p. 131).
Il Governo italiano e la classe dominante siciliana, dal canto loro, dopo la preoccupante esperienza dei Fasci, cominciarono a vedere nell’emigrazione una “valvola di sicurezza” (J. e P. Schneider, 1989, p. 170), in grado di allentare la tensione sociale che era presente in Sicilia e che metteva in pericolo il tradizionale assetto economico e politico. Decisero, pertanto, di incoraggiare le partenze:
“I nostri concittadini erano affranti, sfiduciati; chiedevano ciò di cui tutti i popoli civili godono, chiedevano di poter lavorare la terra; ma la terra era il latifondo ed il Governo non poteva toccare i latifondisti. Governo e latifondisti trovarono l’emigrazione, strumento atto a sfollare la terra di affamati che minacciavano l’ordine pubblico, ed incoraggiarono l’emigrazione” (18).
Gli effetti dell’eccezionale ondata migratoria sull’economia e sulla società siciliane furono dirompenti. Il contingente più elevato di emigranti era costituito (almeno nei primi anni) dai braccianti e contadini senza terra. Innanzitutto, quindi, con la diminuizione della pressione demografica, si ebbe un arretramento della disoccupazione e della sottoccupazione e, di conseguenza, un generale rialzo dei salari. Anche la tradizionale concorrenza per la terra si ridusse, provocando un certo miglioramento dei contratti di affitto e creando il terreno favorevole per lo sviluppo delle <<affittanze collettive>>.
I proprietari terrieri, per compensare l’aumentato costo
del lavoro contadino, decisero di introdurre le macchine agricoleeiconcimichimici,peraumentarnela produttività.
L’emigrazione innescò, dunque, “un lento ma significativo processo di trasformazione del latifondo, non nel senso di modificare l’assetto della proprietà, quanto piuttosto nella direzione dell’intensificazione colturale” (G. Barone, 1977, p. 20).
A partire dal 1907, inoltre, cominciarono ad affluire in Sicilia circa cento milioni di lire all’anno! (Cifra ufficiale): erano le rimesse inviate dagli emigrati alle famiglie rimaste in Patria (Finley-Mack Smith-Duggan, 1992, p. 306). Questa sbalorditiva somma di denaro venne in gran parte impiegata nel mercato dell’edilizia ed in quello della proprietà fondiaria. Per molti siciliani il sogno di diventare proprietari di un piccolo pezzo di terra poté finalmente diventare realtà.
Si estese, così, la proprietà diretto-coltivatrice. A questa estensione contribuì notevolmente anche il nuovo ceto degli <<americani>>,cioè degli emigrati che tornavano nei propri paesi d’origine, carichi di nuove esperienze e di denaro (frutto dei duri sacrifici fatti in terra straniera) da impiegare, naturalmente, nell’acquisto del bene più ambito, fonte di lavoro, libertà e prestigio: <<la roba>>.
Le rimesse e la fame di terra dei rimpatriati – divenuti numerosi in seguito alla crisi economica mondiale del 1907 – fecero lievitare enormemente il prezzo di vendita dei fondi.
Tuttavia, la corsa all’acquisto non intaccò tanto il latifondo quanto la media e piccola proprietà, messa in crisi dall’aumentato costo della manodopera e dalla recessione economica:
“Non si azzarda molto se, dopo il 1907 – pur con le opportune cautele e limitazioni – si rappresenta la dinamica sociale delle campagne siciliane nel dramma della pressione espropriatrice esercitata da una parte dei contadini rimpatriati sui contadini che erano rimasti” (G.C. Marino, 1979, p. 71).
Saranno proprio i piccoli proprietari, costretti dalle neccessità economiche a vendere i loro appezzamenti di terreno, ad alimentare il flusso emigratorio negli anni 1907-1911 (G.C. Marino, 1979, p. 70).
L’emigrazione del primo quindicennio del XX secolo, produsse i suoi effetti anche sulla mafia. Fra gli espatriati vi furono, infatti, anche alcuni mafiosi troppo compromessi o minacciati di arresto dalla polizia. Costoro, giunti nel Nuovo Mondo, non si <<votarono>> ad un onesto lavoro bensì continuarono a delinquere (estorsioni, contrabbando…). Fu così che sorse negli Stati Uniti una sorta di filiale di Cosa Nostra, “con l’obiettivo di opporsi alle angherie degli altri gruppi etnici, apparentemente più forti e meglio organizzati” (G. Falcone, M. Padovani,1991,
p. 113).
La mafia americana – anch’essa denominata Cosa Nostra (19) – si evolse ben presto, adattandosi all’ambiente, fino a rendersi completamente autonoma dalla organizzazione siciliana.
Passiamo ora ad analizzare gli effetti che produsse l’emigrazione sulla società siciliana. Essa contribuì, sicuramente, a mettere in crisi la vecchia società rurale, con le sue arcaiche strutture sociali e culturali.
Quel milione e mezzo di siciliani che abbandonarono la loro terra, attuarono una sorta di “rivoluzione silenziosa” (M. Ganci, 1986, p. 64). Quel che non si era potuto ottenere con il movimento dei Fasci, vale a dire la liberazione dal giogo del blocco agrario (latifondisti+gabelloti mafiosi+ceto<<civile>>), si conseguì imbarcandosi alla volta dell’America:
“E’ una protesta, una manifestazione di sfiducia, ma è anche una scelta, un grande atto di libertà. Il siciliano che affronta l’avventura dell’ignoto, quale che ne siano il costo e il sacrificio, è un uomo che non si dà per vinto e neppure si rassegna o si dispera, ma al contrario riafferma il suo diritto alla vita, progetta di cambiare la sua condizione d’esistenza, e, buona stella permettendo, qualche volta riesce anche a far fortuna. Mai la Sicilia è progredita così rapidamente come in quegli anni di fuga generale di tanta massa di poveri esseri umani” (F. Renda, 1990b, p. 272).
Come abbiamo già visto, a partire dal 1907, cominciarono a tornare in patria numerosi <<americani>>. Questi portarono nel paese d’origine – oltre ai dollari – una ventata di novità. Dal modo di vestire, al loro atteggiamento, essi rappresentavano l’emancipazione dalla miseria e dall’oppressione. Gli <<americani>>:
“portarono con sé l’aspettativa di uno standard di vita più alto e soprattutto una stima di se stessi che impediva loro di comportarsi, con i notabili, con la deferenza richiesta dalla tradizione. Tutto ciò aiutò a indebolire la tradizione di rassegnazione supina e il rifiuto di guardare al futuro, che aveva caratterizzato la società agraria a cui facevano ritorno” (Finley-Mack Smith-Duggan, 1992, p. 306).
In concomitanza con il movimento migratorio transoceanico, la Sicilia era interessata dal fenomeno socio-economico del cooperativismo agricolo, del quale erano protagoniste, ancora una volta, le classi subalterne, e registi i cattolici ed i socialisti di campagna.
3. LA RIORGANIZZAZIONE DEL MOVIMENTO CONTADINO SICILIANO: SOCIALISMO RURALE + CATTOLICESIMO SOCIALE
I socialisti dal 1894 al 1900 erano stati oggetto di persecuzione da parte dei ministeri di natura reazionaria che in quegli anni avevano governato l’Italia (Crispi, Di Rudinì, Pelloux). Soltanto con il processo di liberalizzazione avviato dal governo Saracco essi, non più soggetti a divieti e proibizioni, poterono riprendere in pieno e apertamente la loro attività politica e sindacale.
L’indirizzo allora in prevalenza all’interno del partito socialista italiano era quello <<riformista gradualista>>: il socialismo sarebbe stato il risultato non già di una rivoluzione veloce e violenta bensì di un cammino di riforme graduali, che avrebbero portato al superamento del capitalismo per dissoluzione interna.
Nel Meridione, in base a questo programma, un ruolo importante veniva assegnato, in quel periodo, alla borghesia. Come si poteva parlare di socialismo e di lotta di classe in una società che doveva ancora uscire dalla fase post-feudale, e in cui, di conseguenza, non era presente un moderno proletariato? In Sicilia, quindi, la realizzazione della società socialista era e doveva essere subordinata al raggiungimento dello stadio di sviluppo capitalistico:
“Il Mezzogiorno non era pronto per il socialismo, esso doveva compiere ancora la sua rivoluzione borghese, e il socialismo non doveva sostituirsi alla borghesia, ma doveva lasciare ad essa di adempiere senza ostacoli il suo ruolo storico” (F. Renda, 1990b, p. 254).
Proprio su questa posizione nei confronti dello sviluppo della società meridionale, si arrivò ad una netta spaccatura all’interno del movimento socialista siciliano. I circoli cittadini, facendo propria l’analisi su esposta, sostenevano che compito dei socialisti, in quella fasestorica,doveva essere quello di favorire lo sviluppo della borghesia isolana; le azioni rivendicative e le lotte operaie dovevano, di conseguenza, mirare innanzitutto a questo fine. Questa tesi – che contava tra i suoi fautori G. De Felice Giuffrida a Catania e Garibaldi Bosco a Palermo – si concretizzò nel cosiddetto <<popolarismo>>, cioè nella formazione, a livello municipale, di alleanze politiche fra i socialisti, la piccola e media borghesia democratica e gli intellettuali radicali.
La più importante esperienza di popolarismo si ebbe a Catania, dove i partiti popolari amministrarono la città per circa un decennio (dal 1902 al 1913), durante il quale Catania conobbe un sorprendente sviluppo commerciale e industriale.
Il popolarismo favorì un certo rinnovamento delle classi dirigenti locali, ed evidenziò la funzione democratica dei Municipi. Nondimeno, esso, per il partito socialista, rappresentò un fallimento, poiché si risolse nella sua essenziale subordinazione agli interessi della piccola e media borghesia cittadina. I sostenitori del socialismo urbano nel 1912, quando all’interno del P.S.I si consumò la spaccatura tra massimalisti e riformisti, aderirono al socialriformismo di Leonida Bissolati (F. Renda, 1990b, p. 256).
In antitesi con il socialismo di città si posero i dirigenti e i militanti socialisti delle campagne dell’entroterra siciliano. Al socialismo urbano si contrappose, pertanto – quanto a composizione sociale, concezioni, finalità, strumenti di azione – il socialismo rurale.
Alla base di quest’ultimo vi era il rigetto dell’assunto socialista secondo il quale la città sarebbe stata la sede naturale del progresso, del movimento proletario e, quindi, della rivoluzione sociale. Gli esponenti del movimento socialista agrario erano, al contrario, fermamente convinti che la reale trasformazione della struttura socio-economica siciliana sarebbe stata avviata – e non poteva essere altrimenti – dai contadini dell’entroterra:
“Si proclamava apertamente che la voce autentica della rivoluzione proletaria in Sicilia era quella dei lavoratori del latifondo. Onde la Sicilia, la Sicilia vera, genuina, sconosciuta e possente, era quella delle campagne cerealicole dell’interno, da dove si levava tutto un popolo sfruttato e vilipeso, le cui organizzazioni di classe, rigenerando il proletariato agricolo, avrebbero rinnovato la vita economica e morale di tutta l’isola” (F. Renda,1990a, p. 344).
Capi indiscussi del socialismo rurale siciliano furono: ex capi, maggiori e minori, dei Fasci, quali Bernardino Verro a Corleone, Nicola Alongi a Prizzi, Lorenzo Panepinto a Santo Stefano di Quisquina, Giacomo Montalto nel trapanese; ma anche ideologi e attivisti di nuova formazione, sui quali spiccò – per le sue analisi del latifondo e della mafia e per l’impegno e la passione con i quali organizzò numerose leghe e cooperative di contadini – l’agronomo marsalese Sebastiano Cammareri Scurti.
Questi lottava con la forza delle idee e dei fatti affinché si affermasse in Sicilia un “socialismo del latifondo” (G.C. Marino, 1972, p. 73): la lotta dei contadini contro il sistema di sfruttamento del blocco agrario e, quindi, contro “la rendita fondiaria parassitaria, la speculazione subdola ed inesorabile degli usurai (e) quella violenta e mafiosa dei grandi gabelloti” (G.C. Marino, 1972, p. 29), doveva essere, per il partito socialista siciliano, un problema primario, centrale e unificatore, tale da porre in secondo piano le divergenze presenti al suo interno.
Secondo il Cammareri Scurti il latifondo era fonte di oppressione non soltanto per le plebi rurali ma anche per i ceti popolari cittadini, poiché in esso germogliava il potere agrario-mafioso che avviliva la Sicilia, soprattutto quella centro-occidentale. La mobilitazione delle masse popolari contro il sistema di produzione feudale-parassitario sarebbe stata – sempre secondo il Cammareri Scurti – nel contempo, una mobilitazione contro la mafia, che di quel sistema era, per l’appunto, frutto.
La convinzione che con la distruzione del latifondo si sarebbe arrivati automaticamente all’annientamento della mafia, era diffusa tra i militanti ed i dirigenti del movimento contadino. Purtroppo, questa si sarebberivelata, ben presto, un’illusione, poiché, come abbiamo visto nel primo capitolo, la mafia è stata da sempre presente anche in alcuni territori a coltura intensiva (Conca d’Oro), ed è sempre riuscita ad inserirsi nei processi di trasformazione economica, sfruttandoli a proprio vantaggio.
Tornando a S. Cammareri Scurti ed alle sue idee, egli criticava aspramente l’identificazione, che veniva fatta nel Nord Italia, tra Sicilia e Palermo. Secondo molti settentrionali, infatti, la Sicilia era solo Palermo. Questa immagine deformante era nata dal ruolo nettamente predominante, quasi esclusivo, che questa città aveva avuto nelle rivoluzioni borghesi contro le dominazioni straniere. Il dirigente marsalese era invece dell’opinione che la vera Sicilia, “la Sicilia più propriamente siciliana” (G.C. Marino, 1972, p. 237), era quella delle desolate campagne latifondistiche. Proprio qui, inoltre, sarebbe nata la rivoluzione più importante e decisiva, vale a dire quella proletaria, che si sarebbe imposta anche a Palermo e negli altri centri siciliani, e che si sarebbe conclusa con l’emancipazione delle masse popolari da secoli di sfruttamento e miseria.
Il diniego della usuale funzione dirigente della città di Palermo assumeva, secondo lo storico Francesco Renda (1990a, pp. 343-344), un significato di forte protesta:
“(…) non si voleva che i siciliani onesti, che vivevano oppressi dalla mafia e che lottavano contro la mafia, fossero confusi con i promotori delle agitazioni cosiddette pro Sicilia, amici della mafia palizzoliana, che cercavano di ricattare, oltre che il governo, l’Italia intera con minacce più o meno apertamente separatistiche. Era, dunque, un modo di dissociare le responsabilità popolari, e quelle socialiste in specie, dalla riprovevole e riprovata condotta della vecchia classe dominante, saldamente arroccata a Palermo ed avente in Palermo il proprio simbolo e il proprio quartiere generale. Era anche un modo di sottolineare l’irriducibile contrasto fra il baronaggio avido e sfruttatore senza scrupoli, e il proletariato agricolo, che anelava al proprio riscatto e che affrontava pene e sacrifici per conseguirlo nella pienezza del termine”.
Per dare vita fattivamente alla lotta contro il latifondo, i dirigenti del socialismo rurale ricorsero alla promozione e organizzazione di circoli, unioni sindacali, leghe di resistenza e cooperative agricole.
A differenza del 1892-94, questa volta i socialisti non furono i soli ad organizzare le masse contadine contro il sistema di produzione che li opprimeva. Sullo stesso terreno, come abbiamo visto, avevano iniziato a muoversi anche i cattolici. A spingerli ad <<uscire dalle sacrestie>> era stata, del resto, principalmente la necessità di contrastare l’imponente seguito che i socialisti siciliani erano riusciti a conquistarsi – grazie soprattutto al movimento dei Fasci – tra le popolazioni rurali.
Avviata nel 1895, con la costituzione delle prime casse rurali di prestito, l’azione sociale dei cattolici siciliani cominciò ad acquistare consistenza soltanto all’inizio del nuovo secolo, in seguito cioè, ed in risposta, alla ripresa dell’attività di organizzazione socialista dei contadini.
Con la discesa in campo dei cattolici, il movimento contadino siciliano divenne, allo stesso tempo, più diffuso e corposo,e più moderato e debole. Più diffuso perché, quantunque socialisti e cattolici sembrassero procedere <<a braccetto>>,in alcune zone riuscivano ad affermarsi quasi esclusivamente le organizzazioni <<rosse>>, in altrequelle <<bianche>>.Piùcorposo in quanto la concorrenza spinse entrambi i fronti a formulare programmi concreti, attuabili ed il più possibile vicini alle reali aspirazioni delle classi rurali. Più moderato poiché le richieste avanzate,alla controparte padronale,dai democlericali calmierarono le rivendicazioni rivoluzionarie dei socialisti. Infine, più debole a causa della frammentazione che si venne a creare fra le forze contadine, le quali divennero, così, più vulnerabili di fronte al potere agrario-mafioso(svilupperemo questi concetti viavia nella trattazione).
Sebbene gli organizzatori cattolici e quelli socialisti si richiamassero alla stessa base sociale, vale a dire la massa dei contadini del latifondo, essi finirono per distinguersi quanto alle categorie specifiche di riferimento: contadini piccoli e piccolo-medi proprietari, per i primi; braccianti e contadini poveri, per i secondi.
Riguardo alle forme associative utilizzate dai cattolici, esse erano sostanzialmente uguali a quelle utilizzate dai socialisti (unioni professionali, leghe di resistenza, cooperative agricole di produzione e lavoro). Tuttavia, mentre questi ultimi primeggiavano in campo sindacale – camere del lavoro e leghe di miglioramento – i primi potevano contare su quella marcia in più rappresentata dalle casse rurali di prestito.
Il settore nel quale il confronto e la concorrenza, tra i due schieramenti contrapposti, erano più vivaci e accesi era quello delle cooperative di conduzione agraria, meglio conosciute come <<affittanze collettive>>.
4. IL MOVIMENTO COOPERATIVO DELLA AFFITTANZA COLLETTIVA
Ai fini del nostro discorso sulla valenza antimafiosa del movimento contadino siciliano, l’analisi delle <<affittanze collettive>> è molto importante, poiché con esse la contrapposizione dei contadini ai gabelloti mafiosi diventò ancora più forte e netta. Se, infatti, le lotte per la riforma dei patti agrari – obiettivo principale del movimento dei Fasci e degli scioperi agrari del 1901-03 -tendevano ad intaccare il potere economico del gabelloto, le affittanze collettive miravano ad eliminarlo.
Già nel 1893, durante il congresso di Corleone del 30 luglio, si era discusso dell’eliminazione della figura intermediaria del gabelloto agrario. Tuttavia, questa rivendicazione rimase al livello di punto programmatico del movimento dei Fasci, sia perché venne data la priorità alla modifica degli angarici contratti di affitto sia perché la repressione militare e mafiosa stroncò i progetti rivoluzionari dei contadini.
Ma cos’erano, dunque, le affittanze collettive? Esse erano delle speciali cooperative agricole di produzione e lavoro, aventi comefine l’affitto di vaste porzioni di latifondo direttamente dai proprietari, saltando, per l’appunto, l’intermediazione parassitaria e mafiosa dei gabelloti. Il capitale necessario per far fronte ai canoni da pagare ai latifondisti e per le spese di amministrazione veniva sottoscritto dai contadini soci delle cooperative, mediante azioni di piccolo taglio.
In Sicilia, le origini dell’affittanza collettiva risalivano a prima del 1876. Il Sonnino (come abbiamo visto nel primo capitolo), nella sua inchiesta sui contadini siciliani, risalente per l’appunto al 1876, registrava, infatti, la presenza di alcune associazioni:
“composte di un numero di contadini che riuniscono i loro mezzi e il loro credito per poter prendere in affitto diretto dal proprietario un latifondo, onde poi dividerlo tra i soci in tanti poderi distinti e divisi in proporzione dei mezzi di ognuno. Qui non si tratta tanto di vera associazione di produzione che conduca cooperativamente una vasta azienda rurale, quanto della sostituzione della responsabilità collettiva e solidale di un numero di famiglie coloniche a quella del gabelloto capitalista, e ciò all’intento di far godere i contadini di tutti i guadagni che ora vanno a quell’intermediario tra essi e il proprietario” (S. Sonnino,1974, p. 245).
Egli citava in particolare: un’associazione di circa trenta borgesi e pastori di San Fratello (in provincia di Messina), che già da molti anni teneva in affitto dei terreni di proprietà del duca di Terranova; e una “Società di massari” di Mistretta, che era stata costituita nel1875, sul modello di quella di San Fratello, e che aveva preso in affitto un intero feudo (S. Sonnino, 1974, pp. 245-246; anche in F.Renda, 1990a, pp.146-147).
I sodalizi individuati dallo studioso toscano erano, però, più che altro, delle società di fatto.
I primi tentativi di organizzare vere e proprie cooperative di conduzione si ebbero, in Sicilia, nell’ultimo decennio dell’Ottocento. La prima cooperativa di affittanza collettiva venne costituita nel 1893 a Corleone, da Bernardino Verro (presidente del locale Fascio). In seguito però allo scioglimento forzato dei Fasci dei lavoratori, ed al divieto della loro ricostituzione, le autorità negarono all’iniziativa il riconoscimento legale e ne sequestrarono tutte le carte. Queste furono restituite nel 1899. Cosicché soltanto nel 1900 il Verro – da poco rientrato dall’esilio negli Stati Uniti – poté avviare la prima affittanza agraria socialista dell’Isola.
Intanto anche i cattolici avevano iniziato a muoversi sul terreno delle affittanze collettive. Luigi Sturzo, già nel 1896,aveva pensato di fondare una cooperativa di conduzione agraria; ma difficoltà di varia natura avevano impedito la realizzazione del suo progetto. Così, solo nel 1900 il prete calatino – precedendo di qualche mese l’analoga iniziativa del Verro – riuscì a costituire la prima cooperativa cattolica di affittanza collettiva, che prese il nome di <<Piccola Industria S. Isidoro>>.
Organizzazioni di contadini simili a quelle di Corleone e Caltagirone cominciarono a sorgere nell’entroterra siciliano. All’inizio, tuttavia, il nuovo fenomeno stentò ad affermarsi, viste le innumerevoli difficoltà,di ordine economico, sociale e politico, che esso doveva superare:
“Si trattava di formare cooperative con un numero sufficiente di soci per intraprendere la coltivazione di un feudo, raccogliere i capitali necessari o procurarsene la disponibilità, trovare i proprietari terrieri disposti a concedere volontariamente le loro terre competendo con i gabellotti. Tutte cose che richiedevano tempo e gran lavoro di organizzazione e di propaganda ed anche il maturarsi delle condizioni morali e politiche indispensabili” (F. Renda, 1979, p. 81).
Le affittanze collettive sorgevano, infatti, spontaneamente, senza il supporto di alcun provvedimento legislativo. Tutto veniva fatto, quindi, “a rischio e pericolo della cooperativa e dei suoi soci” (F. Renda, 1979, p. 81). Nondimeno, il movimento a partire dal 1904 cominciò ad acquistare nell’Isola dimensioni imponenti: nel 1902 la cooperativa socialista di Monte San Giuliano (Erice) aveva 90 salme di terra, alla fine del 1904 essa ne aveva ben 2.072 salme; la cooperativa socialista di Paceco nel 1903 aveva in affitto 368 ettari di terra, nel 1904 ne aveva già 766 ettari; nel 1903 le cooperative cattoliche costituite erano 18, e le affittanze da esse contrattualmente stipulate erano 5 (nello stesso anno i socialisti contavano 51 cooperative agricole e 10 affittanze collettive realizzate), nel 1904 quest’ultimo numero saliva a 25 (F. Renda, 1990a, pp. 143-144).
Questo sviluppo fu favorito, probabilmente, dal clima politico più disteso, da una certa ripresa economica e dall’ondata emigratoria, la cui imponenza fece inizialmente temere ai latifondisti che nel giro di poco tempo non si sarebbe più trovata la manodopera sufficiente per la coltivazione delle loto terre.
Quello delle affittanze collettive, comunque, non era un fenomeno esclusivamente siciliano. A partire dal nuovo secolo, cooperative simili si erano diffuse in Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte. Tuttavia, le organizzazioni siciliane si distinguevano da quelle coeve del Nord Italia, tra l’altro, per il loro carattere di massa.
Nel 1906 i risultati di un’inchiesta sulle affittanze collettive in Italia (svolta dalla Federazione Italiana dei Consorzi agrari), rivelarono che la Sicilia, rispetto alle altre tre regioni interessate dal fenomeno, aveva una posizione di assoluto rilievo. In Italia si avevano, complessivamente, 118 affittanze collettive, con 44.884 ettari in concessione e 27.329 soci. In Sicilia vi erano 53 cooperative (delle quali circa 2/3 erano socialiste), 38.900 ettari di terra in concessione e 15.900 soci (F. Renda, 1990a,p. 144): il 45% delle cooperative, l’86,6% delle terre in concessione e il 58% del numero dei soci era dunque concentrato nell’Isola.
All’interno della stessa, inoltre, vi era una diseguale distribuzione di dette organizzazioni tra le varie province. Mirando, infatti, alla rilevazione di estesi territori e alla eliminazione della intermediazione parassitaria, era logico che esse si sviluppassero maggiormente in quelle zone ove la proprietà era più concentrata, e in cui i proprietari assenteisti ricorrevano, solitamente, al sistema della gabella per la coltivazione dei loro fondi:
“In testa era la provincia di Palermo, con 18 affittanze collettive, 14.000 ettari di terra affittati e 5.600 soci; seguivano la provincia di Trapani, con 13 affittanze, 9.500 ettarie 3.700 soci; la provincia di Girgenti, con 11 affittanze, 7.500 ettari 3.300 soci; la provincia di Caltanissetta, con 8 affittanze, 6.000 ettari e 2.400 soci; la provincia di Catania con 2 affittanze, 1.200 ettari e 700 soci; la provincia di Siracusa, con 1 affittanza, 700 ettari e 200 soci. Del tutto fuori dal movimento la provincia di Messina” (F. Renda , 1990a, pp. 144-145).
A differenziare l’affittanza collettiva siciliana da quella delle altre regioni non era, comunque, solo il suo carattere di massa. A differenziarla era anche, e soprattutto, la sua composizione professionale e la sua stessa ragione d’esistenza. Piuttosto che una cooperativa vera e propria, essa era, una forma precisa di organizzazione dei contadini del latifondo, volta alla risoluzione del fondamentale problema del possesso precario della terra.
Poco a che vedere, dunque con le affittanze collettive dell’Emilia Romagna – composte da braccianti agricoli ed aventi prevalentemente finalità produttivistiche – e con la <<Società deiProbiContadini>> di Treviglio – diretta a promuovere l’impresa contadina – costituita dal Portaluppi.
In Sicilia (così come, del resto nel Nord Italia) le affittanze collettive cattoliche e quelle socialiste sorsero e si svilupparono contemporaneamente. Alla loro base vi erano, però, concezioni politiche e fini ultimi opposti.
I socialisti concepivano le cooperative come un primo passo verso l’auspicata socializzazione della terra. Essi, quindi, sottolineavano la necessità di cominciare ad educare i contadini agli ideali ed alla pratica del collettivismo. L’affittanza collettiva, nata innanzitutto per eliminare l’intermediazione iugulatoria e mafiosa del gabelloto, non doveva tendere alla formazione della piccola proprietà coltivatrice – che, tra l’altro, avrebbe corso il pericolo di essere risucchiata “dalla macchina dell’accentramento latifondistico, manovrata da mafiosi ed usurai” (G.C. Marino, 1972, p. 116) – bensì alla costituzione di una grande azienda agricola “i cui soci fossero tutti salariati della società, ossia di se stessi, e ripartissero fra loro l’eventuale profitto dell’impresa comune” (F. Renda, 1990a, p. 155). I socialisti, dunque, erano per la conduzione unita delle terre prese in affitto dalle cooperative.
Anche secondo i cattolici obiettivo primario delle affittanze collettive doveva essere quello di modificare il sistema di produzione dell’agricoltura siciliana, basato sull’assenteismo dei proprietari e sull’oppressione angarica degli intermediari. Ma, al contrario dei socialisti, essi miravano alla promozione e formazione della piccola proprietà contadina, la quale veniva vista come rimedio contro l’oppressione del latifondo e come baluardo contro l’avanzata dell’aberrato socialismo. I cattolici erano per l’individualismo agrario, quindi, per la conduzione divisa delle cooperative (20).
Tra l’affittanza cattolica e quella socialista vi erano differenze anche sul piano istituzionale e compositivo. “L’asse organizzativo” (G.C. Marino, 1972, p.112) della prima era costituito dalla cassa rurale, la quale ne garantiva il finanziamento, permettendo ai cattolici di avere una posizione di vantaggio creditizio sui gabelloti e sulle cooperative socialiste. L’affittanza collettiva socialista era, invece, solitamente, una emanazione della lega contadina o del circolo socialista, dei quali veniva a costituire una sorta di logico completamento. I <<rossi>> non disponevano della stessa forza finanziaria dei <<bianchi>>,tuttavia potevano valersi della forza intimidatrice che aveva sui proprietari la minaccia di una massiccia azione sindacale (21).
Quanto alla composizione sociale delle cooperative, la propaganda e l’attività sociale dei cattolici incontravano forte consenso soprattutto tra i ceti medi, vista la volontà dei democlericali di porsi a difesa e sostegno dei piccoli produttori. Le loro affittanze collettive erano composte,in gran parte, da contadini proprietari di un piccolo appezzamento di terreno. I socialisti, al contrario, contavano gran seguito tra i ceti agricoli proletari e semiproletari. Le loro cooperative, di conseguenza, organizzavano, in prevalenza, braccianti, coloni, mezzadri e contadini poveri.
Ma se dall’analisi delle dottrine e delle strutture portanti delle cooperative bianche e di quelle rosse, passiamo ad analizzare la loro organizzazione tecnico-agraria – se cioè dalle ideologie passiamo alle pratiche attuative- scopriamo come le marcanti differenze sopraesposte tendessero a scomparire. A dispetto degli opposti fini politici professati, infatti, la quasi totalità delle affittanze collettive socialiste attuavano la stessa gestione di quelle cattoliche, vale a dire la conduzione divisa: la cooperativa prendeva in affitto la terra a nome collettivo, ma poi la quotizzava tra i singoli soci,
“ognuno dei quali paga(va) una quota d’affitto proporzionale alla quantità e qualità del terreno e in relazione al canone complessivo per il quale tutti i soci (erano) solidalmente responsabili. Ogni socio coltiva(va) per proprio conto il suo lotto, mentre la società mette(va) a disposizione dei quotisti sementi, concimi e macchine agricole, amministra(va) i depositi e dispensa(va) il credito ai soci, assicurandoli coattivamente contro i furti di bestiame, grandine, incendi” (G. Barone, 1977, p. 33).
A giustificare la contraddizione tra ideologia e prassi nella quale erano caduti i socialisti, vi era la composizione stessa delle classi rurali siciliane. Nella Sicilia del latifondo non esisteva, o era irrilevante, una vera e propria classe di salariati puri ( Cfr. R. Catanzaro, 1991, p.93), come quella esistente, per esempio, in Emilia Romagna, ove, per l’appunto, le cooperative socialiste attuavano la conduzione unita delle terre prese in affitto. Nell’entroterra isolano era invece prevalente una figura mista di contadino, che era allo stesso tempo bracciante, colono, coltivatore diretto, e che da nessuna di queste attività riusciva a ricavare il necessario per vivere dignitosamente. Aspirazione massima di ogni contadino era, quindi, quella di possedere un proprio appezzamento di terreno, che potesse liberarlo dal giogo del sistema di produzione latifondistico, dandogli la libertà economica e sociale.
I socialisti erano ben coscienti di questo. Scelsero, di conseguenza, di addivenire ad una sorta di compromesso(così come avevano fatto al tempo dei Fasci distinguendo tra obiettivi immediati e di lungo termine): l’obiettivo ultimo della loro azione rimaneva la gestione collettiva; nell’immediato, e temporaneamente, si sarebbe attuata invece la gestione divisa, la quale, però, doveva essere “sempre subordinata al conseguimento del fine generale e sempre revocabile a seconda dello sviluppo della coscienza sociale dei contadini interessati” (F. Renda, 1990a, p. 162).
Questo passo indietro fatto dai socialisti siciliani, non fece che aumentare il distacco e l’incomprensione che li dividevano dai socialisti del Nord. Il socialismo rurale, con le sue scelte, finiva per non rientrare né nella corrente riformista né in quella massimalista. Ancora una volta, quindi, i capi socialisti del movimento contadino siciliano furono abbandonati a se stessi, dando, involontariamente, grande agio (come vedremo) alla repressione agrario-mafiosa.
Fra i socialisti e i cattolici siciliani, comunque, nonostante l’uniformità di fatto delle loro organizzazioni, lo scontro e la competizione furono serrati.
I cattolici tennero,nei confronti dei proprietari terrieri,un atteggiamento più remissivo rispetto ai socialisti. L’unico modo per affittare un feudo era quello dell’accordo diretto fra le parti, non essendovi, come ripeto, alcuna legge che prevedesse l’affittanza collettiva. I <<bianchi>>, pertanto, nelle loro contrattazioni, scelsero la via <<morbida>>.Essi”credettero di poter meglio conseguire il loro scopo, facendo appello ai sentimenti dei proprietari” (F.Renda, 1990a, p. 165). Tuttavia, questi ultimi si <<intenerirono>> soltanto davantialle allettanti offerte che i cattolici, grazie al sostegno delle casse rurali di prestito, erano in grado di fare.
Tra le accuse mosse ai cattolici dai socialisti vi era proprio quella di indebolire la carica rivoluzionaria del movimento – assumendo il ruolo di “controspinta moderata” (G.C. Marino, 1972, p. 125) alla minaccia rossa – e di frantumare le forze contadine in nuclei contrapposti, favorendo così la controparte agraria e mafiosa, al contrario ben compatta!
I proprietari terrieri, nelle zone dove forte era il movimento socialista (come, ad esempio, nel corleonese e nel trapanese), vedevano nella cooperazione bianca un male minore e finivano, quindi, per apprezzarla e sostenerla “valutandone la capacità contingente di fungere da calmiere delle sempre più avanzate richieste socialiste (…) e la prospettiva finale di imbrigliare le possibilità di affermazione e di sviluppo della lotta di classe nelle campagne” (G.C. Marino, 1972, p. 126) (22).
In qualche caso, addirittura, si arrivò alla connivenza tra cooperazione cattolica e mafia locale! Stando a quanto riferisce Dino Paternostro (1994, p. 42), la Cassa rurale, d’ispirazione cattolica, <<San Leoluca>>, di Corleone, “aveva legami con la mafia”, al punto che “collocava i fratuzzi (mafiosi appartenenti ad una cosca corleonese, N.d.a.) come campieri nelle affittanze ed accordava loro ogni sorta di vantaggi non esclusi quelli derivanti dal credito agrario e commercio” (23).
I cattolici, dal canto loro, accusavano i socialisti:di servirsi dell’arma della lotta di classe per premere sui proprietari terrieri; “di esercitare un terrorismo su contadini e proprietari, e di valersi di mezzi delittuosi (incendi, danneggiamenti, fucilate) per intimidire gli uni e gli altri, e via dicendo” (24).
Comunque, fosse bianca o rossa, l’affittanza collettiva siciliana incontrava, in generale, una forte opposizione da parte dei latifondisti.
Questi ultimi, dopo le prime resistenze, si rendevano conto che affittare le loro terre direttamente alle cooperative era più conveniente che darle in gabella. Le affittanze collettive, infatti, per battere la concorrenza dei gabelloti e delle altre cooperative, offrivano spesso canoni di affitto più elevati di quelli solitamente corrisposti dagli intermediari. Inoltre, “Il rapporto con la cooperativa era schietto e pulito; quello col gabelloto quasi sempre torbido e aleatorio” (F. Renda, 1990a, p. 167).
Nondimeno, i proprietari terrieri non erano soddisfatti e contrastavano – andando contro i propri stessi interessi economici – lo sviluppo del movimento delle affittanze collettive. Perché? Semplice! Questo movimento, rafforzando nei contadini la coscienza della loro forza e dei loro diritti, rappresentava un affronto ed un serio pericolo per quel sistema di potere politico, economico e sociale che era il blocco agrario-mafioso:
“L’affittanza collettiva, nel concreto rapporto di classe esistente nelle campagne siciliane, aveva valore e significato grandissimi nella formazione di una coscienza sociale nuova delle popolazioni agricole. Era la prima volta che i contadini accedevano alla terra dei signori in base a patti liberamente stabiliti; la prima volta che vi si insediavano e che vi esercitavano i loro diritti, a cominciare dalla libertà di associazione e di opinione” (F. Renda, 1990a, pp. 167-168).
Che i proprietari <<temessero>> le nuove organizzazioni contadine, risultò chiaro anche al Lorenzoni il quale nel 1910 espose molto chiaramente le ragioni della resistenza padronale:
“I proprietari dovrebbero essere in massima favorevoli alle nuove cooperative, potendone ricevere un affitto maggiore e venendo le loro terre meglio coltivate. Le cooperative, infatti, per vincere la concorrenza degli antichi affittuari, debbono offrire un fitto più elevato (…) Senonché il proprietario, pur non nascondendosi questi vantaggi, e lodandosi anzi generalmente delle cooperative e della loro puntualità al pagamento, si trova talvolta dominato da preoccupazioni di altro genere, particolarmente vive nei paesi ove le nuove cooperative sono più forti e aderenti all’ispirazione socialista.
Egli rimane anzitutto sgomento di questa compatta massa di contadini che or non s’inchinano più umilmente a lui, né al gabelloto, per chieder le terre, ma si fanno innanzi con tutto l’apparato di potenti organizzazioni, le quali intendono di trattare coi proprietari latifondisti da pari a pari. E si sente un poco ferito nel suo amor proprio; ed anche e soprattutto si chiede se sarà possibile checodeste nuove potenze si mantengano entro limiti ragionevoli, se non vorranno, una volta insediatesi nelle sue proprietà, non abbandonarle più, ed imporgli condizioni onerose, ch’egli si troverà costretto ad accettare non sapendo come sostituire tanta gente, in maggioranza o nella sua totalità, organizzata e disciplinata.
E perciò pensa che è meglio riparare al male finché è giovane” (25).
Ma ad essere ancora più preoccupati dei latifondisti, per l’avanzata dell’affittanza collettiva, erano i gabelloti. Costoro erano, in effetti, i bersagli principali e diretti del movimento cooperativo, mirando quest’ultimo alla loro eliminazione. Anche i gruppi mafiosi, quindi, minacciati in quella che era una delle loro attività rurali più redditizie e strategiche – cioè, per l’appunto, l’intermediazione tra proprietari e contadini – pensarono fosse meglio riparare al male finché esso era giovane! (Sulla reazione mafiosa alle affittanze collettive torneremo più avanti).
5. LALOTTAECONOMICAE SOCIALE NELLE CAMPAGNE SICILIANE D’INIZIO SECOLO: LE ORGANIZZAZIONI SINDACALI E GLI SCIOPERI AGRICOLI
a) Le organizzazioni sindacali
Il movimento contadino d’inizio Novecento non si espresse soltanto con le affittanze collettive. A fianco di quest’ultime sorsero delle organizzazioni di natura sindacale: leghe di miglioramento, unioni professionali, camere del lavoro.
Anche in questo campo si assistette al confronto tra cattolici e socialisti, ma a primeggiare furono sicuramente i secondi.
I cattolici dovettero innanzitutto superare delle remore di ordine ideologico. Secondo gli orientamenti approvati dall’Opera dei Congressi, essi dovevano attuare una sorta di sindacalismo corporativo: nelle organizzazioni cattoliche dovevano essere rappresentati sia i lavoratori che i datori di lavoro. In Sicilia, però, questo tipo di sindacati interclassisti non incontrò il favore delle masse lavoratrici. Queste preferivano di gran lunga le camere del lavoro e le leghe socialiste.
A far uscire dall’impasse i cattolici siciliani contribuì, ancora una volta, Luigi Sturzo. Egli evidenziò la necessità che anche le leghe cattoliche diventassero delle vere e proprie organizzazioni di classe dei lavoratori. Alla base della sua proposta vi era l’urgenza di contrastare la fervida attività sindacale dei socialisti. Ma non solo questo. Luigi Sturzo riteneva vi fosse una ragione ben più importante e sostanziale per avviare un sindacato cattolico autonomo dei lavoratori:
“(…)nelle condizioni proprie della società capitalistica, il proletariato moderno non solo era la classe sociale che più aveva bisogno di liberare se stessa dalla miseria e dall’oppressione, ma era anche la classe, la cui funzione storica coincideva col progresso generale della società moderna. La decisione di andare verso i lavoratori, riunirli, organizzarli, avvicinarli alla Chiesa, non era solo una necessità politica, ma anche una scelta di più generale incidenza: dare, cioè alla funzione storica di progresso e di ricostruzione sociale del proletariato un indirizzo conforme ai principi della sociologia cristiana” (F. Renda, 1990a, p. 174).
Proseguendo in questo ragionamento lo Sturzo sostenne anche la liceità del ricorso allo sciopero, il quale, dalla dottrina cattolica allora prevalente, veniva considerato “un atto di superbia”, quindi, un “peccato mortale imperdonabile” (F. Renda, 1990b, p. 264).
Il prete calatino, con il suo pensiero e con la sua concreta azione organizzativa, contribuì a svecchiare il movimento sociale cattolico italiano.
Le proposte di Sturzo vennero accolte con particolare entusiasmo dai giovani preti che avevano già iniziato ad impegnarsi nel movimento della democrazia cristiana. Così, accanto alle leghe sindacali socialiste cominciarono a sorgere le leghe cattoliche. Queste si ponevano a difesa dei diritti e degli interessi dei coloni, dei borgesi e dei giornalieri agricoli; gli scopi che perseguivano – oltre a quelli di ordine religioso, mutualistico, cooperativo – erano: la modifica dei patti agrari, l’aumento dei salari, la regolamentazione dell’orario di lavoro e del vitto.
I cattolici diedero vita anche ad un organo regionale, l’Unione Cattolica del Lavoro in Sicilia, la cui funzione era quella di dirigere, coordinare e promuovere le organizzazioni <<bianche>>.
Tuttavia, nonostante l’impegno profuso dai cattolici, il campo sindacale rimaneva in gran parte dominato dai socialisti. Questi, però, sebbene potessero contare su di una più lunga esperienza e sul sostegno delle masse
lavoratrici – che li vedevano come loro naturali rappresentanti – risultarono essere più deboli dei cattolici dal punto di vista delle strutture organizzative. Ad essi mancò, infatti, un centro regionale di direzione e coordinamento simile a quello che si erano dati i cattolici. Il loro movimento fu quindi caratterizzato da uno sviluppo ad isole, all’interno delle quali vi erano centri di direzione e dirigenti ben qualificati.
Come al tempo dei Fasci, fu attorno a Corleone “riconosciuta come la capitale politica e morale del movimento contadino siciliano” (F. Renda, 1990a, p. 194), che si svilupparono le lotte, i sodalizi e le iniziative socialiste più importanti.
Nella zona ruotante attorno al paese di Bernardino Verro (comprendente l’intero entroterra latifondistico della provincia di Palermo e parte di quello delle province di Agrigento, Caltanissetta e Trapani) furono impegnati i capi socialisti più autorevoli e amati dalle masse: Nicola Barbato a Piana dei Greci; Lorenzo Panepinto a Santo Stefano Quisquina; Nicola Alongi a Prizzi.
Altra zona <<rossa>> molto attiva e vivace fu quella della provincia trapanese, che vide come suoi massimi dirigenti Giacomo Montalto e Sebastiano Cammareri Scurti, e dove dilagò (come vedremo più avanti) un’imponente agitazione agraria.
Alla base della frammentazione del movimento socialista siciliano, del suo svilupparsi a livello municipalistico, e quindi della mancanza di una reale organizzazione unitaria regionale, vi erano, secondo il Verro, due fattori: la paura, diffusa tra i vari dirigenti, di accollarsi la responsabilità delle azioni compiute dagli altri, e di potere essere così implicati in processi simili a quelli del 1894; l’incomprensione ed il forte distacco esistenti tra il socialismo rurale ed il socialismo urbano.
La lega di miglioramento, per i socialisti, era l’organismo politico e sindacale più importante. La stessa cooperativa di produzione e lavoro, come sappiamo, veniva considerata come una sua naturale filiazione, tanto che spesso era difficile distinguere le due organizzazioni di classe, soprattutto in riguardo alla loro base sociale ed ai loro scopi. Entrambe, infatti, erano costituite da braccianti, mezzadri, terraticanti, coloni, contadini poveri e <<figure miste>>. Anche le loro finalità erano uguali: ottenere miglioramenti dei salari, degli orari di lavoro e dei patti agrari; prendere in affitto le terre eliminando l’intermediazione oppressiva dei gabelloti.
Per quanto i cattolici ed i socialisti avessero le loro rocccaforti in zone differenti dell’Isola – i primi nel circondario di Caltagirone e nell’agrigentino; i secondi nel corleonese e nel trapanese – i loro movimenti erano attivi sostanzialmente negli stessi posti. Questo si spiega con la dichiarata volontà dei cattolici di porsi come forza contrapposta a quella socialista e come sua valida alternativa.
La natura antisocialista dell’attività dei cattolici, li spingeva ad impegnarsi maggiormente, e quindi ad essere presenti, nelle località ove si era sviluppato il movimento socialista, trascurando ed abbandonando a sé stessi altri luoghi,nei quali la loro azione avrebbe potuto essere più necessaria ed efficace. Cosicché, “lo sviluppo ad isole” (F. Renda, 1990a p. 291), finì per caratterizzare anche il movimento cattolico. Quest’ultimo, inoltre, adoperò gli stessi strumenti della lotta sindacale socialista, compreso lo sciopero agricolo, al quale le masse rurali ricorsero per perseguire la riforma dei patti colonici, la diminuizione dei fitti e l’aumento dei salari.
b) Gli scioperi agricoli
Nell’autunno del 1901 i contadini siciliani – sull’esempio deinumerosi scioperi agrari che stavano interessando tutta l’Italia – avviarono un’ondata di agitazioni agrarie, consci di riprendere, in qualche modo, “la marcia bruscamente interrotta nel ’94 dalla repressione dei Fasci” (G.C. Marino, 1979, p. 29).
Secondo le rilevazioni governative (non si sa quanto attendibili), dall’agosto al novembre del 1901 nell’Isola vi furono 21 scioperi (circa il 3% del totale nazionale), ai quali parteciparono in totale circa 19.425 contadini (il 9% del totale nazionale). Per ogni singola manifestazione vi fu una presenza media di 800 partecipanti, cifra nettamente superiore alla media nazionale, che era di 350.
Ma le agitazioni siciliane oltre che più massicce si rivelarono – come era prevedibile – anche più dure e dall’esito incerto. Mentre, infatti, a livello nazionale gli scioperi che non produssero alcun risultato positivo furono soltanto l’11%, in Sicilia furono il 33% (F.Renda, 1990a, pp. 203-204).
Nell’Isola, i primi a scendere in sciopero furono, il 28 agosto 1901, 3000 contadini di diversi comuni della provincia di Caltanissetta. Il 31 agosto fu la volta dei contadini di Marsala e della provincia di Trapani. Dietro queste agitazioni, apparentemente spontanee, vi era in realtà un lungo lavoro di propaganda, nel quale erano state impegnate le locali organizzazioni socialiste. Il 4 settembre si svolse a Corleone una allegra adunata di lavoratori, alla quale parteciparono i più importanti dirigenti contadini socialisti della Sicilia occidentale, per festeggiare la concessione in enfiteusi di un feudo – dopo lunghi anni di dura lotta – ad una cooperativa corleonese.
Via via, sempre più numerosi furono i centri rurali interessati da scioperi. Il movimento di protesta, però entrò nel vivo solamente dopo il 29 settembre. In questa data, infatti, si tenne, sempre a Corleone, un’assemblea alla quale parteciparono 500 contadini. Al pari del congresso che si era ivi tenuto il 30 luglio 1893, scopo di tale riunione era quello di fissare le modifiche dei patti colonici da sottoporre ai proprietari terrieri per la nuova annata agricola. Approvate all’unanimità le proposte avanzate da Bernardino Verro, si decise che in caso di atteggiamento di chiususa da parte dei latifondisti – del resto più che probabile – si sarebbe avviato lo sciopero. Questo ebbe inizio, puntualmente, in tutto il circondario, nei primi giorni di ottobre. Ancora una volta, quindi, Corleone rappresentò il centro propulsore del movimento contadino siciliano.
Zone <<rosse>> particolarmente calde, in quell’autunno di lotte contadine, furono, oltre al corleonese, alcuni paesi della provincia di Caltanissetta (Mussomeli, Villalba, Resuttano), e la parte settentrionale della provincia di Trapani.
Qui, oltre allo sciopero dei mezzadri e dei coloni per il miglioramento dei patti agrari e dei canoni d’affitto, si assistette ad una massiccia agitazione di braccianti, intenzionati ad ottenere il rialzo delle loro misere mercedi. Lo sciopero degli <<jurnatara>> del trapanese (che portò, effettivamente, ad un leggero rialzo dei salari) fu un fatto un pò insolito per le lotte agrarie di quel periodo. Le masse bracciantili, infatti, non ebbero, generalmente, una parte preminente all’interno del movimento contadino siciliano d’inizio secolo. La loro partecipazione fu secondaria in confronto a quella dei mezzadri e dei contadini poveri; ciò può trovare spiegazioni diverse.
Secondo Massimo Ganci (1986, p. 62), la ragione è da ricercarsi, sostanzialmente, nelle relative <<migliori>> condizioni di vita dei braccianti rispetto ai metatieri, che costituivano i veri protagonisti di quelle lotte agrarie:
“La situazione del metatiere, sottoposto a patti angarici dal <<gabelloto>> privo di sufficiente capitale, era, addirittura, peggiore di quella dei braccianti che, quando la stagione era clemente, potevano vendere con relativa sicurezza la propria forza lavoro e riuscivano a sfamare sé stessi e le loro famiglie con il miserabile salario che, comunque, percepivano. Ecco perché la pattuglia d’assalto delle lotte agrarie siciliane era costituita dai <<metatieri>>, mentre i braccianti si rivelavano piuttosto assenteisti”.
Ma questa spiegazione, a dire il vero, non ci sembra molto convincente, poiché a nostro parere, a trovarsi nelle condizioni più disagiate erano, al contrario, i braccianti. Nelle zone cerealicole, infatti, il loro lavoro veniva richiesto solo per determinati periodi dell’anno. L’aspirazione dei giornalieri, quindi, come notò il Sonnino nellasua inchiesta, era proprio quella di diventare metatieri (S. Sonnino, 1974, p. 57).
A parere di Giuseppe Carlo Marino (1979, pp. 41-42), “Il fatto che la massa bracciantile non esercitasse il peso maggiore nelle agitazioni”, non dipendeva “dalla scarsa combattività o dalla minore partecipazione dei braccianti” bensì dalla natura essenzialmente “rivendicativa-riformista” che tali agitazioni vennero ad assumere, che mal si conciliava con il carattere rivoluzionario che tendevano ad avere le battaglie portate avanti dal proletariato agricolo. Secondo lo storico siciliano, dunque, i braccianti furono emarginati dalle lotte poiché ritenuti <<scomodi>>, cioè in grado di disturbare e mettere in crisi la linea moderata – mirante, piuttosto che alla liquidazione del latifondo, alla trasformazione dei rapporti di lavoro e di produzione e al miglioramento delle condizioni economiche dei contadini – che il movimento socialista siciliano aveva deciso di seguire nell’immediato.
“Il rinvio della riforma agraria al sole dell’avvenire (lo Stato rosso che avrebbe nazionalizzato e spartito equamente il latifondo)” (G.C. Marino, 1979, p. 47), consentiva anche di poter contare, per il momento, sulla non ostilità del Governo giolittiano. Questo era deciso a presentarsi come al di sopra delle parti. Voleva, quindi, andare incontro alle reali esigenze dei contadini, senza però intaccare più di tanto la rendita ed il potere dei grandi latifondisti, sul cui appoggio doveva contare. Il Giolitti (come ministro dell’Interno prima e come presidente del Consiglio poi), dunque, concesse al movimento contadino siciliano – sia socialista che democristiano – lo spazio sociale strettamente necessario per allentare la tensione sociale nelle campagne, in modo tale da evitare che questa degenerasse in vera e propria rivoluzione sociale ed economica. Ma questa <<non ostilità>> del Governo (che, come vedremo, verrà contraddetta da diverse sanguinose eccezioni) aveva come condizione, per l’appunto, il controllo delle intemperanze dei braccianti:
“Non si esagera se si rileva che le stesse possibilità offerte alle nascenti organizzazioni contadine, di fare avanzare la loro azione sulla strada di parziali e precari successi, erano considerevolmente legate alle condizioni che assicuravano al sistema complessivo un pesante controllo delle rivendicazioni bracciantili e delle loro temute proiezioni <<rivoluzionarie>>” (G.C. Marino, 1979, p. 42).
L’atteggiamento di distacco assunto sovente dal movimento contadino siciliano nei confronti dei giornalieri, e l’isolamento nel quale furono lasciati questi ultimi, comunque, non fece venir meno la carica innovativa e antimafiosa delle lotte agrarie portate avanti in quel periodo:
“Che un siffatto movimento, tendente ad una ammodernante ristrutturazione dei rapporti di produzione, costituisse una minaccia gravissima per la sopravvivenza delle vecchie forze parassitarie del latifondo e che questa minaccia provocasse, come infatti provocava spesso, violente resistenze conservatrici contro le quali i <<contadini>> medi e poveri impegnavano potenziali di lotta dura, e non di rado eroica, erano certo fatti di enorme portata progressista. Ma è anche vero che, mentre i contadini delle affittanze e delle battaglie per i contratti si scontravano per lo più con i potentati mafiosi nei quali prendeva corpo l’autodifesa ora subdola e strisciante, ora violenta e sanguinaria (…) dei grandi gabelloti-speculatori; gli jurnatara erano spesso soli ad affrontare feroci assalti repressivi della forza pubblica che adottava la tattica di <<tranciarli>> dal movimento, prendendoli di mira come barbari perturbatori della logica pacifica degli scioperi” (G.C. Marino, 1979, p. 43).
Fu proprio in provincia di Trapani, e più precisamente a Paceco, che si verificò uno degli episodi che rese esplicita la forte avversione delle autorità nei confronti dei <<rivoluzionari>>braccianti. Mentre, infatti, in altre località i rappresentanti dello Stato tennero nei confronti
degli scioperi dei metatieri un atteggiamento, se non benevolo, quanto meno di accondiscendenza -cercando, a volte, di mediare fra le parti – a Paceco il quadro fu sicuramente diverso. Qui gli jurnatara, nell’autunno del 1901, si astennero dal lavoro reclamando l’aumento dei loro salari. Circa un centinaio di scioperanti si sparse per la campagne invitando tutti i contadini ad unirsi alla loro protesta. Ma il loro tentativo di riscatto fu stroncato dai carabinieri, i quali repressero l’agitazione effettuando una trentina di arresti. Epilogo ancora più tragico (come vedremo più avanti) ebbe lo sciopero dei salariati di Giarratana (in provincia di Siracusa), del 13 ottobre1902;
qui l’intervento delle forze dell’ordine causò 3 morti e 69 feriti.
Giuseppe Carlo Marino, basandosi sui dati del “Censimento della popolazione del Regno d’Italia al 10 febbraio 1901”, scrive che in Sicilia “i braccianti rappresentavano da soli oltre il 50% della forza lavoro contadina” (1979, p. 25). Tenendo conto di questa stima viene da porsi la seguente domanda: visto che i salariati erano così tanti, come poteva il movimento contadino siciliano d’inizio secolo “tagia(rli) fuori dai processi di evoluzione positiva” (G.C. Marino, 1979, p. 40)?
La risposta a questa domanda può, a nostro avviso, essere ricercata nella seguente affermazione di Raimondo Catanzaro (in palese contrasto con quanto scritto a proposito da G. C. Marino): “nel latifondo della Sicilia centro-occidentale” – teatro principale delle agitazioni contadine – a causa della precarietà del lavoro salariato, “non esisteva (…), o era esigua, (…) una classe di salariati puri o di meri braccianti” (R. Catanzaro, 1991, p. 93).
La contraddizione tra le succitate asserzioni dei due studiosi siciliani, concernenti la consistenza del proletariato agricolo dell’Isola, potrebbe essere spiegata come segue: numerosi contadini venivano censiti come braccianti ma, in realtà, erano allo stesso tempo piccolissimi proprietari, mezzadri o coloni. Oltre che locare le proprie braccia, infatti, essi, per integrare il saltuario e povero salario, prendevano in affitto piccoli fondi e/o coltivavano un proprio fazzoletto di terra. E’ probabile, quindi, che, nei fatti, molti contadini censiti come <<braccianti>> si battessero a fianco dei metatieri per il miglioramento dei patti agrari e per l’eliminazione del gabelloto, partecipando così attivamente ai “processi di evoluzione positiva”.
Gli scioperi dell’autunno 1901 si protrassero fino alla fine di novembre (26). In molte località (27), le agitazioni si conclusero in seguito alle concessioni fatte dai proprietari terrieri. In alcune agitazioni particolarmente infuocate (Vita, Monte San Giuliano, Paceco, Marsala) la forza pubblica intervenne, arrestando numerosi contadini e, in qualche caso (Vita) trascinandoli in giudizio con l’accusa di associazione per delinquere.
A Corleone lo sciopero – in atto dalla fine di settembre – si concluse intorno al 15 novembre. Anche qui, alla fine, molti proprietari, per evitare danni ulteriori, preferirono cedere alle richieste dei contadini. All’inizio di novembre, però, si era ivi assistito ad un intervento delle autorità governative quanto meno discutibile.
Per sostenere lo sciopero dei salariati agricoli – al cui aiuto erano ricorsi i coloni in agitazione, per rafforzare il proprio fronte – si era organizzata, fra le famiglie contadine, una raccolta di offerte di frumento (28). Il 1 novembre, 4 contadini socialisti, mentre stavano effettuando il giro del paese per ritirare le oblazioni, furono arrestati ed il grano da loro raccolto fu sequestrato. Alla base di tale intervento della pubblica sicurezza vi era l’accusa rivolta al Verro ed ai socialisti corleonesi di contravvenire al divieto di ricostituzione dei Fasci dei lavoratori (divieto risalente al 1894), avendo essi fondato una società cooperativa di consumo nei cui locali si inneggiava al socialismo. Proprio su questa accusa fu intentato un processo a carico dei socialisti corleonesi. Bernardino Verro, inoltre, nel dicembre del 1901, fu condannato a due anni di reclusione, per diffamazione nei confronti di un delegato di P.S. Il dirigente corleonese, per sfuggire al carcere, scelse, ancora una volta la via dell’esilio, recandosi prima a Tunisi e poi in Francia (29).
I fatti di Corleone contribuirono a rilevare l’ambiguità della politica giolittiana in Sicilia. Il ministro dell’interno, infatti, che si presentava come tutore della libertà di associazione, non impedì che dei rappresentanti dello Stato, per indebolire il movimento contadino, richiamassero in vigore alcuni decreti dello stato d’assedio crispino. I socialisti dell'<<Avanti!>> lo accusarono, perciò, di seguire in Sicilia “una politica da corridoio”, fatta di compromessi con le forze conservatrici e reazionarie e mirante ad evitare “ogni occasione di rudi battaglie per buttarsi alla ricerca delle <<molli piume>> di una larga maggioranza” (30).
Ancora una volta, l’attività sindacale dei socialisti spronò all’azione i cattolici. Riconosciuta – anche se con molta cautela – la legittimità del ricorso allo sciopero, questi ultimi decisero di farsi avanti “con lo scopo confessato di rompere il monopolio socialista nelle campagne” (F. Renda, 1990a, p. 279).
Il primo sciopero cattolico fu proclamato, guarda caso, nel corleonese, vale a dire dove la necessità di contrastare la presenza socialista era più forte. Ad organizzarlo fu l’Unione cattolica di Palazzo Adriano; a dirigerlo furono l’arciprete di rito greco-albanese Alessi ed il sacerdote Giuseppe Lo Cascio. Lo sciopero ebbe inizio nell’ottobre 1901, in seguito al fermo rifiuto opposto dai latifondisti e dai gabelloti alle richieste di miglioramento dei patti colonici (simili a quelle formulate dai socialisti), avanzate dalla lega cattolica. Anche le modalità con le quali fu portata avanti l’agitazione furono analoghe a quelle seguite dai socialisti; per esempio, alle porte del paese, i contadini scioperanti organizzarono il picchettaggio. L’ostinazione e l’audacia con le quali i bianchi agirono fu tale che il prefetto di Palermo li definì ancora più temerari dei socialisti, e la polizia ritenne opportuno intervenire, procedendo all’arresto di 26 contadini cattolici.
Scioperi socialisti e cattolici si ebbero anche nelle annate agrarie 1902-03 e 1903-04.
Mentre il movimento socialista conseguì i suoi maggiori successi nella Sicilia occidentale, dove agivano i capi contadini più valorosi, il movimento cattolico si dimostrò particolarmente forte nella Sicilia orientale, e precisamente nel circondario di Caltagirone, patria del suo teorico ed organizzatore più importante, Luigi Sturzo.
Fu proprio il prete calatino ad organizzare la più imponente agitazione agraria cattolica.
Nel settembre del 1903 – nel periodo del raccolto – egli promosse uno sciopero, per il miglioramento dei patti agrari, tra i mezzadri del circondario di Caltagirone. Lo sciopero si diffuse ben presto nella Piana di Catania e nella provincia di Caltanissetta. Esso fu diretto esclusivamente dai dirigenti del movimento della Democrazia Cristiana, e vi parteciparono, nel complesso, circa 50.000 contadini. Viste la costanza, la generale sobrietà, e soprattutto la imponenza dell’agitazione, il padronato agrario fu costretto a cedere. Così, la notte del 10 ottobre, alla presenza del viceprefetto di Catania, fu sottoscritto il nuovo patto colonico. Il lavoro propagandistico e organizzativo di Luigi Sturzo fu, dunque, premiato.
Per la seconda volta (la prima era stata in occasione dei Fasci) decine di migliaia di contadini siciliani dimostrarono che quando la lotta è organizzata, massiccia e tenace, la controparte non può che cedere! Nonostante, gli arresti di centinaia di scioperanti, il processo intentato a carico dei socialisti corleonesi, le resistenze degli agrari, almeno due terzi degli scioperi agrari che si susseguirono in Sicilia dal 1901 al 1903 si conclusero positivamente (F. Renda, 1990a, p. 330).
Quanto alla consistenza del movimento contadino siciliano di quegli anni, bisogna dire che, in confronto ai Fasci dei lavoratori, essa fu minore. Mentre nel 1893-94 erano state costituite circa 190 sodalizi, con un totale di 70.553 iscritti (ai quali bisognerebbe aggiungere coloro che presero parte alle lotte contadine senza essere iscritti ai Fasci), nel 1906, secondo le cifre ufficiali, vi erano 142 leghe di miglioramento costituite e 43.736 contadini iscritti (tra i quali 182 donne) (31). Tuttavia, a queste cifre andrebbero aggiunte quelle concernenti la cooperazione agricola di produzione e lavoro: nel 1906 – come abbiamo già visto – si contavano nell’Isola, 53 cooperative di affittanza collettiva, con un totale di 15.900 soci.
Al di là, comunque, della loro reale consistenza, le lotte contadine dei primi anni del Novecento erano molto importanti. Esse non rappresentavano: “una situazione di entusiasmo passeggero” (F. Renda, 1990a, p. 202) bensì:
“un movimento che si era costruito e si andava estendendo giorno dopo giorno, in un arco di anni abbastanza lungo e attorno ad una tematica rivendicativa spesso sfociata in lotte aspre e a volte sanguinose. In effetti, era questo rapporto organizzazione-lotta ciò che caratterizzava la ripresa contadina all’inizio del nuovo secolo. Anzi, in certo senso, era l’avvio stesso di un rapporto così fatto che poteva essere considerato come il dato più cospicuo della nuova situazione sociale che in Sicilia era andata maturando” (F. Renda, 1990a, p. 202).
Fin qui abbiamo analizzato la fervida attività sociale e sindacale dei socialisti e dei cattolici nelle campagne siciliane d’inizio secolo, concretizzatasi, essenzialmente, nella costituzione di cooperative di affittanza collettiva e nella organizzazione di agitazioni agrarie. Questo movimento, come sappiamo, era volto a rinnovare gli oppressivi,e parassitari, rapporti di produzione e lavoro presenti nel latifondo e, di conseguenza, ad intaccare il blocco agrario. Non sorprende, quindi, il progressivo scatenarsi della reazione da parte delle forze agrario-mafiose, minacciate nel proprio potere. Queste sarebbero via via riuscite a <<smorzare>>, le spinte innovative provenienti dalle masse contadine, spingendosi, in alcuni casi, fino al sanguinoso <<annientamento>> dei dirigenti del movimento.
Nel suo tentativo, purtroppo riuscito, di restaurazione, il blocco agrario fu aiutato, spesso, dalla parzialità,di fatto,delle forze di polizia e dalla vaghezza delle indicazioni tattiche dettate dal Governo giolittiano alle autorità dell’Isola. Secondo tali indicazioni, queste dovevano essere al di sopra delle parti (svolgendo opera di mediazione; spingendo i proprietari a fare parziali concessioni ai contadini, a fine di calmarne gli animi) e, allo stesso tempo, non avrebbero dovuto subire gli avvenimenti, ma neanche “reprimerli fintantoché non avessero superato la soglia di <<eversione>>” (G.C. Marino, 1979, p. 33), soglia che, diverse volte, dalle autorità locali, fu considerata superata.
La neutralità alla quale, ufficialmente, si ispirava la politica giolittiana, alla lunga si sarebbe tradotta in un favoreggiamento delle forze in campo più potenti, che di sicuro non erano quelle contadine (G.C. Marino, 1979, p.76).
6. GIARRATANA, CASTELLUZZO, GRAMMICHELE: ANCORA TRE ECCIDI DI CONTADINI SICILIANI
Nell’età giolittiana non si assisté alle <<intemperanze>> che avevano caratterizzato la politica di Francesco Crispi nei confronti dei Fasci siciliani dei lavoratori (continuo ricorso alla forza pubblica per sedare le agitazioni contadine; stato d’assedio; tribunali militari). Nondimeno, non mancarono “gli eccidi proletari” (J. Calapso, 1980, p. 124).
Giarratana, Castelluzzo, Grammichele, questi i luoghi che videro versare il sangue delle vittime degli “intervent(i) d’ordine” (G.C. Marino, 1979, p. 43).
A Giarratana i contadini avevano costituito una Lega dei lavoratori. Il 13 ottobre 1902, una lunga agitazione per l’aumento dei salari, alla quale avevano preso parte anche molte donne, si concluse con una carica contro i dimostranti, “guidata dal sindaco-proprietario” (J. Calapso, 1980, p. 127). Il bilancio sanguinoso fu di 2 morti (un bambino affacciato ad una finestra ed un contadino) e 69 feriti. A queste vittime ne va aggiunta un’altra: il carabiniere che aveva aperto il fuoco contro gli scioperanti, il quale morì in seguito alle bastonate infertegli dalla folla inferocita. Come di consueto, gli unici ad essere incriminati per quella giornata di sangue furono i contadini iscritti alla Lega:
“Giolitti ordinò una distribuizione di capi di vestiario (da cui il sindaco escluse gli iscritti alla Lega). Nello stesso tempo telegrafò al prefetto di Siracusa, definendo la Camera del lavoro un’associazione di malfattori e ordinando l’arresto di tutti i suoi componenti. I locali della piccola Lega vennero chiusi, i registri e le carte furono sequestrati. Centotrentanove contadini, fra cui molte donne, vennero arrestati (…) La triste vicenda, dall’arresto alla fase conclusiva del processo durò due anni ma i lavoratori furono confortati dalla solidarietà di tutte le organizzazioni socialiste del circondario. Infine gli ultimi 43 imputati, fra cui 6 donne, furono definitivamente prosciolti dalla Corte d’assise di Catanzaro” (J. Calapso, 1980,p.127).
L’eccidio di Castelluzzo (borgata del comune di Monte San Giuliano) fu quello dai contorni più oscuri. Ecco brevemente i fatti. La sera del 14 settembre 1904, nei locali della Lega di miglioramento era in corso una riunione dei soci per la sottoscrizione di azioni della cooperativa di affittanza collettiva. All’improvviso, irruppe il brigadiere Riffaldi con una pattuglia di carabinieri, gridando “<<in nome della legge, siete tutti in arresto>> (G. C. Marino, 1972, p. 122). Alle proteste del presidente della cooperativa, Nicola Raiti, il brigadiere rispose con le manette! Alla ribellione ed alla fuga dei contadini disarmati, egli rispose con l’ordine di fare fuoco!
“Un giovane bracciante disarm(ò) il brigadiere (resistenza alla forza pubblica): sparatoria ed inseguimento a sciabolate; a terra il sessantaquatrenne Giuseppe Poma e Vito Lombardo di cinquant’anni; il brigadiere insist(é), (volle) dare fuoco alla sede della cooperativa; accor(sero) le donne, ed una, la moglie di Vito Lombardo, accorsa a soccorrere il marito (fu) ferita ad una mammella; (fu) colpito anche un ragazzo; i carabinieri arresta(rono) il Raiti ed alcuni suoi compagni; poi si allontana(rono); il bilancio di sangue (fu) di due morti ed otto feriti” (G.C. Marino, 1972, p. 122).
L’eccidio provocò grande commozione in tutta Italia. Esso si andava ad aggiungere agli altri consumati, in quel periodo, soprattutto nel Meridione:Buggerru, Candela, Giarratana, Torre Annunziata. L’indignazione si concretizzò nella proclamazione dello sciopero nazionale del settembre 1904 (sostanzialmente fallito). In Sicilia ebbe inizio il 19 a Palermo, e via via si estese in tutta l’Isola, con numerose, ma purtroppo non affollate, manifestazioni di protesta (32).
Tornando alla tragedia di Castelluzzo, il processo contro il brigadiere Riffaldi ed il carabiniere Mancuso, principali responsabili dell’accaduto, si concluse nell’aprile 1905 con una sentenza di proscioglimento. Secondo la Corte di Trapani gli imputati “avevano agito in istato di legittima difesa”! (cit. G.C. Marino, 1972, p. 122). Ancora una volta, quindi, la Giustizia non fu giusta! Come nota G. C. Marino (1972, p. 123) “soltanto una Corte di domestico bigottismo proprietario avrebbe potuto convincersi (…) che dei carabinieri armati fossero stati costretti a difendersi da un pacifico assembramento di contadini inermi messi in fuga dai primi colpi di fucile”.
Inoltre, come ho accennato, l’eccidio di Castelluzzo presentò elementi <<misteriosi>>. Qualcuno, ad esempio, aveva sparato con un’arma che non era in dotazione ai carabinieri. Per di più, il processo evidenziò che questi ultimi avevano agito senza alcun esplicito comando delle autorità superiori. Queste oscure circostanze fecero ritenere ai socialisti che l’azione militare anticontadina fosse avvenuta con “la partecipazione od almeno l’influenza di persona estranea alla Cooperativa ed all’arma” (33). La matrice dell’eccidio era da ricercarsi, in realtà – sempre secondo i socialisti – negli ambienti mafiosi ai quali appartenevano i gabelloti agrari e
“nei tendenziosi imbonimenti messi a profitto negli ambienti polizieschi dai capi di una cooperativa d’ispirazione cattolica di Monte San Giuliano sostenuta dal parroco e dagli agrari. Certo responsabilità enigmatiche, di difficile accertamento” (G.C. Marino, 1972, pp. 123-124).
Giuseppe Carlo Marino (1972, p. 120) afferma che in Sicilia, generalmente, si veniva a creare, di fatto, una complicità extralegale tra agrari e forze di polizia. Molti ufficiali e sottoufficiali erano infatti convinti che fosse loro dovere difendere i proprietari. Questa complicità era contrastata, almeno a livello ufficiale, dalle autorità governative, le quali erano tenute a depotenziare le lotte popolari facendo ricorso ad “una politica che apparisse al di sopra delle parti”. In questo scenario la mafia “svolgeva un ruolo di mediazione tra politica governativa e classismo agrario” . Con il suo potenziale offensivo, ricorrendo ad intimidazioni ma anche ad “imbonimenti”, indeboliva “la capacità di presa organizzativa dei dirigenti sulle masse contadine” . La mafia,
“agglomerato di forze borgesatiche privilegiate, poteva sostenere con un paternalismo molto perentorio (la <<parlata>>, il <<consiglio>>, la <<mezza parola>>, il deciso ed oscuro richiamo alla responsabilità) il diritto degli agrari a dominare contadini consenzienti, <<spontaneamente>> rispettosi, sì da evitare l’incomodo di avere a che fare con le funzioni d’arbitraggio imparziale alle quali erano ufficialmente chiamate le autorità governative” (G.C. Marino, 1972, pp. 120-121).
Queste ultime, dal canto loro, gradivano questo “servizio di rispetto”, che, quando possibile, levava loro il disturbo di dovere contrastare, con drastiche misure, situazioni agitate. Spesso “l’imparzialità programmatica dello Stato” si risolveva in “parzialità di fatto” (G.C. Marino, 1972, p. 121).
Naturalmente i latifondisti ed i “gabelloti-speculatori” considerarono i primi successi dell’associazionismo contadino come dei chiari segnali di pericolo. Essi vedevano minacciato il proprio sistema di potere, basato “sull’usurpazione quotidiana del consenso popolare”. La loro reazione fu, quindi, istintiva, e l’istinto sollecitò “la violenza, la difesa scomposta, lo zelo fanatico di parecchi poliziotti” (G.C. Marino, 1972, p. 121). Molto probabilmente fu un simile contesto ad originare l’eccidio di Castelluzzo.
A Grammichele (in provincia di Catania), il 15 agosto 1905, si verificò una strage di contadini ancora più grave delle precedenti.
Quella mattina era in corso una manifestazione per l’inaugurazione della bandiera sociale della locale Camera del lavoro. Tutto si stava svolgendo tranquillamente, quando cominciò a parlare agli astanti il bracciante Lorenzo Grasso. Questi invocò l’unità tra i contadini per combattere e vincere i loro “nemici assassini” e affamatori, vale a dire, “i civili e i cappeddi” (G.C. Marino, 1979, p. 45). Ma intervenne il delegato di Pubblica Sicurezza Basilicò, ordinandogli, con autorità, di tacere. La folla protestò vivacemente e, gridando “<<vogliamo libertà di parola, abbasso i cappeddi, abbasso gli sfruttatori>>” (J. Calapso, 1980,p. 129), si diresse verso il Municipio. Non potendolo occupare, poiché presidiato dalla forza pubblica, i manifestanti invasero la sede del circolo dei civili, dando fuoco a mobili e suppellettili. Essi, inoltre, “lanciarono sassi contro le finestre del Municipio e poi contro la truppa” (J. Calapso, 1980, p. 129). A questo punto, dopo gli squilli di tromba di avvertimento, soldati e carabinieri cominciarono a sparare sulla folla.
I colpi, purtroppo, andarono quasi tutti a segno! Dodici furono i morti. Centoventi i feriti (34). Tutti contadini (35).
Dopo la stage, le associazioni che avevano preso parte alla manifestazione furono chiuse. Molti contadini furono arrestati o perseguitati. L’operato delle autorità e della forza pubblica fu, invece, giustificato da tutte le inchieste governative.
Questo ennesimo eccidio proletario sollevò l’attenzione e le discussioni sulla <<Questione Meridionale>>; ma, allo stesso tempo, finì per accrescere l’isolamento del movimento contadino siciliano. Infatti, benché si fosse riprodotto “il rituale della solidarietà rossa”, fatto di “condanne, proteste, radi omaggi alle vittime” (G.C. Marino, 1979, p. 45), le voci dei socialisti (urbani e settentrionali) si aggiunsero, sostanzialmente, al coro di quanti sostenevano che le ragioni della strage di Grammichele erano da ricercarsi, soprattutto, nella ignoranza e nella miseria delle masse contadine siciliane; le quali, proprio per questa loro condizione di arretratezza culturale avevano spesso reazioni impulsive, scomposte e violente, come quella, appunto, che aveva scatenato a Grammichele la spropositata reazione delle forze dell’ordine.
Nei fatti, dunque, si finì per vedere solamente “la jacquerie”, che tra l’altro, secondo G.C. Marino (1979, p.45), non c’era stata:
“Nonostante la forte tensione emotiva suscitata in tutta Italia da quell’ennesimo <<eccidio proletario>>, nessuno – neanche tra i socialisti – seppe vedere che la stessa dinamica della cronaca conteneva elementi scatenanti nient’affatto assimilabili a manifestazioni di inciviltà plebea: una massa di contadini inermi aveva fermamente risposto ad una patente violazione della libertà di parola”.
L’atteggiamento di distacco e di incomprensione che il P.S.I. assunse – ancora una volta – nei confronti delle lotte portate avanti dai contadini siciliani, sarebbe stato uno dei fattori principali del progressivo indebolimento del movimento cooperativistico dell’Isola.
7. IL DECLINO DEL MOVIMENTO COOPERATIVISTICO SICILIANO
Il 1906 fu un anno importante nella storia della cooperazione siciliana. In quell’anno essa raggiunse la sua massima espansione. Ma nello stesso anno cominciò altresì il suo lento decadimento.
Il punto di svolta fu costituito dalla legge,del 29 marzo, che istituì una sezione speciale di credito agrario presso il Banco di Sicilia, e che prescrisse delle norme volte ad incoraggiare la costituzione di società cooperative, in modo che queste potessero operare da enti intermediari tra l’istituto di credito e gli agricoltori bisognosi di un prestito. Si ruppe, in questo modo, il monopolio, di fatto, goduto dalle casse rurali nel campo del piccolo prestito agrario.
La diffusione del capitale finanziario nelle campagne stimolò l’imprenditorialità tra i contadini e, soprattutto, li affrancò dal rovinoso ricorso al credito usuraio (gestito, il più delle volte, dalla mafia). Tuttavia, i benefici del credito bancario poterono essere goduti soltanto da coloro i quali erano in grado di offrire sicure garanzie. Si accrebbe così il divario tra le forze contadine più povere e quelle meno povere (G. C. Marino, 1979, p. 53).
Il numero delle società cooperative (affittanze collettive, casse rurali, casse agrarie, consorzi agricoli e cooperative varie) ufficialmente riconosciute come “Enti intermedi” crebbe rapidamente. Nel 1907 esso era di 42; nel 1908 sarebbe salito già a 111; nel 1915 a 342 (G.C. Marino, 1979, p. 80).
Nonostante la crescita numerica delle società giuridicamente riconosciute, non vi fu un consolidamento – qualitativo o quantitativo – delle affittanze collettive e delle casse rurali. Questo perché ai vantaggi loro derivanti dalla legge del 29 marzo – possibilità di usufruire e di esercitare credito agrario, norme più favorevoli allo sviluppo agricolo – fecero da contrappeso danneggiamenti consistenti alla loro stessa credibilità economica e politica.
La ragione essenziale di quella legge sembrava essere, in realtà, quella di “condizionare e controllare lo sviluppo del movimento cooperativo” (F. Renda, 1979, p. 93). Trasformando le affittanze collettive e le casse rurali in enti intermediari del Banco di Sicilia, infatti, faceva perdere loro l’autonomia economica e, quindi, politica, che li aveva fino ad allora caratterizzate. La cooperazione diventava un prolungamento del sistema finanziario italiano, ai cui indirizzi e interessi sarebbe stata subordinata:
“(…)le organizzazioni contadine (…) avrebbero progressivamente perduto i loro originari quozienti di autonomia politica, in cambio di un asettico ruolo <<economico>> che,seppure recava in sé alcuni vantaggi (stimolazione dell’imprenditorialità, notevole affrancamento delle antiche afflizioni del credito usuraio), le configurava sempre più come elementi subalterni di una gerarchia di interessi sulla quale campeggiava la rendita latifondistica, potentissima, rafforzata dalla caduta di tensione politica delle lotte e dal conseguente allontanamento di pericoli di riforma agraria, protetta, nella riserva dei suoi privilegi, dal dazio sul grano” (G. C. Marino, 1979, p. 80).
L’associazionismo contadino – ed in particolar modo l’affittanza collettiva – quindi, non risultò più tanto credibile nel ruolo di strumento di lotta di classe e di rottura della società latifondistica. L’affievolimento dell’entusiasmo originariamente destato dall’affittanza collettiva, spinse alcuni dirigenti riformisti a inidirizzarsi verso “strade nuove” (G.C. Marino, 1979, p.81). Nell’area agrigentina, per iniziativa di Enrico La Loggia, sorsero le cosiddette affittanze collettive <<laiche>> indipendenti.
Enrico La Loggia (36) suggeriva di trasformare le cooperative di produzione e lavoro da società anonime “con carattere politico e di resistenza” in ” società in nome collettivo con responsabilità illimitata e solidale dei soci” (37), per rendere più agevole il ricorso al credito agrario degli istituti di credito e per consentire l’acquisto della terra in proprietà collettiva. Egli, condivise, sostanzialmente, le critiche di carattere economico che cominciavano ad essere mosse alle affittanze collettive da parte di un vero e proprio fronte antisocialista.
Alcuni economisti, avanzavano i seguenti rilievi: le cooperative avevano semplicemente sostituito al “gabelloto-persona, il gabelloto-ente” (38), non migliorando, in termini produttivi, la situazione economica; esse, spinte dalla “eccessiva fame di terra” (39) e dalla necessità di battere la concorrenza, si erano obbligate al versamento di fitti troppo elevati; avevavo causato, inoltre, un forte restringimento delle aree destinate al pascolo e “lo sminuzzamento irrazionale delle grandi aziende” (G. C. Marino, 1972, p. 186).
Secondo Francesco Renda (1990a, p. 439), con queste critiche, “La scienza economica si rivelava (…) scienza di classe, facendo a pugni con la realtà sociale”. La cooperazione, infatti, aveva prodotto evidenti miglioramenti tecnici, consistenti nella “diffusione dell’uso dei concimi chimici, delle macchine e strumenti agrari, e delle buone pratiche e rotazioni culturali” (F.Renda, 1990a, p. 439). Per di più, e soprattutto, dove aveva avuto successo, l’affittanza collettiva era stata fonte di importanti vantaggi di carattere socio-economico: fine della concorrenza tra i singoli contadini; rafforzamento ed estensione dell’autonomia del movimento contadino dal dominio del blocco agrario; messa in crisi della “<<razionalità>> del sistema produttivo del latifondo” (F. Renda, 1990a, p. 439); presa di coscienza fra le masse circa la necessità di sostituire quest’ultimo con “sistemi produttivi più moderni e più adeguati alle nuove esigenze sociali” (F. Renda, 1990a, p. 439); e, infine, il risultato per noi più importante, vale a dire l’eliminazione della intermediazione oppressiva del gabelloto mafioso.
Ma a<<fiaccare>> ilmovimento cooperativo siciliano, oltre alla legge del 29 marzo e all’offensiva antisocialista di alcuni economisti, contribuirono anche altri due elementi.
Primo, la crisi mondiale del 1907, che ebbe gravi ripercussioni in Sicilia: sensibile calo delle esportazioni di prodotti agricoli e zolfo; lievitazione del costo della vita; forte rialzo dei prezzi di vendita delle terre, dovuto principalmente alla <<fame diterra>> dei numerosi <<americani>>,rimpatriati proprio a causa della crisi mondiale; accrescimento del ritardo economico rispetto al Nord industriale, che superò brillantemente la crisi grazie ai massicci interventi statali.
Secondo, e sicuramente più determinante, elemento, il distacco assunto nei confronti del movimento dal Partito Socialista Italiano. Questo giudicò le affittanze socialiste dell’Isola “<<il solito confusionismo siciliano>>” ( F. Renda, 1979, p. 97), poiché in teoria esse erano per la conduzione collettiva delle terre – così come voleva il partito – in pratica, però, attuavano la conduzione divisa. Il P.S.I. neanche cercò di capire le ragioni che stavano alla base della contraddizione nella quale erano caduti i socialisti delle campagne siciliane. Li condannò senza appello. Non comprendendo l’importanza economica, ma sopratutto sociale e politica, delle loro organizzazioni.Ma questa incomprensione del P.S.I. si inquadrava in una sua più generale sottovalutazione della questione agraria siciliana (e meridionale). I riformisti, come abbiamo visto, affermavano che nel Meridione, in quel periodo storico, gli interessi del proletariato dovevano essere subordinati alla piena realizzazione della rivoluzione borghese. A condividere questa idea erano, in Sicilia, i nuclei socialisti urbani. Ostili al socialismo rurale isolano erano, comunque, anche i <<sindacalisti rivoluzionari>> (in tumultuosa ascesa all’interno del partito a partire dal 1904). Essi giudicavano il movimento contadino “un’entità inquieta di <<proletariato improbabile>>”(G. C. Marino, 1979, p. 47), non adatto, perciò, per la rivoluzione. La loro ideologia massimalistica – riguardo al ruolo delle avanguardie proletarie – li spingeva “a fare perno sulle forze cittadine organizzate dalle Camere del lavoro” ( G.C. Marino, 1972, p. 146), considerando il mondo contadino una sorta di “precedente preistorico dei nuovi rapporti di produzione dominati dall’industria” (G.C.Marino, 1972, p. 146).
I contadini siciliani, in lotta per il loro riscatto economico e civile, si trovarono, dunque, di nuovo isolati:
“Negli anni del giolittismo (…) si ripeté la stessa vicenda dei Fasci, anche se stavolta non c’era un generale Morra di Lavriano a suscitare pretese cortine fumogene di violenza paesana. Ai contadini, che in massa cercavano nel Partito socialista la soluzione non facile dei loro problemi di vita e di progresso, e che a tal fine chiedevano il sostegno e accettavano la direzione del proletariato industriale e del suo partito politico, si rispondeva col netto rifiuto” (F. Renda, 1979, p. 97).
Numerosi dirigenti del socialismo agrario, che praticamente avevano dedicato la propria vita alla educazione alla lotta e alla organizzazione sindacale delle angariate masse rurali, divennero così facili bersagli per la reazione agrario-mafiosa:
“(I capi del socialismo rurale, erano, N.d.a) Uomini di statura al di sopra del comune, anche per il coraggio fisico e la tenacia con cui tennero fede alla scelta politica e ideale del riscatto sociale dei lavoratori della terra; nessuno di loro, tuttavia, riuscì mai a vincere una competizione elettorale o ebbe modo di progredire nella gerarchia della organizzazione, anche perché nessuno ebbe mai il soccorso nazionale del partito, onde conquistare una posizione indispensabile all’assolvimento del proprio ruolo. Si snervarono, pertanto, in una milizia generosa ma spesso ingrata o incompresa, comunque non sorretta politicamente e moralmente, come avrebbe meritato, da chi ne aveva la possibilità e il dovere. Il Panepinto, il Verro, l’Alongi e decine di altri oscuri dirigenti di base caddero, così, uno dopo l’altro, sotto il fuoco assassino della reazione, per mano della mafia, altro aspetto del loro destino, che offrì un alibi alla incomprensibile e ingiustificata distrazione del socialismo italiano.
Eppure quegli uomini seppero riscattare l’onore e il ruolo del Partito socialista dei lavoratori italiani, promuovendo in Sicilia un autentico movimento unitario di classe, che si tradusse in una serie non occasionale né effimera di istituzioni politiche, culturali, cooperative e sindacali, e che apportò miglioramenti, tanto sostanziosi quanto duraturi, alle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori della campagna” (F. Renda, 1990b, pp. 258-259).
8. IL MOVIMENTO COOPERATIVISTICO SICILIANO E LA MAFIA
Nel primo capitolo abbiamo visto come una delle attività originarie e più importanti della mafia – poiché fonte per essa di potere economico e sociale – fosse l’intermediazione parassitaria tra proprietari assenteisti e contadini: i gabelloti mafiosi prendevano in affitto le terre dai primi e,dividendole in piccoli lotti, li subaffittavano, con contratti capestro, ai secondi.
La nascita delle cooperative di affittanza collettiva – il cui preciso intento era, come ripeto, proprio quello di affittare le terre direttamente dai proprietari, saltando l’intermediazione dei gabelloti – costituì, quindi, una chiara minaccia per gli interessi mafiosi e per il tradizionale sistema socio-economico che opprimeva i contadini dell’entroterra siciliano.
La semplice costituzione delle affittanze collettive aveva una valenza rivoluzionaria:
“Il fatto stesso che i contadini si fossero organizzati per resistere allo strapotere del blocco agrario-mafioso, era dotato di un valore rivoluzionario che di per sé andava bene al di là dei risultati concretamente conseguibili. In Sicilia soltanto tenere il capo alzato di fronte al padrone è sempre stato un gesto quasi temerario” (G.C.Marino, 1972, p. 113).
Pertanto, soprattutto in seguito allo sviluppo e alle prime concrete realizzazioni delle cooperative dei contadini – cioè allorché esse cominciarono ad ottenere l’affitto di numerosi ettari di terra direttamente dai proprietari – i gruppi mafiosi ritennero fosse assolutamente necessario correre ai ripari!
Come avevano già fatto al tempo dei fasci, essi cercarono di inserirsi nelle organizzazioni contadine per influenzarle e per servirsene per i propri interesse: “Il gabelloto collettivo (poteva) rappresentare uno strumento della ristrutturazione del potere mafioso” (S. Lupo, 1993, p. 131).
Inquinate dalla ingerenza dei gruppi mafiosi risultarono essere alcune cooperative <<bianche>> (le casse rurali cattoliche di Corleone, Santo Stefano Quisquina e Villalba). Questo potrebbe essere spiegato con la tendenza – che sarebbe stata diffusa, purtroppo, per molto tempo – di alcuni ambienti clericali a considerare il socialismo come un pericolo ben più temibile della mafia, e a non considerare i legami e/o i rapporti con quest’ultima molto <<disdicevoli>>.
A Villalba la locale Cassa rurale cattolica riuscì, nel 1908, ad ottenere l’affittanza del feudo Belici, fino ad allora in mano agli intermediari. La popolazione attribuì il merito di questo successo al nipote del sacerdote Sgarlata – presidente della Cassa Rurale – il mafioso Calogero Vizzini. Costui “appena qualche anno prima era stato arrestato come manutengolo del bandito Versalona” (S. Lupo, 1993, p. 131). Il feudo fu assegnato personalmente al Vizzini, visto il suo provvidenziale intervento nelle trattative tra le parti. Don Calò – come d’allora in poi fu deferentemente chiamato – tenne per sé 290 ettari e concesse <<gentilmente>> il resto della gabella alla Cassa rurale.
Come si vede, dunque, “La mobilitazione collettiva offre alla mediazione notabiliar-mafiosa nuovi campi di applicazione” (S. Lupo, 1993, p, 132).
A questa azione di penetrazione, la mafia abbinò una decisa azione volta ad intimidire prima e ad eliminare poi i capi delle numerose cooperative – per lo più socialiste – che non intesero piegarsi ai suoi voleri. Emblematiche furono, a tal proposito, le vicissitudini – raccontateci da Dino Paternostro – di uno dei capi più prestigiosi del movimento contadino siciliano: Bernardino Verro.
Già come organizzatore del movimento dei Fasci dei lavoratori e come presidente del Fascio di Corleone, il Verro aveva attirato su di sé le ire della mafia. Con la costituzione delle affittanze collettive egli si inimicò definitivamente quest’ultima, “che d’allora in poi giurò di fargliela pagare cara” (D. Paternostro, 1994, p. 38).
Dopo gli scioperi agrari del 1901, il dirigente socialista corleonese era stato condannato a due anni di reclusione per diffamazione nei confronti di un delegato di P.S. Così, come aveva fatto nel 1896, per sfuggire alla condanna, preferì andare in esilio, rifugiandosi prima in Tunisia e poi in Francia. Ma il 27 dicembre 1905, a causa della sua salute cagionevole, si costituì. Il 29 giugno 1907, scontata la pena, ritornò a Corleone, con un treno speciale, accompagnato da circa cinquecento contadini. Nel suo paese natio, il Verro fu accolto “dai suoi concittadini festanti e dalle leghe del circondario” (D. Paternostro, 1994, p. 40).
Non tutti, però, parteciparono a questa festa collettiva!
“La mafia di Corleone temette molto il ritorno del capo carismatico dei contadini, anche perché la sua volontà di lotta era rimasta intatta e per niente fiaccata dagli anni di carcere” (D. Paternostro, 1994, p. 41).
Durante la sua assenza, i <<fratuzzi>> avevano cercato di bloccare le lotte contadine per le affittanze collettive assassinando due socialisti valorosi e determinati: il contadino Luciano Nicoletti, ucciso il 14 ottobre 1905; ed il medico Andrea Orlando, ucciso, il 13 gennaio 1906, perché
“aveva continuato la campagna moralizzatrice e aveva sorretto i contadini nelle affittanze collettive” (40).
Bernardino Verro riprese subito la sua attività sociale e politica. Pochi mesi dopo il suo rientro, fu eletto consigliere comunale e consigliere provinciale, e riuscì ad ottenere per la cooperativa corleonese <<Unione agricola>> (costituita nel giugno 1906) il riconoscimento come ente intermediario del Banco di Sicilia.
Intanto, con le sue azioni egli continuava a disturbare gli interessi dei mafiosi. Egli chiese ed ottenne l’affitto per nove anni del feudo Torrazza, fino ad allora in possesso di alcuni gabelloti mafiosi. I <<fratuzzi>> gli espressero il proprio <<rincrescimento>> e tentarono, inutilmente, di corromperlo.
Nell’agosto 1910 i mafiosi ricevettero un altro sgarbo: l’ex feudo Malvello, il cui affitto era stato messo all’asta, fu aggiudicato alla cooperativa <<Unione agricola>>, rappresentata dal Verro, e non alla Cassa rurale <<San Leoluca>>cheera appoggiata, per l’appunto, dalla mafia.
In quello stesso autunno si tennero, a Corleone, le elezioni amministrative. Il Partito socialista decise di non prendervi parte. In un pubblico comizio, tenuto il 31 ottobre 1910, fu proprio il suo massimo dirigente a spiegarne il motivo:
“Voi – aveva detto Verro al sindaco Vinci e ai suoi assessori – siete riusciti a rendere Corleone il più disgraziato dei comuni della Sicilia, lasciandogli solo il triste vanto di essere la sede della Cassazione della maffia siciliana” (41).
La risposta dei <<fratuzzi>> non si fece attendere. Sei giorni dopo, e cioè nel giorno designato per le elezioni, il Verro fu oggetto di un attentato mafioso, ma per fortuna restò solo ferito.
Egli sapeva benissimo che ad aver scatenato l’ira dei fratuzzi non erano stati solo i suoi discorsi di denuncia ma anche,e soprattutto, la sua attivitàdi organizzatore di affittanze collettive:
“Codesti antichi gabelloti maffiosi finché erano stati soli a pretendere in affitto gli ex feudi – disse al giudice – avevano potuto imporre ai proprietari ad ai contadini le condizioni più favorevoli ai loro interessi, mentre invece col sorgere della cooperativa agricola e coi relativi scioperi dei contadini erano venuti a trovarsi di fronte ad una concorrenza formidabile, in quanto che la cooperativa offriva ai proprietari delle terre estagli più elevati di quelli imposti dai gabelloti maffiosi. (…) Da qui l’odio profondo di costoro, che venivano lesi nei loro interessi (…) ed il bisogno di farne vendetta” (42).
Per distruggere il Verro, si cercò anche di infamarne la prestigiosa reputazione. Il cassiere dell’Unione agricola, Angelo Palazzo, che si era avvicinato alla mafia, aveva falsificato delle cambiali a danno di alcuni corleonesi e del Banco di Sicilia. Scoperto, dichiarò – per discolparsi e perché spinto dai mafiosi locali – di aver agito per istigazione di B. Verro. Così, quest’ultimo fu arrestato e rimase in carcere per 10 mesi. Quando, nel luglio 1913, ritornò a Corleone, il dirigente socialista era più motivato e combattivo che mai. Riprese, quindi, ad organizzare i contadini ed a lottare, raggiungendo risultati sorprendenti. Nel 1914 fu eletto consigliere provinciale. Nello stesso anno, la lista socialista di Corleone vinse le elezioni amministrative e Verro – risultato il primo degli eletti – diventò sindaco.
Questo per i fratuzzi era davvero troppo! In qualità di sindaco, infatti, il Verro avrebbe potuto danneggiarli e combatterli con più forza.
A far precipitare gli eventi contribuì il rinvio a giudizio degli imputati per il falso in cambiali. Mentre Verro accolse positivamente la notizia, poiché impaziente di dimostrare la propria innocenza, Angelo Palazzo ed i mafiosi coinvolti si preoccuparono. L’eliminazione del Verro – già decisa da tempo – divenne, quindi, improrogabile. Il 3 novembre 1915 la condanna a morte fu atrocemente eseguita!
“Finì nel fango rosso di sangue di via Tribuna l’esistenza del capo dei contadini corleonesi, del primo sindaco socialista del paese. La mafia lo uccise in pieno giorno (con vari colpi di rivoltella, N.d.a), come segno di sfida e di vendetta verso un uomo che l’aveva combattuta per tutta la vita” (D. Paternosto, 1994, p. 48).
La mafia corleonese non tollerò nemmeno il ricordo di Bernardino Verro! Nel 1917 “i municipi socialisti d’Italia” (43) posero, in una piazza di Corleone, un busto bronzeo in sua memoria. In una notte del 1925, il monumento fu trafugato e scomparve per sempre: “il primo caso di lupara bianca consumato ai danni di un monumento!” (D. Paternostro, 1994, p. 48). Soltanto nel 1985 il Comune si decise a ricollocare un busto nella villa comunale ed una lapide nel luogo dell’assassinio del dirigente socialista. Ma il nuovo busto non ha avuto un destino più felice del primo: nel luglio 1994 è stato distrutto (U. Santino, 1995, p. 23).
Particolarmente interessanti – e rivelatrici di un’epoca giudiziaria durata, putroppo, a lungo – furono le vicende del processo a carico dei mandanti dell’omicidio Verro (i presunti esecutori erano stati scagionati già nella fase istruttoria). Il dibattimento durò appena diciotto giorni – dal 4 al 22 maggio 1918 – poiché il pubblico ministero Wancolle, essendo stato convinto dalle tesi sostenute dalla difesa, abbandonò l’accusa. Il processo si concluse, ovviamente, con l’assoluzione di tutti gli imputati!
Nessun valore fu, quindi, riconosciuto alle coraggiose battaglie portate avanti dalla vittima, nei suoi ventritré anni di impegno sociale e politico:
“Se appena si fosse tenuto conto di questa attività, degli interessi di classe che aveva difeso e di quelli a cui si era contrapposto, non sarebbe stato così difficile risalire a coloro che ne avevano potuto volere la morte” (D. Paternostro, 1994, pp. 49-50).
Ma la cosa più sconvolgente è che nella sentenza di rinvio a giudizio vi era già scritta una verità che sarebbe stata negata a lungo dai giudici, dallo Stato e dagli stessi studiosi della mafia. In quelle carte c’era scritto che la mafia era una precisa organizzazione criminale segreta, con precisi rituali di affiliazione, strutture e regolamenti (D. Paternostro, 1994, pp. 50-52). Per troppo tempo sarebbe stato, invece, affermato (44) che la mafia era un metodo, una forma di comportamento e di potere criminale. Soltanto negli anni ’80, l’indefesso e valoroso lavoro di giudici come Chinnici, Falcone e Borsellino
avrebbe portato di nuovo a galla quella verità.
Un’altra realtà – sottolinea D. Paternostro (1994, p. 53) – è stata per troppi anni ignorata o sottovalutata: quella delle lotte antimafia di numerosi contadini siciliani.
“La verità storica è che Verro e i contadini corleonesi contribuirono a scrivere una pagina importante della lotta contro la mafia e il blocco di potere dominante. Questa verità per troppo tempo è rimasta sconosciuta o dimenticata, esempio emblematico di antimafia repressa e negata, alla quale oggi occorre rendere giustizia”.
Nel secondo decennio del Novecento, anche altri dirigenti del movimento contadino siciliano, per la loro instancabile attività volta al riscatto economico e civile delle masse rurali, caddero vittime di agguati mafiosi.
Prima di Bernardino Verro, e precisamente il 16 maggio 1911, era stato ucciso il maestro elementare Lorenzo Panepinto, il quale aveva fondato la cooperativa agricola di Santo Stefano di Quisquina (paese in provincia di Agrigento e distante pochi chilometri da Corleone). Il quella data il Verro – già ferito da un attentato mafioso – si trovava a Reggio Calabria (45). Appresa la drammatica notizia scrisse a Napoleone Colajanni questa amara e profetica lettera:
“(19 maggio 1911) Ha visto che cosa hanno fatto del povero Panepinto? E’ la sollevazione della mafia gabellota e clericale contro gli organizzatori delle affittanze collettive. La verità è così terribile che mi rende quasi pazzo dallo sconforto. Il povero Panepinto cadde fulminato, ed io, tutte le volte che guardo la ferita del mio polso sinistro scorgo nella mia cicatrice il cadavere mio e quello del mio buon amico e compagno. Io stesso ho dovuto abbandonare Corleone, dove ormai la maffia mi ha proclamato <<cascittone>> (spia). Che cosa mi resta da fare? Diventare anch’io delinquente e vendicarmi col piombo e la dinamite, oppure aspettare come un morto in licenza che fra poco sarà assassinato? E’ triste dover stare come esule lontano dal proprio paese, dove ho profuso tutta la mia gioventù e il mio avvenire, e vedere che dalla opera mia ne è uscita trionfante e agguerrita la maffia dei gabelloti” (in D.Paternostro, 1994, p. 166).
Anche il Panepinto aveva partecipato attivamente al movimento dei Fasci dei lavoratori, ma la sanzione estrema per lui, come per il Verro, arrivò in seguito alla sua attività di organizzatore di affittanze collettive: queste, infatti, colpivano gli interessi mafiosi ancora più concretamente e direttamente dei sodalizi del 1893: “Decisamente, il <<sovversivo>> del 1911 (era) più temibile per lor signori di quel che non fosse il sovversivo del 1893” (46); la reazione agrario-mafiosa, dunque, non poté che essere più violenta.
La prima guerra mondiale portò, chiaramente, ad un’attenuazione dell’attività delle cooperative. Di conseguenza, si ebbe anche una diminuizione delle rappresaglie mafiose. Inesorabilmente, però, queste sarebbero riprese con il <<ritorno alla pace>>. La tragica lista delle vittime della mafia, si sarebbe così allungata (come vedremo più avanti) con, tra gli altri, i seguenti nomi: Giovanni Zangara; Giuseppe Rumore; Nicola Alongi (47).
9. LA RESTAURAZIONE DEL BLOCCO AGRARIO ED IL CALO DEL MOVIMENTO COOPERATIVISTICO DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE
L’avvio della sanguinosa eliminazione dei capi più popolari e valorosi del movimento cooperativistico siciliano coincise con la piena restaurazione del blocco agrario ( che avvenne soprattutto nella parte centro-occidentale dell’Isola), che – come ripeto – era stato favorito dalla <<neutrale>> politica del Giolitti.
Il Presidente del Consiglio, infatti, di fronte ai convulsi avvenimenti socio-economici siciliani – agitazioni contadine, affittanze collettive, assalto degli <<americani>> alla terra… – che sembravano essere forieri di importanti cambiamenti strutturali, invece di sostenere, con provvedimenti risolutivi, l’attacco dei contadini contro la società latifondistica, preferì non prendere alcuna decisione. Pertanto, com’era prevedibile,
“Rimesso al gioco <<naturale>> delle contraddizioni strutturali e dei conflitti in atto nelle campagne siciliane, il corso della crisi sarebbe stato deciso dalle forze più forti e potenti che non erano certo quelle contadine ” (G.C. Marino, 1979, p. 76).
Contribuì, alla piena restaurazione del blocco agrario, anche la costituzione di due nuovi organismi: il Consorzio obbligatorio zolfifero e la Camera agrumaria. Entrambi furono istituiti per superare la crisi economica di due settori importanti per la produzione nazionale.
Il Consorzio obbligatorio zolfifero fu costituito il 15 luglio 1906. Esso
“consocia(va) coattivamente tutti i produttori per stabilizzare il prezzo attraverso la limitazione della produzione e la collocazione diretta dello zolfo” (G. Barone, 1977, p. 46).
In Sicilia – a differenza del resto d’Italia – in base ad una normativa giuridica ancora in vigore, la proprietà del sottosuolo spettava a chi possedeva il terreno soprastante (il quale, come abbiamo visto nel primo capitolo, concedeva, solitamente, la miniera in gabella). Di conseguenza, anche l’industria zolfifera era controllata dai grandi agrari. La costituzione del Consorzio rappresentava, quindi, “un salvataggio, fatto dallo Stato, dei proprietari delle miniere di zolfo, colpiti dalla sovraproduzione, dal ribasso dei prezzi e dalla concorrenza estera” (48).
La Camera agrumaria fu istituita, con la legge 5 luglio 1908, per salvare il settore dei derivati agrumari dalla crisi dovuta alla recessione mondiale ed alla concorrenza di nuovi surrogati. Grazie a questo organismo, il mercato degli agrumi non ebbe più crisi di sovrapproduzione, almeno fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Tuttavia, la Camera agrumaria, piuttosto che aiutare e sostenere i piccoli e medi produttori, agì ad esclusivo vantaggio dei grandi produttori-esportatori, e favorì la speculazione operata da questi ultimi a danno dei primi (G. Barone, 1977, p. 41).
L’agrumicultura era il settore più moderno della agricoltura siciliana, ed i suoi rapporti di produzione erano alternativi a quelli del latifondo. Nondimeno, essa era legata agli agrari della Sicilia interna e latifondistica. Costoro, infatti, spesso erano proprietari di terreni costieri a coltura intensiva. Inoltre,
“la Sicilia esportatrice e commerciale aveva un ruolo centrale nell’articolazione concreta del blocco agrario dell’isola: essa era l’unica che, nei momenti positivi, permettesse l’accumulazione di rapide ricchezze ed una massiccia circolazione di capitali” (S. Lupo, 1977, p. 174).
Così, mentre il movimento cooperativistico – soprattutto a partire dal 1907 – andava progressivamente perdendo la sua carica dirompente, il blocco agrario, per converso, vedeva rafforzarsi il proprio potere. Alle leghe, alle affittanze collettive, agli organismi creditizi ed alle cooperative in genere,
“(…) sarebbe stato consentito d’ora innanzi quel tanto di <<diritto all’esistenza>> che fosse riuscito a sincronizzarsi, in via del tutto subalterna, con le forze dell’asse padronale e con le esigenze clientelari dei loro notabili, tra i quali <<riformisti>> come La Loggia e Montalto, poco o niente si sarebbero distinti per vocazione filopopolare dai loro concorrenti <<democratici>> (i Pipitone, i Finocchiaro Aprile, i Nasi), o <<cattolici>> (i Pecoraro, i Parlapiano-Vella) o, soltanto, e più schiettamente, liberali (primo fra quest’ultimi Vittorio Emanuele Orlando) ” (G.C. Marino, 1979, pp.84-85).
La crisi della cooperazione siciliana si aggravò, naturalmente, nel periodo bellico. Con il richiamo al fronte dei contadini, diminuì pesantemente la quantità di manodopera disponibile, del resto già scarsa in seguito all’imponente ondata emigratoria del 1913. Svuotate dei loro soci, le affittanze collettive subirono un brusco arretramento. Mentre nel 1915 esse erano 45 ed avevano in affitto ha. 40.257 di superficie agraria, nel 1916 il loro numero scese a 37 e la superficie agraria affittata a ha. 28.809 (F. Renda, 1979, p. 98). Ciononostante, a riprova della loro solidità, validità e radicazione nella realtà sociale ed economica siciliana, le affittanze collettive “resistettero alla bufera” (F. Renda, 1979, p. 98). La maggior parte dei sodalizi, infatti, pur tra mille difficoltà, sopravvisse alla prima guerra mondiale, ed avrebbe potuto riprendere normalmente la propria attività. Ma, come vedremo, “le cose andarono diversamente” (F. Renda, 1979, p. 98).
NOTE AL CAPITOLO SECONDO
(1) – R. Murri, “I preti restano in Chiesa?”, in <<La voce delle marche>>, 12 novembre 1893, cit. in F. Renda, 1990a, pp. 18-19.
(2) – Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici: “organizzazione cattolica italiana, fondata nel 1875, che, concentrando e potenziando le preesistenti associazioni settoriali, rispose all’esigenza di mantenere ferme, e rafforzate, la cultura e la vita sociale dei cattolici in Italia. Fu soppressa da Pio X nel 1904 in un momento in cui la critica dell’astensionismo politico dei cattolici e la rivendicazione di un loro maggior impegno politico e sociale portavano all’esaurimento della funzione dell’organizzazione” (Enciclopedia G.E. 20, 1975, Istituto Geografico De Agostini, Novara, vol. XIV, p. 162).
(3) – I Comitati parrocchiali avevano “il compito di riunire le forze cattoliche della parrocchia, tenere contatti con gli altri comitati, organizzare la partecipazione cattolica alle elezioni amministrative, promuovere iniziative sociali di vario tipo a sollievo dei contadini e dei meno abbienti, diffondere la buona stampa” (C. Naro, 1980, “La fondazione della Cassa Rurale di S. Cataldo”,cit. in S. Galletti, 1989, p. 124).
(4) – L. Sturzo, “Riforma”, in <<L’Unione>>, 15 gennaio 1905, cit. in F. Renda, 1990a, p. 53.
(5) – Ibidem, cit. in F. Renda, 1990a, p. 56.
(6) – Dopo il Veneto, 442 casse; la Lombardia, 186 casse; il Piemonte, 134 casse; l’Emilia, 257 casse.
(7) – “Durante il governo crispino, i padroni meridionali e siciliani erano ben rappresentati nelle coalizioni del governo nazionale. Influenzavano direttamente la legislazione tariffaria (facendo pressione per la tassa sul grano) e, bloccando quelle leggi che avrebbero potuto riformare il regime latifondista, spingevano il governo a scoraggiare l’emigrazione e a reprimere le rivolte contadine” (J.eP. Schneider, 1989, p. 207).
(8) – Ecco cosa scriveva il Lo Vetere a tal proposito: “Mai come oggi s’impone una certa armonia fra proprietario e lavoratore per la maggiore e migliore produzione della terra. Elevandoci dalle meschine gare dei partiti locali che ci dilaniano inutilmente, e travolgono nell’annientamento tutte le nostre migliori tradizioni, bisogna avere il coraggio di affrontare nel più perfetto accordo le grandi difficoltà che si oppongono alla soluzione dei nostri comuni interessi” ( F. Lo Vetere, 1903, “Il movimento agricolo siciliano”, cit. in F. Renda, 1990b, p. 257).
(9) – Cfr. C. Ghisalberti, 1989, p. 287; M.I. Finley, D. Mack Smith, C.J.H. Duggan, 1992, p. 298.
(10) – G. Salvemini, “Giolitti <<ministro della malavita>>”, in A. Desideri, 1990, vol. III, pp. 27-28.
(11) – Queste le battute registrate durante la testimonianza di Ignazio Florio: “Avv. Maggio. Potrebbe dirci il comm. Florio se è vero che a Palermo esiste la maffia? – Teste. La maffia? Non l’ho mai inteso nominare. – Pubblico ministero. Già, la maffia, un’associazione che delinque contro le persone e le proprietà, e di cui talvolta si servono anche nelle elezioni. – Teste (Scattando). E’ incredibile come si calunnia la Sicilia! La maffia nelle elezioni! Mai! Mai! – Presidente. Così lei esclude che le elezioni in Sicilia si facciano con la maffia e con i quattrini. – Teste. Ecco, per essere esatti, debbo dire che in una occasione recente, nel settembre dello scorso anno, i socialisti spesero centomila franchi per battere la lista monarchica, ma non vi riuscirono. – Presidente. Conosce gli imputati Vitale? – Teste. Gli imputati no, ma conosco i loro cugini che furono fra i più strenui e disinteressati sostenitori della concentrazione monarchica” (in <<La Battaglia>>, 10 novembre 1901, cit. in F. Renda, 1990a, p. 405).
(12) – Fra gli altri: “Mafia e delinquenza in Sicilia”, di G. De Felice Giuffrida; “Nel regno della mafia”, di N. Colajanni; “Mafia e mafiosi”, di A. Cutrera; “Inchiesta sulla mafia” di S. Cammareri Scurti. Gaetano Mosca tenne un ciclo di conferenze in alcune città del Nord Italia, dal titolo “Che cosa è la mafia?”, e ne pubblicò il testo su <<Il giornale degli economisti>>.
(13)- G. Pitré, 1889, “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano”, cit., in G. Rizzo, 1992, p. 58.
(14)- Consistente, per l’appunto, nell’esaltazione e nella difesa della cultura e dell’onore della Sicilia.
(15)- Eletto deputato nelle elezioni politiche del 3 giugno 1900, nelle quali il Palizzolo risultò, invece, ineletto.
(16)- G. De Felice Giuffrida, “Le aberrazioni dei separatisti”, in <<Corriere di Catania>>, 25 settembre 1902, cit. in N. Dalla Chiesa, 1976, p. 176.
(17)- Telegramma datato 15 dicembre 1899, inviato dal prefetto De Seta al Ministro dell’Interno, cit., in F. Renda, 1990a, p. 108.
(18)- F. Lo Vetere, “Il fenomeno emigratorio”, in <<L’Ora>>, a. VIII, n. 132, 13 maggio 1907, cit. in G. C. Marino, 1979, p. 156.
(19) – Secondo Salvatore Lupo (1993, pp. 159 e 184) furono i mafiosi americani ad usare per primi il termine “La Cosa Nostra” per designare la loro organizzazione criminale.
(20) – Ecco cosa scriveva Luigi Sturzo a proposito della <<Piccola Industria S. Isidoro>> : “Sotto forma di società per azione, anonima a capitale illimitato, si sono uniti più di cento agricoltori, per liberarsi dal giogo degli sfruttatori inumani, che prendono in fitto direttamente i latifondi dai proprietari (che conducono la vita nelle lontane città, forse sciupandosi in giochi e cavalli), per poi subaffittarli speculando sul prezzo, che coscienziosamente raddoppiano per pigliar gl’interessi del periculum sortis! (…) Tale cooperativa si sostituisce agl’intermediari, e contratta direttamente col proprietario, per poi ridare quei latifondi, divisi a particelle, agli azionisti, i quali devono coltivarle direttamente o a mezzadria, con i patti determinati dallo statuto. Il prezzo del latifondo resta inalterato, solo viene aumentato dalle spese di amministrazione, deliberate dagli stessi soci” (Il Crociato (L. Sturzo), “Salviamo l’agricoltore”, in <<La Croce di Costantino>>, 18 marzo 1900, cit. in F. Renda, 1990a, pp. 149-150).
(21) – Un fermo sostenitore della necessità di combinare l’azione della Lega con quella della cooperativa, era Sebastiano Cammareri Scurti: ” La Lega dà la forza di resistenza contro il capitalismo e crea il terreno politico per sostenervi lo sviluppo prospero della Cooperativa. Questa senza della Lega, non potrebbe acquistare la terra e gli altri mezzi di lavoro e di esistenza per i suoi associati: i latifondisti rifiutano le terre alle Cooperative anche ai patti consueti, se non sono costretti dal boicottaggio fatto nelle loro terre dalla Lega dei contadini. La Lega e la Cooperativa, restando divise, con funzioni separate si integrano a vicenda (…) L’acquisto collettivo della terra, sostenuto nel terreno politico della Lega, tende a riformare, per libera contrattazione tra Cooperativa e latifondista, i barbararici patti della <<gabella>>”(S.C. Scurti, 1904, “Il problema siciliano e meridionale al Congresso dei contadini di Corleone”, cit. in G. C. Marino, 1972, p. 114).
(22)- Là dove, al contrario, il movimento socialista non era riuscito ad attecchire – come ad esempio nella zona di Caltagirone – i seguaci di Luigi Sturzo venivano aspramente avversati dai latifondisti, poiché anch’essi attentavano al tradizionale ed oppressivo sistema di produzione del latifondo.
(23) – “Processo per l’assassinio di B. Verro”, sentenza di rinvio a giudizio, Palermo, 1917, cit. in D. Paternostro, 1994, p. 42.
(24) – “Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia”, vol. VI, “Sicilia”, tomo I, “Relazione del delegato tecnico prof. Giovanni Lorenzoni”, 1910, cit., in F. Renda, 1990a, p. 166.
(25) – Ibidem, cit. in F. Renda, 1990a, pp. 168-169.
(26) – Le agitazioni contadine del 1901 spinsero i preoccupati latifondisti a costituirsi in associazione, per la difesa della proprietà terriera e degli interessi generali dell’agricoltura. L’Associazione degli Agricoltori Siciliani – alla quale aderirono anche alcuni rappresentanti di società agricole – fu varata, a Palermo, il 9 novembre 1901 ( Filippo Lo Vetere, propugnatore dell’interclassismo agrario, ne divenne segretario).
(27) – Campofiorito, Prizzi, Palazzo Adriano, Villalba, Santo Stefano Qusquina, Salemi, Collesano, Scillato ( Cfr.F. Renda, 1990a, pp. 203-271).
(28) – Simili gesti di solidarietà si erano avuti anche durante lo sciopero agrario del 1893 ( come abbiamo visto nel primo capitolo).
(29)- Cfr. F. Renda, 1990a, pp. 265-272; D. Paternostro, 1994, p. 39.
(30) – <<Avanti!>>, 27 novembre 1901, cit. in F. Renda, 1990a, p. 267.
(31)- La composizione sociale delle leghe di miglioramento risultò come segue: “piccoli proprietari n. 14.416 (32,96%); piccoli fittavoli n. 6.596 (15,08%); coloni e mezzadri n. 5.729 (13,09%); braccianti salariati n. 15.590 (35,64%); obbligati n. 1.405 (3,21%); donne in tutto 182” (F. Renda, 1990a, p. 202).
(32) – “Lo sciopero generale proclamato dalla camera del lavoro di Palermo ebbe l’adesione degli operai del cantiere navale, dei portuali, degli scalpellini, e di qualche altra categoria. A Messina vi furono delle incertezze, e si rinviò la decisione di fare o non fare lo sciopero al giorno 19, ma non si concluse nulla. A Catania, sotto la direzione personale del De Felice, si sviluppò una forte manifestazione di protesta, prottrattasi per vari giorni. Una certa forza ebbe anche lo sciopero generale di Caltanissetta, al quale parteciparono gli zolfatai e molti negozi cittadini. Anche i minatori di Castrogiovanni si astennero dal lavoro. Nelle campagne, invece, vi fu uno sciopero generale di due giorni a Corleone e di un giorno a Prizzi. In altri comuni, a Canicattì, Militello, Castelvetrano, Mazzara del Vallo, non si andò oltre le manifestazioni interne e la votazione di ordini del giorno di solidarietà. A Trapani, un pubblico comizio (…) fu sciolto dalla polizia, dando luogo a non gravi incidenti” (F. Renda, 1990a, pp. 423-424).
(33) – “L’eccidio di Castelluzzo. Caccia al contadino”, in <<La voce dei socialisti>>, Trapani, 17 ottobre 1904, cit. in G.C. Marino, 1972, p. 123.
(34)- Secondo Giuseppe Carlo Marino (1979, p. 43) i morti furono diciotto ed i feriti circa duecento; secondo U. Santino (1995, p. 20), i morti furono tredici ed i feriti sessanta.
(35)- Ecco, con le parole di Jole Calapso (1980, p. 129), il racconto di quei drammatici momenti: “Diciotto soldati spararono all’impazzata più di cento colpi di fucile mentre i carabinieri usavano le rivoltelle. Soltanto pochissimi proiettili andarono a vuoto, dodici furono i morti e 120 i feriti, tutti contadini. Un vecchio colpito agli occhi da due pallottole stramazzò a terra cieco. Due ragazzi sfidando il pericolo lo portarono a casa per mano. Morirono Salvatore Malizia di 9 anni e due donne, una incinta di otto mesi. Il tenente Festa, che aveva dato l’ordine di aprire il fuoco, si commosse vedendo una bambina, smarrita, traversare la piazza già quasi sfollata chiamando la madre. Ordinò di smettere ma i soldati non l’ascoltavano. Allora si piazzò davanti alle bocche dei fucili per impedire loro di sparare. Così ebbe termine la carneficina”.
(36)- Enrico La Loggia nel 1907 patrocinò la costituzione della <<Federazione delle cooperative siciliane>>,che nel 1912 avrebbe contato 42 associazioni federate e 8 aderenti (soprattutto casse agrarie) (G.C. Marino, 1972, p.181).
(37) – E. La Loggia, “Contributo a nuovi studi sulle affittanze collettive in Sicilia”, in <<La Cooperazione sociale>>, a. I, n. 20, Palermo, 15 ottobre 1912, cit. in G.C. Marino, 1972, p. 188.
(38) – Ziino, 1911, “Il latifondo ed il latifondismo, cit. in G.C. Marino, 1972, p. 186.
(39) – Ibidem.
(40) – “Processo per l’assassinio di B. Verro”, sentenza di rinvio a giudizio, Palermo, 1917, cit. in D. Paternostro, 1994, pp. 40- 41.
(41) – Ibidem, cit. in D. Paternostro, 1994, p. 42.
(42) – Ibidem, cit. in D. Paternostro, 1994, p. 43.
(43) – Dedica scritta sul monumento in ricordo del Verro, in D. Paternostro, 1994, p. 48.
(44) – Anche da studiosi quali Anton Blok, Henner Hess, Jane e Peter Schneider, Pino Arlacchi “prima maniera” (S. Lupo, 1993, p. 13n) cioè prima delle deposizioni di Tommaso Buscetta.
(45) – Dove si era recato per aiutare la popolazione colpita dal terremoto; per questo, nell’aprile 1911, era stato nominato segretario della locale Camera del lavoro.
(46) – A. Tasca, “Un apostolo troncato”, in<<Avanti!>>, 31 maggio 1911, cit. in S. Lupo, 1993, p. 129.
(47)- Nel febbraio del 1916, a Ciaculli (borgata di Palermo) la mafia uccise un sacerdote, don Giorgio Gennaro, che durante un’omelia aveva denunciato “il ruolo dei mafiosi nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche” (U. Santino, 1995, p. 23). Questo episodio dimostra come la mafia, nella difesa dei propri interessi, non abbia riguardi per nessuno.
(48)- G. Carocci, 1971, “Giolitti e l’età giolittiana”, cit. in G.C. Marino, 1979, p. 85.
PRIMO DOPOGUERRA IN SICILIA: RIPRENDE LA LOTTA PER IL RISCATTO SOCIO-ECONOMICO DELLE MASSE RURALI
1. LA GUERRA ’15-18 E IL <<RITORNO ALLA PACE>>
La prima guerra mondiale ebbe inevitabili ripercussioni nell’economia e nella società siciliane. Essa, innanzitutto, provocando un sostanziale trasferimento di ricchezza dall’agricoltura all’industria (e quindi dal Sud al Nord), portò ad una ulteriore accentuazione del divario economico esistente trale due parti del Paese. Il processo di industrializzazione avviato in tutta la nazione, per far fronte alle esigenze militari, interessò, ovviamente, anche la Sicilia. Tuttavia, ivi, a causa della mancanza di capitali, manodopera specializzata e trasporti efficienti, non si registrarono quei sorprendenti risultati e incrementi produttivi cui si assistette al Nord, ove furono gettate le basi di un sistema industriale.
Naturalmente, la guerra non mancò di produrre i suoi effetti anche sull’agricoltura.
Già nel periodo della neutralità italiana (agosto 1914-maggio 1915) si era avuta una grave crisi granaria – dovuta a un lungo periodo di siccità ed al blocco dei mercati internazionali – che aveva riacutizzato la tensione nelle campagne, vista la generale ed usuale tendenza dei proprietari terrieri a scaricare il peso della crisi sulle masse contadine (1). Per cercare di arginare il vertiginoso aumento del prezzo del grano, il Governo (con un decreto del 31 gennaio 1915) ne abolì il dazio doganale (introdotto nel 1887, fonte di forti privilegi per i latifondisti). Purtroppo, però, questo provvedimento giunse in ritardo, poiché le importazioni dei cereali erano ormai quasi completamente cessate.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, si assisté, contemporaneamente, al crollo produttivo e al consolidamento della cerealicoltura!
Alla base del primo vi furono: il diritto di requisizione ed il prezzo d’imperio, stabiliti tramite decreti ministeriali, la rarefazione della manodopera, e, quindi, l’aumento dei costi di produzione; il fallimento delle aziende cerealicole precarie, sia per i motivi suddetti sia per il richiamo al fronte dei contadini che le gestivano. Nel 1917, pertanto, si registrò in Sicilia, una riduzione del 21,7% della area coltivata a frumento, e un calo del 26,4% della produzione (G. Barone, 1977, p. 102).
Nel contempo, durante il conflitto, nelle campagne dell’entroterra si ebbe una maggiore circolazione di denaro. Il rincaro dei prezzi dei prodotti agricoli e lo svilupparsi di un commercio extralegale del grano, avvantaggiarono sia i grandi sia i piccoli produttori. Alla fine delle ostilità, perciò, vi sarebbero stati più contadini medi e ricchi di quanti ve ne fossero all’inizio. Tuttavia, i profitti dei coltivatori diretti e dei mezzadri – che difficilmente riuscivano a sfuggire alle requisizioni – non erano certamente paragonabili a quelli dei latifondisti (che, tra l’altro, poterono sopperire alla mancanza di braccia con l’impiego di circa 50.000 prigionieri austriaci e tedeschi) e dei grossi gabelloti, i quali rafforzarono ulteriormente la propria posizione economica, soprattutto vendendogrossi quantitativi di grano al mercato nero.
La guerra, inoltre, fornì il destro a facili e repentini arricchimenti, creando un vero e proprio “pescecanismo agrario” (F. Renda, 1990b, p. 334). Essa, infatti, oltre ad accrescere le distanze tra piccola e grande azienda cerealicola, causò delle marcanti differenze, all’interno degli stessi ceti rurali, tra coloro che erano stati costretti ad abbandonare la propria impresa agricola o il proprio piccolo appezzamento di terra per andare al fronte e coloro che erano potuti rimanere “nel cosiddetto <<fronte interno>>” (G. C. Marino, 1976, p. 89). Questi ultimi, sfuggiti alla trincea “per ragioni di età, per imperfezioni fisiche, per essere riusciti a strappare o a <<comprare>> un esonero dal servizio militare”, aguzzarono “ingegno e furbizia” (G.C. Marino, 1976, p. 89) e si dedicarono ad attività più o meno lecite. Così, molti imboscati, per lo più gabelloti, si arricchirono,
“oltre che con l’accaparramento a condizioni vantaggiose delle terre (dei piccoli e medi proprietari richiamati alle armi, N.d.a.), con le più svariate attività speculative, tra le quali il traffico delle licenze e degli esoneri, il mercato nero, la requisizione dei quadrupedi per l’esercito” (G.C. Marino, 1976, p.89).
A subire le tristi conseguenze dell’economia di guerra furono, dunque, soprattutto i ceti proletari e semiproletari, urbani e rurali, ed i proprietari ed i contadini dei territori costieri a coltura intensiva. Nel periodo bellico, infatti, il consumo interno dei prodotti agricoli pregiati (uva, agrumi, frutta secca, ortaggi) si ridusse drasticamente, e le esportazioni erano bloccate. La cerealicoltura, di conseguenza, nonostante l’abolizione del dazio sul grano, “tornò ad essere il settore più forte della ricchezza agricola isolana” (F. Renda, 1990b, p. 334).
Tirando le somme, la prima guerra mondiale ebbe sull’ecomomia siciliana (al contrario che sull’economia del Nord Italia) “più effetti negativi che positivi”, avendo prodotto “più danni che vantaggi” (F. Renda, 1990b, p. 335):
“Nella industria, i segni di cambiamento furono a volte più evidenti che negli altri campi, ma non destinati a lasciare tracce durature; in agricoltura, prevalse ovunque un movimento di involuzione; la costa fu meno favorita dell’interno; e l’interno stesso fu soggetto a impulsi e spinte non sempre omogenei e perequati. Ne risultò che il grano prese il posto degli agrumi e del vino; e il formaggio riconquistò i suoi antichi allori. Insomma, la Sicilia postbellica, in un panorama nazionale e internazionale profondamente cambiato, sotto il profilo economico si ritrovò ancora meno industriale che agricola di prima; e sotto il profilo agricolo, più latifondistica che trasformata. Il problema della <<fame di terra>>, da sempre latente nelle pieghe della società rurale, ne uscì dunque esaltato, come mai era prima successo” (F. Renda, 1990b, p. 335).
Quanto alle conseguenze che ebbe il conflitto nella società siciliana, la prima guerra mondiale non si risolse, come taluno aveva previsto, in una grande e generale rivoluzione. Nondimeno, essa innescò una serie di importanti fenomeni di ordine sociale e politico, che concorsero a dare alla Sicilia un aspetto diverso (2) (cfr. F. Renda, 1990b, p. 305 e pp. 312-330).
Un contributo fondamentale, in tal senso, venne (come vedremo nel prosieguo della trattazione) dalle masse contadine, le quali avevano costituito il nerbo dei reparti di fanteria. Per esse la guerra si era rivelata una esperienza tanto drammatica quanto straordinaria, al punto di incidere sulle loro mentalità, abitudini e concezioni (F. Renda, 1990b, p. 327).
Molti contadini siciliani, con la chiamata alle armi, avevano per la prima volta abbandonato il paese natìo, ed erano venuti a contatto con culture, lingue, costumi diversi
dai propri; alcuni avevano imparato, così, a parlare l’italiano. Nelle trincee, inoltre, avevano acquisito piena coscienza dei propri diritti sociali e politici – aiutati, in questo, da alcuni valorosi ufficiali-intellettuali – primo fra tutti quello di essere ricompensati per il loro sacrificio in nome della Patria. Così, con il conflitto ancora in corso, si cominciò a parlare di redistribuzione terriera a favore dei combattenti. Lo Stato italiano, del resto, avallò – se non addirittura propagandò – questa richiesta, al fine di rafforzare il senso patriottico dei fanti-contadini e di ottenerne il massimo impegno.
La tematica de <<la terra ai contadini>> (formula lanciata dalla Federazione dei lavoratori della Terra, cfr. F. Renda, 1990b, p. 328) fu quindi al centro del dibattito politico durante e subito dopo la prima guerra mondiale.
Sotto questa pressione fu istituita, con legge del 10 dicembre 1917, l’Opera Nazionale Combattenti, un ente pubblico al quale lo Stato delegò l’attività di redistribuzione della proprietà fondiaria:
“L’Opera Nazionale Combattenti (…) aveva la possibilità legale di procedere all’esproprio coattivo di terreni appartenenti a proprietari privati che fossero soggetti a obbligo di bonifica ovvero risultassero idonei ad importanti trasformazioni colturali e di concederli ai combattenti coltivatori diretti o a cooperative di cui fossero parte notevole i combattenti, in utenza o locazione a miglioria rinnovabile, oppure in utenza a miglioria con diritto di acquisto” (G.C. Marino, 1976, pp. 86-87).
Con il ritorno alla pace ripresero, dunque, le lotte contadine, con caratteristiche, però, essenzialmente diverse rispetto alle lotte d’inizio secolo.
Tra le novità sostanziali figurò la costituzione, a partire dal 1917, delle associazioni dei combattenti e reduci, le quali avrebbero avuto un ruolo preminente nelle battaglie per la conquista delle terre.
Il movimento combattentistico nacque come una sorta di alleanza, contro i grandi proprietari, fra “contadini-soldati” e “intellettuali-ufficiali” (R. Palidda, 1977, p. 237). Ben presto, però, “l’interclassismo che voleva uniti dalla comune esperienza della trincea i borghesi che con la guerra si erano arricchiti e i lavoratori cui la guerra aveva invece fruttato solo dolore e miseria”, l’oscillazione del movimento “fra un blando riformismo e un blando nazionalismo”, i suoi “toni patriottici <<antibolscevichi>>”, e “il corporativismo che pretendeva privilegi a danno degli altri lavoratori”:
“fecero sì che le associazioni combattentistiche subissero le più disparate influenze, che diventassero massa di manovra dei vari gruppi politici a fini elettoralistici, o che si frantumassero in ragguppamenti personalistici tipici della politica locale. Inoltre, l’antibolscevismo associato ad una polemica generica contro i vecchi partiti democratici e riformistici, spiega anche come un’ala del combattentismo confluisse in quella parte del primo fascismo siciliano dai toni vagamente populistici e moralizzatori” (R. Palidda, 1977, p. 237).
Altre novità importanti di questa nuova ondata di lotte contadine furono: l’emanazione dei decreti Visocchi-Falcioni; il movimento di occupazione dei latifondi; ed il tentativo di costituire un circuito rivoluzionario tra città e campagna.
2. IL MOVIMENTO CONTADINO NEL PRIMO DOPOGUERRA
Con il ritorno dalla guerra, “Ai reduci contadini s’impose subito la necessità di affrontare, sul fronte interno, una nuova battaglia” (G.C. Marino, 1976, p. 90). Numerose e gravi furono, infatti, le difficoltà che si trovarono a fronteggiare per riprendere il loro lavoro: mancanza di attrezzi agricoli; rialzo dei canoni di affitto; arroganza ed ostilità dei gabelloti, arricchitisi durante la guerra; danni causati dalle scorrerie delle numerose bande di briganti (costituite per lo più da renitenti e disertori, ma anche da malfattori) che negli anni del conflitto e nell’immediato dopoguerra minacciarono la sicurezza dei beni e delle persone delle campagne siciliane; rafforzamento delle posizioni dei grandi proprietari terrieri.
Come sappiamo, però, in trincea essi avevano consolidato la propria volontà di riscatto. Inoltre, lo Stato italiano aveva promesso loro che sarebbero stati ripagati con la terra per il tributo di sangue alla Patria.
Così, già nei primi mesi del 1919, i cattolici del Partito Popolare (costituito nel gennaio di quell’anno), i socialisti riformisti ed ufficiali, ed i combattenti dell’ Isola, ripresero o avviarono la propria attività di propaganda e organizzazione, tra le plebi rurali, all’insegna de <<la terra ai contadini>>.
Alla fine dell’estate, i contadini di alcuni comuni dell’entroterra palermitano (Piana dei Greci, S.Giuseppe Jato, Sancipirello, Prizzi, Palazzo Adriano) scesero in sciopero “contro i gabelloti e gli <<accaparratori terrieri>> con l’intenzione di travolgere i vecchi patti agrari e di insediarsi stabilmente sulle terre” (G.C. Marino, 1976, p. 136).
L’incalzare delle agitazioni contadine in Sicilia e in Basilicata, e le occupazioni di terre avvenute, già nel primo semestre dell’anno, nel Lazio e nelle Puglie (A. Cicala, 1978, pp. 63-64), <<costrinsero>> il Governo a varare alcuni decreti per far fronte alla crisi e per non venire meno alle promesse fatte ai contadini durante la guerra.
Il 2 settembre 1919 fu emanato, quindi, il decreto Visocchi, ed il 22 aprile 1920 il decreto Falcioni.
Con questi provvedimenti il Governo dispose la concessione delle terre incolte, o insufficientemente coltivate, alle cooperative ed organizzazioni contadine legalmente costituite. Presso tutte le prefetture del Regno fu istituita una speciale commissione – composta da proprietari e lavoratori – il cui compito era quello di dichiarare quali terreni potevano considerarsi incolti o
malcoltivati e di vagliare le domande di assegnazione. Le terre potevano essere concesse con diverse modalità, prevedendo i decreti “un arco di possibilità che andava dalla concessione temporanea in affitto all’enfiteusi, al rapporto di miglioria con diritto di acquisto” (G.C. Marino, 1976, p. 86).
Con i decreti Visocchi-Falcioni la cooperazione perdeva quella spontaneità che l’aveva caratterizzata fino ad allora e diventava, per il contadino, un mezzo necessario ed obbligatorio per accedere al possesso della terra. Quest’ultima, non veniva più concessa in base alla libera contrattazione tra le parti bensì, per la prima volta, in applicazione di una legge dello Stato (cfr. F. Renda, 1979, p. 100).
In realtà, secondo diversi studiosi, con questi decreti il Governo volle “porre un freno al movimento per la conquista della terra” (R. Palidda, 1977, p. 236). Tali decreti, accolti “come una vittoria dai contadini” (G. Alibrandi, 1981, p. 41), alla lunga risultarono essere degli interventi riformistici miranti, “attraverso lungaggini burocratiche”, a “smobilitare il movimento dei contadini” (G. Alibrandi, 1981, p. 41). Essi, infatti, furono formulati in modo tale da fornire un ampio potere discrezionale alle commissioni provinciali – all’interno delle quali vi era una prevalenza di proprietari e funzionari statali (R. Palidda, 1977, p. 236) – soprattutto in riguardo all’accertamento dello stato di incoltura dei terreni, condizione necessaria per la requisizione degli stessi. Quindi, se in astratto lo stato di incoltura si sarebbe potuto rilevare basandosi su precisi criteri agronomici,
“in concreto, tutte le decisioni favorevoli ai contadini avrebbero avuto poi da scontrarsi con i cavilli dei proprietari che potevano appellarsi a consuetudini locali e a sterminate tipologie di modi di utilizzazione aziendale e di <<cause di forza maggiore>>” (G.C. Marino, 1976, p. 88).
Le aspettative del Governo andarono, però, presto deluse: i suoi provvedimenti piuttosto che <<calmare le acque>> contribuirono ad agitarle. Il loro primo effetto fu quello di far dilagare anche in Sicilia – già a partire dal settembre 1919 – il movimento di occupazione dei latifondi, e di accentuare le agitazioni contadine (per l’abolizione dell’intermediario parassitario, per la riduzione dei canoni di affitto, per la modifica dei patti agrari e per il miglioramento delle condizioni di vita dei braccianti) già in atto.
Protagonisti delle lotte popolari del primo dopoguerra furono un pò tutti i ceti rurali: dai braccianti e contadini poveri (di certo i più numerosi), ai mezzadri, gli affittuari e i piccoli proprietari. Di conseguenza, diverse furono le forze politiche che si posero alla loro guida. Innanzitutto, le associazioni locali dei combattenti e reduci, “che si consideravano e a volte pretesero di essere le sole e genuine rappresentanti degli interessi dei lavoratori di campi” (F. Renda, 1990b, p. 343). Seguivano i cattolici del Partito Popolare ed i socialisti riformisti, i quali potevano contare su di una vasta rete di organizzazioni economiche e sindacali (cooperative agricole, leghe contadine, camere del lavoro, casse rurali e agrarie) e facevano riferimento alle classi contadine meno disagiate. E, per finire, i socialisti non riformisti. Questi, benché fossero i meno numerosi ed i più isolati, erano:
“i più forti e ascoltati per la chiarezza delle idee e per la coerenza dei programmi; e anche i più temuti in ragione di ciò che, di fatto, rappresentavano. Alla loro guida rimanevano, infatti, gli organizzatori contadini più intelligenti e capaci e anche più incorruttibili (…)” (F. Renda, 1990b, p. 343).
Così, alla testa dei contadini in agitazione ritroviamo uomini come Nicola Barbato e Nicolò Alongi, intesi a continuare l’attività di Lorenzo Panepinto e di Bernardino Verro, cui la mafia era riuscita a togliere la vita ma non l’ammirazione e l’affetto delle masse rurali.
Anche in questi anni, pertanto, come vedremo,
“Corleone, Prizzi e Santo Stefano Quisquina, testa e cuore delle lotte agrarie più avanzate e significative, furono trasformati dal terrorismo agrario mafioso in vero e proprio triangolo della morte” (F. Renda, 1990b, p. 343).
Tutte le forze politiche su menzionate, tranne i socialisti ufficiali, posero al centro dei loro programmi agrari la redistribuzione dei grossi latifondi ai contadini. Il Partito socialista italiano (all’interno del quale, in quel periodo, prevaleva la corrente massimalista) restò, invece fedele al principio del collettivismo agrario e privilegiò la propaganda e la lotta per la modifica dei patti agrari, per gli aumenti salariali e la giornata lavorativa di otto ore. Proprio per questo la sua influenza crebbe soprattutto nella Sicilia orientale, ove si registrava una maggiore presenza di braccianti rispetto al resto dell’Isola (cfr. R. Palidda, 1977, p. 235).
Nel 1920, la direzione nazionale del Partitosocialista inviò in Sicilia la massimalista Maria Giudice “per curare l’organizzazione politica e sindacale dei lavoratori” (J. Calapso, 1980, p.175). Ma, sebbene nei congressi socialisti regionali venisse ribadita la tesi (sostenuta da Sebastiano Bonfiglio) secondo la quale “il latifondo non andava spartito fra i singoli contadini, bensì espropriato per costituire una proprietà comune indivisa e intangibile da affidare in coltivazione alle cooperative agricole” (F. Renda, 1990b, p. 344), nei fatti diverse cooperative ed organizzazioni socialiste locali – venendo incontro alle reali aspirazioni dei contadini – si battevano, nell’immediato, per la quotizzazione ed il possesso individuale delle terre. I nuclei socialisti rurali, quindi, così come durante il movimento d’inizio secolo delle affittanze collettive, caddero nella contraddizione tra fini ultimi e prassi, e questo, ancora una volta, costò loro un certo isolamento all’interno del partito.
Sin dal suo ricostituirsi, il movimento contadino siciliano si trovò, nuovamente, di fronte la reazione violenta della mafia e delle forze dell’ordine. Indicativi, a tal proposito, furono i tragici episodi di Prizzi, Terranova e Riesi.
A Prizzi (in provincia di Palermo) dal 31 agosto 1919 era in corso uno sciopero agrario per ottenere direttamente in affitto – cioè senza l’intermediazione del gabelloto – le terre richieste. Il 21 settembre si tenne un pubblico comizio nel quale presero la parola i dirigenti socialisti Nicola Alongi e Giuseppe Sapienza ed il segretario della locale lega contadina, Giuseppe Rumore. Quest’ultimo, in particolare, dichiarò che “se le autorità non avessero fatto rispettare i decreti Visocchi e Falcioni i contadini avrebbero invaso le terre, seguendo l’esempio dei loro compagni del Lazio” (G.C. Marino, 1976, p. 139). Per tutta risposta, furono rinforzate le truppe di carabinieri e soldati del paese. Ma la reazione della mafia fu ancora più pronta! La notte stessa del comizio, l’Alongi ricevette un chiaro <<avvertimento>> : gli furono rubati gli animali. Il giorno seguente, Giuseppe Rumore fu ucciso con due colpi di fucile!
A Terranova (oggi Gela, in provincia di Caltanissetta), il 5 ottobre i contadini entrarono in agitazione per l’assegnazione diretta dei fondi della principessa Pignatelli di Palermo. Nello stesso giorno la polizia arrestò venti dimostanti,e si pose a difesa dei feudi. L’intervento della forza pubblica non fece che accrescere il malcontento della popolazione e, quindi, la tensione che si respirava in paese. La situazione precipitò il 9 ottobre, allorché una folla di circa seimila persone si incamminò, minacciosa, verso la caserma dei carabinieri per chiedere la scarcerazione dei compagni arrestati. Al tumulto popolare la forza pubblica reagì con il fuoco. Tre furono i morti, circa sette i feriti (3).
A Riesi si verificò l’episodio più grave (quanto a numero delle vittime) del primo dopoguerra. In questo paese della provincia nissena, l’8 ottobre 1919 mille contadini si recarono in corteo verso il feudo Palladio, con l’intenzione di occuparlo e di chiederne la concessione. Arrivati sul posto, vi trovarono schierate le forze dell’ordine, armate. Al comando di quest’ultime vi era una giovane commissario, tale Ettore Messana,
“che nel secondo dopoguerra, negli anni tra il ’46 e il ’48 (…), trescherà coi monarchici, coi separatisti, con la mafia. Si tratta di quell’ Ettore Messana che nulla (avrebbe fatto) per impedire la strage di Portella della Ginestra” (O. Barrese, 1973, p. 250).
Non avendo altra scelta, i contadini ritornarono in paese. Però, invece di ritirarsi nelle proprie case, essi si riunirono in piazza, e il dirigente socialista Alfredo Angeletti improvvisò un appassionato comizio. Il comandante di P.S., rientrato di fretta in paese, intimò di sciogliere quell’adunata. L’Angeletti rispose che i contadini si sarebbero allontanati solo allorquando le forze di polizia fossero state ritirate (cfr. A. Cicala, 1978, p. 66). Il Messana, di rimando, fece suonare i tre squilli di tromba. I contadini reagirono lanciando sassi contro le truppe. Queste aprirono il fuoco. Il bilancio di sangue di quella tragica giornata fu di venti morti e di una cinquantina di feriti (O. Barrese, 1973, p. 250) (4). La folla, inferocita, si scagliò contro i militari, i quali inseguiti, furono costretti a fuggire dal paese. Un sottotenente fu trovato morto poco distante dal centro abitato, ma si avanzarono anche le ipotesi di suicidio o di furto. Ettore Messana, con questa azione di forza, divenne
“benemerito per i padroni della terra e delle zolfare che comunque dispon(evano) anche della mafia per rispondere col piombo alle rivendicazioni dei contadini e dei minatori” (O. Barrese, 1973, p. 250).
Gli incidenti di Riesi ebbero grande risonanza in tutta la Sicilia, provocando ovunque un profondo turbamento; ma, piuttosto che fiaccare il nascente movimento di occupazione dei feudi lo rafforzarono. Tale movimento, difatti, divenne ben presto – per imponenza, carica emotiva e incisività – il fenomeno più importante del <<biennio rosso>> dei contadini siciliani. Questa forma di lotta non era nuova al mondo contadino. Ma, mentre in passato essa era stata usata per la conquista di terreni demaniali ingiustamente sottratti alle popolazioni (vedi,ad esempio, la protesta organizzatadai contadini di Caltavaturo, nel gennaio del 1893,conclusasi con un eccidio), nel primo dopoguerra, per la prima volta, ad essere occupate erano delle proprietà private.
A partire dal mese di ottobre del 1919 e fino alla fine del 1920 l’Isola intera fu teatro di invasioni ed occupazioni di terre incolte e malcoltivate (ma, a volte, anche di quelle coltivate). In complesso, i feudi occupati furono almeno 339, per un totale di 90.000 ettari di terra (F. Renda, 1979, p. 100).
In molti centri rurali si assisté – soprattutto nei mesi autunnali – ad uno <<spettacolo>> sostanzialmente uguale:
“Alla sera nelle case del popolo i contadini preparavano gli elenche delle terre da occupare. All’indomani partivano chi a piedi, chi a dorso di mulo e altri ancora con le biciclette per occupare le terre: picchettavano, sarchiavano e poi provvedevano alla semina. Finito il lavoro tornavano nuovamente in paese, per riprendere l’occupazione all’alba”
(G. Alibrandi, 1981, p. 47).
Per le masse rurali sembrava finalmente giunta l’ora del riscatto. Ecco, ad esempio, cosa scriveva un corrispondente locale del Giornale di Sicilia a proposito dell’invasione di un ex-feudo a Siculiana, avvenuta il 25 luglio 1920:
“Per deliberazione presa ieri sera, questa mattina di buon’ora, una massa di contadini con bandiera e fanfara è partita a pigliar possesso dell’ex-feudo San Giorgio (…) L’agitazione risale al tempo dei Fasci dei lavoratori (1893) non essendosi i signori feudatari, che assorbono tutta la proprietà di una vastissima periferia attorno a Siculiana, mai degnati di attenuare il malcontento di questa popolazione agricola, dando direttamente ai contadini uno dei tanti feudi di loro proprietà. Essi li diedero invece sempre in gabella a grossi speculatori gabelloti che si arricchivano alle spalle del misero contadino costretto a lavorare la terra per conto di altri con onerosi patti di metateria. L’epilogo delle agitazioni, come il nodo al pettine, è arrivato oggi alla sua soluzione. Il contadino, stanco di attendere le lunghe promesse, fidente nella sua forza e nel suo diritto, s’impossessò della tanto agognata terra. Compiuta l’occupazione e dopo le constatazioni eseguite dalla commissione prefettizia nelle ore pomeridiane di ieri, i contadini ritornarono in paese dove una fiumana di popolo li attendeva alle porte dell’abitato con la banda musicale. Una interminabile ovazione accolse l’arrivo della grande cavalcata” (cit. in F. Renda, 1990b, p. 346).
Come si può vedere anche dalla cronaca su riportata, il corteo dei contadini che si recavano ad occupare i latifondi era di solito accompagnato dal festante suono di fanfare, tamburi, organetti. I dimostranti, portavano con sé i gonfaloni delle loro organizzazioni e/o bandiere bianche, rosse o tricolori – a seconda che la manifestazione fosse stata organizzata dai popolari, dai socialisti o dai combattenti – che avrebbero poi piantato nelle terre, come segno di conquista (nelle manifestazioni congiunte, ovviamente, sventolavano tutte e tre le bandiere) (5). Qualche volta si contava la partecipazione di vecchi e bambini. Le donne invece – al contrario di quel che (come vedremo nel prossimo capitolo) sarebbe avvenuto nel secondo dopoguerra – raramente prendevano parte alle occupazioni. Secondo Jole Calapso (1980, p. 188) questo fu dovuto probabilmente, “a parte le possibili omissioni”, al fatto che in diverse province siciliane il movimento del ’19-20 fu egemonizzato dalle associazioni degli ex-combattenti.
Le donne, comunque, pur se non partecipavano all’impossessamento materiale delle terre, erano sempre presenti nelle manifestazioni organizzate nei paesi per accogliere gloriosamente e sostenere i contadini impegnati nelle occupazioni (6).
La presenza femminile, inoltre, fu determinante nelle agitazioni per il carovita, che scoppiarono nel luglio 1919, ed in quelle per l’insufficiente approvvigionamento di farina e grano, che esplosero nella primavera-estate del 1920. In una di queste agitazioni, e precisamente quella che si tenne a Randazzo il 27 luglio 1920, le forze dell’ordine aprirono il fuoco sui dimostranti. Il bilancio di sangue fu gravissimo: nove morti e numerosi feriti! Il giorno dopo, a Catania, uno sciopero di protesta per l’eccidio di Randazzo si concluse con un altro eccidio!
“Nel corso delle manifestazioni di piazza, particolarmente tumultuose, si verificarono vari scontri tra la truppa (…) i dimostranti e alcuni provocatori nazionalfascisti che avevano disturbato il comizio socialista di Giuseppe Sapienza e Maria Giudice al teatro Sangiorgi. Le <<forze dell’ordine>> spararono sulla folla con le mitragliatrici: sei dimostranti, tra una quarantina di feriti, rimasero uccisi” (G.C. Marino, 1976, p. 107n).
Questi tragici episodi, uniti a quelli precedenti di Riesi e Terranova ed a quelli che sarebbero seguiti di Centuripe (nell’ottobre 1920 i carabinieri, intervenendo in un tafferuglio tra socialisti e popolari, uccisero due socialisti) e Comiso (l’8 novembre 1920 la Guardia Regia sparò sulla folla, in agitazione per l’accoltellamento, per mano fascista, del presidente della lega contadina: quattro morti, nove feriti) ci rivelano l’uso spregiudicato e disinvolto che le autorità governative facevano delle forze di P.S.. Alla base di questi sanguinosi interventi vi era la volontà di evitare che il movimento contadino travalicasse gli argini del riformismo, che assumesse, cioè, le caratteristiche di un vero e proprio movimento rivoluzionario. Benché sia Nitti sia Giolitti fossero contrari, in linea di principio, al ricorso alla repressione violenta e generalizzata, nei fatti le loro generiche direttive ai prefetti finivano per concedere a questi ultimi un forte potere discrezionale, e per favorire – così come nell’età giolittiana – le forze in campo più potenti (7).
Ben presto, inoltre, ai tradizionali strumenti in mano alla classe dominante isolana per <<tenere a bada>> le spinte rivoluzionarie delle masse contadine – mafia e “apparato burocratico-poliziesco dello Stato liberale” (R. Palidda, 1977, p. 239) – se ne sarebbe aggiunto uno nuovo: la violenza delle squadracce fasciste.
3. IL MOVIMENTO OPERAIO PALERMITANO ED I TENTATIVI DI COSTITUIRE UN FRONTE DI LOTTA UNICO TRA OPERAI E CONTADINI. MA QUEST’UNIONE “NON S’HA DA FARE”!
In Sicilia la classe operaia, vista la scarsa presenza di grosse industrie, era poco sviluppata. Un proletariato numeroso e ben organizzato era presente soltanto a Catania e a Palermo, e fu unicamente nel capoluogo siciliano che si svilupparono lotte sindacali importanti.
Protagonisti di quest’ultime furono i metallurgici organizzati dalla FIOM, alla cui testa vi era l’instancabile Giovanni Orcel. Questi si distinse dagli altri dirigenti del movimento operaio palermitano per le sue idee avanzate e per la passione con la quale cercò di metterle in pratica. Le sue battaglie più significative furono: quella volta alla formazione di un collegamento organico tra lotte operaie e lotte contadine; e l’occupazione del Cantiere Navale di Palermo.
La creazione di un fronte comune di lotta tra operai e contadini era stato il punto di forza del movimento dei fasci siciliani, che, come sappiamo, nacque in città ma si propagò, e raggiunse i suoi risultati più importanti, in campagna. Questo connubio tra classe operaia e classe contadina, però, si era andato progressivamente spezzando a causa dell’atteggiamento di chiusura del Partito socialista italiano, che escluse qualunque alleanza con i contadini non proletari. Nel primo Novecento, in Sicilia, si era arrivati ad una vera e propria cesura tra socialismo urbano – che abbracciava le tesi del socialriformismo – e socialismo rurale, snobbato, per il suo programma, anche dalla corrente massimalista del PSI.
Giovanni Orcel, pertanto, allorché nel 1919-20 tentò di riallacciare i vecchi legami tra città e campagna, incontrò lo sfavore dei riformisti e fu sostenuto apertamente solo dal gruppo dirigente e dalla base della FIOM di Palermo. Nell’entroterra agricolo, invece, egli trovò un convinto alleato in Nicolò Alongi di Prizzi, già militante dei Fasci dei lavoratori e dirigente del movimento contadino.
L’Alongi era uno di quegli attivisti rurali del Partito socialista ufficiale che, a parole, si dichiaravano a favore della collettivizzazione del latifondo, nell’immediato, però – in attesa dell’avvento dello Stato socialista – si adoperavano per la liquidazione dello stesso a favore dei contadini poveri. Egli, inoltre, durante la sua esperienza accanto ai contadini di Prizzi, aveva notato la spontaneità con la quale si veniva a costituire, sui feudi, una sorta di “fronte unico” (G.C. Marino, 1976, p. 135) di lotta, “che unificava le rivendicazioni dei mezzadri, dei terraticanti e dei piccoli affittuari in sciopero contro i gabelloti e i proprietari, con quelle dei reduci senza terra (…)”. Tale fronte riuniva combattenti, socialisti e cattolici e, perciò, “aveva le sue articolazioni nell’Associazione combattenti, nella Lega di miglioramento e nella Lega cattolica” (G.C. Marino, 1976, p. 135).
Affinché questa unità tra i contadini in agitazione si trasformasse in vera e propria forza d’urto contro il tradizionale sistema socio-economico, ci sarebbevoluto un fattivo impegno da parte del partito dei lavoratori, per unificare, sovrastare e dirigere le rivendicazioni provenienti dalle masse rurali e urbane. “Ma il P.S.I era allora largamente estraneo al ruolo al quale lo sollecitavano Alongi e Orcel” (G.C. Marino, 1976, p. 136). La FIOM, pertanto, cercò di sostituirsi ad esso.
I primi passi di questo rinnovato collegamento tra operai e contadini furono mossi alla fine dell’estate 1919. Durante gli scioperi agrari che, a partire dal 31 agosto, si svolsero nel territorio di Prizzi e dei comuni vicini, Orcel e il gruppo dirigente dei metallurgici dimostrarono concretamente la loro solidarietà ai contadini partecipando direttamente alle varie manifestazioni che si tennero per quell’occasione.
Riguardo al problema agrario, lo schieramento Alongi-Orcel
“era decisamente orientat(o) verso una battaglia per l’eliminazione dei patti angarici e per il complessivo miglioramento, a vantaggio dei contadini, dell’intero assetto dei rapporti contrattuali tra proprietà e lavoro, come momento particolare di una più vasta lotta per la conquista della terra che, intanto, si rivolgeva contro gli apparati complessi della dominazione mafiosa sui contadini poveri, e che, sulla base dell’unità di classe, avrebbe potuto saldarsi col movimento dei reduci e dei <<combattenti>>” (G.C. Marino, 1976, p. 138).
Che questo schieramento costituisse un serio pericolo per il tradizionale blocco di potere agrario-mafioso, è dimostrato dalla violenza prontamente scatenata da quest’ultimo per annientarlo e scoraggiarne la ricostituzione.
La prima vittima della reazione mafiosa fu Giuseppe Rumore,collaboratore di Alongi, assassinato – come abbiamo visto – la notte del 22 settembre 1919. I socialisti di Palermo colsero chiaramente il segnale che si era voluto lanciare con questo assassinio, ma, piuttosto che indietreggiare, ne denunciarono pubblicamente la matrice mafiosa. Grande solidarietà fu espressa dagli operai palermitani e in particolar modo dai metallurgici, la cui federazione aprì una sottoscrizione in favore della famiglia Rumore, come segno concreto di protesta contro la mafia.
Inottobre, Orcel organizzò nella sua città una seriedi iniziative di sostegno ai contadini che erano ancora in agitazione in diversi comuni dell’entroterra (8).
Fra i fattori che spinsero i nuclei più attivi del movimento operaio palermitano ad avvicinarsi al mondo rurale può annoverarsi, probabilmente, anche la necessità avvertita da alcuni socialisti ufficiali di rafforzare la propria debole base elettorale urbana con i voti dei contadini, “per fronteggiare la concorrenza dei riformisti nella nuova situazione che si delineava per effetto dell’adozione del sistema proporzionale”. Questo fattore, però, va considerato come “del tutto marginale” (G.C. Marino, 1976, p. 137).
Le elezioni politiche del novembre 1919 suggellarono, in ogni caso, la rudimentale alleanza operai-contadini. La lista dei socialisti ufficiali, nel collegio di Palermo, venne formata, infatti, “attingendo alle forze della FIOM e del movimento contadino” (G.C. Marino, 1976, p. 68; i candidati contadini erano: Nicolò Alongi, capolista; e Vincenzo Schillaci di Corleone). Nei loro comizi, i candidati di questa lista parlavano “di lotta a fondo alla borghesia, di <<rivoluzione>>, di espropriazione delle terre e di nazionalizzazione dei latifondi” (G.C. Marino, 1976, p. 69). Per di più, i socialisti ufficiali organizzavano “raccolte di fondi per le famiglie dei capilega contadini uccisi dalla mafia” (G.C. Marino, 1976, p. 69).
Nelle campagne intorno a Prizzi, intanto, dopo il delitto Rumore, la pressione dei contadini sulla terra era andata via via crescendo.
I proprietari ed i gabelloti mafiosi, piuttosto che cedere parte dei propri feudi, preferirono <<alzare il tiro>>! Puntando direttamente alla testa del movimento. Così, il 1° marzo 1920, fu assassinato Nicolò Alongi (il <<turno>> di Giovanni Orcel, come si vedrà, sarebbe arrivato qualche mese più avanti).
Nel corso del Primo Congresso regionale dei contadini siciliani, che si era tenuto a Palermo il 6 e il 7 febbraio, il capolega di Prizzi aveva manifestato ai compagni il timore di essere ucciso, “So che si congiura contro di me, che si vuole attentare alla mia vita (…)”; ma egli aveva espresso loro anche la sua fiducia nella continuità della lotta che si stava combattendo: “(…) non so se domani potrò ritornare ad abbracciarvi, ma sono sicuro che altri sorgerà a sventolare la bandiera che mi si vuole strappare di mano” (cit. in G.C. Marino, 1976, p. 143).
Gli operai del Cantiere Navale di Palermo ed altri operai metallurgici reagirono al delitto organizzando, il 3 marzo, un solenne corteo di protesta: i dimostranti, dopo avere ascoltato alcuni comizi in piazza Castelnuovo, attraversarono le vie principali della città, fino alla Prefettura.
A Prizzi, l’organizzatore contadino fu commemorato,la domenica successiva al delitto, con una affollata manifestazione, alla quale presero parte alcuni dirigenti socialisti (fra i quali Maria Giudice) e le rappresentanze di Santo Stefano Quisquina, Palazzo Adriano e Corleone. Migliaia di uomini e donne mossero in corteo per tutte le vie del paese.
Con l’eliminazione di Nicolò Alongi la mafia non riuscì a bloccare il movimento contadino nel palermitano. Nondimeno, essa decapitò e, quindi, indebolì la temuta direzione socialista dello stesso. Nel secondo semestre del 1920,a guidare la maggior parte delle agitazioni contadine vi sarebbero stati i cattolici ed i combattenti, pertanto, il movimento avrebbe assunto un carattere più moderato.
Ma il risultato più immediato e importante di questa esecuzione mafiosa fu l’interruzione del collegamento tra città e campagna. “Privata del suo capo più prestigioso e battagliero” (G.C. Marino, 1976, p. 144), la debole alleanza tra operai e contadini si spezzò. Ciò avvenne proprio nel periodo in cui il movimento operaio palermitano stava per entrare nella sua fase cruciale.
IL 10 marzo 1920 i metallurgici del Cantiere Navale, visto il rifiuto opposto dalla parte padronale alle loro richieste, entrarono in sciopero.
Alla base del malcontento operaio vi era la cosiddetta <<gabbia salariale>>, vale a dire il differente trattamento economico cui erano sottoposti gli operai del Sud rispetto a quelli del Nord. Gli industriali giustificavano e difendevano questa disparità, considerandola un incentivo per effettuare degli investimenti nel Meridione.
Lo sciopero – organizzato dalla FIOM e sostenuto dalle contemporanee agitazioni di edili, portuali, gasisti e tranvieri – si concluse il 22 marzo. Gli operai ripresero il lavoro in seguito ad un concordato che aveva stabilito un leggero aumento salariale.
Non avendo, però, raggiunto l’obiettivo principale – l’abolizione della <<gabbia salariale>> – decisero di continuare la loro agitazione ricorrendo ad una sorta di <<sciopero bianco>>: essi si recavano regolarmente in fabbrica, ma attuavano “l'<<ostruzionismo>> alla produzione” (G.C. Marino, 1976, p. 186).
La situazione precipitò alla fine dell’estate. In agosto si ebbe una nuova ondata di scioperi operai. Gli industriali reagirono con numerosi licenziamenti, ed i dirigenti del Cantiere Navale di Palermo – in accordo con le altre aziende metallurgiche nazionali – attuarono la serrata.
La controffensiva operaia fu pronta e risoluta: il 4 settembre, il Cantiere, presidiato dalle forze di polizia, fu occupato con la forza. Il giorno dopo,sulle attrezzature sventolavano le bandiere rosse. Il Consiglio di fabbrica, “con impegno, serietà e competenza tecnica indiscutibili” (G.C. Marino, 1976, p. 191), organizzò la ripersa dell’attività lavorativa.
I primi giorni di occupazione furono caratterizzati da un grande entusiasmo generale. Il proletariato dimostrò una buona capacità di autogestione. I ritmi di lavoro furono accelerati! Fu allestito un piroscafo in costruzione. Fu impostato il lavoro per la costruzione di una nuova nave, battezzata, significativamente, <<Nicolò Alongi>>. Grande attenzione si dedicò all’organizzazione del servizio sanitario, controllando le condizioni igieniche nelle quali si lavorava e riattivando l’infermeria. Per di più, si improvvisò una mensa aziendale.
Tuttavia, lo slancio iniziale era destinato ad esaurirsi ben presto. Già dopo quindici giorni la carica dirompente del fronte operaio si era scemata, e cominciava a serpeggiare un certo scetticismo riguardo la fattibilità e la buona riuscita di una agitazione ad oltranza.
All’interno del movimento si arrivò ad una netta divisione tra i riformisti che, facendo leva sulle oggettive difficoltà degli operai a continuare a lavorare (più di prima) senza salario, premevano per l’abbandono dell’occupazione, e gli <<irriducibili>>, capeggiati da Giovanni Orcel, decisi, al contrario, a resistere fino in fondo.
Con il passare dei giorni, le difficoltà aumentavano. Alla mancanza di mezzi finanziari per il pagamento dei salari si aggiungeva il progressivo esaurimento delle scorte per la prosecuzione dei lavori. Come se ciò non bastasse, sopraggiunserodue eventi drammatici: la morte dell’operaio Vincenzo Greco, deceduto a causa di un grave incidente sul lavoro; e l’esplosione all’interno del Cantiere – la notte del 15 settembre – di due bombe, innescate da mani ignote. Sempre più difficile diveniva, pertanto, convincere gli operai a <<tenere duro>>.
Il 29 settembre l’occupazione cessò. Fu proprio Giovanni Orcel ad incontrare i padroni del Cantiere per giungere ad un accordo definitivo. I padroni concessero degli aumenti salariali, ma posero come condizione la irretroattività degli stessi. Il segretario della FIOM, per evitare che fossero i riformisti a gestire le trattative, si vide costretto ad accettare. I suoi avversari approfittarono di questa sua sofferta, ma necessaria, decisione per coprirlo di calunnie, arrivando perfino ad accusarlo di essersi <<venduto>> alla controparte padronale.
La mafia approfittò – così come fa spesso – dell’isolamento e del “clima di <<linciaggio morale>>” (G.C. Marino, 1976, p. 199) che si venne a creare intorno all’Orcel e, nella notte del 14 ottobre, gli tese un agguato: un sicario lo pugnalò mortalmente al fianco sinistro.
Secondo lo storico Giuseppe Carlo Marino, la mafia chiuse così, con Giovanni Orcel, un <<vecchio conto>>, aperto allorché questi, insieme all’Alongi, si era impegnato nella creazione del fronte unito operai-contadini. Il Marino afferma, inoltre, che il delitto ebbe anche una chiara matrice politica:
“(…) la logica del delitto va iscritta in un complesso tessuto di complicità agrario-mafiose rivelatrici di quanto fosse acuto, nell’interazione degli interessi privilegiati di città e di campagna, l’allarme per la politica del fronte unito operai-contadini promossa dal leader della FIOM palermitana insieme a Nicolò Alongi (…) Per quanto permangano non pochi elementi di incertezza in tema di accertamento delle responsabilità penali, la matrice politica del delitto è indubbia, ed è certo che la mafia fu comunque interessata ad assumerne la paternità e a rivendicarne i lugubri titoli ammonitori” (G.C. Marino, 1976, pp. 199-200).
Con la morte di Giovanni Orcel finì “(…) dalla città alla campagna, la prima stagione creativa del proletariato siciliano” (G.C. Marino, 1976, p. 200).
4. UN <<BIENNIO ROSSO>> …DI SANGUE!
Nel primo dopoguerra la mafia tenne, nei confronti del movimento contadino, lo stesso atteggiamento tenuto in precedenza:associò la strumentalizzazione alla violenta e sanguinaria repressione.
Quali esempi della volontà dei gruppi mafiosi di inserirsi anche in questo nuovo processo di trasformazione economico-sociale, riportiamo i casi di Ribera, del feudo Polizzello di Mussomeli e del mafioso Calogero Vizzini di Villalba.
A Ribera (Girgenti) due fazioni si contendevano il potere: una era capeggiata dal farmacista Liborio Friscia; l’altra dall’onorevole, clerico-moderato, Antonio Parlapiano-Vella e dal di lui fratello Gaetano, sindaco del paese.
Nell’estate del 1919 la cooperativa di ex-combattenti <<Cesare Battisti>>, che contava 800 soci ed era guidata dal Friscia, chiese, per mezzo dell’Opera Nazionale Combattenti, la concessione del latifondo del duca di Bivona (“Senatore e grande di Spagna”, S. Lupo, 1993, p.140), che occupava più della metà del territorio comunale. Il duca, preoccupato, decise di recarsi – per la prima volta! – a Ribera e di vendere le proprie terre alla cooperativa <<S. Giuseppe>>, della quale era segretario l’on. Parlapiano-Vella.
Venuti a conoscenza delle intenzioni del feudatario, i combattenti insorsero, e dal 26 al 28 gennaio 1920
sequestrarono, praticamente, il duca nel suo palazzo.
In questi tre giorni di rivolta avvenne una cosa da rilevare: i contadini della <<S.Giuseppe>> sfuggirono al controllo del loro <<padrino>> Parlapiano-Vella. Visto il fallimento delle trattative per l’acquisto delle terre essi, in nome del loro “esclusivo diritto alla terra” (G.C. Marino, 1976, p. 158), si unirono, nella protesta, ai combattenti:
“Un dato rilevante dei fatti riberesi di gennaio è la spontanea unificazione, nel fuoco della rivolta, di tutti i contadini, al di là delle divisioni artificiali provocate dai notabili locali” (G.C. Marino, 1976, p. 158).
“Significativi <<i fatti di Ribera>>, da cui si può evidenziare una disponibilità delle masse contadine e combattenti a sottrarsi al controllo delle tradizionali classi egemoniche ed a mobilitarsi per obiettivi comuni e più rispondenti alle loro esigenze ed aspirazioni” (A. Cicala, 1978, p. 70).
Impressionato dalla impetuosa agitazione dei contadini, “(…) il duca si disse disposto a trattare alle condizioni volute”. A questo punto il tumulto si tramutò in festa, e “il duca fu portato in trionfo per il paese” (A. Cicala, 1978, p. 72).
Una parte della folla (circa 200 persone), però, invece di partecipare alle trattative ed agli inneggiamenti, diede l’assalto all’abitazione del gabelloto dei feudi del duca, tale Ciccarello. Perché numerosi contadini si lanciarono in questo atto vandalico, visto che avevano ottenuto ciò che reclamavano? Antonio Cicala (1978, p. 72) dà la seguente, plausibile, spiegazione:
“Il Ciccarello rappresentava nel luogo le resistenze e gli interessi del duca, così alla improvvisa remissività del duca l’astio della folla si era rivolto contro l’odiato gabelloto sfruttatore”.
Purtroppo, l’illusione dei contadini, di essere venuti in possesso – a condizioni vantaggiose – della tanto agognata terra, durò ben poco! Il <<Grande di Spagna>>, infatti, non appena liberato, fece “un incidente internazionale della violenza subita dai <<bolscevichi>> di Ribera” (S. Lupo, 1993, p. 140). Così,
“I Parlapiano (…) compra(rono) il latifondo affittandolo a tre cooperative all’uopo costituite da campieri <<appartenenti alla maffia locale>>, i quali alla lor volta le subaffitta(rono), <<a prezzi molto alti>>, ad altri soci delle stesse cooperative; del resto prepara(rono) la vendita tra gli aderenti alla loro clientela” (S. Lupo, 1993, p. 140).
Alla fine, dunque, fu la mafia a trarrevantaggio dall’intera vicenda (9).
Il feudo Polizzello, sito nel comune di Mussomeli, era di proprietà dei principi Lanza Branciforti di Trabia. Nel maggio del 1920 la cooperativa <<La Combattenti>>, di Mussomeli, si rivolse all’O.N.C., chiedendo l’espropriazione di tale feudo e di altri due (il Valle e il Reina), appartenenti, anche questi, ai Trabia. Questi ultimi, però, riuscirono a convincere i più influenti esponenti della cooperativa “a rinunciare all’esproprio e ad accettare un contratto di affitto a miglioria per la durata di 29 anni e rinnovabile per altri nove anni <<di rispetto>> di soli ettari 848 del feudo Polizzello (meno di un terzo della zona richiesta)” (Aa.Vv., 1971, p. 74). I rimanenti 2/3 della terra chiesta in esproprio (vale a dire ha 1.070 delfeudo Polizzello ed i feudi Valle e Reina, per un totale di 1.900 ettari di terra) furono concessi, invece, “a privati che non erano ex-combattenti e nemmeno – nella maggior parte – coltivatori diretti: questi sfruttavano la terra concedendola a loro volta, con un aumento dell’estaglio, in subaffitto oppure gestendola a mezzadria” (Aa.Vv., 1971, pp. 74-75). <<La Combattenti>>, pertanto, si adattò “a gestire uno statu quo che garanti(sse) il ruolo degli enti intermediari nei quali molto spesso i soci rappresenta(vano) essi stessi un’élite che poi gesti(va) il subaffitto” (S. Lupo, 1993, p. 140).
Per capire lo <<strano>> comportamento della cooperativa basta tenere conto del fatto che tra i suddetti suoi soci <<più influenti>>, che convinsero i contadini ad abbandonare l’idea dell’esproprio, vi era Giuseppe Genco Russo,
“considerato l’alter ego di Calogero Vizzini, cui in effetti (era) legato da vincoli di comparaggio; membri della famiglia Genco ricopr(ivano) il ruolo di campiere nelle aziende di don Calò” (S. Lupo, 1993, pp. 140-141).
Ebbene, costui avviò la propria carriera di mafioso inserendosi, per l’appunto, nel movimento cooperativistico di Mussomeli, del quale avrebbe assunto, ben presto, il controllo.
Del mafioso Calogero Vizzini di Villalba -“uno dei principali <<pezzi da novanta>> della mafia siciliana della prima metà del secolo” (R. Catanzaro, 1991, p. 136) – abbiamo già parlato a proposito del movimento delle affittanze collettive. Nel 1908, infatti, egli, con la sua influente intermediazione, era riuscito a far ottenere alla locale cassa rurale l’affitto del feudo Belici. Nel 1909 questo terreno era passato in proprietù all’intermediario, Matteo Guccione.
Nel dopoguerra, la cooperativa combattentistica di Villalba occupò il feudo Belici, chiedendone l’affitto. Il nuovo proprietario, però, al pari di quelli precedenti, “non gradi(va) le cooperative, le commissioni provinciali per le terre incolte, gli enti <<espropriatori>> come l’Onc” (S. Lupo, 1993, p. 141).
Ecco, quindi, entrare di nuovo in scena il <<nostro>>, il quale esercitò il proprio potere in favore di una cooperativa cattolica, ricavandone, anche questa volta, terra e prestigio:
“Ancora grazie alla mediazione di Calogero Vizzini, tagliando fuori i combattenti, un accordo di compravendita (venne) stipulato dalla cooperativa cattolica; quando questa non (riuscì) a saldare nei termini previsti, sempre don Calò convin(se) Guccione a non recedere. Un accordo tra uomini d’onore attenti a non vanificare un grande affare? Ovvero la resa dei conti tra due generazioni? Considerando che in questo periodo Guccione viene <<con mezzi truffaldini>> costretto ad accettare Giuseppe Sorce (compare di Genco Russo, N.d.a.) quale compartecipante in altro suo possedimento, possiamo ben considerare emblematico il cambio della guardia del feudo Belici, dal quale Vizzini ricaverà ottima terra per sé, autorità e fama presso i suoi concittadini al di là dei poco puliti risvolti della complessa transazione” (S. Lupo, 1993, p. 141).
I mafiosi, dunque, (così come nel periodo dei Fasci ed in quello delle affittanze collettive) in alcuni casi riuscirono a sfruttare le organizzazioni contadine per ricavarne potere, ricchezza e consenso popolare! Essi, comunque, cercavano di inserirsi nelle cooperative – o quanto meno di influenzarle dall’esterno – anche per controllarne eventuali aspirazioni rivoluzionarie e per scompaginare il <<pericoloso>> movimento contadino. Ma per raggiungere questo fondamentale obiettivo, la mafia, come sempre, non esitò a ricorrere alla spietata eliminazione dei più attivi ed avanzati organizzatori della lotta per il riscatto socio-economico delle masse rurali.
Ad aprire la tragica lista dei militanti del movimento contadino uccisi dalla mafia nel primo dopoguerra fu, il 29 gennaio 1919, Giovanni Zangara, dirigente contadino ed assessore in carica della giunta socialista del Comune di Corleone. Nicolò Alongi, addolorato, il 4 febbraio scrisse, sul giornale <<Giustizia proletaria>>, le seguenti, profetiche parole:
“Al povero Vanni Zangara noi addolorati, mai però abbattuti, mandiamo il nostro riverente saluto, mentre rimaniamo ad aspettare il nostro turno” (in D. Paternostro, 1994, p. 53).
In un altro articolo, apparso il 9 febbraio su <<La Riscossa socialista>>, il dirigente prizzese si autodefinì (come aveva fatto Bernardino Verro,dopo l’uccisione di Lorenzo Panepinto) <<un morto in licenza>> (in G.C. Marino, 1976,p. 143). Purtroppo la sua <<licenza>>, come sappiamo, sarebbe finita il 1° marzo 1920. Lo precedettero, “sulla strada del martirio” (G.C. Marino, 1976, p. 139), altri due dirigenti contadini: il il suo valente collaboratore Giuseppe Rumore, ucciso il 22 settembre 1919; e Alfonso Canzio, presidente della Lega per il miglioramento agricolo di Barrafranca, ucciso il 19 dicembre 1919 (10).
Nel 1919 la mafia aveva ucciso anche un arciprete – Costantino Stella – che, seguendo l’invito di papa Leone XIII e l’esempio di Luigi Sturzo, era <<uscito fuori dalla sacrestia>> e si era dedicato ad importanti attività sociali
(accoltellato il 19 giugno, morì il 6 luglio).
La nostra sanguinosa conta procede con i nomi di due contadini socialisti di Petralia Soprana (Palermo), Paolo Li Puma e Croce, entrambi consiglieri comunali, assassinati nel settembre 1920.
In ottobre caddero altri quattro socialisti: Paolo Mirmina di Noto (Siracusa), sindacalista, giorno 3; Nino Scuderi di Paceco (Trapani), consigliere comunale e segretario della cooperativa agricola, giorno 9; Giovanni Orcel, segretario della FIOM di Palermo e promotore, con Alongi, del collegamento tra movimento operaio e movimento contadino nel palermitano, giorno 14; Giuseppe Monticciuolo, la cui fine, secondo lo stesso Prefetto di Trapani, “(…) fu decisa perché Presidente dell’Associazione pel miglioramento dei contadini ed esponente maggiore dell’agitazione agraria in Vita” (11), giorno 27.
Nel febbraio 1921, “A Paceco la mafia ucci(se) due figli e un fratello di Giacomo Spatola, presidente della locale società agricola cooperativa” (U. Santino, 1995, p. 26).
L’11 giugno 1922, in un clima politico ormai mutato, a Monte San Giuliano (oggi Erice) fu assassinato Sebastiano Bonfiglio, “sindaco socialista, membro della direzione del PSI, uno dei più significativi organizzatori delle lotte contadine e della resistenza al fascismo” (U. Santino, 1995, p. 28).
Nonostante lo sterminio dei suoi uomini più valorosi, il movimento contadino del primo dopoguerra riuscì ad ottenere significativi risultati, primo fra tutti un sostanziale frazionamento del latifondo. Anche questo “processo di democratizzazione” (S. Lupo, 1993, p. 142), però, fu <<cavalcato>> e strumentalizzato dai mediatori mafiosi.
5. IL <<RIASSORBIMENTO>> DEL MOVIMENTO POPOLARE DEL PRIMO DOPOGUERRA E LA PARZIALE LIQUIDAZIONE DEL LATIFONDO
L’agitazione agraria siciliana del ’19-21, a differenza del movimento dei fasci dei lavoratori ediquello delle affittanze collettive, non fu egemonizzato dai rivoluzionari socialisti. Questi, infatti, come abbiamo visto, rappresentarono <<soltanto>> la forza politica più esperta, avanzata e, quindi, <<temuta>>. Per il resto, il movimento contadino di questi anni si svolse, in gran parte, sotto l’egida: delle associazioni dei combattenti e reduci, all’interno delle quali la componente moderata prese ben presto il sopravvento su quella più innovativa, aprendo le porte alle influenze dei tradizionali raggruppamenti politici clientelari e, financo, del movimento nazionalfascista; dei socialriformisti e dei popolari, il cui programma agrario, per quanto contemplasse l’abolizione dell’intermediazione parassitaria, era di sicuro moderato rispetto a quello socialista, e la cui volontà di neutralizzare i <<rossi>> li portava, a volte, a ricercare alleanze politiche a dir poco <<compromettenti>> (leggi: mafiose) (12).
La battaglia per la conquista della terra mancò, pertanto, di una reale organizzazionepropulsiva e, pur avendo in sé “una notevole potenzialità eversiva nei confronti di un ceto parassitario che considerava la terra come uno status symbol e una fonte di rapina più che un bene di produzione (…)” (R. Palidda, 1977, p. 236), fu facilmente riassorbita “dalla struttura sociale e politica esistente (…)” (R. Palidda, 1977, p. 236).
I gruppi dominanti siciliani, per di più, per reprimere o, quanto meno mantenere sotto controllo, la disorganica mobilitazione sociale, poterono ricorrere a diversi strumenti.
Uno di questi fu la fedele applicazione dei decreti Visocchi-Falcioni. Nell’agrigentino, per esempio, di fronte al dilagare delle occupazioni delle terre nel bimestre settembre-ottobre 1920, furono emessi diversi decreti prefettizi di concessione temporanea delle terre incolte. Questi decreti:
“(…) emessicon lo scopo di tamponare l’espandersi della mobilitazione di massa, nel salvaguardare al massimo gli interessi dei proprietari restrinsero al minimo le richieste dei contadini. Basti a questo proposito considerare i decreti del 15 dicembre che disciplinarono le controversie e i casi di avvenuta occupazione di terra che avevano avuto maggiore rilevanza nella provincia: su un ammontare complessivo di 11.077,665 ettari (salme 4.135) occupati, soltanto 3.704,378 ettari (salme 1.382) furono <<concessi>>” (G.C. Marino, 1976, p. 161).
Dal dicembre 1920 all’8 gennaio 1921, sempre nell’agrigentino, furono emessi altri decreti, in base ai quali ha 12.883,311 furono assegnati temporaneamente (massimo due anni) e in affitto, a condizioni vantaggiose, a organizzazioni contadine che presero il posto dei gabelloti. Tuttavia, una volta venuta meno “la carica aggressiva dell’autunno”, si assisté al “ripristino delle antiche dominazioni su uomini e cose del latifondo agrigentino (…)” (G.C. Marino, 1976, p. 161). Questo fu possibile <<grazie>> alla “restaurata collaborazione tra gli agrari e i loro campieri da una parte e le autorità e i loro uffici asserviti ai notabili dall’altra” (G.C. Marino, 1976, p. 161). La temporaneità delle assegnazioni fu fatta valere “alla lettera” (G.C. Marino, 1976, p. 162). Numerose concessioni furono revocate, addirittura, nel luglio 1921, sulla base di pretesti invocati dagli <<esautorati>> intermediari, vale a dire dai “gabelloti mafiosi”.
In aiuto agli agrari sopraggiunse anche l’emanazione, l’8 ottobre 1920, del decreto Micheli. Questo disciplinava l’opera delle commissioni provinciali (il cui compito era quello di esaminare le domande di assegnazione delle terre incolte) e ordinava perentoriamente ai prefetti di fare interrompere, entro un mese, con tutti i mezzi a loro disposizione, le occupazioni abusive.
Il decreto Micheli, quantunque contenesse anche delle importanti novità favorevoli ai contadini (come, ad esempio, la legittimazione dell’espulsione degli intermediari speculatori dai fondi), negava qualunque riconoscimento giuridico ai “fatti compiuti”, intimando alle autorità locali di “attestarsi su posizioni che erano arretrate rispetto alle modificazioni avvenute nella realtà per l’iniziativa dei contadini” (G.C. Marino, 1976, p. 169). In molte località, infatti, associazioni non costituite legalmente avevano invaso terre coltivate, dando vita, perciò, ad occupazioni abusive.
La classe dominante isolana, inoltre, come sappiamo, per sedare le agitazioni contadine, poté contare sull’azione intimidatrice e repressiva della mafia, e sull’uso arbitrario che le autorità statali facevano, sovente, delle forze dell’ordine.
In quelle zone della Sicilia in cui scarsa o nulla era la presenza di gruppi mafiosi, gli agrari, sin dalla fine del 1920, spalleggiarono e incentivarono il nascente squadrismo fascista (che si scagliava, come vedremo nel prossimo paragrafo, contro le sedi delle camere del lavoro, dei circoli, delle cooperative <<rosse>>). Questo spiega come mai la violenza squadristica in Sicilia si sia sviluppata soprattutto nelle province orientali, e in particolare nel siracusano e in certe zone del messinese, ove era presente un forte movimento proletario:
“(…) là dove, nel siracusano e nel messinese, non esisteva la mafia, come guardia bianca dei padroni, i fascisti sorsero per tempo a fermare l’avanzata delle masse” (R. Palidda, 1977, p. 277).
Il movimento contadino del ’19-21, comunque, pur se si mantenne – o fu mantenuto – entro argini riformistici, raggiunse fondamentali conquiste: i mezzadri, ed i coloni in genere, videro migliorare i propri contratti agrari; i braccianti ottennero riduzioni dell’orario di lavoro e aumenti salariali; si ebbe una maggiore diffusione di cooperative, leghe, ed associazioni contadine in genere; ma soprattutto,si giunse ad una parziale redistribuzione del latifondo, di sicuro, l’avvenimento più importante di questo periodo di agitazioni agrarie.
Secondo Francesco Renda (1990b, p. 348), in Sicilia, all’interno delle lotte del primo dopoguerra, si possono distinguere, per lo meno, “cinque filoni rivendicativi”.
Il primo filone fu quello delle lotte per la concessione temporanea delle terre, in applicazione dei decreti Visocchi-Falcioni. Vide come protagoniste soprattutto i braccianti ed i contadini poveri, organizzati, in gran parte, nelle leghe, nelle cooperative, nelle casse agrarie e nelle associazioni combattentistiche. Questi decreti erano di natura straordinaria, di conseguenza ebbero effetti “congiunturali, corrispondenti alla eccezionalità del momento” (F. Renda, 1990b, p. 348). Ciononostante, essi produssero notevoli risultati. Innanzitutto, protessero giuridicamente le affittanze collettive, sorte, “su basi volontaristiche” (F. Renda, 1990b, p. 348), all’inizio del secolo, ed entrate in crisi nel periodo bellico. Molti proprietari, così, stipularono o rinnovarono contratti di affitto direttamente con le cooperative interessate, senza aspettare l’emanazione, da parte dei prefetti, dei decreti di concessione. Nel complesso, le terre assegnate temporaneamente – in base ai decreti Visocchi-Falcioni o ai liberi accordi tra le parti – furono, secondo i dati pubblicati nel 1930 dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria, almeno 90 mila ettari. Inoltre,
“L’assegnazione provvisoria fu il primo gradino dell’ascesa contadina al possesso definitivo della terra in proprietà, ma fu anche il detonatore che fece esplodere, per la prima volta nella storia isolana e meridionale, il fenomeno della quotizzazione dei latifondi a tutto vantaggio della piccola proprietà diretto-coltivatrice” (F. Renda, 1990b, p. 349).
Del secondo filone furono protagonisti i combattenti e reduci, i quali avanzarono all’Opera Nazionale Combattenti la richiesta dell’acquisto in proprietà dei terreni incolti e malcoltivati e “dei latifondi a cultura cerealicola e pastorale” (F. Renda, 1990b, p.348).
Il terzo filone, “fu la tendenza agli acquisti a alle quotizzazioni a mezzo di leghe, associazioni, cooperative, casse agrarie, casse rurali ecc.” (F. Renda, 1990b, p. 348). Le organizzazioni contadine, una volta acquistato il terreno, procedevano alla quotizzazione dello stesso e alla assegnazione (per lo più tramite sorteggio) delle varie porzioni (pressoché uguali) ai soci; questi pagavano metà della loro quota in contanti ed il rimanente in un paio di rate annuali. A beneficiare di questa forma di accesso alla piccola proprietà “furono gruppi di contadini socialmente e organizzativamente più selezionati” (F. Renda, 1990b, p. 348). Oltre alla legislazione straordinaria del dopoguerra, fu utilizzata l’esperienza del movimento delle affittanze collettive ed il credito agrario, concesso dal Banco di Sicilia. “Gli acquisti e le quotizzazioni a mezzo di cooperative o di altri enti ammontarono a 42.484 ettari (il 30,3% del totale dei trasferimenti accertati dall’INEA)” (F. Renda, 1990b, p. 351).
Il quarto e il quinto filone riguardarono i contadini più agiati (ma anche alcuni appartenenti alla media borghesia) che acquistarono le terre direttamente dai proprietari o tramite intermediari. A spingere i latifondisti a vendere fu la paura di incorrere in una radicale riforma agraria, la quale, reclamata da varie forze politiche, in realtà, in Parlamento, non fu nemmeno discussa.
Nel caso dell’accordo diretto con il proprietario era quest’ultimo a procedere alla divisione in quote del latifondo, alla fissazione del prezzo di ogni singolo appezzamento ed alla vendita degli stessi ai contadini, che, in genere, pagavano in contanti. Con questa procedura furono venduti 51.971 ettari di terra (pari al 37,1% dell’intero ammontare dei trasferimenti di proprietà avvenuti tra il 1919 e il 1930).
Per contro, nel caso in cui entravano in gioco gli intermediari (13),
“(…) il proprietario vendeva a speculatori, i quali acquistavano il latifondo in blocco e quindi procedevano alle operazioni di quotizzazione e di vendita” (F. Renda, 1990b, p. 349).
In molte località questa lucrosa intermediazione, che caratterizzò il passaggio di proprietà di 45.346 ettari di terra (e cioè il 32,4% del totale di superficie alienata tra il 1919 ed il 1930) fu esercitata, manco a dirlo, dalla mafia, che poté, così, rafforzarsi ulteriormente:
“La intermediazione, nei centri di mafia, ebbe generalmente carattere più esoso che altrove. La miglior parte del fondo (trenta salme di solito) era trattenuta da coloro che acquistavano in blocco per poi rivendere a piccole quote. Il costo della intermediazione comunque si aggirava dal quindici al venti per cento e non mancarono casi in cui fra il prezzo originario di compera e quello di rivendita intercedette un divario dal trenta al quaranta per cento. Il fenomeno della lottizzazione diede quindi alimento anche al costituirsi della media proprietà fondiaria di matrice parassitaria e mafiosa, che per altro si ingrossò procedendo ad acquisti per conto proprio. Ma non tutta la media prprietà ebbe stampo di illecito profitto o si consolidò a ridosso delle quotazioni contadine” (F. Renda, 1990b, p. 351).
Riassumendo, secondo i dati dell’INEA, fra il 1919 e il 1930 fu quotizzata, e trasferita alla piccola proprietà diretto-coltivatrice, una superficie di 139.802 ettari, distribuiti in 341 latifondi. Si ebbe, dunque, un consistente ridimensionamento della grande proprietà terriera. Il numero dei latifondi la cui estensione superava i 200 ettari si ridusse da 1.400 (quanto era nel 1907) a 1005. La superficie complessiva da essi occupata passò da 717.728 ettari (pari al 29,7% della superficie agraria e forestale dell’Isola) a 540.700 ettari (pari al 22,9%); tuttavia, solo una parte dei 177.028 ettari di diminuzione andò ai contadini. A queste cifre andrebbero aggiunte quelle relative alla formazione della media proprietà,e quelle relative alla lottizzazione dei latifondi di estensione inferiore ai 200 ettari, di cui non si tenne conto nella ricerca svolta dall’INEA.
6. DAL BIENNIO <<ROSSO>> AL VENTENNIO <<NERO>>
Nella storia del fascismo in Sicilia bisogna distinguere tre periodi: il primo periodo va dal 1919 alla marcia su Roma; il secondo va dal 1922 alle elezioni politiche del 1924; il terzo va dal 1924 al crollo del regime.
Il primo periodo, ovviamente, fu quello durante il quale il movimento cominciò ad organizzarsi. Bisogna innanzitutto dire che la Sicilia non ebbe, nei confronti del fascismo, una funzione irradiante (14) ma bensì lo visse come un fenomeno d’importazione. Tant’è vero che soltanto nel corso del 1920 si assisté al costituirsi dei fasci di combattimento delle varie città siciliane (nel 1919 erano sorti solo i fasci di Palermo e di Siracusa). A dare vita a queste organizzazioni furono associazioni patriottiche di ex-combattenti, di ex-arditi, di studenti, composte, in prevalenza, da appartenenti alla piccola borghesia (R. Palidda, 1977, p. 240).
Le classi dominanti della Sicilia occidentale, accolsero questo nuovo movimento con una certa indifferenza – non lo appoggiarono, ma neanche lo ostacolarono – credendo si trattasse di un fenomeno di breve durata. Essi, in realtà, al contrario della borghesia fondiaria dell’Italia centro-settentrionale, non avvertivano la necessità di contrapporre al movimento proletario il <<mazzierismo>> nero. Questo sia perché il <<biennio rosso>> nell’Isola non ebbe la stessa intensità e gli stessi toni rivoluzionari che ebbe nel Nord sia perché – e soprattutto – gli agrari siciliani (come si è detto) avevano a loro disposizione altri e ben <<collaudati>> sistemi per soffocare le agitazioni popolari:
“Per i gruppi dominanti (erano) sufficienti i soliti strumenti, qualche provvedimento demagogico, il clientelismo, l’uso delle organizzazioni mafiose, per reprimere gli sparsi e disorganizzati conflitti. Non (era) quindi necessario un tipo nuovo di repressione, quale era lo squadrismo fascista, per controllare i conflitti: è questa la ragione del carattere non endogeno del fascismo in Sicilia, che fino alla marcia su Roma si present(ò) come fenomeno del tutto marginale nella geografia politica dell’isola” (R. Palidda, 1977, p. 229).
Un discorso diverso va fatto per le classi dominanti della Sicilia orientale. Nelle province di Messina e di Siracusa (che allora comprendeva anche l’attuale provincia di Ragusa) i gruppi fascisti poterono contare, sin dall’inizio, sull’appoggio della borghesia agraria conservatrice, essendo questa priva del tutto, o quasi (15) del sostegno di vere e proprie organizzazioni mafiose. Così, di fronte al radicalizzarsi della lotta di classe, esplose in queste zone – più che altrove in Sicilia – una violenta reazione squadristica contro i socialisti:
“La maggior violenza dello squadrismo nella Sicilia orientale – in particolare nel triangolo mediterraneo-jonico – non si spiega con le argomentazioni addotte da <<La Fiamma nazionale>> (la necessità e l’urgenza di colpire a fondo l’unica importante <<base bolscevica>> siciliana), ma valutando, piuttosto, il dato certo della scarsa o nulla consistenza in quell’area (…) di una tradizione di autodifesa proprietaria: in assenza della mafia, le <<squadre>> fasciste, costituite con elementi che in maggioranza provenivano dall’ambiente cittadino e principalmente da Catania, ebbero modo di presentarsi come arnesi di un <<pronto intervento>> di cui il <<ceto dell’ordine>> avrebbe potuto avvalersi persino gratuitamente” (G.C. Marino, 1976, pp. 228-230).
Dalla seconda metà del 1920 fino alla fine del 1922 fu tutto un susseguirsi di provocazioni, azioni dimostrative e repressive, assassini, assalti alle organizzazioni socialiste e sindacali (soprattutto camere del lavoro) ed alle amministrazioni <<rosse>>.
Episodi particolarmente gravi si verificarono a Vittoria, Ragusa e San Piero Patti; tutti e tre questi comuni erano amministrati, guarda caso, da giunte socialiste.
A Vittoria (oggi in provincia di Ragusa), il 29 gennaio 1921, fascisti, ex-combattenti, nazionalisti e”il gruppo mafioso locale dei caprai” (U. Santino, 1995, p. 26) assalirono, distruggendolo, il circolo socialista e spararono sui lavoratori: il contadino, nonché consigliere comunale socialista, Giuseppe Compagna, rimase ucciso;dieci persone furono ferite. Il 13 marzo furono devastate “la Lega, la Sezione socialista e la Sezione giovanile comunista” (G.C. Marino, 1976, p. 231). Il 19 marzo il sindaco socialista Salvatore Molé fu costretto a dimettersi. Nel maggio del 1922, sempre a Vittoria, i fascisti:uccisero un giovane comunista, Orazio Sortino; ferirono alcuni operai; incendiarono la sede della Camera del lavoro e la sezione del Partito comunista d’Italia (costituito, come si sa, nel gennaio 1921, in seguito al congresso di Livorno, dall’ala più radicale del PSI) (cfr. U. Santino, 1995, pp. 27-28).
A Ragusa, il 9 aprile 1921, un comizio del deputato socialista Vincenzo Vacirca si concluse, a causa di una rissa tra nazionalfascisti e socialisti (provocata dai primi), con una tragedia: quattro morti e sessantasei feriti (U. Santino, 1995, p. 26). Nella notte le squadracce nere, rinforzate con nuovi elementi venuti da Comiso e Vittoria, diedero fuoco alla Camera del lavoro, alla sezione socialista e ad alcune leghe operaie e contadine. Il giorno successivo occuparono il Municipio, e commemorarono i morti del giorno precedente, considerandoli vittime della <<violenza rossa>> (cfr. G.C. Marino, 1976, pp. 231-232). Sempre a Ragusa, nel corso di una azione squadristica, “un bimbo, figluolo di un socialista, fu gravemente ferito da un colpo di pistola poiché aveva il torto di chiamarsi Lenin (Lenin Pilieri)”! (F. Renda, 1990b, p. 358).
Gli avvenimenti di San Piero Patti sono emblematici dell'<<idillio>> che si venne subito a creare, nella Sicilia orientale, tra fascisti e proprietari terrieri, in cerca di vendette e di rivincite sul movimento proletario.
In questo piccolo Comune della provincia di Messina, dopo la prima guerra mondiale, contadini (soprattutto braccianti, vista la diffusione dei noccioleti) ed artigiani avevano dato vita ad un forte movimento socialista, le cui caratteristiche principali erano: “eccezionale consistenza numerica; rapidità di crescita e di affermazione politica; capacità di resistenza alla reazione fascista” (P. Bovaro, 1987, pp. 168-169).
Nel 1920 i contadini scioperarono per ottenere la riduzione della giornata lavorativa ad otto ore ed aumenti salariali. Gli agrari cedettero. Per la prima volta i braccianti poterono intervenire nella definizione delle proprie condizioni di lavoro. In poco tempo, “La mobilitazione dei contadini, di tipo contrattuale, divenne politica” (G. Alibrandi, 1981, p. 55). Si costituì la locale sezione del PSI (che nel 1921 avrebbe aderito al P.C. d’I.), la quale raccolse subito numerosi iscritti, tanto che San Piero Patti venne definita “la piccola Torino proletaria” (P. Bovaro, 1987, p. 170). I socialisti nel novembre del 1920,”(…) nonostante i fermi della polizia e le intimidazioni esercitate dagli agrari, coperti sempre dalla forza legale (…)” (G. Alibrandi , 1981, p. 55), riuscirono a conquistare l’amministrazione comunale con una schiacciante maggioranza (783 voti contro i 256 dell’altra lista).
La sorprendente vittoria dei <<rossi>>, ovviamente, innervosì e allarmò il ceto padronale. Questo, “(…) in occasione di cortei o manifestazioni spesso si disponeva armato attorno al proprio circolo, il Circolo dei Civili” (P. Bovaro, 1987, p. 170), e, intanto, si preparava alla reazione, vedendo “nell’allora nascente fascismo messinese lo strumento di cui servirsi per restaurare i vecchi equilibri sociali ed economici” (G. Alibrandi, 1981, p. 65). Così, il 17 aprile 1921, gli agrari di S. Piero Patti festeggiarono la fondazione del fascio locale. Per l’occasione erano arrivati in Paese squadre di fascisti provenienti da Messina, Scaletta, Alì Marina. La <<festa>> fu fatta anche ai socialisti! “(…) le squadracce fasciste circolarono per il paese, minacciando e bastonando” (P. Bovaro, 1987, p. 171). Nei giorni successivi le squadre nere ritornarono in azione e, tra l’altro: invasero e distrussero le organizzazioni socialiste; si diedero alla caccia dei consiglieri socialisti, riuscendone a rintracciare sei; li trascinarono con sé al Circolo dei Civili e li costrinsero a firmare le dimissioni. Il Comune fu, quindi, commissariato.
Nonostante questo clima di violenza, alle elezioni politiche del 15 maggio 1921, i sampietrini votarono di nuovo in maggioranza per la lista socialista (“La Federazione comunista provinciale aveva adottato una linea astensionistica”, P. Bovaro, 1987, p. 172), che ottenne 390 voti (contro i 290 della lista fascista). Constatata la resistenza e la compattezza del movimento socialista, le autorità, piuttosto che indire le elezioni amministrative, preferirono prorogare il termine della gestione commissariale del Comune (che si sarebbe conclusa soltanto nel maggio 1927, con la nomina del podestà Giuseppe Russo).
Il 4 settembre 1921 un contadino socialista, ex consigliere comunale, fu arrestato per porto abusivo d’armi. Egli era stato trovato semplicemente in possesso di un tipo di coltello che i contadini portavano abitualmenteconsé. All’uscita dal paese un gruppo di contadini organizzò una manifestazione, per protestare contro l’arresto e per salutare il proprio compagno che veniva tradotto al carcere di Raccuja. Alcuni fascisti aprirono il fuoco sui dimostranti: due contadini (Nicolò Marmorio e Carmelo Lauria) rimasero uccisi e numerosi feriti! Questo “fu l’episodio più grave di violenza fascista mai registrato nella provincia di Messina” (G. Alibrandi, 1981, p. 75).
Con l’aiuto e la protezione delle squadracce fasciste, dunque, il ceto padronale poté rinforzare il proprio potere e riassoggetare i contadini alle proprie condizioni.
In diversi centri, alla violenza squadristica si aggiunse l’azione repressiva delle forze di P.S., le quali, piuttosto che punire i fascisti, “(…) nonperdevano occasione per reprimere i tentativi di resistenza dei lavoratori” (R. Palidda, 1977, p. 243). Come esempi dell’azione combinata fascisti-forze dell'<<ordine>>, riportiamo i casi di Comiso, Modica e Lentini; anche questi tre comuni (allora in provincia di Siracusa) erano retti da amministrazioni socialiste.
A Comiso (oggi in provincia di Ragusa) – episodio al quale abbiamo già accennato -l’8 novembre 1920 i fascisti accoltellaronoMatteoJurato, presidente della locale Lega contadina, e la Guardia Regia, sparando sulla folla in agitazione per l’accaduto, causò la morte di quattro persone (tra le quali una bambina) e il ferimento di nove lavoratori (U. Santino, 1995, p. 26).
Modica (Ragusa) fu teatro di efferate azioni squadristiche. Il 18 e il 19 aprile 1921, innanzitutto, i fascisti occuparono il Municipio, imposero agli amministratorididimettersi,ed obbligaronola madredi un socialista a baciare in ginocchio il tricolore. Nello stesso giorno, distrussero le sedi delle organizzazioni sindacali. “Il sottoprefetto plaud(ì) alla <<perfetta manifestazione di italianità>>” (U. Santino, 1995, p. 27). Alla fine di maggio, squadracce nazionalfasciste, “spalleggiate dai poliziotti” (U. Santino, 1995, p. 27), spararono su di un gruppo di lavoratori che stava ritornando da un’assemblea: sei furono i morti, quattro i feriti.
A Lentini, il 7 luglio 1922, nel corso di un comizio di Maria Giudice, le forze dell’ordine spararono sulla folla uccidendo due donne; intevennero quindidelle squadre di nazionalfascisti (capeggiate dal barone De Geronimo, i cui territori, nei mesi precedenti, erano stati in buona parte occupati dai contadini) ed i disordini si protrassero per alcuni giorni, provocando quattro morti e cinquanta feriti (U. Santino, 1995, p. 28).
In prossimità delle elezioni politiche del 15 maggio 1921, comunque, azioni repressive contro il movimento socialista e gesta di <<propaganda>> nera si svolsero anche nella Sicilia centro-occidentale. Ovviamente,
“nelle aree del latifondo l’azione si svolse all’interno di spazi aperti dall’egemonia mafiosa dei grandi proprietari e dei gabelloti patrioti, con quel tanto di autonomia di iniziativa e di fragore propagandistico che era funzionale all’impegno col quale si tentava di farla riconoscere e valere come un servizio utile e necessario” ( G.C. Marino, 1976, p. 233).
In alcuni casi vi fu un organico rapporto trasquadrismo e mafia (16).
I nazionalfascisti cercavano di provocare dei disordini e di fomentare la paura di un’imminente “infezione rossa” (G.C. Marino, 1976, p. 227), in modo da legittimare i propri interventi <<preventivi>> e garantirsi, così, la simpatia ed il sostegno degli agrari e dei borghesi conservatori.
A Caltanissetta, alla fine del mese di aprile, in uno scontro violento tra <<avanguardisti>> e studenti <<rivoluzionari>>, un giovane fascista fu colpito mortalmente da alcuni colpi di pistola. Il giorno dei funerali i fascisti provocarono nuovi incidenti: due lavoratori rimasero uccisi e diversi furono feriti. Seguì un fuggi fuggi generale. Nella calca, quattro persone morirono soffocate (U. Santino, 1995, p. 27).
Nella notte tra il 30 aprile ed il 1° maggio, i fascisti palermitani irruppero nella sede della Federazione dei metallurgici. La devastarono e le diedero fuoco. Cercarono di forzare l’appartamento adiacente, nel quale abitavano Maria Giudice e Giuseppe Sapienza, i quali riuscirono a salvarsi dall’incendio calandosi da un balcone (cfr. G.C. Marino, 1976, p. 234).
A Castelvetrano (comune <<rosso>> della provincia di Trapani) si verificò il più sanguinoso episodio della <<campagna elettorale>> fascista in Sicilia. Nel pomeriggio dell’8 maggio, davanti al Municipio, era da poco iniziato un pubblico comizio socialista (oratore il candidato Emanuele Sansone) quando alcune squadre fasciste – di ritorno da una manifestazione a Partanna – “diressero tre autocarri contro l’inerme folla, sparando e lanciando in pari tempo bombe a mano. Sul terreno rimasero una cinquantina di persone ferite e sette morti (fra cui un fascista colpito dalle schegge di una bomba)” (F. Renda, 1990b, p. 358). E’ probabile che la strage di Castelvetrano abbia avuto anche matrice mafiosa (G.C. Marino, 1976, p. 254).
Nonostante queste <<gesta>>, tuttavia, le elezioni politiche del 1921 dimostrarono come il fascismo in Sicilia fosse ancora una forza politica inconsistente: i suoi aderenti svolsero solo la funzione di galoppini di alcune liste moderate (R. Palidda, 1977, pp. 247-248).A riprova della sua inconsistenza vi fu la scarsa partecipazione dei fascisti siciliani alla marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Ma fu proprio questa data a segnare la fine del primo periodo del fascismo siciliano.
Il secondo periodo ha inizio con l’ascesa del fascismo al potere. Fu caratterizzato, al contrario del primo, dall’importante contributo dato dai siciliani al rafforzamento del Governo mussoliniano. A livello politico, tale contributo si espresse subito dopo la marcia su Roma: la maggior parte della rappresentanza siciliana votò la fiducia al primo ministero Mussolini, del quale facevano parte – per la prima volta nella storia italiana – ben quattro ministri siciliani.
Il <<capovolgimento>>della situazionepoliticaportò, quindi, al <<capovolgimento>> dell’atteggiamento delle classi dominanti (e non), e (in parte) delle masse, nei confronti del fascismo. Le prime, sottovalutando la reale portata del nuovo Ministero, ritennero di poter continuare “a raggiungere compromessi vantaggiosi, come il vecchio trasformismo aveva fatto per anni, barattando l’appoggio al governo, in campo nazionale, con la conservazione del potere locale” (R. Palidda, 1977, p. 249).
Dopo la marcia su Roma si assisté nell’Isola ad “una vera esplosione di <<fascismo>>” (R. Palidda, 1977,p. 249): le sezioni già costituite videro accrescere di molto i propri iscritti; nei comuni ove il fascio di combattimento non esisteva si provvide subito a costituirlo; in molti centri si fondarono, addirittura, più fasci, spesso in lotta fra loro poiché espressione delle diverse fazioni locali. Molti furono gli opportunisti e i politicanti (di alto e basso rango) che saltarono sul carro del vincitore per, a seconda dei casi, conquistare, riconquistare o conservare il potere (v. R. Palidda, 1977, pp. 249-251).
Mussolini, dal canto suo, in questo periodo assecondò e strumentalizzò il tradizionale governativismo siciliano, per avviare e consolidare il processo di fascistizzazione. Egli, almeno fino alle elezioni politiche del 1924, difatti, strinse delle alleanze con varie forze politiche moderate (con i liberali; i demosociali, legati a Mussolini fino all’approvazione della legge Acerbo; e con gli elementi più conservatori e <<compromessi>> dei partiti socialriformista e popolare), e, di conseguenza, con l’apparato clientelare-mafioso,che aveva costituito il naturale supporto di tali schieramenti:
“Tra la mafia, difesa armata, e dirigenze demoliberali, difesa politica della grossa borghesia isolana, si erano intrecciati dei legami strettissimi per cui i mafiosi assicuravano la base elettorale, mentre i parlamentari ricambiavano con favori e appoggi nelle alte sfere della politica” (R. Palidda, 1977, p. 277).
Sul carro fascista, dunque, salirono anche alcuni mafiosi: i fascisti, a volte, facevano finta di non vedere; altre li tiravano su loro stessi! (cfr. G.C. Marino, 1976, pp. 282-288).
In questi primi anni di <<assestamento>> del loro potere,
“Le autorità fasciste giostrarono astutamente sui due fronti della lotta alla mafia e dell’assunzione della mafiosità al servizio del governo e dello Stato” (G.C. Marino, 1976, p. 283).
Per conquistare il sostegno elettorale dei capi mafiosi,
“si poteva fare leva, oltre che sul congenito filogovernativismo della tradizione mafiosa, sulla minaccia dello scioglimento delle amministrazioni comunali di cui i capi delle cosche erano quasi sempre i pricipali esponenti, e,soprattutto, sulle facili occasioni di adescamento di alcuni personaggi contro altri, utilizzando conflitti e rivalità locali” (G.C. Marino, 1976, p. 285).
Ovviamente, chi non si <<allineava>> veniva attentamente vigilato e fatto oggetto di azioni squadristiche.
Dall’ottobre 1922 il fascismo, per sconfiggere la resistenza dei suoi avversari politici (soprattutto comunisti e socialisti, ma anche socialriformisti progressisti e, a partire dal 1923, popolari seguaci di Luigi Sturzo), aggiunse ai suoi sistemi tradizionali quelli nuovi che gli derivavano dal suo nuovo status di forza governativa. Furono sostituiti, ad esempio, i prefetti ed i questori poco affidabili, e si inquadrarono nella Milizia volontaria per la difesa nazionale gli squadristi siciliani. Furono sciolte, “con la violenza <<legale>> o aperta” (R. Palidda, 1977, p. 256), le amministrazioni comunali ritenute “pericolose”, e si procedette all’insediamento dei commissari, “nominati in seguito ad accordi tra prefetti, signorotti locali e fascisti” (R. Palidda, 1977, p. 256). I commissari prefettizi dei comuni rurali della Sicilia occidentale,
“s’impegnarono soprattutto nella demolizione delle leghe e delle affittanze collettive, divulgando demagogicamente il verbo di un fascismo giustiziere che avrebbe provveduto a distribuire le terre in proprietà ai contadini” (G.C. Marino, 1976, p. 290).
Per di più, il governo Mussolini – tanto per chiarire ulteriormente da quale parte intendesse, di fatto, stare – con decreto dell’11 gennaio 1923, revocò tutte le concessioni temporanee di terre, fatte ai contadini in seguito al movimento di occupazione dei feudi, “ponendo le premesse per la ricostituzione della vecchia proprietà latifondistica” (J. Calapso, 1980, p. 195). Il termine “fascio”, ormai, “aveva assunto per i lavoratori un terribile significato” (J. Calapso, 1980, p. 195).
Furono sciolte, ovviamente, molte organizzazioni politiche ed economiche (soprattutto camere del lavoro e circoli socialisti) e furono soppressi molti giornali. Per far ciò si ricorse, oltre che alla violenza, ad “(…) arresti, perquisizioni, diffide, (…) indimidazioni attuate dai prefetti (…)” (R. Palidda, 1977, p. 266) (17).
Il “momento cruciale della fascistizzazione” (G.C. Marino, 1976, p. 273) si raggiunse con le elezioni politiche del 6 aprile 1924, svoltesi secondo le nuove regole dettate dalla legge elettorale Acerbo (18).
In Sicilia, il listone fascista stravinse, raccogliendo il 70,4% dei voti validi espressi dagli elettori. A questo successo elettorale contribuirono notevolmente: il sistematico ricorso – durante la campagna elettorale e nel giornostesso delle elezioni – ad ogni genere di sopraffazione, intimidazione, corruzione e violenza (messe in atto anche con l’aiuto della mafia governativizzata, cfr. G.C. Marino, 1976, pp. 304-308); e la composizione stessa della lista fascista, comprendente influenti notabili – primo fra tutti il liberale Vittorio Emanuele Orlando, che capeggiò il <<listone>> – che <<controllavano>> ancora una buona parte dell’elettorato siciliano (cfr. R. Palidda, 1977, pp. 278, 295n).
Con queste elezioni, che rappresentarono “la legittimazione costituzionale del fascismo” (F. Renda, 1990b, p. 352), può dirsi chiuso il secondo periodo della storia del fascismo in Sicilia, quello, per intenderci, che vide Mussolini servirsi dell’alleanza dei vecchi gruppi politici e scendere a compromessi con i potentati locali (compresi quelli clientelari-mafiosi), per giungere alla <<colonizzazione>> dell’Isola.
Il terzo periodo si aprì con la crisi che il fascismo dovette affrontare subito dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, il quale, come si sa, aveva duramente denunciato in Parlamento i brogli e le violenze che avevano caratterizzato la campagna elettorale del 1924. L’indignazione che suscitò questa ennesima e gravissima violenza compiuta dalle squadracce fasciste, all’inizio sembrò mettere in pericolo il Governo fascista, avendo spinto all’opposizione anche molti dei suoi fiancheggiatori – fra i quali Vittorio Emanuele Orlando – i quali avevano cominciato a percepire le reali intenzioni autoritarie del Mussolini. Costui, però, con i soliti spregiudicati sistemi riuscì, alla fine, ad avere la meglio (19), e ad avviarsi, a grandi passi, verso la dittatura.
Oltre a liquidare le forze di opposizione in Parlamento (estromettendo d’imperio numerosi deputati) e nel paese (sopprimendo i partiti ed i sindacati, abolendo la libertà di stampa, arrestando i <<sovversivi>>) (20), Mussolini emarginò la vecchia classe dirigente isolana, del cui appoggio non aveva più bisogno, e mirò a distruggere qualunque base autonoma e indipendente di potere.
In questo disegno totalitario di occupazione di tutti i preesistenti spazi politici, si inscrivono: a) i tentativi di soffocare la lotta di classe nelle campagne; b) lalotta alla mafia, avviata dal fascismo nel 1925.
a) La (mancata) <<irreggimentazione>> dei contadini siciliani
Dopo aver abolito la libertà di stampa ed aver sciolto tutte le associazioni (politiche ed economiche) non fasciste, il fascismo, per dominare e quindi eliminare i conflitti di classe, procedette a regolamentare e strutturare <<dall’alto>> l’organizzazione sindacale, codificando il divieto dello sciopero e della serrata e istituendo il sistema corporativo.
Malgrado gli sforzi fatti, però, il regime non riuscì a sopprimere del tutto la lotta di classe nelle campagne siciliane, ed a smorzare la <<fame di terra>> dei contadini poveri. Ecco cosa scrive, a tal proposito, lo storico siciliano Francesco Renda, il quale ha smentito la concezione comune, secondo la quale, durante il ventennio, nelle campagne era inevitabilmente assente qualunque tipo di fermento popolare innovativo:
“L’idea piuttosto diffusa che durante il fascismo non ci sia stata iniziativa comunque organizzata delle forze contadine è molto verosimilmente infondata e comunque è da considerare come un’ipotesi interpretativa del tutto infeconda. Il fascismo in quanto regime di massa coinvolse anche il mondo contadino e ne ricercò e in qualche modo ne ottenne il consenso nelle forme che furono proprie di quel sistema di governo. I sindacati agricoli fascisti furono lo strumento, la cinghia di trasmissione della volontà generale del regime, ma furono anche il terreno proprio in cui maturarono e trovarono espressione le specifiche esigenze delle singole categorie agricole. L’istituzione del collocamento come funzione pubblica di Stato fu nel Mezzogiorno una profonda innovazione nei rapporti tra capitale e lavoro in agricoltura. I capitolati colonici collettivi aventi forza di legge e perciò obbligatori per tutte le parti contraenti rappresentò qualcosa di più che un intervento venuto dall’alto. In effetti, anche durante il ventennio ci fu una acuta lotta di classe nelle campagne, le masse contadine fecero la loro esperienza sul terreno della organizzazione e sul piano rivendicativo, e persino ebbe modo di manifestarsi e di avere peso quella particolare condizione di esistenza dei contadini poveri meridionali, che va sotto la espressione, quasi abusata in riferimento al periodo liberale e democratico, e del tutto inutilizzata per il periodo fascista, di <<fame di terra>>. (…) il mondo contadino durante il fascismo è un continente tutto da esplorare, e tutt’altro che un mondo immobile e rassegnato o anche semplicemente passivo. Le ricerche tendono a mettere in evidenza che anche nel ventennio ci furono rivolte popolari più o meno spontanee, scioperi, agitazioni, vertenze sindacali, dibattiti più o meno ampi. Naturalmente, costituivano l’eccezione e non la regola, ma erano strappi che si verificavano abbastanza frequentemente ed avevano il loro peso” (F. Renda, 1980, pp. 24-25).
Francesco Renda (1980, p. 24) avanza, inoltre, l’ipotesi che la stessa legge 2 gennaio 1940 sulla colonizzazione del latifondo siciliano, sia stata varata per “controllare gli effetti più vistosi dei conflitti sociali innescati nelle campagne siciliane che la normale amministrazione non (riusciva) a comporre”. La propaganda ufficiale voleva far credere che si trattasse di una riforma agraria, in realtà questa legge era soltanto un provvedimento demagogico, volto ad accreditare lo slogan dell'<<assalto al latifondo>>, diffuso in quel periodo dal regime fascista. Questo provvedimento, infatti, “non colpiva il latifondo con opportuni espropri e non dava la terra ai contadini” (F. Renda, 1990b, p. 402) , inoltre, non apportava sostanziali modifiche al sistema agrario esistente. Pertanto, non rappresentò un’effettiva svolta nella politica agraria fascista, che fino ad allora – con la reintroduzione del dazio sui cereali e con il lancio della <<battaglia del grano>> – aveva nettamente favorito i grandi proprietari terrieri.
Così, mentre l’Italia, durante il ventennio, compiva il salto decisivo, trasformandosi da paese prevalentemente agricolo in paese prevalentemente industriale, la Sicilia, non solo rimaneva una regione prevalentemente agricola,ma faceva, addirittura,un passo indietro. Infatti, la percentuale di superficie agraria isolana occupata dai latifondi, che nel 1927 era pari al 22,6%, salì nel 1934 al 26% (21).
b) L’offensiva contro la mafia
Già nel maggio 1924, in occasione di una sua visita in Sicilia, Mussolini aveva manifestato la volontà di contrapporsi ai <<malviventi>> (22) ma fu soltanto nell’ottobre dell’anno successivo, con il trasferimento a Palermo del prefetto Cesare Mori – al quale vennero delegati poteri straordinari – che questa volontà venne messe in atto.
Il fascismo passava, così, dall’iniziale compromesso con la mafia alla spietata repressione della stessa. Perché?
Sui motivi che spinsero Mussolini a questa <<svolta>> i pareri dei numerosi studiosi che si sono occupati dell’argomento sono vari e discordanti, e non rientra nell’economia di questo lavoro analizzarli;pur tuttavia
ne accenniamo qualcuno.
Una volta consolidato il proprio potere nell’Isola, il fascismo non aveva più bisogno del sostegno della mafia, la cui presenza, anzi, diventava ora ingombrante e di ostacolo per la totale <<conquista>> della Sicilia (23). Come sottolinea Raimondo Catanzaro (1991, p. 145), infatti, la mafia era inconciliabile con lo Stato assoluto che il fascismo voleva instaurare: “Il regime non poteva infatti tollerare di avere un concorrente sul piano della gestione della violenza (…)”, a questo si aggiungeva
“il bisogno di garantire la presenza del partito fascista come unico intermediario tra la popolazione e lo stato. Questa esigenza era incompatibile con la tradizionale attività di mediazione dei mafiosi” (R. Catanzaro, 1991, p. 145).
Per di più, la frattura consumatasi, dopo le elezioni del ’24, tra i fascisti ed il gruppo orlandiano, aveva spinto all’opposizione quei gruppi mafiosi legati ai notabili demoliberali, e le elezioni amministrative di Palermo del 1925 avevano messo in luce quanto potere fosse ancora in mano alle vecchie clientele (anche se non erano riuscite a vincere questa competizione elettorale) (24).
Cristopher Duggan, Salvatore Lupo e Giovanni Raffaele evidenziano l’intento politico e liberticida che stava dietro l’operazione antimafia fascista: Mussolini si servì di quest’ultima per liquidare gli avversari politici, “personaggi scomodi sol perché autonomi” (S. Lupo, 1993, p. 148), sia interni sia esterni al Partito nazionale fascista (25).
A parere di Salvatore Lupo e di Francesco Renda, la battaglia contro la delinquenza organizzata e contro il banditismo fu avviata anche per accreditare il nuovo governo forte agli occhi dell’opinione pubblica siciliana e nazionale, in quel momento alquanto critica nei confronti del fascismo, facendo apparire quest’ultimo come il superamento del vecchio e corrotto “parlamentarismo” (S. Lupo, 1993, p. 144). Secondo il senso comune “della gente per bene” (S. Lupo, 1993, p. 144), infatti, esisteva una “connessione tra sistema politico e criminalità”. Questa opinione diffusa consentiva
“a un movimento ampiamente contaminato da presenze notabiliari di recuperare una propria fisionomia: se la mafia si lega(va) al <<parlamentarismo>>, contro la mafia bisogna(va) muovere per superare la debolezza e lo scarso appeal del fascismo isolano” (S. Lupo, 1993, p. 144).
E per finire, il fascismo dichiarò guerra alla mafiaper “accattivarsi ancora di più il ceto dei latifondisti” (M. Ganci, 1986, p. 105), considerando i grossi proprietari delle vittime, e non anche dei complici, dei gabelloti mafiosi.
Anche riguardo alla reale portata della campagna antimafia fascista – portata avanti con metodi spregiudicati, arbitrari, terroristici – i pareri sono diversi.
Molti sostengono che l’offensiva fu indirizzata, e quindi risultò efficace, solo nei confronti degli strati bassi e intermedi della mafia:
“(…) furono soprattutto i mafiosi di piccolo e medio calibro (…) a cadere nella rete di Mori: individui direttamente implicati nell’uso della violenza, campieri e gabelloti, e i seguaci più prossimi” (A. Blok, 1986, p. 179).
Secondo questa tesi, allorché il <<prefetto di ferro>> cominciò a rivolgere la propria attenzione alla cosiddetta <<mafia alta>>, “(il 16 giugno 1929, N.d.a.) si trovò sul tavolo il telegramma di Mussolini che lo destinava ad altro incarico” (A. Spanò, 1978, p. 67). Ciò accadde
“quando i personaggi di rilievo coinvolti divennero numerosi, quando dopo aver aggredito il banditismo e la mafia <<militante>>, si tentò di raggiungere e colpire le profonde e misteriose radici del potere mafioso di ogni tempo: le complicità ad alto livello” (A. Spanò, 1978, p. 66).
Giuseppe Carlo Marino afferma che “la stessa mafia (fu) protagonista attiva dell’operazione ufficialmente avviata per distruggerla”, nel senso che, anche con l’avvio dell’operazione Mori, il fascismo continuò a distinguere la mafia fascistizzata da quella <<avversaria>>:
“Il <<prefetto di ferro>>, diligentissimo e fin troppo puntiglioso, nel dare esecuzione alle direttive di intransigenza impartitegli dal Duce, non riuscirà a varcare la soglia dell’alta mafia fascistizzata o fascistizzante” (G.C. Marino, 1976, pp. 316-317).
Salvatore Lupo (1993, p. 158) mostra come una “discriminante classista” fosse presente sin dall’inizio nella operazione Mori, poiché il prefetto tenne una “posizione filo-proprietaria” (S. Lupo, 1993, p. 157), ritenendo i latifondisti (principali alleati del regime) “vittime di uno stato di necessità” (S. Lupo, 1993, p. 149). Il “salvataggio dei latifondisti” rappresentò “l’elemento comune di tutti i processi” (S. Lupo, 1993,p. 153) che si tennero in quel periodo. Ma a smentire radicalmente “ogni presunto stato di necessità” vi era la perpetuazione nel periodo fascista, quindi “pur in situazioni <<ambientali>> tranquille” (S. Lupo, 1993, p. 153), della tradizionale intermediazione parassitaria-mafiosa. Difatti, contrariamente a quanto generalmente creduto, e nonostante le lettere di ringraziamento spedite dai proprietari a Cesare Mori – nelle quali lo si informava che, grazie alle sue rigide misure amministrative (volte a colpire i gabelloti e i campieri mafiosi) essi avevano potuto elevare di molto i canoni di affitto delle proprie terre – questi non riuscì a liberare completamente i latifondi e i giardini dalle relazioni mafiose:
“Gli accordi sindacali che preved(evano) l’eliminazione del subaffitto ven(nnero) con vari escamotage vanificati: i proprietari non (seppero) o non inte(sero) eliminare l’intermediario accontentandosi di averlo rimesso (per ora) al suo posto” (S. Lupo, 1993, p. 153).
Salvatore Lupo afferma comunque che, malgrado la “discriminante classista” – la cui esistenza mette indubbio la tesi secondo la quale Mori fu fermato perché stava per colpire <<in alto>> – il <<prefetto di ferro>> inferse un duro colpo alla mafia, anche se non riuscì a sgominarla. Gli unici ad essere favoriti, infatti, furono i latifondisti; per tutti gli altri – compresi i mafiosi di <<grosso calibro>> – non si ebbe alcun riguardo! (27) (Tranne, naturalmente, per chi collaborò con le autorità):
“La repressione colp(ì) professionisti, sindaci, soprattuttogrossi gabelloti come gli Ortoleva, i Tusa, i Guccione, i Farinella. Alcuni (sarebbero riemersi) nel dopoguerra: Vizzini, Genco Russo, Volpe; altri non lascia(rono) eredi: Cascio-Ferro e Candino, Ferrarello e Andaloro, le due fazioni palermitane dei Gentile e degli Sparacino (…)” (S. Lupo, 1993, p. 158).
Ben 500 mafiosi, per sfuggire al pesante clima politico, ripararono negli Stati Uniti; molti di questi <<fuggitivi>> sarebbero diventati capi di Cosa Nostra americana.
Dunque,
“Tra eccessi terroristici, condanne di innocenti, persecuzioni politiche, il questurino Mori e l’inquisitore Giampietro incontra(rono) e batt(erono) duramente la mafia” (S. Lupo, 1993, p. 158).
A riprova della efficacia della azione di polizia di Cesare Mori, basta riportare quanto dichiarato,a tal proposito, dal pentito Antonino Calderone:
“(…) Subentrato Mori (…) sono cominciati i guai (…) La musica era cambiata, e i mafiosi avevano vita dura. Molti venivano mandati all’Isola (Pantelleria o Lampedusa, secondo P. Arlacchi) dall’oggi al domani (…) i mafiosi erano usciti impoveriti dal fascismo (…) Le famiglie siciliane erano state sciolte dal prefetto Mori. La mafia era una pianta che non si coltivava più” (P. Arlacchi, 1992, pp. 14 e 31).
I mafiosi che riuscirono a <<farla franca>> “rientrarono, per così dire, nel privato” (F. Renda, 1990b, p. 388), o si rifugiarono nella clandestinità, pronti, però, a riemergere allorquando le condizioni politiche l’avessero consentito (28). Il fascismo, infatti, non aveva rimosso
“le cause del fenomeno mafioso, a cominciare (come abbiamo visto, N.d.a.) dalla presenza dell’intermediario tra proprietari e contadini, per cui la mafia riprenderà tutta la sua vitalità alla caduta del fascismo, usando anche come titolo di merito le <<persecuzioni>> subite durante la dittatura” (U. Santino, 1995, p. 7).
NOTE AL CAPITOLO TERZO
(1)- In questo periodo nella Sicilia occidentale si verificarono delle tumultuose agitazioni mezzadrili, le quali, a causa dell’opposizione degli agrari a qualunque concessione e della mancanza di direzione politica, degenerarono spesso in veri e propri atti violenti (furti, abigeati, incendi) (Cfr. G. Barone, 1977, pp. 77-78). Inoltre, a partire dal gennaio 1915, un pò tutta la Sicilia fu teatro di tumulti popolari per il caro viveri.
(2) – I fenomeni socio-politici più importanti del primo dopoguerra furono: il “protagonismo contadino” (F. Renda, 1990b, p. 323); l'”accelerata affermazione dei ceti intellettuali” (F. Renda, 1990b, p. 313); la nascita dal movimento combattentistico; il progressivo indebolimento delle formazioni liberali, che, tuttavia, fino all’avvento del fascismo, continuarono ad egemonizzare il quadro politico. Alla base della crisi del liberalismo siciliano vi furono: la rottura del blocco storico tra grande agraria e grande borghesia, che portò alla costituzione (nel gennaio 1920) del Partito Agrario Siciliano – al quale aderirono alcuni gabelloti mafiosi, come, ad esempio, Calogero Vizzini – che assunse un “accento velatamente separatistico” (M. Ganci, 1986, p. 102) (questo partito, che si sarebbe sciolto prima delle elezioni politiche del 1924, non raccolse tutti gli agrari, molti, infatti, preferirono rimanere legati ai vecchi schieramenti); la legge elettorale del 30 giugno 1912, che estese il diritto di voto “a tutti i cittadini maschi di ventuno anni capaci di leggere e scrivere e agli analfabeti che avessero compiuto il servizio militare e che avessero superato i trent’anni” (C. Ghisalberti, 1989, p. 303); la legge di riforma del sistema elettorale, del 15 agosto 1919 – “entrata in vigore dopo che il Parlamento aveva approvato l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i ventun anni di età” (C. Ghisalberti, 1989, p. 333) – che introdusse la proporzionale e lo scrutinio di lista; l’ingresso sulla scena politica di nuove organizzazioni politiche, quali il Partito popolare, il Partito comunista e il Partito fascista.
(3)- Cfr. U. Santino, 1995, p. 24; G.C. Marino, 1976, p. 121; A. Cicala, 1978, p. 65.
(4) – Secondo U. Santino (1995, p. 24) i morti furono in tutto quindici ed i feriti cinquanta; secondo G.C. Marino (1976, p. 121) i dimostranti uccisi furono undici; secondo A. Cicala (1978, p. 66) essi furono dieci.
(5)- “A Giuliana <<circa 700 uomini a cavallo in maggioranza ex combattenti con alla testa la bandiera nazionale si erano recati ad occupare tre feudi issando sui fabbricati di ciascuno la bandiera rossa a cui rimasero a far da guardia alcuni volenterosi contadini>> (…) A Caccamo, a Leonforte, a Scordia, a Lercara <<i contadini piantarono bandierine tricolori inneggiando alla patria all’agricoltura ai combattenti>> (Giornale di Sicilia, settembre 1920, cit. in F. Renda 1990b, p. 347).
(6) – Cfr. J. Calapso, 1980, pp. 188-189; G. Alibrandi, 1981, p. 46.
(7)- “Le autorità governative adottarono una politica che si svolse dalla direttiva nittiana di frantumare il fronte delle agitazioni distinguendo le richieste di <<terra incolta>> avanzate dai combattenti dagli attentati alla proprietà e alla produzione (le une da accogliere con prudenza dopo il vaglio delle Commissioni provinciali, gli altri da respingere fermamente, magari con la forza); alla direttiva giolittiana di limitarsi a controllare lo svolgimento <<naturale>> degli avvenimenti, di fare opera di mediazione tra i contrapposti interessi, di distribuire qualche parziale e non definitiva concessione, in attesa dell’acquietamento spontaneo della tempesta.
In molti casi, nel periodo di Nitti, i prefetti dovettero trovare da soli la <<via migliore>> senza il conforto di istruzioni governative. Il tutto con una faticosa empirìa che alternava blandizie e dure repressioni, ma sempre con la preoccupazione fondamentale di evitare guasti irreparabili ai proprietari e di scoraggiare i tentativi di popolari e socialisti volti a rafforzare le loro posizioni ai danni delle cricche notabiliari tradizionali e dei rappresentanti che sostenevano in Parlamento la politica governativa” (G.C. Marino, 1976, pp. 99-100).
(8)- A Santo Stefano di Quisquina (in provincia di Girgenti, Agrigento dal 1927), i contadini, il 29 settembre 1919, “scesero compatti in sciopero (…) nel nome del compagno di Prizzi, Giuseppe Rumore, assassinato dalla mafia” (G.C. Marino, 1976, p. 156). Lo sciopero, che coinvolse anche altri comuni del circondario, mirava ad ottenere la concessione delle terre incolte e la modifica dei patti agrari.
(9) – Per i fatti di Ribera, cfr. G.C. Marino, 1976, pp. 157-159; A. Cicala, 1978, pp. 70-73.
(10) – Cfr. J. Calapso, 1980, p. 176; U. Santino, 1995, p. 24.
(11)- Rapporto telegrafico del prefetto Beccaredda al Ministro dell’Interno, Trapani, 30 ottobre 1920, cit. in G.C. Marino, 1976, p. 168.
(12) – Cfr. G.C. Marino, 1976, p. 74, 94 e 155; S. Lupo, 1993, p. 142; M. Ganci, 1986, p. 99.
(13) – “fra i quali gabelloti arricchitisi durante la guerra, fattori e campieri degli stessi ex-feudi, professionisti ed altri, da soli o riuniti in associazioni temporanee” (F. Renda, 1990b, p. 351).
(14)- Cfr. M. Ganci, 1986, p. 98; F. Renda, 1990b, p. 352.
(15) – Rita Palidda (1977, p. 243) accenna all’esistenza nel ragusano di “vecchi gruppi mafiosi”; Umberto Santino (1995, p. 26), a proposito di Vittoria cita un “gruppo mafioso locale di caprai”.
(16) – V. G.C. Marino, 1976, pp. 228 e 254; U. Santino, 1995, pp. 7 e 28.
(17)-Nel maggio 1923 scoppiò a Messina un vero e proprio moto antifascista, il movimento del <<soldino>>, cosiddetto per via del distintivo – monetine da uno o due soldi con l’effige del Re – che i suoi aderenti portavano sul bavero della giacca. A far esplodere questo movimento, “che propugnava una reazione contro il fascismo all’insegna del lealismo verso il re e la monarchia” (R. Palidda,1977, p. 269), furono certi provvedimenti governativi arbitrari, che colpirono lavoratori e professionisti messinesi. All’internodellacampagna di epurazione,orchestrata dal Mussolini contro gli impiegati dello Stato di tendenze socialiste o comunque ostili al fascismo, fu particolarmente preso di mira il personale dell’amministrazione ferroviaria, poiché era stato “il nucleo di avanguardia della propaganda socialista rivoluzionaria” (F. Renda, 1990b, p. 366). A Messina furono licenziati ben 44 dipendenti. Ad essere colpito da un provvedimento di epurazione fu anche Ettore Lombardo Pellegrino, professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Messina, nonché deputato laburista al Parlamento. In un rapporto inviato al Ministero della Pubblica Istruzione, l’avversario politico fu accusato di discontinuità nell’insegnamento, dovuta, in realtà, alla sua attività di parlamentare, che lo esonerava, per legge, dagli obblighi accademici. Il Lombardo Pellegrino reagì, sul piano politico, denunciando il sopruso in Parlamento, ed organizzando la protesta popolare.
Fu così che egli si pose alla testa del movimento del soldino – sorto spontaneamente – il quale raccolse la protesta dei ferrovieri e dei tranvieri (che fabbricarono e diffusero i distintivi), delle masse affamate, dei baraccati, ma anche lo scontento della piccola borghesia cittadina, sempre più emarginata e spinta all’opposizione dall’aumento dei prezzi e della disoccupazione,e dalla quotidiana sopraffazione delle autorità fasciste.
A partire dal 5 maggio furono distribuiti i distintivi, e diverse persone cominciarono ad ostentarli, come segno di protesta contro il Governo. Nei giorni seguenti, si svolsero diverse manifestazioni spontanee, che assunsero via via un carattere sempre più tumultuoso, fino a giungere a veri e propri scontri violenti con i fascisti e con la polizia, ed ai tentativi di assalto alla sede del fascioed a quella della Milizia nazionale. Il culmine di tensione si raggiunse il 10 maggio. Quel giorno si svolse una manifestazione per le vie di Messina, “al grido di viva ilRe e Viva Casa Savoia” (G. Alibrandi, 1981, p. 117). I dimostranti, quando incontravano dei fascisti o dei volontari della Milizia nazionale, rivolgevano loro urla e fischi. Giunti in piazza Cairoli, gridarono “Abbasso Mussolini e Abbasso il fascismo!” (G. Alibrandi, 1981, p. 117). Il commissario di P.S., dopo aver fatto suonare i tre squilli di tromba, comandò la carica. La manifestazione si sciolse, ma si ricompose davanti al salone Italia, ritrovo dei seguaci dell’on. Lombardo Pellegrino, il quale si era messo, intanto, alla guida dei dimostranti. Vi furono nuovi scontri con la polizia e due scalmanati furono arrestati. Nella notte, nonostante l’immunità parlamentare, fu arrestato anche il Lombardo Pellegrino. Il giorno seguente, però venne rilasciato. Nell’ottobre 1923, con un decreto ministeriale, il Lombardo Pellegrino sarebbe stato sospeso dall’insegnamento universitario.
Il movimento del soldino da Messina si estese ad altre città siciliane (Catania, Girgenti, Caltanissetta, Trapani Siracusa; F. Renda, 1990b, p. 368) e calabresi, e coivolse diverse categorie sociali: “mutilati, combattenti, impiegati, professionisti e studenti” (R. Palidda, 1977, p. 269). I socialisti ed i comunisti che vi aderirono lo fecero a titolo personale, al di fuori, cioè, di ogni direttiva dei due partiti proletari, i quali non condivisero quella forma di agitazione ed erano per principio contrari a qualunque alleanza con elementi borghesi. I partiti socialriformista e demosociale, “certamente i più vicini e i più interessati, non vollero (…) assumere un atteggiamento di pubblico sostegno, ma si tennero nell’ambiguo (…)” (F. Renda, 1990b, p. 369). Il movimento del soldino, dunque, non riuscì a creare, un fronte comune contro il fascismo – come auspicava il Lombardo Pellegrino – esso restò, pertanto, a livello di pura protesta (tra l’altro esauritasi entro un mese) “facilmente controllabile dagli organi di governo” (G. Alibrandi, 1981, p. 115).
(18)- La riforma Acerbo mirava a creare una vasta e solida maggioranza fascista nel Parlamento. Essa costituiva un collegio unico nazionale, e “riservava al partito che avesse conseguito il maggior numero di suffragi i due terzi dei seggi della Camera dei deputati, ripartendo l’altro terzo tra le liste minoritarie in base alla percentuale dei voti ottenuti da ciascuna di esse” (C. Ghisalberti, 1989, p. 347).
(19)- A Caltagirone, nel 1924, nel corso di una manifestazione di protesta per il delitto Matteotti, fu ucciso Giacomo Malambrino (U. Santino, 1995, p. 29).
(20)- Ad essere particolarmente colpiti dalla repressione fascista furono gli esponenti più in vista del giovane Partito comunista italiano, tra questi il deputato Francesco Lo Sardo di Naso (ME), uno dei più attivi organizzatori (sin dal tempo dei Fasci dei lavoratori) del movimento proletario nella provincia di Messina: arrestato nel settembre 1926, nel 1931 morì “di stenti e di malattia in carcere o meglio lo si era fatto morire, non apprestandogli le cure necessarie” (F. Renda, 1990b, p. 393). Durante la dittatura i comunisti rappresentarono “la punta di diamante” (F. Renda, 1990b, p. 392) dell’opposizione clandestina al fascismo in Sicilia, alla quale contribuirono “i socialisti (…); i riformisti e i repubblicani collegati con i gruppi di Giustizia e Libertà; gli anarchici; i massoni; e gli stessi separatisti, sebbene questi ultimi entrassero in scena più tardi, dopo l’inizio della seconda guerra mondiale” (F. Renda, 1990b, p. 394).
(21) – Durante il ventennio fascista si registrarono,in Sicilia, due importanti fenomeni che influirono negativamente sullo sviluppo industriale: il tracollo finanziario dell’impero economico dei Florio; la crisi irreversibile dell’industria zolfifera – colpita dalla fortissima concorrenza degli Stati Uniti e dalla miopia dei vari governi italiani – la cui produzione scese dalle “416 mila tonnellate annue del decennio 1901-1910 (…) alle 234 mila tonnellate annue del decennio 1926-1935. Dal 90% della produzione mondiale, si ridusse a poco meno del 10%” (F. Renda, 1990b, p. 399).
(22)- Discorso di Agrigento del 9 maggio 1924, in B. Mussolini, “Opera omnia”, 1959, cit. in S. Lupo, 1993, p. 144.
(23) – Cfr. R. Palidda, 1977, p. 286; M. Saja, 1977, p. 341; M. Ganci, 1986, p. 105.
(24) – Cfr. F. Renda, 1990b, p. 383; Finley-Mack Smith-Duggan, p. 313; R. Palidda, 1977, p. 287.
(25)- Cfr. S. Lupo, 1992, pp. 13-14 e 1993, pp. 144-158; G. Raffaele, 1995, p. 14-20.
(26) – Cfr. R. Palidda, 1977, p. 289; M. Saja, 1977, p. 342; R. Catanzaro, 1991, pp. 147-150; F. Renda, 1990b, p. 384.
(27) – Dello stesso parere è Giovanni Tessitore (1994), il quale, in un saggio a sfondo biografico, ha messo in luce i meriti professionali di Cesare Mori, riabilitando (almeno parzialmente) la figura quanto mai complessa – e quindi difficilmente catalogabile – del <<prefettissimo>>.
(28)- Già nel corso del ventennio si verificarono degli episodi delittuosi di origine mafiosa, debitamente occultati dalla stampa di regime: “(…) gli assassini per regolamenti di conti si ripeterono frequentemente, senza che mai si fossero scoperti i relativi autori; e continuarono pure gli attentati alle persone e alle cose, i tentativi di estorsione, i tagli agli alberi e alle vigne, gli incendi ai campi di grano, il fuoco appigliato alle pagliere, ma soprattutto gli abigeati e i furti più diversi (…) Altro, dunque, che il piacere di lasciare aperte le case. Come non c’era libertà, così non c’era sicurezza” (F. Renda, 1990b, p. 386).
ANNI QUARANTA, CINQUANTA E SESSANTA: APOGEO, DECLINO E FINE DEL MOVIMENTO CONTADINO ANTIMAFIA
1. LO SBARCO ALLEATO ED IL RIEMERGERE DELLA MAFIA
Il 10 luglio 1943, le coste meridionali della Sicilia furono teatro di un avvenimento straordinario, che avrebbe determinato il futuro corso della seconda guerra mondiale: lo sbarco delle imponenti truppe anglo-americane (3.000 navi, 4.000 aerei e 450.000 uomini) (1).
In trentotto giorni, l’Isola fu completamente occupata, e liberata dal fascismo. Il secondo dopoguerra iniziò, così, con l’istituzione dell’ A.M.G.O.T. (Allied Military Government of Occupied Territory), il governo militare alleato per i territori occupati.
Una questione ancora poco chiara -e,di conseguenza, molto controversa – è quale ruolo abbiano avuto la mafia americana e quella siciliana nella <<Operazione Husky>>, nome in codice usato dagli angloamericani per indicare lo sbarco in Sicilia.
La nuova storiografia (2) tende a screditare la versione (condivisa da diversi mafiologi) secondo la quale i gangsters italo-americani avrebbero avuto un peso determinante nella organizzazione dello sbarco. Costoro, contattati dai servizi segreti statunitensi, avrebbero garantito il collegamento strategico con la mafia siciliana, che si sarebbe prodigata per la preparazione e la buona riuscita dell’Operazione.
Questa versione prese le mosse dalle risultanze della famosa inchiesta Kefauver (3), che confermarono quello che era già stato denunciato da alcune inchieste giornalistiche:
le trattative avviate e concluse, durante la seconda guerra mondiale, dalla Naval Service con il mafioso italo-americano Lucky Luciano (nato a Lercara Friddi, in provincia di Palermo), rinchiuso allora in carcere negli Stati Uniti. Costui, in cambio della libertà personale, avrebbe offerto preziosi servigi, non ultimo quello di mobilitare la mafia siciliana in aiuto dello sbarco.
Quel che viene messo in discussione dalla nuova storiografia, non è l’esistenza del patto tra US Navy e Lucky Luciano (la cui scarcerazione, nel 1946, ne costituisce una prova indiretta) bensì il reale contenuto dello stesso.
Secondo lo storico Salvatore Lupo (1993, p. 159), chesi rifà alla versione di Luciano, l’accordo consistette <<semplicemente>> nell’affidamento a quest’ultimo della “difesa dei docks newyorkesi da sabotatori tedeschi, i quali peraltro non sarebbero mai esistiti essendo stato lo stesso boss a simulare gli attentati per ottenere la scarcerazione. Davvero nello stile mafioso: minaccia e protezione insieme!” Quanto al collegamento che il gangster avrebbe dovuto attivare tra i servizi segreti statunitensi e la mafia siciliana, lo storico afferma essere quanto meno inverosimile che nel 1942 esistesse già <<la>> mafia con
cui gli americani potessero preventivamente accordarsi. Lo stesso Luciano, del resto, negò di avere contatti con la Sicilia.
Fuori dubbio è, invece, l’importante ruolo assunto da alcuni mafiosi siciliani dopo lo sbarco, durante i sette mesi dell’occupazione alleata.
Una volta rimossi i podestà fascisti, agli alleati si pose la necessità di nominare i nuovi amministratori locali. La loro attenzione si rivolse verso le persone avverse al regime fascista (negli ultimi anni, in questa categoria vi rientravano anche molti latifondisti) e, fra queste, verso quelle che, all’interno delle loro comunità, godevano di grande autorità e prestigio. Accadde così che in diversi paesi la carica di sindaco fu affidata al locale boss mafioso:
“Si calcola che almeno l’80 per cento dei sindaci nominati dagli Alleati nella Sicilia occidentale fossero noti esponenti della mafia” (A. Spanò, 1978, p. 83).
A Villalba, per esempio, la carica di primo cittadino fu conferita a Calogero Vizzini.
I mafiosi, accreditandosi come antifascisti, finirono per ricoprire anche altri incarichi all’interno dell’amministrazione alleata. Giuseppe Genco Russo fu nominato sovraintendente all’assistenza pubblica di Mussomeli. Il boss italo-americano Vito Genovese (rientrato in Sicilia prima dello sbarco, perché ricercato dalla polizia statunitense) divenne “l’interprete di fiducia del colonnello Charles Poletti, capo del Comando militare alleato con sede a Nola” (M. Pantaleone, 1969, p. 82).
Uscita dalla clandestinità, cui l’aveva costretta la persecuzione fascista, la mafia poté, indi,riprendere, prepotentemente, la sua tradizionale funzione di mediazione tra la popolazione locale ed il governo – in questo caso l’A.M.G.O.T. – e recuperare il proprio potere. Per la prima volta, inoltre, i suoi esponenti più potenti assunsero, in prima persona, funzioni di responsabilità politica:
“Per la prima volta nella storia dell’isola i capi della mafia si trovarono investiti direttamente di funzioni e compiti che li portavano sul piano nazionale ed internazionale. La mafia, che fino allora aveva trovato il suo punto di forza nelle alleanze e nelle coperture politiche, venne a trovarsi nella favorevole congiuntura di essere essa stessa forza politica che si identifica con il potere politico, militare ed esecutivo” (M. Pantaleone, 1969, p. 81).
Come può spiegarsi questo “inquinamento mafioso dell’amministrazione isolana” (F. Renda, 1990c, p. 95) ? Ecco cosa scrisse, a tal proposito, il generale Rennel (capo degli affari civili dell’A.M.G.O.T.), in un rapporto alle autorità superiori:
“Di fronte al popolo che tumultuava perché fossero rimossi i podestà fascisti, molti dei miei ufficiali caddero nella trappola di scegliere in sostituzione i primi venuti che si autoproponevano oppure di seguire il consiglio degli interpreti che si erano accodati a loro e che avevano imparato un pò di inglese durante qualche soggiorno negli Stati Uniti. Il risultato non era sempre felice, le scelte finivano per cadere in molti casi sul locale boss mafioso o su un suo uomo ombra il quale in uno o due casi era cresciuto in un ambiente di gangster americani. Tutto ciò che poteva essere detto di alcuni di questi uomini era che essi erano tanto antifascisti quanto indesiderabili da ogni altro punto di vista. Le difficoltà che gli stranieri incontrano nei primi giorni d’una occupazione a valutare il merito o la pericolosità dei personaggi locali deve essere chiara a chiunque abbia dedicato qualche riflessione a questo proposito” (cit. in F. Renda, 1990c, pp. 95-96).
Stando a questa versione, l’infiltrazione mafiosa fu dovuta, essenzialmente, all’imprudenza e alla sventatezza degli alleati. Questi, pur di garantirsi velocemente il controllo del territorio isolano, non andarono tanto per il sottile, cadendo, sovente, nelle trame ordite dai potenti locali.
A parere di Francesco Renda (1990c, p. 95), non c’è ragione di mettere in dubbio quanto affermato dagli ufficiali anglo-americani nei loro resoconti.
“Non ci sono le prove, e non v’è motivo di supporre una sorta di predeterminata e intenzionale congiura, partecipi le autorità di occupazione a tutti i livelli bassi e alti, volta a consegnare la Sicilia nelle mani della mafia”.
Il riemergere della mafia, comunque, oltre che dall’acquiescenza delle forze di occupazione, fu favorito dall’insorgenza del separatismo.
2. IL MOVIMENTO SEPARATISTA
Il separatismo fu, senz’altro, uno dei fenomeni più importanti del secondo dopoguerra siciliano. Esso, infatti, oltre a caratterizzare quei convulsi anni della nostra storia, condizionò la scelta del futuro ordinamento amministrativo dell’Isola.
A scatenare l’ondata separatista contribuì, prima di tutto, il progressivo deterioramento del rapporto tra agrari siciliani e gerarchia fascista. La classe dominante siciliana, vistasi privare del proprio tradizionale potere di influenza sul governo centrale, e preoccupata dallo slogan dell’ <<Assalto al latifondo>>, lanciato dal regime con il varo della legge 2 gennaio 1940, pensò bene di correre ai ripari. Approfittando della profonda crisi in cui era ripiombata la Sicilia a causa del <<ventennio>> e dell’entrata in guerra, alcuni elementi della borghesia agraria decisero di contrapporsi allo Stato organizzando, a Palermo e a Catania, dei nuclei clandestini separatisti. Ma l’impulso decisivo per la costituzione ufficiale del Movimento per l’Indipendenza Siciliana (MIS) venne solo con lo sbarco alleato. L’occupazione militare fu accolta con grande entusiasmo non solo dalle masse affamate ma anche dai laifondisti, i quali vi scorsero la possibilità di ridiventare arbitri della politica siciliana.
Al suo costituirsi, il movimento separatista mostrava due anime: oltre a quella alto-borghese e conservatrice ve ne era una popolare e democratica. Queste due anime contrapposte erano tenute assieme dall’ideologia sicilianista.
Così come aveva fatto in occasione del Comitato Pro-Sicilia, la classe possidente puntò sul malcontento delle masse, per le loro tristi condizioni di vita, e sull’esaltazione della civiltà siciliana per legare a sé,ed al proprio progetto, i ceti popolari. Ancora una volta, il sicilianismo servì per: deresponsabilizzare la classe dominante siciliana per il sottosviluppo isolano, e dirottare la rabbia popolare all’esterno della regione; instaurare una fittizia solidarietà tra le varie classi; dare sostegno ad un movimento, il cui reale obiettivo era quello di mantenere in vita proprio quelle strutture economiche e sociali che erano la causa prima della miseria contadina (4).
Capo ufficiale del movimento indipendentista era l’avvocato Andrea Finocchiaro Aprile, esponente della vecchia classe politica liberal-radicale, deputato per tre legislature e più volte sottosegretario in ministeri pre-fascisti. Questi,
“aveva un’oratoria che avvinceva e trascinava le folle, e sapeva rivolgersi sia al ricco proprietario terriero che all’umile contadino, convincendo agevolmente l’uno e l’altro a militare sotto la bandiera giallo-oro del MIS” (A. Spanò, 1978, p. 81).
Di fatto, però, il movimento era manovrato dai grandi proprietari terrieri, come il duca di Carcaci e il barone Lucio Tasca. Quest’ultimo, già leader del Partito Agrario Siciliano (v. cap. 3°, nota n. 2), era stato nominato, dagli alleati, sindaco di Palermo.
L’anima democratica e progressista del separatismo era rappresentata da Antonio Canepa e Antonio Varvaro, ed aveva maggiore credito nella Sicilia orientale (cfr. R. Catanzaro, 1991, p. 155). Nella Sicilia occidentale, di contro, prevalse, sin dall’inizio, la componente più retriva ed apparve subito chiaro il legame con l'<<Onorata Società>>. Il connubio tra separatisti e mafiosi si realizzò per reciproco interesse: i primi miravano a <<dare forza>> al proprio disegno conservatore; i secondi, alla legittimazione politica, dopo gli anni bui del fascismo.
“(…) moltissimi mafiosi transita(rono) nelle file del MIS: Vizzini, Navarra, Genco Russo; Paolino Bontate e Gaetano Filippone; Pippo Calò e il giovane Tommaso Buscetta.
(…) la rete delle relazioni spezzate da Mori trov(ò) l’occasione di riannodarsi attorno al MIS. Per la prima e l’ultima volta la mafia, anziché inserirsi in un apparato di potere, sembrò voler contribuire direttamente a un’ipotesi politica. Difficile dire quanto conti il sicilianismo, nel passato sbandierato dai mafiosi e dai loro avvocati; certo, se costoro avessero un’ideologia politica sarebbe questa” (S. Lupo, 1993, pp. 160-161).
Come si posero gli alleati di fronte al separatismo? Ufficialmente, essi respinsero fermamente la richiesta di consenso, loro avanzata da Finocchiaro Aprile, per la costituzione di un governo provvisorio siciliano. Di fatto, però, il loro atteggiamento – almeno in un primo momento – fu, quanto meno, ambiguo: né lo incoraggiarono né lo contrastarono, considerandolo alla stregua di un partito democratico ed antifascista. Ad esempio, nonostante l’A.M.G.O.T. avesse promulgato il divieto di svolgere qualsiasi attività politica, i separatisti organizzavano le proprie riunioni senza dover ricorrere a particolari sotterfugi; la bandiera del MIS sventolava liberamente; i manifesti indipendentisti rimanevano affissi sui muri di Palermo (bisogna dire, comunque, che anche i comunisti distribuivano i loro manifesti senza essere puniti; cfr. F. Renda, 1990c, p. 64). Per di più, molti dei sindaci nominati dagli alleati erano separatisti (soprattutto nella Sicilia occidentale).
Alla base di questa longanimità dei militari anglo-americani vi era, probabilmente, la preoccupazione di conquistare il sostegno – o, quanto meno, la non ostilità – della forza politica che, al momento, appariva essere la più rilevante e popolare dell’Isola e che poteva, quindi, costituire una seria minaccia per l’ordine pubblico.
Questo atteggiamento compiacente, tuttavia, mutò quando furono superate le difficoltà legate alla fase iniziale dell’occupazione e, precisamente, allorché la Sicilia da “soggetto principale dell’amministrazione dei Civil Affairs” passò “al rango di <<Region I>>” (F. Renda, 1990c, p. 68) – essendo ormai lontana dal fronte delle operazioni militari, spostatosi sul Continente – e l’Italia non rappresentò più “un nemico da combattere”, bensì “un cobelligerante da sostenere” (F. Renda, 1990c, p. 68).
Il 10 gennaio 1944, il tenente colonnello Charles Poletti autorizzò la ricostituzione delle organizzazioni politiche, ponendo determinate condizioni: non dovevano essere fasciste; e non dovevano promuovere manifestazioni popolari che turbassero l’ordine pubblico.
Questo provvedimento, tanto atteso dai partiti antifascisti unitari, per i separatisti rappresentò un affronto, avendo essi sollecitato la reazione delle masse e considerandosi gli unici legittimi rappresentanti degli interessi della Sicilia (cfr. F. Renda, 1990c, p. 73).
Con il passaggio dell’amministrazione dell’Isola dall’A.M.G.O.T. al Governo italiano, avvenuto l’11 febbraio
1944, i separatisti videro tramontare definitivamente la speranza della costituzione per via pacifica e diplomatica dello Stato siciliano indipendente. Decisero, pertanto, di cambiare strategia. Fu così che all’interno del movimento maturò la scelta di ricorrere alle armi, affiancando al MIS una organizzazione militare clandestina.
L’incarico di costituire l’Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana (EVIS) fu affidato, nell’autunno del 1944, ad Antonio Canepa, il quale si dedicò all’impresa con tutto il proprio impeto rivoluzionario.
Il periodo nel quale il Canepa ebbe affidato il suddetto incarico coincise, guarda caso, con quello in cui il Governo di unità nazionale emanò i decreti Gullo (dei quali parleremo diffusamente più avanti), i quali disponevano, tra l’altro, la concessione delle terre incolte e malcoltivate ai contadini, ed una più equa ripartizione dei prodotti nei contratti agrari. Questi provvedimenti, dando legittimità alle tradizionali aspirazioni dei contadini siciliani, risvegliarono nelle masse rurali la coscienza di classe, e li allontanarono dall’influenza del separatismo. Tutto ciò: accrebbe i timori degli agrari, riguardo l’avvento in Italia di una democrazia popolare; rafforzò la loro aspirazione separatista; e li spinse ad adottare soluzioni estreme (5).
L’EVIS iniziò la sua attività clandestina nel maggio 1945, vale a dire dopo che l’Alto Commissario per la Sicilia
(istituito subito dopo il trasferimento dei poteri allo Stato italiano) Salvatore Aldisio, dispose la chiusura, per ragioni di ordine pubblico, delle sedi separatiste di Palermo e Catania (chiuse, rispettivamente, il 21 aprile ed il 2 maggio). I separatisti presero a pretesto proprio questo provvedimento per giustificare il passaggio dalla lotta politica all’insurrezione armata.
L’esercito clandestino si rivelò subito inconsistente, riuscendo a raccogliere solo “qualche centinaio (il migliaio comunque non fu mai raggiunto) di giovani entusiasti o sbandati” (F. Renda, 1990c, p. 221), e mancando di una direzione militare qualificata ed esperta. Per di più, dopo circa un mese dall’avvio delle operazioni, l’organizzazione guerrigliera fu <<decapitata>>: il 17 giugno, a Randazzo, Antonio Canepa, rappresentante dell’ala di sinistra del separatismo nonché capo e ideologo dell’EVIS, cadde in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Quel giorno, a Randazzo, cessò di esistere anche l’anima popolare e progressista dell’indipendentismo siciliano, sopraffatta, ormai del tutto, dall’anima conservatrice e mafiosa. Fu per questo che alcuni avanzarono l’ipotesi che la morte del Canepa non fosse stata del tutto accidentale (6).
La debolezza dell’EVIS spinse vegliardi separatisti e giovani generali a ricercare l’appoggio del banditismo organizzato.
Secondo Aristide Spanò (1978, p. 89) la decisione di affiancare all’EVIS le più temute bande armate della Sicilia fu presa nel corso di una riunione tenutasi nel settembre 1945, in una villa del barone Lucio Tasca. A tale incontro erano presenti non solo i maggiori esponenti del movimento separatista ma anche i più noti boss mafiosi della Sicilia. In quell’occasione,
“si gettarono le basi di una vera e propria organizzazione tra le varie <<cosche>> (mafiose, N.d.a.), e di un’alleanza diabolica tra mafia, politica e banditismo, destinata a durare per molti anni”.
Il banditismo, che aveva già caratterizzato la storia siciliana del primo quindicennio post-unitario e dell’immediato primo dopoguerra, si era ripresentato puntuale nel periodo di crisi economica e politica che era seguito alla seconda guerra mondiale.
Le bande armate che scorazzavano per le campagne siciliane erano costituite, in gran parte, da: detenuti evasi o dimessi dalle carceri; malfattori; latitanti per reati militari (renitenti e disertori) e comuni; contrabbandieri ed evasori degli ammassi granari.
Il banditismo aveva una connotazione prettamente rurale: dalla origine sociale dei briganti ai luoghi stessi ove si svolgevano le loro gesta predatorie e violente, tutto era legato al mondo contadino:
“I banditi furono tutti o quasi tutti di estrazione contadina o paracontadina; cioè, sempre gente di campagna o di paese, mai o quasi mai di città. I capi per lo più furono artigiani, piccoli commercianti, piccoli impiegati; i gregari, tutti o quasi tutti rurali. (…) il mondo dei banditi, il loro campo d’azione, la loro mentalità, la loro cultura, le loro acerbe e indigeste aspirazioni sociali, persino le loro vittime, tutto appartenne al regno della campagna” (F. Renda, 1990c, p. 177).
Esso rappresentò una reazione rozza e primitiva alla difficilissima situazione economica ed alla incertezza politica del dopoguerra. Per fortuna, però, la società contadina siciliana reagì al grave disagio di quegli anni anche in un altro modo, ben più civile, coraggioso e costruttivo: organizzando un imponente movimento sindacale, che si contrappose, tra l’altro, al banditismo.
“La via del banditismo fu una delle due risposte, la più conforme alla tradizione rurale premoderna e perciò la più elementare e primitiva, che la campagna contadina diede ai problemi dello sfacelo provocato in Sicilia dalla disfatta militare e dal crollo dello Stato italiano. L’altra risposta, certamente più laboriosa e lunga, in ogni caso la sola ricca di risultati e alla fine vincente, fu la strada che portò alla formazione di un moderno movimento politico sindacale sotto la guida di grandi partiti e grandi organizzazioni sindacali a diffusione nazionale (…) Nella scelta dell’uno o dell’altro percorso, i problemi prevalenti furono legati al rifiuto di continuare a vivere come prima e dunque all’esigenza più o meno chiaramente avvertita del cambiamento. (…) nel corso del movimento politico sindacale fu scelta la vita superiore fondata sulla fiduciosa prospettiva di una Sicilia nuova e radicalmente cambiata nelle sue strutture di fondo; in quello del banditismo fu, invece, un soggiacere senza resistere all’imperio delle circostanze o un cedere senza riflettere agli istinti ribellistici o all’impazienza, restando nella pania della Sicilia vecchia, senza libertà e senza speranza di mai poterla ottenere” (F. Renda, 1990c, p. 178).
Il bandito siciliano più famoso è stato Salvatore Giuliano di Montelepre. Costui cominciò la propria <<carriera>> criminale il 2 settembre 1943, uccidendo un carabiniere che, in un posto di blocco alle porte di Palermo, lo aveva fermato mentre trasportava di contrabbando due sacchi di grano. Datosi alla macchia, grazie all’astuzia, alla spietatezza ed al carisma che lo contraddistinguevano, raccolse attorno a sé numerosi gregari. Con le sue azioni delittuose (sequestri di persone, estorsioni, saccheggi, grassazioni, omicidi di traditori e rivali) nell’entroterra della Sicilia occidentale, egli cercava di conquistare denaro e potere, ma anche l’ammirazione popolare. Proprio per questo, si atteggiava a ribelle che combatteva lo strapoteredello Stato e dei signorotti locali in favore dei più poveri. In realtà, come vedremo, egli divenne strumento di tale strapotere contro chi voleva effettivamente combatterlo.
Fu proprio con la banda Giuliano che i separatisti si misero in contatto per rinforzare l’esercito clandestino. Nell’estate del 1945, il “principe dei banditi” (S. Lupo, 1993, p. 162) fu nominato colonnello dell’EVIS. La stessa carica fu attribuita a Concetto Gallo, un ricco possidente che, stando alle dichiarazioni del pentito Antonino Calderone, era un “uomo d’onore della famiglia di Catania” (P. Arlacchi, 1992, p. 46). Costui riuscì agevolmente ad ottenere l’appoggio della feroce banda dei niscemesi, che operava nella Sicilia orientale.
Il connubio separatismo-banditismo si rivelò nefasto non solo per la società siciliana ma anche per lo stesso MIS, in quanto contrastò una sua possibile evoluzione legalitaria in senso federalista (v. F. Renda, 1990c, pp. 224-231). Dopo la tragica morte di Antonio Canepa, le pericolose trame dei separatisti erano trapelate e, nonostante essi negassero l’esistenza di un qualunque legame tra il MIS e l’EVIS, la loro posizione diveniva sempre più insostenibile.
L’Alto Commissario Aldisio, preoccupato per gli sviluppi della situazione politica siciliana, premette sul presidente del Consiglio Ferruccio Parri affinché si giungesse all’arresto dei capi separatisti. Il 30 settembre 1945, Andrea Finocchiaro Aprile, Antonio Varvaro e Francesco Restuccia (un messinese ritenuto erroneamente il capo dell’EVIS) furono deportati nell’isola di Ponza. Questo provvedimento, però, non risolse la questione separatista, piuttosto la aggravò: colpendo proprio la dirigenza moderata (il Varvaro era stato addirittura contrario alla costituzione dell’esercito clandestino), esso lasciò libero spazio all’ala militare estremista del separatismo che, senza alcuno scrupolo, si abbandonò alla violenza indiscriminata (7).
Nell’inverno dello stesso anno, alcuni giovani e spregiudicati aristocratici – in gran parte già votati all’insurrezione armata e latitanti – costituirono un
movimento nel movimento, dando vita ad una nuova formazione militare denominata Gioventù Rivoluzionaria per l’Indipendenza Siciliana (GRIS).
Il GRIS era una struttura indipendente dall’EVIS. I suoi aderenti erano vincolati – pena la morte – al silenzio più assoluto. Il comando militre fu assunto da Concetto Gallo. All’interno di questa sorta di società segreta i banditi assunsero un ruolo predominante. Sia la banda Giuliano sia la banda dei niscemesi ne fecero parte, così come numerosi delinquenti comuni.
Le idee politiche del GRIS si concretarono in frequenti e plateali azioni dimostrative, che altro non furono che veri e propri atti di guerra contro le Istituzioni, e delitti contro i beni e le persone.
A partire dal dicembre ’45 fino al febbraio ’46 la Sicilia sfuggì, di fatto, al controllo dello Stato italiano. Quei mesi furono un tragico susseguirsi di gravi episodi delittuosi, la maggior parte dei quali ebbe come bersaglio mortale le forze dell’ordine.
Il 26 dicembre 1945, la banda Giuliano assalì la caserma dei carabinieri di Bellolampo. Il 29 dicembre, in seguito ad un blitz di carabinieri, polizia ed esercito, nelcampo di San Mauro (ove i banditi addestravano i giovani baroni all’uso delle armi; v. G. Falzone, 1975, p. 255), vicino Caltagirone, rimasero uccisi tre carabinieri, due soldati e
un civile (U. Santino, 1995, p. 32); in quell’occasione fu arrestato Concetto Gallo. Lo stesso giorno, la banda Giuliano assalì la caserma dei carabinieri di Grisì; il 3 gennaio 1946 quella di Pioppo; Il 5 quella di Borgetto; il 7 quella di Montelepre. L’8 gennaio, sempre la banda Giuliano, attaccò una camionetta a Partinico, uccidendo un carabiniere; il 18, nei pressi di Montelepre, tese un’imboscata a dei militari, uccidendone quattro; il 23 fermò un’automotrice della linea ferroviaria Trapani-Palermo, rapinando circa cento persone; il 25 attaccò il carcere di Monreale; il 26 la radio trasmittente di Uditore e un deposito militare; il 27 la radio di Palermo. Il 29, la banda dei niscemesi ed alcuni giovani separatisti, nel feudo Nobile di Gela, uccisero otto carabinieri, che avevano sequestrato il 10 gennaio. Questa drammatica e lunga conta procede nel mese di febbraio con nuovi assalti della banda Giuliano a camionette di militari, autocorriere, fattorie e, addirittura, ad un intero abitato (quello di Camporeale, avvenuto il 4 febbraio) (8).
Secondo un rapporto ufficiale, per l’arma dei carabinieri il bilancio di sangue di questi mesi di terrore fu pesantissimo:
“56 carabinieri deceduti in conflitti con malfattori, 45 in altre operazioni di servizio; 169 feriti in conflitti a fuoco, 588 in altre operazioni” (in U. Santino, 1995, p. 33).
Come reagì lo Stato italiano a questa crudele guerriglia? Esso, contrariamente a quanto aveva fatto in altre occasioni (9), non ricorse al pugno di ferro o allo stato d’assedio; preferì “combattere la illegalità senza uscire dalla legge e meno che mai dalla democrazia” (F. Renda, 1990c, p. 247), nella convinzione che l'”emergenza del crimine non andava combattuta con l’emergenza della società civile. La Repubblica non doveva fondare la propria autorità sul regime di forza o sulla violazione dei diritti personali dei siciliani” (F. Renda, 1990c, p. 248). Dunque, niente arresti indiscriminati e processi sommari; niente limitazioni alla libertà ed ai diritti della popolazione civile. Neanche nei confronti degli stessi componenti del MIS furono presi provvedimenti sommari, nonostante si sospettasse che i capi di detto movimento avessero sostenuto l’EVIS e non si fossero mantenuti a debita distanza dal GRIS.
Il presupposto dal quale partiva il Governo per affrontare il movimento separatista e le sue degenerazioni era che i separatisti, “pur se in errore, non difendevano una causa storta” (F. Renda, 1990c, p. 248). Non era del tutto sbagliato, infatti, pensare che la Sicilia avesse subito dei torti da parte dello Stato italiano. Si trattava, dunque, di ridurre la questione separatista ad una giusta e lecita dimensione. Per far ciò, occorreva, innanzitutto, discriminare e scindere le due componenti del MIS, che al momento apparivano intricate: il movimento politico, conle sue idee e finalità, da una parte; le bande armate ela delinquenza dall’altra.
Il principale fautore di questa politica moderata era il ministro dell’Interno Giuseppe Romita. Sull’esempio di quanto aveva già fatto qualche generale di stanza in Sicilia, egli cercò di mettersi in contatto con diversi separatisti ribelli, per convincerli, pacificamente, a rientrare nella legalità. I suoi tentativi ebbero esito positivo: numerosi latitanti, superata l’iniziale diffidenza, accettarono l’incontro con il Ministro dell’Interno. Gli impegni assunti in tali occasioni, da entrambe le parti, furono rispettati. Pertanto,
“La questione separatista rientrò (…) nei termini di una normale pur se opinabile questione. Ed ebbe termine l’emergenza” (F. Renda, 1990c, p. 253).
L’insurrezione armata separatista cessò, ed il banditismo fu lasciato al suo destino. Da parte dello Stato italiano, il 27 aprile 1946, furono liberati Finocchiaro Aprile, Varvaro e Restuccia; furono scarcerati anche tutti quei separatisti non accusati di reati per i quali era prevista la carcerazione obbligatoria; si attuò il passaggio di tutti i processi in atto contro i separatisti dalla magistratura militare di guerra alla magistratura penale ordinaria. Per di più, si procedette alla formale legalizzazione del Movimento per l’indipendenza della Sicilia, il quale fu
“reintegrato pienamente nei suoi diritti politici, affrancato dai divieti e dagli ostacoli sempre opposti alla sua propaganda e alla sua organizzazione, tolto dal bando che l’aveva escluso dalla comunità politica isolana e nazionale” (F. Renda, 1990c, p. 253).
Il MIS fu autorizzato a partecipare alla prossima campagna elettorale per il referendum istituzionale ed a presentare proprie liste per l’elezione della Costituente (10).
Per suggellare l’accordo tra Stato italiano e movimento indipendentista fu estesa anche ai separatisti arruolati nell’EVIS e nel GRIS l’amnistia per i reati politici, concessa il 20 giugno.
Comunque, il provvedimento politico che, più di qualunque altro, segnò la definitiva risoluzione della questione separatista, fu la promulgazione, con decreto legislativo luogotenenziale del 15 maggio 1946, dello Statuto regionale siciliano. Questo era stato preparato nell’autunno ’45 da una Commissione speciale, nominata dall’Alto Commissario per la Sicilia, ed era stato varato dalla Consulta regionale siciliana (un organo collegiale consultivo, di cui facevano parte rappresentanti dei partiti del CLN e tecnici) nel dicembre dello stesso anno. I punti cardine dell’ordinamento regionale siciliano erano due:
“quello riparazionista, cioè della rivendicazione di un risarcimento dei danni subiti, la cui espressione manifesta era il più basso livello di sviluppo economico e sociale dell’isola rispetto alle regioni del Nord e alla stessa situazione media nazionale; e quello della autosufficienza, cioè della concezione dell’autonomia come esercizio nell’isola di tutte o quasi le funzioni svolte dalla Stato in campo nazionale (…)” (F. Renda, 1990c, p. 235).
Con la promulgazione di questo Statuto, lo Stato italiano concesse alla Sicilia un’ampio potere di autonomia. A spingerlo in questa direzione erano stati: l’esigenza di rendere innocuo il movimento indipendentista, che aveva seriamente minacciato l’unità nazionale; la solidarietà autonomistica che si era creata in Sicilia tra i partiti del CLN.
Alla base della scelta autonomistica delle forze politiche siciliane vi erano la unanime condanna del separatismo e, allo stesso tempo, la coscienza che occorreva dare legittimità politica al malcontento popolare per il trattamento riservato alla Sicilia dallo Stato italiano.
Cionondimeno, a spingere verso tale scelta i sei partiti del CLN erano state anche considerazioni tra loro opposte.
I partiti progressisti (PCI, PSI, PdA) vedevano nell’autonomia un mezzo per uscire dall’immobilismo politico che aveva caratterizzato la Sicilia, e per dare voce, finalmente, alle rivendicazioni dei ceti disagiati.
I partiti che erano, per lo più, espressione della classe possidente (PLI, DC, PDL), al contrario, speravano di poter usare l’autonomia per preservare il tradizionale assetto socio-economico siciliano dagli effetti devastanti del cosiddetto “Vento del Nord” – portatore di progresso e rinnovamento – che aveva già cominciato a spirare anche al Sud!
Accantonato il progetto indipendentista, molti agrari separatisti, e con essi molti mafiosi, accettarono l’invito loro rivolto dai partiti reazionari (partito monarchico e partito liberale) e dalla DC, entrando a far parte di questi schieramenti politici.
“Il separatismo divent(ò) sempre più una chimera e gli agrari compre(sero) che la prospettata autonomia (era) una formula efficace per superare il vicolo cieco in cui si (erano) andati a cacciare, senza perdere minimamente la prospettiva di una restaurazione conservatrice a difesa dei loro interessi di classe” (G. Di Lello, 1994, p. 51).
Dunque,
“Con la fine della prospettiva di successo gli interessi locali torna(rono) a ricompattarsi con quelli nazionali” (R. Catanzaro, 1991, p. 163).
Come abbiamo anzidetto, anche i gruppi mafiosi passarono dalla parte del nuovo ordine costituito, e lo fecero:
“eliminando le bande armate, organizzando larepressione del nascente movimento contadino ed entrando nei partiti a rappresentanza nazionale” (R. Catanzaro, 1991, p. 163).
Il banditismo, non più forte dell’appoggio dei separatisti, poté essere facilmente sconfitto. A ciò contribuirono: la repressione statale; lo scontro tra bande rivali; l’azione di oscuri assassini e della mafia. Si calcola che in pochi mesi furono eliminate “oltre a 200 associazioni criminali di minore portata, ben dieci grosse bande” (R. Catanzaro, 1991, p. 163).
L’unico a non essere disturbato fu Salvatore Giuliano, il quale, proprio in quel periodo, cessò di prendere di mira le forze dell’ordine. Evidentemente anche lui, come i mafiosi,si integrò nel nuovo sistema politico, a difesa delle forze della conservazione. Prova ne è il fatto che la crudeltà della sua banda cominciò a indirizzarsi contro il montante movimento contadino, e contro le forze politiche (soprattutto il PC) che si ponevano alla testa delle lotte per la terra.
Facciamo un passo indietro, quindi, e vediamo come ebbe inizio e si sviluppò quello che sarebbe diventato il più imponente movimento sindacale-antimafioso della storia siciliana.
3. IL <<BENVENUTO>> DELLA MAFIA A GIROLAMO LI CAUSI, ED IL DIFFICILE INVERNO 1944-45
Il 10 agosto 1944, arrivò a Palermo Girolamo Li Causi. Siciliano d’origine, questi era uno dei fondatori del Partito comunista italiano ed uno dei suoi dirigenti più valorosi. Per il suo impegno antifascista, il Regime lo aveva condannato a venti anni di reclusione. Dopo la caduta del fascismo, si era dedicato alla lotta partigiana, diventandone uno dei capi più importanti.
Il suo trasferimento a Palermo era stato organizzato affinché guidasse e rafforzasse il PC siciliano, troppo debole e disorganizzato per affrontare quel difficilissimo dopoguerra.
La situazione che Li Causi trovò al suo arrivo in Sicilia era davvero drammatica. La seconda guerra mondiale, così come aveva fatto la prima, aveva aggravato le già tristi condizioni dei ceti popolari, e aveva reso ancora più forti gli squilibri economici all’interno delle campagne.
Il dirigente comunista sapeva bene che il compito che gli era stato affidato era arduo e, per certi versi, pericoloso. Tuttavia, quel che gli accadde a Villalba (Caltanissetta), il 16 settembre 1944, difficilmente avrebbe potuto preventivarlo.
Quel giorno egli si era recato nel paese di donCalogero Vizzini insieme ad altri esponenti del PC siciliano – fra i quali Gino Cardamone – per tenervi un comizio. Giunti nella piazza del Duomo, ove avrebbero dovuto parlare ai contadini, la trovarono quasi deserta. Gli unici a popolarla erano dei gruppetti di mafiosi, appoggiati ai muri o riuniti davanti alla sezione locale della Democrazia cristiana (sostanzialmente affiliata al MIS, cfr. S. Lupo, 1993, pp. 161-162), capeggiata da Beniamino Farina, sindaco del paese e nipote di Calogero Vizzini.
Don Calò aveva acconsentito a che il comizio si tenesse,
“purché non (si) toccassero gli argomenti della terra, del feudo e della mafia, purché, soprattutto, nessuno dei contadini venisse in piazza ad ascoltarli” (C. Levi, prefazione a M. Pantaleone, 1984, p. X).
Mentre il capomafia se ne stava “in mezzo alla piazza, con un bastone in mano”, i contadini, intimoriti, “restavano fuori, lontani, nelle loro strade, dietro le finestre o sulle porte” (C. Levi, in M. Pantaleone, 1984, p. X).
Il primo a parlare fu Gino Cardamone, il quale, trattando l’argomento delle repubbliche marinare del Medio Evo, non urtò l’umore di don Calò. Di seguito parlò Michele Pantaleone. Questi aveva costituito a Villalba un gruppo socialista che si poneva in netto contrasto con la fazione cattolico-separatista dei Vizzini-Farina. La sola sua presenza al tavolo degli oratori costituiva, pertanto, un affronto per il capomafia. Il Pantaleone, per di più, nel suo intervento attaccò i separatisti e, presentando Girolamo Li Causi, si richiamò all’azione delle masse contadine.
Il segretario regionale del PC entrò subito
“nel vivo dell’argomento della funzione parassitaria del gabelloto sfruttatore dei contadini con un linguaggio che sembrava scaturito dalla bocca stessa della famiglia contadina (…)” (G. Li Causi, “La Sicilia del dopoguerra (1944-1960)”, inedito, cit. in F. Renda, 1990c, p. 135).
Il suo discorso, chiaramente, non fu per niente gradito dagli astanti mafiosi e fu interrotto in modo continuo e provocatorio. Un comunista di Caltanissetta invitò don Calò al contraddittorio, ma ricevette come risposta una bastonata, che segnò l’inizio dell’aggressione armata.
A fare inferocire don Calò non erano state tanto le cose dette, pacatamente, da Li Causi, quanto il fatto che le sue parole, ascoltate da dietro le finestre, avevano suscitato fra i contadini grande entusiasmo e consenso, a tal punto da spingerli ad entrare nella “piazza proibita” (C. Levi, in M. Pantaleone, 1984, p. XI), mentre molte donne anziane spalancavano finestre e balconi per affermare “vangelo è” (G. Li Causi, cit. in F. Renda, 1990c, p. 135).
“Così essi rompevano il senso di una servitù antica, disubbidivano, più che a un ordine, all’ordine, alla legge del potere, distruggevano l’autorità, disprezzavano e offendevano il prestigio” (C. Levi, in M. Pantaleone, 1984, p. XI).
Fu proprio allora che si scatenò il terrorismo mafioso. Contro il palco e la folla che lo aveva circondato furono lanciate cinque bombe a mano (una delle quali fu sicuramente lanciata dal sindaco) ed esplosi numerosi colpi di pistola. I feriti furono quattordici, fra questi Girolamo Li Causi, colpito ad un ginocchio. I carabinieri di Villalba, chiusi nella loro caserma, non intervennero.
La notizia della tentata strage si diffuse ben presto in Sicilia ed in tutta la Nazione.
Nell’Isola si tentò di camuffare la realtà, dando alla notizia poco rilievo (il Giornale di Sicilia non si occupò per niente dell’accaduto) e diffondendo la voce che erano stati i socialisti ed i comunisti a provocare.
Quanto alla punizione dei colpevoli, le autorità competenti (forze di polizia, Alto Commissario, prefetto di Caltanissetta e magistratura) non procedettero con la prontezza necessaria. Il Vizzini ed il Farina furono rinviati a giudizio, ma non ne fu disposto l’arresto (nonostante il codice, per reati del genere, lo prevedesse). Così, quando nel novembre del 1949 il processo si concluse con la condanna di entrambi a cinque anni di reclusione, don Calò era già latitante da qualche anno ed aveva potuto dedicarsi alla sua attività politica in favore del separatismo e della Democrazia cristiana (U. Santino, 1995, p. 30). Nel 1954, egli morì nel suo letto. Nel maggio del 1958, i partecipanti alla strage ottennero la grazia del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi (M.Pantaleone, 1984, p. 96) (11).
A Roma la notizia dell’attentato ebbe grande risonanza. La sua gravità fu subito colta. L’accaduto fu posto in relazione al problema del separatismo, sia perché Li Causi era stato mandato dal PCI in Sicilia, tra l’altro, proprio per fronteggiare questa emergenza, sia perché gli autori del tentato massacro aderivano al MIS. Pertanto, nella Capitale non si agì soltanto sul piano della solidarietà ma anche su quello della politica.
La direzione nazionale della DC sospese dal partito la sezione di Villalba. I provvedimenti più rilevanti furono adottati dal Partito comunista italiano. Per rinforzare l’autorità di Li Causi, furono inviati nell’Isola alcuni qualificati ed esperti militanti di origine siciliana, che avrebbero dovuto affiancare il segretario regionale nella dura lotta contro le forze agrario-mafiose.
“Fu quella, come poi confermarono i fatti, la risposta più efficace. Per la prima volta, nella storia d’Italia, una grande forza nazionale si attrezzava politicamente e organizzativamente per far fronte alla cosiddetta <<onorata società>>, nel proposito di contrapporle un vasto e articolato schieramento sociale e politico antimafioso” (F. Renda, 1990c, p. 137).
A spingere la direzione nazionale del PC verso questa importante decisione contribuirono, probabilmente, altri due gravi episodi che avevano colpito il partito ancor prima del 16 settembre: il 27 maggio, a Regalbuto (Enna), durante un tumulto per un raduno separatista, era morto il segretario della federazione comunista di Enna, Santi Milisenna; il 6 agosto, a Casteldaccia (Palermo), era stato assassinato il comunista Andrea Raia. Secondo il giornale <<La Voce Comunista>> del 12 agosto, il Raia era stato assassinato in quanto “organizzatore comunista”, ma anche perché “membro attivo e intelligente del comitato di controllo ai granai del popolo”; quanto ai mandanti, essi erano “da ricercare nei grossi proprietari fascisti e separatisti di Casteldaccia”; per le modalità dell’omicidio, gli esecutori materiali andavano ricercati “tra i maffiosi locali” (cit. in U. Santino, 1995, p. 29).
Cos’erano i <<Granai del Popolo>>, per il cui controllo il Raia era stato ucciso? Questi altro non erano che gli ammassi del grano, così ribattezzati dal Governo di unità nazionale (precisamente dai ministri comunisti), per sottolinearne l’importanza economica e la natura comunitaria. Il Governo cercava, in tal modo, di stimolare lo spirito di solidarietà dei produttori di grano, poiché dalla buona riuscita o meno degli ammassi dipendeva l’approvvigionamento alimentare dei centri urbani e delle popolazioni agricole non produttrici di grano.
In Sicilia, i <<Granai del popolo>> rimasero semivuoti. Sia i piccoli sia i grossi produttori non rispettarono l’obbligo del conferimento del grano agli ammassi. Il mercato nero – che già durante il conflitto aveva fatto arricchire agrari e gabelloti mafiosi, ed aveva fatto vivere più dignitosamente qualche contadino – continuava a prosperare. Le scorte alimentari delle città raggiunsero limiti di insufficienza. A rendere ancora più difficile il rifornimento pubblico di grano contribuivano le resistenze dei proprietari terrieri alla richiesta dei contadini reduci di riconvertire in coltivazioni le terre che, durante la guerra, erano state trasformate – per mancanza di manodopera – in lucrose aziende agro-pastorali. Per ciò e per la loro attività di intrallazzisti, gli agrari si meritarono l’appello di <<affamatori del popolo>> (v. F. Renda, 1979, p. 22).
Nel mancato conferimento del grano, da parte dei produttori siciliani, agli ammassi molti videro anche un gesto di ostilità nei confronti del Governo nazionale. In effetti, le province più inadempienti risultarono essere proprio quelle in cui il movimento separatista era più forte (Palermo, Trapani, Agrigento; cfr. F. Renda, 1990c, p. 141). Il fallimento dei <<Granai del popolo>> ebbe, dunque, una duplice valenza: economica e politica. Duplice fu anche la tattica adottata dal Governo per combattere l’evasione diffusa e il significato antiunitario della stessa.
Anzitutto si agì sul piano della repressione. Le forze dell’ordine furono mobilitate per dare la caccia ad evasori e trafficanti (12). I magistrati inflissero pene pesanti. I più colpiti, però, furono i piccoli evasori; i grossi intrallazzisti troppo spesso riuscirono a farla franca (anche grazie alla connivenza di carabinieri e polizia).
L’altra tattica usata dal Governo fu quella di denunciare “all’opinione pubblica nazionale la sempre più evidente compenetrazione fra agitazione separatista e interessi antinazionali dei grandi proprietari fondiari isolani” (F. Renda, 1990c, p. 141). Per di più, per evitare che i piccoli produttori di grano si alleassero con gli agrari, abbracciando – per un calcolo sbagliato e contro i propri stessi interessi – la causa separatista, il Consiglio dei ministri decise di emanare una serie di decreti legge in favore della disagiata classe contadina.
Il primo di questi decreti – che presero il nome dell’allora ministro dell’Agricoltura, il comunista Fausto Gullo – fu il 19 ottobre 1944 n. 279, il quale dispose la concessione delle terre incolte e malcoltivate ai contadini riuniti in cooperativa. Lo stesso giorno fu varato il decreto n. 311, sulla ripartizione dei prodotti nei contratti agrari di mezzadria impropria, di colonia e di compartecipazione. Infine, il 26 ottobre fu emanato il decreto n. 284, “concernente l’acceleramento delle procedure per la assegnazione agli aventi diritto delle terre demaniali” (F. Renda, 1980, p. 62).
Tali provvedimenti agrari, seppur i più importanti, non furono i primi in assoluto del ministro Gullo. Questi aveva già avuto modo di dimostrare la propria sensibilità per i problemi della campagna. Il 3 giugno 1944 aveva disposto la proroga di un anno dei contratti agrari in corso, in risposta ai proprietari terrieri che ne avevano chiesto, insistentemente, la rescissione. Il 26 luglio, su sua iniziativa, era stato emanato un decreto riguardante la fissazione del prezzo del grano, che fu distinto: in prezzo vero e proprio, che andava pagato ai proprietari terrieri; e in sussidio di coltivazione, che andava corrisposto ai coltivatori diretti ed agli affittuari al momento del conferimento del canone in natura ai <<Granai del popolo>>. In base a tale provvedimento, i canoni di affitto pagati in denaro ma commisurati al prezzo ufficiale del grano avrebbero dovuto subire una diminuizione del 50%, pari al sussidio di coltivazione (cfr. F. Renda 1979, pp 27-28 e 1980, pp. 53-57).
A spingere il Governo sulla strada delle riforme erano state (oltre al timore del dilagare nelle campagne siciliane del movimento separatista) anche le agitazioni spontanee – cioè non organizzate da formazioni politiche e/o sindacali – scoppiate, sin dal 1943, nei territori liberati dal nazifascismo.
Nell’autunno del ’43, nel Crotonese e, nell’estate del ’44, nel Fucino, si erano avute delle agitazioni contadine concretatesi in occupazioni di terra. Nella primavera del ’44 in Sicilia si era avuta un’ondata di proteste popolari e di rivolte, la più grave delle quali era stata quella di Licata. Qui, il 28 maggio, vi era stata una sommossa per la cattiva gestione dell’ufficio di collocamento. Per sedarla, polizia e carabinieri avevano sparato sulla folla uccidendo tre rivoltosi e ferendone una ventina (U. Santino, 1995, p. 29).
Un episodio ancora più grave di quello di Licata si verificò a Palermo il giorno stesso in cui furono emanati i decreti Gullo n. 279 e n. 311, cioè il 19 ottobre. Quel giorno, nel corso di una manifestazione popolare contro il carovita – alla quale si era aggiunto lo sciopero degli impiegati comunali – l’esercito intervenne sparando sui manifestanti. Il bilancio di sangue fu pesantissimo. Secondo le fonti ufficiali, vi furono 19 morti e 108 feriti (in U. Santino, 1995, p. 30); secondo il CLN, i morti furono 30 ed i feriti 150, “nella maggior parte bambini e ragazzi tra i sette e i sedici anni” (J. Calapso, 1980, p. 229) (13).
Nonostante le sanguinose reazioni delle forze dell’ordine, il Governo di unità nazionale con la legislazione agraria dell’estate 1944 e, più ancora, con quella dell’autunno,dimostrò di non volere ricorrere al facile sistema della repressione indiscriminata (troppo spesso usato in passato) per avere la meglio sul popolo in agitazione. Le forze politiche democratiche (laiche, socialiste, comuniste e cattoliche) che lo componevano concordarono sulla necessità di promuovere un reale e profondo rinnovamento economico e sociale delle campagne (F. Renda, 1980, p. 60).
In effetti, i decreti Gullo avviarono un decisivo processo di trasformazione dell’assetto, ancora semi-feudale, dell’agricoltura meridionale. Questo processo si sarebbe concluso con la riforma agraria degli anni Cinquanta, e sarebbe consistito in una serie di interventi legislativi ed in un forte movimento contadino, cheproprio dai decreti Gullo ricevette stimolo all’azione anzi, ancora di più, ebbe segnata la strada da seguire.
“(…) i decreti Gullo costituirono nel complesso l’iniziativa forse più importante dei governi di unità nazionale, che non si sovrapposero all’iniziativa dal basso delle masse contadine, ma ne favorì la crescita sul piano organizzativo e politico, e ne rese possibile la mobilitazione alla lotta con obiettivi concretamente definiti e largamente conseguibili e ottenuti” (F. Renda, 1979, p. 31)
“(…) i decreti Gullo costituirono il canovaccio che indirizzò la protesta contadina verso la lotta organizzata e la rivendicazione di classe” (F. Renda, 1979, p. 194).
Ma tra la loro emanazione e la lotta di massa per la terra intercorse il periodo di tempo necessario per la maturazione e l’organizzazione del movimento.
Nel frattempo, nel dicembre-gennaio ’44-45, si ebbe in Sicilia una nuova e più importante ondata di insurrezioni popolari. Alla base di questi moti vi era l’esasperazione di un popolo per la miseria cui era costretto dal perdurante stato di guerra:
“Fra le condizioni predisponenti alla crisi naturalmente vi furono quei numerosi fattori oggettivi di intollerabile disagio legati allo stato di guerra (quello del ’44-45 fu il sesto e ultimo inverno di guerra): dunque, in primo luogo, la crisi degli approvvigionamenti e il connesso carovita alimentato dal mercato nero; congiuntamente, i salari e le retribuzioni falciati dall’inflazione; la disoccupazione crescente; le fabbriche chiuse; le miniere allagate; l’energia elettrica mancante; i mezzi di comunicazione e di trasporto o distrutti o quasi interamente paralizzati; il commercio bloccato; infine, la massa dei contadini tornati dai vari fronti di guerra che non avevano terra da coltivare e nulla in conseguenza di che vivere” (F. Renda, 1990c, p. 162).
Forte era, inoltre, il malcontento popolare per il mancato rinnovo in senso democratico delle amministrazioni comunali e provinciali, ancora in mano ai sindaci ed ai funzionari nominati dagli alleati, e, quindi, facilmente controllate dalle fazioni reazionarie paesane (F. Renda, 1990c, p. 163).
In questa situazione esplosiva, a fare da detonatore furono due provvedimenti altamente impopolari, adottati dal Governo all’inizio di dicembre: la decisione di aumentare di 25 chili la quota di grano che i produttori dovevano conferire agli ammassi (provvedimento reso necessario dall’esaurimento delle scorte di grano per le città); la chiamata alle armi delle classi di leva 1922-23-24 (per potenziare il fronte di lotta contro i tedeschi).
La gente manifestò apertamente il proprio dissenso e la propria rabbia scendendo in piazza e devastando e saccheggiando i municipi, le caserme, i pubblici uffici e, a volte, anche le case dei signorotti locali.
Dall’11 dicembre 1944 al 15 gennaio 1945 (esclusa una lunga pausa per le feste natalizie) fu un susseguirsi di sommosse (alle quali parteciparono anche molte donne, v. J. Calapso, 1980, p. 229), conclusesi con aperti scontri tra rivoltosi e forze dell’ordine, e con morti e/o feriti da entrambe le parti. Le province maggiormente interessate furono quelle di Catania e Ragusa.
La prima manifestazione si svolse ad Enna, ma ebbe carattere pacifico. A seguire Palermo e Messina; a Palermo l’agitazione durò alcuni giorni, vi parteciparono soprattutto studenti universitari, e fu facile per la polizia controllarla.
A Catania, il 13 dicembre, la protesta contro la chiamata alle armi degenerò in gravi e violenti tumulti, che si protrassero per più giorni; furono presi d’assalto il Municipio ed altre sedi pubbliche; un giovane perse la vita in seguito ai colpi di arma da fuoco sparati dai soldati (U. Santino, 1995, p. 30). Dal centro etneo la sommossa si diffuse nei paesi circostanti (14).
Nel mese di dicembre, tumulti si registrarono anche in alcuni comuni della provincia di Agrigento (15); ad Avola e Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa; a Scicli, Giarratana e Chiaromonte Gulfi, in provincia di Ragusa; a Mazzarino, in provincia di Caltanissetta; ad Alcamo, in provincia di Trapani (F. Renda, 1990c, p. 161).
In questa prima fase del movimento di rivolta,
“Vi furono cinque morti ed alcuni feriti, sia tra i dimostranti che tra gli agenti dell’ordine, a Catania, a Vizzini, a Palma di Montechiaro, ove maggiormente si accanì la furia devastatrice dei facinorosi (…)” (Rapporto dell’Alto Commissario Aldisio alla Consulta regionale siciliana, cit. in F. Renda, 1990c, pp.159-160).
Dopo la pausa natalizia le agitazioni ripresero con un vigore nuovo. Nel mese di gennaio, infatti, più che jacqueries, scoppiarono delle vere e proprie insurrezioni armate.
A Ragusa ed a Comiso furono assediati la Prefettura ed alcuni edifici pubblici. I rivoltosi rubarono armi ed automezzi militari italiani ed alleati; quindi, si scontrarono apertamente con le truppe di soldati e di carabinieri, riuscendo a sopraffarli e ad assumere, per diversi giorni, il controllo delle due città. A Comiso, addirittura, gli insorti (in gran parte contadini) proclamarono la repubblica popolare, governando il paese dal 5 al 13 gennaio, esercitando ogni tipo di potere (politico, amministrativo, militare e giudiziario).
Analoghe repubbliche contadine nacquero a Giarratana (Ragusa); a Naro (Agrigento); a Palazzo Adriano e a Piana degli Albanesi (Palermo), ove il popolo in rivolta amministrò il comune per ben cinquanta giorni, dal 31 dicembre alla notte tra il 19 e il 20 febbraio.
Tutte queste repubbliche ebbero carattere comunista o socialista – ma sorsero al di fuori del partito ed in contrasto con esso – e, tranne quella di Piana, ebbero una vita effimera.
Per far ritornare alla normalità i paesi in agitazione, l’Alto Commissario Aldisio vi inviò rinforzi di carabinieri e militari.
Il 13 gennaio <<l’ordine>> poté dirsi restaurato in tutta l’Isola. In alcuni centri ciò avvenne a caro prezzo:
“(…) nell’adempimento del loro dovere caddero in provincia di Ragusa 12 carabinieri, un ufficiale, un sottufficiale e due soldati e rimasero feriti altri 15 militari. Tra i rivoltosi si registrarono 13 morti e 50 feriti. In provincia di Agrigento cadde un sottotenente dei CC.RR. e 4 militari rimasero feriti. Tra i rivoltosi quattro morti ed alcuni feriti” (Rapporto Aldisio, cit. in F. Renda, 1990c, p. 160) (16).
Analizzando nel suo insieme l’insurrezione siciliana del dicembre ’44 – gennaio ’45 si possono fare le seguenti considerazioni.
Essa fu spontanea, vale a dire non rispose ad un piano organizzato e non fu promossa né diretta da organizzazioni politiche o sindacali; mancò di un programma rivendicativo, di una strategia di lotta e, di conseguenza, anche di un coordinamento tattico tra i vari episodi ribellistici. L’insurrezione, inoltre, fu acefala. Ciononostante, diverse furono le forze politiche che cercarono di strumentalizzarla.
Sopra tutte, i separatisti, i quali parteciparono attivamente ai tumulti catanesi e ragusani (bisogna dire, però, che ad essere coinvolti furono, per lo più, i gregari e non i capi del movimento): essi, insieme ad altre forze reazionarie (ad esempio i neo-fascisti) vi videro la possibilità di screditare il Governo di unità nazionale, che era espressione del CLN.
Una strumentalizzazione fu tentata anche da alcuni gruppi periferici del PC, contrari alla linea politica di Togliatti.
Quasi dappertutto, comunque, i rivoltosi manifestarono un orientamento antifascista e democratico, indirizzando la propria rabbia, oltre che contro il Governo, anche “contro i signori della terra e contro i centri o simboli del loro potere” (F. Renda, 1980, p. 38).
La sollevazione popolare rivelò molto presto i suoi limiti, risolvendosi in un fuoco di paglia e dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che con il ribellismo disorganizzato e fine a se stesso non si sarebbe ottenuto nulla. Era ben altra la strada che occorreva percorrere.
4. LE LOTTE PER L’APPLICAZIONE DEI DECRETI GULLO
Contemporaneamente ai moti antileva, si svolsero in Sicilia alcune agitazioni agrarie per l’applicazione dei decreti Gullo. A muoversi furono i contadini delle province di Siracusa, Agrigento e Caltanissetta, i quali, già nel novembre-dicembre 1944, cominciarono a manifestare per la concessione, in base al decreto 19 ottobre n. 279, delle terre incolte e malcoltivate alle cooperative contadine. Si trattò, tuttavia, di episodi sporadici.
Di movimento vero e proprio si poté parlare soltanto nel maggio ’45, quando decine di migliaia di coloni dell’entroterra della Sicilia centro-occidentale reclamarono che, nella divisione dei prodotti della coltivazione, venissero rispettati i criteri dettati dal decreto n. 311.
E’ importante sottolineare che
“fra (i) tumulti dell’inverno ’44-45 e le coeve o successive agitazioni agrarie per l’applicazione dei decreti Gullo non vi fu rapporto di continuità, bensì di rottura e di contrapposizione” (F. Renda, 1979, p. 151).
Infatti, tanto furono spontanei e vacui quelli, quanto queste organizzate e piene di contenuti e rivendicazioni.
Le province interessate dal movimento mezzadrile della primavera ’45 furono quelle in cui il latifondo era ancora prevalente ed alta era la produzione di grano: Agrigento, Palermo, Caltanissetta, Enna. I centri propulsori furono: “Canicattì, Delia, Ravanusa, Riesi e Mazzarino” (F. Renda, 1990c, p. 191).
Trattando queste lotte, vengono subito in mente quelle combattute dai mezzadri siciliani nel 1893 (cioè al tempo dei Fasci siciliani), nel 1901-04 e nel primo dopoguerra. Allo stesso tempo, però, risulta subito evidente un’importante novità. Nelle lotte precedenti, “i contadini cercavano l’accordo coi proprietari e da parte sua il governo o era contro o si dichiarava neutrale” (F. Renda, 1990c, p. 191); nel 1945, invece, “la piattaforma contadina aveva a suo sostegno e giustificazione proprio una legge dello stato” (F. Renda, 1990c, p. 191).
Nondimeno, fu molto difficile far riconoscere ai proprietari terrieri l’esistenza di questa legge. Costoro affermavano che i provvedimenti del Governo non avevano validità in Sicilia, poiché ivi era in vigore, sin dal marzo 1944, un regime altocommissariale. Pertanto, negavano la legittimità del decreto Gullo (“ma chi è questo Gullo”, dicevano con disprezzo; D. Paternostro, 1992, p. 25). Ai mezzadri che, sull’aia, pretendevano che i prodotti del loro lavoro fossero ripartiti al 60% per sé e 40% per i proprietari (come stabilito, appunto, dal decreto n. 311) e non più al 50% e 50%, gli agrari rispondevano ricorrendo al potere intimidatorio dei gabelloti mafiosi o facendosi assistere dai carabinieri (17), i quali, sovente, in mancanza di direttive superiori, procedevano al sequestro della quota <<pretesa>> dal colono o, addirittura, all’arresto di quest’ultimo (18).
L’agitazione mezzadrile del ’45 – così come, del resto, tutto il movimento contadino del 2° dopoguerra – fu organizzata e diretta dai partiti comunista, socialista e democristiano, e dalle loro formazioni sincadali collaterali (soprattutto dalle Camere del lavoro e dalle Federterre).
Il dirigente democristiano Giuseppe Alessi propose, per superare le numerose controversie locali sulla spartizione dei prodotti, di organizzare un incontro ufficiale tra i rappresentanti regionali dei proprietari terrieri e quelli dei contadini, in modo da addivenire ad un accordo sindacale; questo sarebbe dovuto diventare un decreto altocommissariale e, come tale, avrebbe dovuto avere forza di legge.
I socialisti ed i comunisti non accolsero con favore questa proposta, poiché, secondo loro, essa accettava le ragioni dei proprietari e non riconosceva, di fatto, validità al decreto Gullo. Tuttavia, essi si trovarono costretti ad accettarla, non scorgendo altre vie per superare quella situazione. Anche i proprietari diedero il loro assenso. Alla fine di giugno, si giunse, effettivamente, ad un accordo sottoscritto dalle due parti e reso valido e obbligatorio per tutto il territorio
siciliano da un decreto dell’Alto Commissario Aldisio.
L’intesa fra le parti servì, in pratica, a fissare più dettagliatamente alcuni criteri di riparto regolati in modo un pò generico dalla legge Gullo (19).
Il compromesso raggiunto, smorzando le richieste avanzate dai mezzadri sull’aia, si tradusse in un vantaggio per gli agrari. Nonostante questo, per i contadini esso rappresentò una conquista.
“La protesta contadina ebbe pienamente riconosciuta la sua funzione propulsiva e stimolatrice (e il fatto aveva tutto il sapore di un avvenimento storico)”. Per di più, “la legge dello stato, recepita nella legge regionale, invece che disattesa, risultò rafforzata e la Sicilia si caratterizzò da allora in poi come una delle regioni – se non la regione – con il più alto indice di attuazione del nuovo riparto mezzadrile” (F. Renda, 1990c, p. 197).
Nell’estate 1945 si svolse anche un’altra vertenza, quella relativa alla diminuizione dei canoni di affitto secondo le disposizioni del decreto Gullo 26 luglio 1944 (che, come abbiamo visto, aveva indrodotto un sussidio di coltivazione a favore dei produttori diretti di grano). In realtà, le categorie interessate (affittuari, coltivatori diretti) si erano già mosse subito dopo l’emanazione del provvedimento, dando vita alla prima agitazione agraria per l’applicazione di un decreto Gullo. Solo nel 1945, però, l’agitazione prese vigore ed il Governo definì in maniera più esplicita ed estensiva – così come richiesto dagli affittuari – la norma legislativa in questione (v. F. Renda, 1980, p. 84).
Il vantaggio che il contadino poteva ricavare dalla riforma del canone di locazione era tanto maggiore quanta più terra egli aveva in affitto. Ciò significò il coinvolgimento, nella lotta, dei ceti contadini benestanti, solitamente estranei – se non contrapposti – al movimento popolare:
“I ceti contadini benestanti in Sicilia avevano sempre subito, per tradizione, l’egemonia dei grandi proprietari terrieri, erano cioè stati inglobati nel blocco agrario dominante, almeno per quel tanto che serviva per contrapporli e inimicarli ai contadini poveri e ai braccianti. Il fronte contadino si era, perciò, sempre caratterizzato per quella frattura, che isolava e indeboliva le masse rurali più proletarizzate e combattive. I decreti Gullo sui canoni di locazione aprirono un contrasto di interessi insanabile fra la proprietà e l’impresa agraria, e spinse gli strati contadini superiori a collocarsi su un terreno di conflittualità simile a quello dei mezzadri e dei compartecipanti ed a schierarsi oggettivamente al loro fianco, anticipandone persino i comportamenti: come avvenne nella estate del ’44, quando gli affittuari furono i primi in assoluto a muoversi rispetto alle altre categorie rurali (…)” (F. Renda, 1990c, p. 199).
La vertenza tra affittuari e proprietari si concluse con l’applicazione della legge e, quindi con una sensibile riduzione del canone di locazione (20). Oltre il guadagno economico immediato, ciò consentì agli affittuari di mettere da parte il denaro necessario per acquistare, quando se ne fosse presentata l’occasione, un appezzamento di terreno.
Tra le agitazioni contadine del secondo dopoguerra, le occupazioni dei feudi furono, sicuramente, le più imponenti ed importanti, quelle che coinvolsero – materialmente e/o emotivamente – il maggior numero di persone e che caratterizzarono quel periodo di lotta.
Il movimento di occupazione delle terre ebbe inizio nella stagione agraria ’45-46 e si protrasse, con alterne vicende, fino al 1950.
A scatenarlo fu il decreto Gullo 19 ottobre 1944 n. 279, il quale, come sappiamo, riconosceva alle cooperative di contadini il diritto di chiedere in concessione le terre incolte e insufficientemente coltivate. Questo provvedimento si rifaceva, chiaramente, ai decreti Visocchi-Falcioni, senza esserne, però, una semplice riproposizione. Al pari di quelli, esso dispose che per venire in possesso della terra il contadino doveva necessariamente far parte di una cooperativa. Ma a distinguerlo dalla legislazione agraria del primo dopoguerra vi erano alcune differenze di ordine tecnico e, soprattutto, uno spirito politico nuovo.
I decreti Visocchi- Falcioni, come abbiamo visto nel capitolo precedente, erano stati un tentativo – mal riuscito – del Governo di frenare le agitazioni e le occupazioni di terra cui avevano dato vita i contadini al rientro dal fronte. I decreti Gullo, invece, scaturirono dall’animo democratico e progressista del Governo di unità nazionale, il quale volle rendersi promotore di un generale rinnovamento dell’economia agraria meridionale.
In Sicilia, all’indomani della seconda guerra mondiale, la distribuzione della proprietà fondiaria era ancora così caratterizzata: “predominio del latifondo, scarsa consistenza della media proprietà terriera, e accentuata polverizzazione della piccola proprietà” (R. Catanzaro, 1991, p. 157).
Secondo un’indagine svolta dall’INEA nel 1946, le proprietà superiori ai 50 ettari erano pari al 39,3% della superficie agraria e forestale siciliana (la media nazionale era 33%):
“Solo 282 proprietari possedevano il 10,6% della superficie agraria e forestale dell’isola; un migliaio di famiglie, poco meno di 1/3 di tutta intera la proprietà fondiaria” (F. Renda, 1990c, p. 200).
La media proprietà, compresa tra i 5 ed i 50 ettari, corrispondeva al 27%. La piccola proprietà, inferiore ai 5 ettari, ammontava ad un terzo della superficie agraria e forestale, ma era suddivisa in 1.184.588 parti, con una superficie media di 0,66 ettari (in R. Catanzaro, 1991, p. 158). Infine, basandosi sui dati del censimento del 1936, può calcolarsi che i 4/5 della popolazione attiva dedita all’agricoltura o non possedevano neanche un fazzoletto di terra o potevano considerarsi contadini poveri (R. Catanzaro, 1991, p. 158; F. Renda, 1990c, pp.200-201).
Non vi è da stupirsi, pertanto, se, con la fine del conflitto, il problema della terra tornò ad essere il pensiero principale dei contadini siciliani. Seguendo le disposizioni del decreto Gullo n. 279, essi si affrettarono ad associarsi in cooperative ed a inoltrare le domande per la concessione dei feudi incolti. Tuttavia, poiché le loro richieste “giacevano per mesi e mesi sul tavolo delle commissioni all’uopo costituite presso i tribunali” (M. Pantaleone, 1984, p. 100), decisero di invadere i fondi in oggetto senza aspettare il decreto di concessione del Prefetto.
Il movimento di occupazione delle terre incolte interessò tutte le province, ma si sviluppò più intensamente in quelle della Sicilia centro-occidentale. Vi parteciparono un pò tutte le categorie agricole, dai braccianti ai contadini ricchi. L’anima e la forza d’urto del movimento furono costituite, naturalmente, dagli strati più disperati, vale a dire dai braccianti senza terra e dai contadini poveri, sicuramente i più combattivi e numerosi.
Ad organizzare e dirigere queste lotte ritroviamo il PCI, il PSI, la DC e le organizzazioni sindacali ricostituite o costituite nel 2° dopoguerra (Camere del lavoro, Federterra, CGIL, ACLI, CISL, Federazione dei Coltivatori Diretti, Lega delle cooperative, Confederazione delle cooperative).
In genere, nei paesi del latifondo si costituirono una cooperativa bianca ed una rossa. In alcuni casi sorsero
addirittura tre cooperative: una democristiana, una comunista ed una socialista.
Così come in passato, le cooperative bianche si distinguevano da quelle rosse: per l’ideologia politica più moderata; e per il loro carattere elitario, riunendo in prevalenza i proprietari coltivatori diretti. Questa categoria di contadini, veniva sostanzialmente (anche se non completamente) snobbata dalle cooperative comuniste siciliane – benché la linea Togliatti prevedesse un allargamento delle basi sociali del partito (21) – poiché rappresentanti della piccola e media borghesia rurale. Le cooperative socialiste costituivano una via di mezzo tra le cooperative comuniste e quelle cattoliche, visto che al loro interno era presente un numero maggiore di coltivatori diretti rispetto alle prime, ma non al punto da eguagliare le seconde.
Il movimento contadino del 2° dopoguerra ebbe, dunque, una composizione pluralistica, sia dal punto sociale che politico. La sua carica rivoluzionaria riuscì a coinvolgere – direttamente o indirettamente – anche le popolazioni urbane, le quali imputavano agli intrallazzi degli agrari il fallimento dei <<Granai del popolo>> e, quindi, la penuria dei rifornimenti di grano. Alcuni gruppi di operai parteciparono attivamente alle occupazioni delle terre:
“Lo fecero gli zolfatai di Caltanissetta e di Riesi e quelli di Casteltermini” (F. Renda, 1990c, p. 200) (22).
I metallurgici del Cantiere Navale di Palermo – che già nel primo dopoguerra si erano distinti per le loro azioni in sosteno delle lotte agrarie – organizzarono agitazioni e manifestazioni di solidarietà. Molti intellettuali artisti e professionisti si schierarono apertamente in favore delle masse rurali, e diversi di loro lottarono concretamente a fianco dei contadini, diventando, per questi ultimi, un importante punto di riferimento.
In numerosi centri dell’entroterra, lo spettacolo cui si era assistito nel primo dopoguerra si ripeté con toni ancora più accesi: all’alba, centinaia e centinaia di contadini, <<armati>> dei loro attrezzi di lavoro, di bandiere e di strumenti musicali, si recavano – a piedi, con i muli o le biciclette – in festante corteo ad occupare i feudi incolti. Fino all’autunno 1948 le occupazioni furono, più che altro, simboliche: i contadini si limitavano a <<piantare>> sulle terre i loro drappi (delle camere del lavoro, delle cooperative, dei partiti), e ad effettuare una sorta di lottizzazione, “simboleggiata da un solco o da una linea di confine formata da alcune pietre poste in fila (…)” (M. Pantaleone, 1984, p. 100).
Il più delle volte, a presidio dei feudi i contadini incontravano i gabelloti mafiosi, incaricati, a volte,dagli agrari, spaventati dalle incursioni banditesche e dal crescente movimento contadino (su questo argomento torneremo più avanti).
Oltre che contro la mafia, i contadini si trovarono a lottare contro la <<giustizia>>. Le loro invasioni, infatti, avvenendo prima delle concessioni per decreto prefettizio, furono giudicate illegali. I partecipanti alle occupazioni venivano schedati e diffidati dalle forze dell’ordine. Molti furono denunciati all’autorità giudiziaria e condannati a pene severe. Inoltre, sovente (come abbiamo già visto), le domande di assegnazione rimanevano inevase per diversi mesi. Questo permetteva agli agrari di simulare nei propri terreni incolti una qualche forma di coltivazione.
Comunque,
“Le repressioni della mafia, gli ostruzionismi burocratici, le denunce dei capi lega, non fiaccarono il movimento contadino, che anzi, nella resistenza e nelle repressioni, ritrovava l’unità che non aveva trovato negli anni della lotta contro il fascismo e contro i tedeschi” (M. Pantaleone, 1984, p. 101).
Alcuni dirigenti sindacali, per sollecitare l’attenzione e l’azione delle autorità competenti per l’assegnazione delle terre, organizzarono anche alcune manifestazioni di massa, consistenti, semplicemente, in adunate, marce o gioiose cavalcate:
“A Santa Caterina Villarmosa, il 10 ottobre 1945, circa 1500 contadini intrapresero la <<marcia su Caltanissetta>> per richiamare l’attenzione delle autorità sull’opportunità e l’urgenza di concedere le terre incolte (…), prima che passassel’epocadella semina” (M. Pantaleone, 1984,p. 102).
Un’analoga marcia di protesta fu organizzata, nell’autunno ’46, dai contadini di Piana degli Albanesi, i quali si recarono, a cavallo e a piedi, fino a Palermo, percorrendo venti chilometri. Il loro esempio fu seguito dai contadini di San Giuseppe Jato e di San Cipirello (F. Renda, 1990c, pp. 268-269).
Una cavalcata memorabile si svolse nel settembre del 1946 a Sciacca (Agrigento). Migliaia e migliaia di contadini del circondario manifestarono per le strade del paese “la loro volontà di lotta, la loro volontà di rinnovamento, per la rinascita e il riscatto della nostra terra” (M. Russo,in C. Pantaleone (a cura di), 1985, pp. 152-153). Questa manifestazione era stata organizzata da Accursio Miraglia, dirigente comunista, e segretario della Camera del lavoro di Sciacca. Ecco come un contadino che vi aveva partecipato raccontò a Danilo Dolci quella straordinaria esperienza:
“(…) La sera del sabato si disse che si doveva fare una cavalcata dentro il paese, per dare a capire quanto popolo aveva preso lui (Accursio Miraglia, N.d.a.), che voleva la terra (…) L’indomani all’orario che si organizzarono, vennero tutti i contadini; quando loro passarono, il primo che era davanti, era lui (…) Dietro di lui tutta la massa. C’erano da Menfi, Montevago, Santa Margherita, Sambuca, Burgio, Caltabellotta, Lucca, Ribera, Calamonaci, Villafranca, tutti a cavallo. Erano allegri, chi faceva voci, chi faceva fischi, se incontravano quelli che erano contrari. I più ricchi quella mattina balconi non ne hanno aperto nessuno. C’erano anche ragazzi a cavallo col loro padre. (Accursio Miraglia, N.d.a.) Pareva Orlando a cavallo, era un piacere vedere questa potenza d’uomo a cavallo, era una persona da guardarlo, era un amore a guardarlo, la sua presenza era amorosa. I bambini buttavano qualche fiore, c’era il popolo a massa per lui (…)
Era lunga la cavalcata (…), era una cavalcata che non finiva mai, su due file (…) Le guardie facevano chiasso che volevano che si scioglievano presto. C’erano quattro o cinquemila muli, poi tutte le biciclette. Chi ce l’avevano nel cuore, salutavano e battevano mani, c’erano lì i mariti e i figli e le mogli che stavano sulla passata, aspettando di vederli. Poi al campo sportivo lui disse quattro parole per spiegare perché era stata fatta la cavalcata, lui era molto contento e fece applauso alle persone e ringraziò il popolo. E poi li fece sciogliere” (23).
Nel frattenpo, i primi ettari di terra avevano cominciato ad essere assegnati – si trattava, per lo più, di terreni pietrosi, di cattiva qualità – e le cooperative concessionarie avevano iniziato a coltivarli.
Il decreto Gullo prevedeva l’obbligatorietà dell’associazione cooperativa limitatamente alla fase iniziale della concessione, cioè quella amministrativa; quanto alla fase successiva, relativa all’adozione dei metodi di conduzione dei fondi, esso lasciava alla cooperativa la libertà di scegliere tra conduzione collettiva e individuale.
Come già era avvenuto nel movimento delle affittanze collettive e nel primo dopoguerra, la stragrande maggioranza delle cooperative – sia bianche che rosse – adottò la conduzione individuale, quotizzando fra i soci i feudi ottenuti. Ciò portò alla polverizzazione delle terre, in particolar modo di quelle assegnate alle cooperative socialcomuniste, essendo queste ben più affollate di quelle democristiane. In alcuni casi, per ridurre questo fenomeno, si preferì lasciare alcuni soci senza terra (F. Renda, 1979, pp. 112-115).
Il 6 ottobre 1946, il nuovo ministro dell’Agricoltura Segni modificò il decreto Gullo n. 279,introducendovi il diritto per le associazioni contadine di adottare dei propri piani di trasformazione generale dei fondi concessi, e di ottenere, pertanto, il prolungamento della concessione per il tempo necessario alla realizzazione degli stessi.
Questo provvedimento si era reso necessario in seguito alle assurde denunce,e richieste di annullamento delle concessioni, fatte dagli agrari contro quelle cooperative che si erano <<permesse>> di effettuare, sulle loro proprietà, dei lavori di sistemazione (spietramenti, terrazzamenti, rimboschimenti) non contemplati dal contratto di locazione (F. Renda, 1979, p. 117).
Ciononostante, i proprietari continuarono ad ostacolare in tutti i modi la legale procedura per l’assegnazione delle terre. Di conseguenza, le commissioni deputate ad esaminare le domande di concessione erano, sostanzialmente, paralizzate. Questo stato di cose non faceva che esasperare i contadini, i quali manifestavano la propria rabbia e la propria protesta procedendo nelle indiscriminate invasioni dei feudi malcoltivati.
Per affrontare questa difficile situazione, il nuovo Alto Commissario Giovanni Selvaggi (repubblicano), insediatosi l’1 novembre ’46, decise di convocare nel proprio ufficio, per il 5 novembre, i rappresentanti sindacali degli agrari e dei contadini, per cercare di rabbonirli e fargli stringere un accordo. Dopo lunghe ore di acceso e duro scontro, l’incontro – cui parteciparono anche gli esponenti di tutti i partiti politici – si concluse, in effetti, con la sottoscrizione di un <<Patto di concordia e di collaborazione>> (F. Renda, 1990c, pp. 268-270), il cui scopo era quello di realizzare, tra le due parti, una larga intesa per l’applicazione dei decreti Gullo-Segni.
“L’iniziativa tese a creare una situazione meno acuta e drammatica, prospettando i larghi margini di intesa e di reciproco interesse fra movimento contadino e proprietà terriera, entrambi condizionati e danneggiati dall’azione parassitaria e frenante del gabelloto rozzo e mafioso” (F. Renda, 1979, p. 118).
Tra il gennaio e l’aprile del ’47 il movimento cooperativo siciliano vide il suo massimo sviluppo. Il numero delle cooperative crebbe notevolmente (alla fine dell’anno se ne sarebbero contate 750; F. Renda, 1990c, p. 202), così come la quantità di terra concessa loro (nella stagione agraria’46-47, ha 55.306; F. Renda, 1979, p. 111) (24). Il momento culminante di questo periodo fu la inaspettata vittoria del Blocco del Popolo – costituito dai comunisti, dai socialisti e dagli indipendenti di sinistra – alle prime elezioni regionali, tenutesi il 20 aprile.
Purtroppo, il prezzo di tale vittoria fu altissimo. Alla base della realizzazione di uno schieramento unitario delle forze della sinistra vi era, di fatti, lo scatenarsi della feroce reazione agrario-mafiosa contro gli esponenti del movimento contadino.
5. RICOMINCIA LA TATTICA MAFIOSA DI SFRUTTAMENTO-
REPRESSIONE DEL MOVIMENTO CONTADINO
L’occupazione militare alleata, il mercato nero dei cereali ed il movimento separatista, come sappiamo, furono tre fattori che contribuirono decisamente al fulgido risveglio della mafia dopo gli anni bui del fascismo. Indirettamente, però, anche la riorganizzazione del movimento contadino giocò a favore di questo risveglio. I grandi proprietari terrieri, infatti, sentendosi minacciati dai fermenti innovatori che cominciavano a rianimare le campagne siciliane, pensarono bene di affidare i loro feudi a chi in passato aveva dimostrato di saper <<tenere a bada>> gli insorti. Fu così che numerosi boss mafiosi furono nominati gabelloti, campieri o “utili gestori” (M. Pantaleone, 1984, p. 95) dei possedimenti degli agrari.
Pertanto,
“(…) l’aristocrazia agraria, che durante il fascismo si era vantata di avere debellato l’organizzazione dei gabelloti, si ritirava di nuovo dalle campagne, lasciando alla mafia l’incarico di ristabilire l’antico <<ordine>>” (M. Pantaleone, 1984, p. 97).
Ai feudi affidati dai grossi proprietari terrieri ai mafiosi si aggiungevano, ovviamente, quelli presi in gabella da questi ultimi, di propria iniziativa, per tornare ad esercitare la lucrosa e strategica attività di mediazione tra latifondisti e contadini.
Ecco qui di seguito un elenco, incompleto, dei latifondi controllati dalla mafia:
“I principi Lanza di Trabia affidarono la difesa del feudo Polizzello, nel territorio di Mussomeli, (a) (…) Giuseppe Genco Russo” (M. Pantaleone, 1984, p. 97).
“(…) a Villalba Calogero Vizzini era il gestore del feudo Micciché, (…) Salvatore Malta prese in affitto il feudo Vicarietto, Vanni Sacco il feudo Parrino, Barbaccia le terre di Ficuzza nella zona di Godrano e Joe Profaci il feudo Galardo (…) A Corleone (…) patria di Michele Navarra e Luciano Leggio, il feudo Donna Beatrice era tenuto in gabella dal noto capomafia Carmelo Lo Bue, mentre i pregiudicati mafiosi Michele Pennino, Mariano Sabella, Biagio Leggio erano gabelloti di tre feudi non meno importanti, e dal canto suo Francesco Leggio, altro mafioso, era soprastante del feudo Sant’Ippolito di 415 ettari. Perfino Luciano Leggio divenne in quegli anni gabelloto del feudo Strasatto, quando già era colpito da mandato di cattura per essere stato accusato di gravissimi reati. A Roccamena pericolosi mafiosi, come i fratelli Raimondi; Cirrincione; Leonardo, Giordano e Gioacchino Casato; Vincenzo Collura; Michele Bellomo e Antonio Ganci erano tutti gabelloti dei feudi esistenti nella zona e situazioni analoghe si ripetevano a S. Giuseppe Jato, a Marineo, a Contessa Entellina, a Belmonte Mezzagno e in pratica in tutti i comuni agricoli dell’entroterra della Sicilia occidentale” (Relazione Carraro (25), cit. in R. Catanzaro, 1991, p. 167).
Come sappiamo, la mafia ha sempre avuto nei confronti dei mutamenti socio-economici un atteggiamento ambivalente: all’inizio cerca in tutti i modi di bloccarli; quando si rende conto che essi sono ormai inevitabili, li sfrutta a proprio vantaggio e, allo stesso tempo, ricorre alla repressione spietata di tutti coloro che osano minacciare il suo potere economico e sociale.
Così, nel 2° dopoguerra, nei riguardi del risorto movimento cooperativo, essa riprese a giocare su due fronti: quello dell’inserimento nel movimento stesso per tentare di scompaginarlo e strumentalizzarlo; e quello della sanguinosa reazione.
Emblematiche del primo tipo di comportamento sono le vicende dei feudi Micciché (sito nel comune di Villalba) e
Polizzello (sito nel comune di Mussomeli), rientranti nella provincia di Caltanissetta.
La nomina del capomafia Calogero Vizzini quale <<utile gestore>> del feudo Micciché avvenne nel marzo 1945. Guarda caso, proprio in quel periodo i contadini di Villalba avevano costituito la cooperativa <<Libertà>> ed avevano chiesto l’esproprio del suddetto feudo, poiché la proprietaria Giulia Florio D’Ontes (principessa di Trabia e di Butera) lo aveva lasciato in gran parte incolto.
La loro domanda di esproprio si basava sulla legge 2 gennaio 1940 sulla colonizzazione del latifondo siciliano (varata dal regime fascista), in base alla quale la principessa avrebbe dovuto, fra l’altro, costruire sul fondo in questione 65 case coloniche. Inutile dire che non ne era stata costruita nemmeno una.
Allorché l’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano accolse la richiesta della cooperativa <<Libertà>>, la Florio d’Ontes incaricò don Calò di riscuotere i fitti delle proprie terre, autorizzandolo a trattenere per sé il 25% dell’ammontare.
Con l’entrata in scena del boss mafioso, per i contadini tutto diventò più difficile. Persino L’Alto Commissario Salvatore Aldisio si schierò contro di loro, facendo archiviare il fascicolo relativo alla richiesta d’esproprio.
Ciononostante, i <<viddani>> di Villalba non si persero d’animo e, richiamandosi al decreto Gullo n. 279, fecero ricorso alla Commissione di Caltanissetta per le terre incolte o malcoltivate. Ma don Calò, “si diede a <<consigliare>> i contadini con la consueta cortesia, convincendoli di lasciare perdere e di preoccuparsi della loro salute” (M. Pantaleone, 1984, p. 96). Diversi contadini, intimoriti, decisero di dimettersi dalla cooperativa <<Libertà>>, la quale, per deficienza di soci, dovette essere sciolta.
A questo punto, Calogero Vizzini – che già in passato si era inserito nel movimento contadino del proprio paese per sostenere la cooperativa cattolica (v. cap. 2° e 3°) – costituì una propria cooperativa, <<La Combattenti>>, e ne affidò la presidenza al nipote Beniamino Farina (che, insieme a lui, aveva partecipato all’attentato contro Li Causi).
“La nuova cooperativa non aveva altro scopo che quello di evitare che il feudo Micciché ricadesse nelle norme della riforma agraria. Doveva restare in mano a don Calò e ai mafiosi (…)” (Aa. Vv., 1976, pp. 182-183).
Di fatti, il 29 dicembre 1950, subito dopo l’approvazione della rifoma agraria siciliana, la principessa concesse il feudo Micciché in enfiteusi alla cooperativa <<La Combattenti>>. “Le assegnazioni tra i soci furono una farsa” (Aa. Vv., 1976, p. 183); ai partecipanti alla strage di Villalba furono concesse le quote migliori!
“Il controllo del feudo continuò ad averlo pienamente don Calò e la cooperativa continuò ad agire nella più assoluta illegalità al punto che la prefettura si decise a scioglierla, ma solo nel 1958” (Aa. Vv., 1976, p. 183).
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, nel 1920 i principi Lanza Branciforti di Trabia avevano concesso in affitto, per 29 anni (contratto rinnovabile per altri 9 anni), 848 ettari del feudo Polizzello (che si estendeva per circa 1.918 ha) alla cooperativa <<La Combattenti>>. Questa era presieduta dal mafioso Genco Russo, econtava tra i consiglieri suo compare Giuseppe Sorce e Calogero Castiglione, cognato di Genco Russo nonché compare dell’influente onorevole democristiano Calogero Volpe, deputato al Parlamento nazionale.
Nel settembre 1940, altri 850 ettari del feudo Polizzello furono dati in gabella ad un’altra cooperativa, <<La Pastorizia>>, presieduta da Giuseppe Sorce, e avente tra i consiglieri Genco Russo. Così, quasi l’intero feudo finì per essere in mano alla mafia, la quale si servì del <<nuovo>> strumento cooperativo – utilizzato dal movimento contadino proprio per contrapporsi con più forza alla <<Onorata Società>> – per continuare ad esercitare il <<vecchio>> strapotere (cfr. R. Catanzaro, 1991, pp. 136 e 202).
Nel 1948, i contadini di Mussomeli, angariati dalla cosca di Genco Russo, dopo un periodo di dura lotta riuscirono, finalmente, a fare assegnare, tramite decreto prefettizio, 150 ettari del feudo Polizzello alla cooperativa contadina <<L’umanitaria>>. Ma, con i loro soliti sistemi, i mafiosi impedirono agli assegnatari di venire in possesso della terra. E le autoritàcompetenti? Stettero a guardare.
“Per impedire l’esecuzione del decreto del prefetto i mafiosi minaccia(rono) i contadini. I dirigenti sindacali infoma(rono) il maresciallo dei carabinieri il quale si rifiut(ò) di intervenire. Interv(enne) solo dopo che il giorno stabilito per l’immissione in possesso della cooperativa i mafiosi spara(rono) sui contadini. Ma la sua denuncia, trasmessa all’autorità giudiziaria, (venne) archiviata” (Aa. Vv., 1976, p. 183).
Il 7 dicembre 1950, un decreto del Presidente della Repubblica stabilì l’esproprio del feudo a favore dell’Opera nazionale combattenti. Entro 30gg. dalla registrazione del decreto, quest’ultima avrebbe dovuto depositare 40 milioni presso la Cassa depositi e prestiti. Non disponendo di questa somma di denaro, l’Onc si rivolse alle cooperative <<La Combattenti>> e <<La Pastorizia>>, le quali, nel gennaio-febbraio 1951, riuscirono a raccogliere 33 milioni, facendo versare ai propri soci la quota di 80.000 lire a testa. I restanti 7 milioni furono presi in prestito dalla Cassa rurale San Giuseppe di Mussomeli, dando in garanzia una cambiale firmata da “Giuseppe Genco Russo, Vincenzo Messina, Giuseppe Seminara ed altri” (Aa. Vv. 1971, p. 80). In tal modo, “i vari Sorce e Genco Russo egemonizzarono fin dall’inizio ogni decisione in merito al feudo Polizzello” (Aa. Vv., 1971, p. 80).
Le due cooperative costituirono un comitato per l’assegnazione delle terre, del quale facevano parte, oltre ai mafiosi, il sindaco ed il parroco del paese. Il versamento delle 80.000 lire fu ritenuto titolo indispensabile per l’assegnazione della terra. Di conseguenza, l’Onc non poté far altro che assegnare i vari lotti alle persone designate dal suddetto comitato di Mussomeli. Il risultato fu il seguente:
“- vennero esclusi dalle assegnazioni contadini che vi avevano diritto ma che non avevano la disponibilità di 80.000 lire;
– vennero attribuite quote a non coltivatori;
– oltre 176 ettari di terra furono assegnati alla cooperativa Pastorizia i cui soci in gran parte non erano né contadini né combattenti, ma noti boss della mafia locale. Molte quote vennero attribuite a sarti, calzolai, bottegai, farmacisti, nonché a consiglieri comunali ad assessori e al presidente dell’Ente comunale di assistenza. (…) Genco Russo ebbe sette quote oltre a un numero indefinito di quote attribuite ai suoi prestanome” (R. Catanzaro, 1991, p. 203).
Il 9 agosto 1958, l’ERAS (Ente per la Riforma Agraria in Sicilia) acquistò l’intera azienda per un prezzo tre volte maggiore di quello stabilito dalla legge di Riforma, e si impegnò, per di più, a pagare tutte le pendenze fiscali e tributarie che gravavano sul feudo. Nell’aprile 1960, venne promulgata una legge che stabiliva che i terreni dell’ERAS dovevano essere assegnati in proprietà ai coltivatori diretti. Poiché gran parte delle assegnazioni effettuate dall’Onc erano illegittime, la mafia, la DC di Mussomeli e l’on. Calogero Volpe fecero di tutto per ostacolare l’opera dei tecnici dell’ERAS incaricati di controllare la regolarità delle quotizzazioni. Nonostante le minacce e le provocazioni, l’ERAS riuscì ad assegnare 104 lotti ad altrettanti contadini che ne avevano diritto, togliendole a quotisti senza titolo. Ma i nuovi legittimi proprietari furono costretti dalla violenza mafiosa a pagare un estaglio o a dare metà del prodotto ai vecchi concessionari. Inutilmente, essi si rivolsero al Maresciallo dei carabinieri e al Pretore di Mussomeli.
Con la costituzione, nel 1963, della Commissione parlamentare antimafia, i contadini assegnatari trovarono la forza di opporsi alle pretese dei mafiosi. Questi ultimi, però, riuscirono ad ottenere, dal Pretore di Mussomeli, il sequestro cautelativo dei beni agricoli. In seguito ad una serie di manifestazioni sindacali, l’ERAS, sempre nel 1963, procedette all’assegnazione definitiva delle quote agli aventi diritto. Molti di essi, tuttavia, continuarono ad incontrare serie difficoltà per entrare in possesso delle terre, a causa della reazione degli ex quotisti, sostenuti dalla mafia locale (v. Aa. Vv., 1976, pp. 184-185).
Sul piano repressivo, la mafia cominciò ad agire sin dal manifestarsi dei primi tentativi di riorganizzazione del movimento contadino.
Fino al 1946 essa cercò di arrestare in ambito locale il fermento di rivolta che agitava le campagne. In questa fase, pertanto, furono presi di mira coloro che, nei vari centri rurali, si erano impegnati nella organizzazione delle manifestazioni sindacali o che, semplicemente, si erano schierati con i contadini.
In alcuni casi, in effetti, l’intervento della locale cosca mafiosa riuscì ad annientare il nascente movimento popolare. Fu così a Trabia, A Belmonte Mezzagno ed a Baucina, tre comuni della provincia di Palermo.
La mafia della zona Trabia-Casteldaccia uccise, il 6 agosto 1944, l’organizzatore comunista Andrea Raia (U. Santino, 1995, p. 29), e, il 7 giugno 1945, il sindacalista Nunzio Passafiume. Quest’ultimo aveva diffuso in paese “idee di uguaglianza e giustizia e in molti (avevano cominciato) a dargli ascolto” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 24). Questi omicidi scoraggiarono in quella zona i tentativi di riscatto popolare e rafforzarono il dominio mafioso.
“Come dimostrano le successive cronache sindacali e i risultati elettorali, i mafiosi di Trabia dopo il delitto (Passafiume, N.d.a.) vissero abbastanza tranquilli per diversi anni” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 24).
La mattina del 2 novembre 1946, nelle campagne di Belmonte Mezzagno, i fratelli Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Santangelo – tutti e tre contadini poveri (26) – stavano coltivando i sei tumuli di terra che da diversi anni conducevano, insieme, a terraggio. Quella mattina erano venuti ad aiutarli anche due figli di Giovanni: Andrea e Salvatore, rispettivamente di 15 e di 12 anni. All’improvviso, irruppero sul fondo ben tredici banditi armati. Ordinarono ai due ragazzi di allontanarsi e uccisero – sparando loro un colpo alla nuca – i tre fratelli Santangelo. Quale il movente di questa azione terroristica? Nel circondario circolò subito una voce, così riportata da un giornale del tempo:
” i fratelli Santangelo sono stati uccisi per terrorizzare tutti i contadini della zona (…) quelli del feudo sono i mandanti dell’eccidio” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 29).
A corroborare questa ipotesi vi erano i seguenti argomenti:
– poche settimane prima del delitto, i contadini di Belmonte Mezzagno iscritti alla Federterra avevano fondato una cooperativa per partecipare all’assegnazione del feudo Gulino, cui erano interessati anche i contadini di Misilmeri;
– i fratelli Santangelo erano iscritti alla Federterra;
– proprio il 2 novembre, a Misilmeri, avrebbe dovuto bandizzarsi l’avviso di una riunione di contadini per l’organizzazione dell’accesso al feudo Gulino; ma a causa del delitto, quella riunione non ebbe mai luogo.
“Appare dunque abbastanza evidente che proprio questo, mandare a monte l’azione sul feudo, fosse il vero scopo del terroristico eccidio ” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 30).
A Baucina, il 21 dicembre 1946, fu assasinato Nicolò Azoti, segretario della locale Camera del lavoro. Questi aveva aiutato i contadini ad organizzarsi per chiedere in concessione il feudo Traversa. Per ciò, era stato minacciato dal gabelloto Biagio Varisco. “Il delitto rima(se) impunito e in paese il movimento contadino si dissol(se)” (U. Santino, 1995, p. 35).
Il più delle volte, comunque, con la violenza omicida la mafia non raggiunse lo scopo che si era prefissa. Le masse rurali, infatti, continuarono le loro battaglie ancora più motivate, ed il movimento contadino divenne sempre più esteso ed organizzato.
Ecco, qui di seguito, un elenco (27) degli attentati perpetrati dalla mafia negli anni ’45 e ’46, per ostacolare la crescita del movimento popolare.
Il 2 giugno 1945, furono sparati alcuni colpi di arma da fuoco contro Antonino Innati, segretario della Camera del lavoro di Vicari (Palermo).
L’11 settembre, fu ucciso, a scariche di lupara, Agostino D’Alessandro, segretario della Camera del lavoro di Ficarazzi (Palermo):
“La sua azione sindacale e politica aveva toccato uno dei punti più sensibili del potere mafioso nella zona dei giardini: l’acqua di irrigazione. D’Alessandro era un guardiano di pozzi e conosceva dal di dentro l’ingranaggio della sopraffazione esercitata dai padroni dei pozzi a danno dei coltivatori. Quando cominciò a denunciare il sistema lo invitarono a lasciar perdere quel tasto ma non se ne diede per inteso e continuò la sua campagna riuscendo ad eliminare alcuni fra i più sfacciati abusi. Fu allora che gli spararono” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 24).
Il 25 novembre, a Cattolica Eraclea (Agrigento), fu ucciso, in un conflitto a fuoco con i mafiosi, un altro segretario di una Camera del lavoro siciliana, Giuseppe Scalia. Nello scontro rimase ferito il vice-sindaco Aurelio Bentivegna.
Il 4 dicembre, a Ventimiglia (Palermo), fu assassinato il segretario della locale sezione del Partito comunista, Giuseppe Puntarello.
Il 16 maggio 1946, fu ucciso a colpi di rivoltella il sindaco socialista di Favara (Agrigento), Gaetano Guarino. Farmacista, questi si era schierato apertamente con i contadini ed i minatori del suo paese, appoggiandone le rivendicazioni. Nelle elezioni comunali del marzo 1946, aveva ottenuto molto successo e, pertanto, era stato eletto sindaco. Dopo l’insediamento, alcuni mafiosi gli avevano consigliato di essere <<tollerante>>, ma il Guarino aveva loro risposto che non avrebbe ceduto ad alcuna pressione. Nel corso della sparatoria fu ferita a morte anche una donna, Marina Spinelli, “probabilmente per un colpo male indirizzato” (M.Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 25).
Il 28 giugno, cadde un altro sindaco socialista, Pino Camilleri di Naro (Agrigento). A soli 27 anni, egli era già riconosciuto come capo contadino in una vasta zona a cavallo tra le province di Caltanissetta e Agrigento. Fu colpito dalla lupara mentre cavalcava da Riesi (Caltanissetta) verso il feudo Deliella,aspramente conteso tra gabelloti e contadini.
Il 22 settembre, a casa del segretario della Camera del lavoro di Alia (Palermo), si stava svolgendo una riunione di contadini per preparare l’occupazione dei feudi Riciura e Vaccotto, entrambi controllati da gabelloti mafiosi. Nel bel mezzo della discussione, dalla strada furono lanciate nel locale alcune bombe a mano, e furono sparati dei colpi di lupara: due contadini, Giovanni Castiglione e Girolamo Sciacca, morirono sul colpo, tredici rimasero feriti.
Il 22 ottobre, a Santa Ninfa (Trapani), fu assassinato Giuseppe Biondo. Mezzadro iscritto alla Federterra, aveva preso parte attivamente alle lotte per la ripartizione dei prodotti agricoli secondo le misure dettate dal decreto Gullo n. 311 (60% al mezzadro, 40% al padrone). Proprio per questo era stato sfrattato illegalemente dal proprietario del terreno da lui condotto a mezzadria. Ma al momento dei lavori autunnali, il Biondo ritornò sulla terra per coltivarla. Il padrone considerò “tale comportamento un affronto da far pagare con la morte” (U.Santino, 1995, p. 34).
Il 23 ottobre, il segretario della sezione comunista di Corleone, Michele Zangara, ricevette un chiaro avvertimento mafioso: la porta della sua abitazione fu bersagliata da alcuni colpi di arma da fuoco e fu incendiata.
Il 28 novembre, a Comitini (Agrigento), fu ucciso il contadino comunista Paolo Farina. Questi stava ritornando a piedi dalla vicina Aragona, dove era andato per creare un collegamento tra l’azione dei contadini del proprio paese con quella in atto nel principale centro della zona. In quello stesso periodo, “furono consumati attentati contro i dirigenti sindacali Cucchiara di Aragona e Severino di Joppolo” (M. Cimino, in C.Pantaleone (a cura di), 1985 p. 26).
Come si può vedere, tutti questi delitti furono consumati nella Sicilia occidentale, ed ebbero come vittime esponenti del Partito comunista e del Partito socialista. Le motivazioni di queste due circostanze sono abbastanza semplici.
Sia la mafia sia il movimento contadino (come ormai sappiamo) erano più forti e radicati nella Sicilia occidentale. Era logico, pertanto, che fosse questo il teatro dello scontro sanguinario. In particolare, il movimento contadino dell’immediato secondo dopoguerra si espresse nelle lotte per l’applicazione dei decreti Gullo, i quali avevano preso in considerazione solo i problemi dell’agricoltura estensiva, trascurando quelli dell’agricoltura intensiva ed avanzata; esso interessò, quindi, in particolar modo le zone latifondistiche della Sicilia occidentale (cfr. F.Renda, 1976, pp. 45-46).
Quanto al colore politico delle vittime, esso sispiega con il fatto che erano proprio i comunisti ed i socialisti a diffondere le idee più avanzate, a godere – per la loro esperienza – maggiore credito tra le masse, e ad organizzare le manifestazioni più importanti.
6. DALL’ASSASSINIO DI ACCURSIO MIRAGLIA ALLA STRAGE DI PORTELLA DELLA GINESTRA
Allorché la mafia si rese conto che, nonostante il suo intervento a livello locale, il movimento contadino continuava ad avanzare (sia fisicamente che organizzativamente), pensò fosse il caso di fronteggiare apertamente quella che era ormai una realtà regionale. Decise, pertanto, di muovere un attacco mirato, volto a colpire il movimento nei suoi punti nevralgici.
Rientrò in questa strategia l’omicidio del dirigente del Partito comunista siciliano Accursio Miraglia, avvenuto a Sciacca (Agrigento) il 4 gennaio 1947:
“(…) l’uccisione di Accursio Miraglia (…) (apparve) come la proclamazione aperta dell’intervento armato della mafia nell’ambito di una sfida a tutto spettro contro il movimento popolare e i partiti della sinistra, dopo che le uccisioni di dirigenti sindacali verificatesi nei territori mafiosi della Sicilia occidentale durante gli anni ’45 e ’46 avevano cercato di bloccare in ambito locale l’iniziativa politica delle sinistre e lo sviluppo organizzativo del movimento contadino” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, pp. 21-22).
Accursio Miraglia faceva parte di quella borghesia impegnata nel commercio che nel 2° dopoguerra sostenne il movimento popolare, ponendosi, anzi, sovente, alla sua guida. Il Miraglia era: segretario della Camera del lavoro del circondario di Sciacca; membro del direttivo della Federazione comunista di Agrigento; componente della Commissione per la concessione delle terre incolte, presso il tribunale di Sciacca; amministratore dell’ospedale locale (F. Renda, 1990c, p. 271).
Egli era uno dei dirigenti “più amati e seguiti del movimento contadino siciliano, un vero capopolo” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 17). Nella sua zona aveva promosso e diretto importanti manifestazioni sindacali (basti ricordare la grande cavalcata del settembre ’46), ed occupazioni di terre. Un contadino di Sciacca rievocò così i momenti esaltanti vissuti in quegli anni:
“La prima occupazione fu per il feudo di Santa Maria che l’avevano due o tre in mano, in gabella, allora; in base alla legge delle terre malcoltivate, si fece l’occupazione per levarcelo, e darlo a spezzoni (…) Miraglia disse nella cooperativa che si occupava il feudo, l’idea era sua, che lui era il capo (…) Allora tutta questa gente erano braccianti e non avevano cavalli; erano a piedi e con le biciclette, si riunivano con quelli dell’agricoltura che avevano muli, carrozzini e carretti e tutta questa popolazione si era organizzata a cavallo o sui carri. Chi era a piedi (chi) era sulle biciclette. Miraglia si mise a cavallo (…) ed era alla testa. Erano più di millecinquecento fra i braccianti e i piccoli proprietari di Sciacca, e erano tutti in allegria, tutti contenti che occupavano le terre. Non c’era scopo di fare danni: matanta gente non capiva che cosa era, non capiva che la terra se ci sono spezzoni grossi, non frutta niente. Quando hanno ottenuto la terra, la gente si è rinforzata, si è incoraggiata, e si è preparata ad altre cavalcate” (28).
L’omicidio di Accursio Miraglia scatenò una reazione popolare e politica senza precedenti. In tutta Italia,i lavoratori scesero in massa nelle strade, per manifestare la propria rabbia e la propria voglia di riscatto. Il Partito comunista e la CGIL nominarono due distinte commissioni d’inchiesta per fare luce sul delitto. L’Alto Commissario Selvaggi impartì severe e precise direttive alla polizia affinché fossero individuati ed arrestati gli assassini.
Fu dovuto, molto probabilmente, proprio alla forte pressione popolare se si verificò allora quello che non si era mai verificato prima, vale a dire che le autorità investigative riuscissero a scoprire tutti i colpevoli ed i retroscena (movente, mandanti, esecutori, compenso pattuito) di un delitto di mafia.
Il 15 aprile 1947, la Questura di Agrigento emise un comunicato pubblico, con il quale – oltre a rendere noti i problemi incontrati nel corso delle indagini, i fatti accertati ed i nomi degli arrestati – indicò la motivazione dell’omicidio:
“(…) la causale del delitto deve attribuirsi a vendetta contro il Miraglia per la intensa azionesindacale da lui svolta per l’assegnazione delle terre incolte quale segretario della Camera del lavoro di Sciacca” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 19).
Purtroppo, dopo otto mesi, il clima di entusiasmo,che questo comunicato aveva creato, cessò di colpo: la Corte d’Appello di Palermo (che aveva avocato a sé l’indagine), con sentenza istruttoria prosciolse, con formula piena, tutti gli accusati, poiché due di essi avevano ritrattato le dettagliate confessioni rese – affermarono davanti al giudice – sotto tortura alla polizia. L’autorità giudiziaria, avviò un procedimento penale a carico degli ufficiali di polizia accusati di sevizie. Ma, nel 1951, anche questi furono assolti in istruttoria <<perché il fatto non sussiste>>.
Una volta chiarito che le confessioni rese dagli accusati del delitto Battaglia non erano state estorte dagli inquirenti bensì erano state spontanee, per logica si sarebbe dovuto riaprire l’inchiesta. Ma ciò non avvenne. Per cui, continuarono ad esserci due sentenze in evidente contrasto una con l’altra, e gli assassini di Battaglia – così come, del resto, gli assassini degli altri sindacalisti siciliani – rimasero impuniti.
Tutto questo fa il paio con i secoli di galera inflitti ai contadini, colpevoli di avere occupato indebitamente i feudi incolti, e ci dimostra come, in quegli anni, la magistratura svolgesse
“un suo ruolo importante, tutto teso alla protezione degli interessi dei gabelloti mafiosi e degli agrari, per aiutarli a difendere la rendita parassitaria e, comunque, a limitare al massimo i danni delle riforme” (G. Di Lello, 1994, p. 55).
Le vicende del delitto Battaglia ci danno lo spunto per parlare anche di un altro problema: il diverso atteggiamento tenuto dalle forze politiche e sociali di fronte al fenomeno mafioso.
Lo stillicidio degli attentati mafiosi contro i capi contadini suscitò reazioni varie. Mentre il PC ed il PSI reagivano rafforzando la propria organizzazione ed il proprio impegno in favore delle masse rurali, i partiti di centro-destra sottovalutavano la gravità di ciò che stava accadendo nelle campagne siciliane.
Impegnate com’erano nello scontro politico, e nel tentativo di guadagnare terreno rispetto alle sinistre (in un clima che cominciava ad assomigliare a quello rovente di una campagna elettorale), le forze moderate non manifestarono la propria solidarietà alle vittime e non si dimostrarono disponibili a costituire (tra le varie forze politiche) un fronte comune contro la criminalità.
Di certo, su questo atteggiamento influirono due importanti circostanze: il terrorismo mafioso, almeno fino ad allora, si era scatenato solo contro gli esponenti della sinistra, senz’altro i più impegnati nella lotta contro il blocco agrario-mafioso; la “montante psicosi dell’anticomunismo” (F. Renda, 1990c, p. 274).
La mafia, in fondo, contribuiva, a modo suo, a porre un freno all’avanzata del comunismo. Pertanto, opporsi ad essa avrebbe voluto dire, “secondo la filosofia del tempo, (…) fare il gioco del nemico” (F. Renda, 199oc, p. 274). Per di più (come abbiamo visto nel paragrafo 2), a partire dalla metà del 1946, in seguito al tramonto del separatismo, la DC, il PLI ed il PM avevano cominciato ad assorbire gran parte delle forze reazionarie che avevano appoggiato quel movimento. Tra queste, come sappiamo, vi erano anche numerosi mafiosi.
I comunisti, i socialisti, le organizzazioni sindacali e cooperative, i dirigenti ed i militanti del movimento popolare siciliano, furono lasciati soli nella sanguinosa battaglia contro il sistema di potere mafioso; ma soli furono lasciati anche gli esponenti della sinistra del partito democristiano, e tutti quei cattolici che lottarono a fianco dei contadini, o che si oppossero alla ingerenza dei <<mammasantissima>> nelle organizzazioni locali della Dc (29).
Purtroppo, neanche all’interno dello stesso movimento contadino, i <<rossi>> ed i <<bianchi>> seppero superare le divergenze di odine ideologico che li separavano, e mettere insieme le proprie forze contro il comune nemico. Nel corso del 1947, anzi la divisione tra i due schieramenti sarebbe diventata ancora più netta. Tutto questo, logicamente, non faceva che avvantaggiare la controparte mafiosa (30).
Comunque, i ripetuti omicidi dei sindacalisti non fecero arretrare il movimento contadino nel suo complesso. Al contrario, essi scatenarono una sorta di controreazione popolare. L’uccisione di Accursio Miraglia, in particolare, rappresentò una vera e propria svolta.
“Sull’onda dell’emozione, fu un accorrere di nuove leve di militanti, soprattutto di giovani studenti che lasciarono la scuola o l’università, per prendere nel movimento il posto lasciato vuoto dallo scomparso. Ma fu anche un vigoroso risveglio delle iniziative politiche e sociali” (F. Renda, 1990c, p. 274).
Fu proprio dopo il 4 gennaio 1947 che le sinistre costituirono due importanti organizzazioni regionali: la Federterra, “che divenne il centro motore del movimento di lotta nelle campagne” (F. Renda, 1990c, p. 274); e l’Unione Siciliana delle Cooperative Agricole (USCA), alla quale aderirono ben presto 153 cooperative, alle quali l’USCA garantì l’assistenza economica, tecnica, finanziaria e legale (v. F. Renda, 1979, pp. 123-125). La nascita di questi due organismi rinforzò il movimento cooperativo, che proprio nei primi mesi di quell’anno raggiunse dei buoni risultati.
All’inizio del 1947, vi era stata a Roma la cosiddetta scissione di palazzo Barberini: Saragat, insieme ad un gruppo di seguaci filo-occidentali, aveva abbandonato il PSIUP (legato al PC da un patto di unità d’azione) ed aveva fondato il Partito socialdemocratico (di orientamento anticomunista). In Sicilia, questa scissione non aveva avuto molto seguito. Perciò, il movimento contadino era rimasto unito, e le sinistre, per contrapporsi con maggiore forza all’offensiva agrario-mafiosa, decisero di presentarsi compatte alle elezioni del 20 aprile, per la prima Assemblea Regionale Siciliana.
La mafia temette questa mossa e partecipò <<attivamente>> alla delicata ed importante campagna elettorale:
“(Il) 16 aprile, a Piana dei Greci (o degli Albanesi, in provincia di Palermo) due bombe (vennero) lanciate contro la casa del consigliere comunale comunista Giuseppe Macaluso. Il giorno dopo a Palermo bombe (vennero) scagliate contro alcune sezioni del PCI” (U. Santino, 1995, p. 36).
Nell’arena politica, quindi, si ripeté lo scontro che aveva insanguinato le campagne: da una parte vi erano coloro che difendevano gli interessi delle masse contadine; dall’altra chi desiderava che quegli interessi non venissero neanche espressi.
Anche l’apparato repressivo statale sembrò intervenire a sostegno delle forze della reazione. Mentre nella Sicilia occidentale queste ultime potevano contare sulla repressione della mafia, “nella Sicilia senza mafia” (M. Cimino, in C. Pantaleone (a cura di), 1985, p. 22) esse si affidarono alla <<Benemerita>>: il 17 marzo, a Messina, durante uno sciopero contro il carovita i carabinieri spararono – al grido di <<Avanti Savoia>> – sulla folla radunata davanti alla Prefettura, causando la morte di 2 manifestanti ed il ferimentodi altri 15 (U.Santino, 1995, p.36) (31).Ministro dell’Interno era allora il democristiano Mario Scelba, che avrebbe ricoperto questa carica ininterrottamente fino al 1953 (32).
Nonostante l’imponente schieramento di forze a loro contrarie, la scelta di unità fatta dai partiti della sinistra risultò vincente. Il Blocco del Popolo, che riuniva il PC, il PSI ed un gruppo considerevole di indipendenti di sinistra, con 591.580 voti (il 30% del totale), ottenne 29 seggi su 90, conquistando la maggioranza relativa dell’Assemblea. La DC ottenne il 21% dei voti e 20 seggi (nelle elezioni del 2 giugno ’46 aveva ottenuto il 33,62%; F. Renda, 1990c, p. 276).
Questa vittoria era frutto del movimento contadino. Buona parte dei voti, infatti, fu raccolta nelle campagne che avevano visto i lavoratori della terra ribellarsi al giogo dei proprietari terrieri. Nelle liste del Blocco del Popolo, del resto, erano candidati anche alcuni dei dirigenti che avevano guidato queste lotte (33).
Già nell’anno precedente, comunque, il movimento contadino aveva fatto sentire il suo peso politico. Le elezioni amministrative che si erano tenute in marzo erano state influenzate dai risultati che le masse rurali avevano ottenuto sui feudi. Così,
“(…) le sinistre (avevano) conquista(to) quasi tutte le amministrazioni comunali dei paesi nei quali erano state conquistate le terre dei latifondi, mentre (avevano perso)
le competizioni elettorali in quasi tutti i paesi nei quali il movimento contadino era stato represso sul nascere, oppure era venuta a mancare la mobilitazione delle masse nella lotta per la terra” (M. Pantaleone, 1984, p. 103).
Anche i risultati del referendum istituzionale del 2 giugno ’46 avevano messo in luce il fermento rivoluzionario che animava l’entroterra siciliano: la repubblica ottenne più voti in campagna che in città (a livello regionale, come si sa, vinse la monarchia con il 64,7% dei voti).
Le popolazioni rurali, dunque, dimostrarono in diverse occasioni di essere politicamente più avanzate delle popolazioni urbane!
Le sorti stesse dei partiti di sinistra siciliani, soprattutto del PC, sembrarono essere legate a quelle del movimento contadino, visto che gran parte dei loro sforzi organizzativi furono concentrati nelle campagne. Nelle città, al contrario, essi non misero salde radici (v. F. Renda, 1976, pp. 51-52 e 65-66).
La vittoria del Blocco del Popolo fu colta dagli agrari e dai mafiosi come una seria minaccia per il proprio potere. Ai secondi, in particolare, fu chiaro che quel che metteva veramente in pericolo la perpetuazione dei propri sistemi non era l’azione delle forze dell’ordine – “che comunque era sempre possibile imbrigliare e frenare” (M. Pantaleone, 1984, p. 103) – bensì la lotta unitaria dei contadini e la “capacità di penetrazione nelle campagne delle
organizazioni sindacali e cooperativistiche controllate dai partiti di sinistra” (M. Pantaleone, 1984, pp. 103-104).
Il successo elettorale delle sinistre in Sicilia, ovviamente, turbò molto anche il partito democristiano (appoggiato dalla Chiesa e dal mondo cattolico), sempre più dubbioso sulla opportunità di continuare a governare il Paese con le sinistre; anche perché esso si verificò in una fase particolarmente delicata della politica internazionale.
Il 12 marzo era nata la <<dottrina Truman>>, secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero dovuto opporre resistenza alla espansione dell’area di influenza dell’Unione Sovietica: di fatto, era iniziata la <<guerra fredda>> tra le due maggiori potenze mondiali. E l’Italia si stava legando (tramite la DC) sempre più agli USA.
Mafiosi, agrari e forze politiche di centro-destra, dunque, pensarono fosse necessario, e urgente, arrestare la preoccupante ascesa dei comunisti in Sicilia.
Fu in questa ingarbugliata situazione politica che il 1° maggio 1947 avvenne la strage di Portella della Ginestra. Questa località si trova a pochi chilometri da Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato, e San Cipirello. Sin dal tempo dei Fasci dei lavoratori, ogni Primo maggio (escluso il periodo fascista), i contadini di questi tre paesi dell’entroterra palermitano erano soliti recarsi in questa valle per celebrare la festa del lavoro. Essi portavano con sé le donne ed i bambini, e accanto ad un grosso masso – noto come <<masso di Barbato>>, poiché nel secolo scorso dalla sua cima aveva parlato l’amato dirigente del Fascio di Piana – ascoltavano i discorsi dei loro dirigenti, suonavano i loro tipici strumenti (34) e mangiavano.
In quell’anno i contadini avevano un motivo in più per festeggiare: il successo elettorale del 20 aprile. Nel bel mezzo della manifestazione, quando iniziò a parlare il segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato, dalle colline circostanti si riversò sulla folla una pioggia di proiettili (sparati con mitra e fucili; furono rinvenuti più di 800 bossoli) e granate. Furono colpiti a morte: “Margherita Clesceri, Giovanni Crifò (di 12 anni), Giorgio Cusenza, Castrense Intravaia, Vincenzina La Fata (di 8 anni), Serafino Lascari (di 15 anni), Giovanni Megna, Francesco Vicari”.
Morirono in seguito, per le ferite riportate:
“Vito Alotta, Lorenzo Di Maggio (di 7 anni), Filippo Lascari, e Filippo Di Salvo” (U. Santino, 1995, p. 36).
I feriti furono 27 (G. Di Lello, 1994, p. 60).”(…) chi aveva vinto le elezioni aveva perduto il diritto alla vita (M. Genco, 1996, p. 5).
A sparare sui contadini furono Salvatore Giuliano e gli uomini della sua banda, su mandato di agrari, mafiosi e politici reazionari ad essi legati.
Ai morti su elencati ne vanno aggiunti altri: Emanuele Busellini, un campiere di un feudo vicino, per aver visto i banditi in azione, fu sequestrato, ucciso e gettato in un pozzo; il 3 maggio, degli agenti impegnati nella ricerca dei colpevoli furono coinvolti in un incidente stradale, 2 di essi morirono, 26 rimasero feriti (U. Santino, 1995, pp. 36-37).
Nel dibattito che si tenne all’Assemblea Costituente il giorno dopo la strage, il ministro dell’Interno Scelba affermò – senza attendere neanche che si aprisse l’indagine – che si era trattato di un episodio circoscritto e senza movente né mandanti politici.
Ciò facendo, il rappresentante democratico cristiano non poteva arrecar maggior violenza alla intuitiva e irrefutabile verità né portare più atroce offesa al sentimento di dolore e di giustizia di milioni di italiani” (F. Renda, 1990c, p. 282).
Al contrario, Girolamo Li Causi dichiarò al suddetto dibattito ed alla Assemblea Regionale, che la strage
“si inseri(va) in una campagna contro le sinistre e il movimento contadino condotta con tutti i mezzi e denun(ciò) la complicità delle istituzioni” (U. Santino, 1995, p. 37).
Li Causi mosse delle pesanti accuse all’ispettore di polizia Messana – il quale intratteneva rapporti con la banda Giuliano – ritenendolo il manovratore del banditismo politico (U. Santino, 1995, p. 37).
La CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), che riuniva ancora le varie correnti sindacali (la scissione sarebbe avvenuta nel luglio 1948), certa della valenza politica dell’attentato e della presenza di mandanti altolocati, proclamò lo sciopero generale.
La divergenza tra DC e partiti della sinistra circa l’interpretazione da dare alla strage di Portella della Ginestra non poteva essere più netta. Questo irrigidì ulteriormente il rapporto tra i due schieramenti e rese ancora più difficile la situazione politica regionale e nazionale. Le conseguenze politiche furono, pertanto, proprio quelle auspicate dagli autori del delitto: sia a livello regionale che nazionale le sinistre furono estromesse dal governo della cosa pubblica.
Il 13 maggio, De Gasperi aprì una crisi di governo, con la malcelata intenzione di escludere il PC ed il PSI. Il Presidente del Consiglio, guarda caso, era da poco rientrato da un viaggio negli Stati Uniti. Il 9 giugno la crisi si concluse con la fine deigoverni di coalizione e la formazione di un governo di centro-destra.
In Sicilia, il nuovo parlamento regionale si insediò il 25 maggio. Il Blocco del Popolo aveva sì vinto le elezioni ma, avendo ottenuto solo la maggioranza relativa dei seggi, per governare avrebbe avuto bisogno del sostegno dei 20 deputati democristiani. Questa soluzione, sin dalle prime sedute, apparve impraticabile. La DC, quindi, divenne la vera arbitra della situazione. Così, stravolgendo e tradendo i risultati del 20 aprile, si giunse alla costituzione di un governo di centro-destra e alla elezione del democristiano Giuseppe Alessi (35) alla carica di Presidente della Regione (36).
Nonostante questo, in Sicilia la strategia di attacco contro i partiti della sinistra (soprattutto contro il PC) continuò. D’altronde, bisognava prevenire un eventuale successo delle sinistre alle future elezioni per il primo Parlamento della Repubblica italiana.
Tra le 22 e le 23 del 22 giugno 1947, furono assaltate con mitra, bombe a mano e benzina, le sezioni del Partito comunista di Partinico e Borgetto, e le sedi della Camera del lavoro di Carini e San Giuseppe Jato; il giorno dopo fu la volta della sezione del PC di Cinisi, e della sezione del PSI di Monreale (tutti questi paesi sono in provincia di Palermo). A Partinico l’azione terroristica provocò la morte di 2 persone ed il ferimento di altre 5 (U. Santino, 1995, p.38); a Carini il bilancio fu ancora più pesante: 4 morti e 7 feriti (O. Barrese, 1973, p. 15).
Anche questi attacchi furono eseguiti dalla banda Giuliano. Ad ordinarglieli furono, molto probabilmente, le stesse persone che avevano ordito la strage del 1° maggio.
Il 12 giugno 1950 iniziò il processo – svoltosi a Viterbo, per legittima suspicione – contro Salvatore Giuliano (latitante, il 5 luglio sarebbe stato trovato morto, ma di questo parlemo più avanti) e la sua banda. La Corte d’Assise di Viterbo si limitò a giudicare gli esecutori della strage di Portella della Ginestra e degli attentati alle sedi del PC, escludendo – quanto meno giudiziariamente – l’esistenza di motivazioni e mandanti politici o mafiosi.
La sentenza di condanna, emessa il 3 maggio 1952, a parere del giudice Giuseppe Di Lello (1994, p. 59), “può veramente considerarsi <<storica>>”. Da essa traspare chiaramente lo sforzo fatto dai giudici per attribuire tutta la responsabilità dell’accaduto alla banda Giuliano, e per assolvere qualunque personalità politica fosse stata coinvolta nel processo. Dietro questo <<processo>> – questo sì davvero <<politico>> – vi era la necessità di cautelare l’equilibrio politico moderato che era stato raggiunto dai partiti alla guida del Paese.
“La sentenza ha un’importanza fondamentale tesa com’è ad escludere qualsiasi movente politico o connessione con uomini politici, in linea con la necessità di non destabilizzare la nascente repubblica con una statuizione che potrebbe mettere subito in discussione la legittimità del nuovo potere centrista” (G. Di Lello, 1994, p. 61).
L’azione giudiziaria risultò funzionale agli obiettivi dell’azione delittuosa. Questa complementarietà tra strage e processo, così come l’intera vicenda di Portella della Ginestra, avrebbe rappresentato un modello da imitare ogni qual volta l’incertezza della situazione politica lo avesse richiesto (cfr. U. Santino, 1995, pp. 8-9).
(Quella di Portella della Ginestra fu) una strage modello, nelle finalità stabilizzanti e nell’occultamento delle responsabilità politiche; segn(ò) l’inizio dell’era repubblicana in Sicilia e in Italia e a tale modello (sarebbero state) ispirate le altre stragi che (sarebbero seguite), groviglio di collusioni tra politici, servizi deviati (anzi, orientati), criminali comuni, centri istituzionali (…)
Una volta sperimentata in concreto l’utilità di una strage e di tutti i delitti che le hanno fatto da contorno, diventa politicamente ingenuo non ricorrere allo stesso meccanismo ogni qual volta la tenuta della classe dirigente sembra vacillare” (G. Di Lello, 1994, p. 58).
7. LE RIPERCUSSIONI DELLA SVOLTA POLITICA DEL ’47 SUL MOVIMENTO POPOLARE
Gli stravolgimenti politici regionali e nazionali del maggio ’47 ebbero ovvi contraccolpi sul movimento contadino siciliano.
Con la rottura del patto unitario tra le forze antifasciste, cessò anche all’interno del movimento ogni forma di collaborazione tra <<bianchi>> e <<rossi>>. Così, mentre fino alla metà del 1947 le cooperative socialcomuniste e democristiane avevano, per lo più, lottato insieme per la conquista dei latifondi incolti, ed erano riuscite a trovare degli accordi per la ripartizione degli stessi, a partire dall’estate di quell’anno si scatenò una forte e dannosa concorrenza tra i due schieramenti.
Anche l’atteggiamento delle autorità preposte all’assegnazione delle terre cominciò a cambiare. Se prima del ’47 esse avevano distribuito la terra basandosi su criteri obiettivi (numero dei soci della cooperativa e loro condizione economica), adesso iniziavano a discriminare le cooperative in base al loro colore politico (F. Renda, 1979, pp. 114 e 122-123). Le Commissioni provinciali per la concessione delle terre incolte, istituite presso i tribunali, che non si allineavano con gli indirizzi governativi venivano, in genere, sciolte. Per il movimento sindacale iniziò un periodo molto difficile.
Alla fine dell’estate riprese con vigore il movimento di occupazione delle terre. Il presidente della Regione Alessi, ritenendo l’invasione degli ex feudi un atto che turbava l’ordine pubblico, ordinò alla polizia di sgomberare con la forza le terre occupate dai contadini.
Il 16 settembre il governo De Gasperi promulgò un decreto legislativo che fissava le norme sul massimo impiego di manodopera agricola. In base a tale decreto i proprietari terrieri erano obbligati ad effettuare sui loro fondi dei lavori di manutenzione, di miglioria e di trasformazione; per far ciò essi dovevano necessariamente impiegare un certo numero di braccianti disoccupati (P. La Torre, 1980, pp. 27-29). A <<costringere>> il Governo a questo provvedimento era stato un imponente e lungo sciopero organizzato dai braccianti della Valle Padana.
Il decreto sull’imponibile di manodopera venne a completare la legislazione agraria in vigore, che, come sappiamo, aveva sostanzialmente trascurato le problematiche del proletariato agricolo. In Sicilia esso ebbe l’effetto di coinvolgere nel movimento contadino i salariati delle zone costiere, i quali, nel secondo dopoguerra, non avevano ancora lottato per nessuna rivendicazione (i braccianti dell’entroterra, di contro, avevano partecipato in massa all’occupazione dei feudi).
Gli <<jurnatara>>, organizzati in granparte dai comunisti, costituirono delle squadre di lavoro e andarono a coltivare le terre degli agrari, senza aspettare che questi rispettassero le nuove norme. Questo loro atto di forza, però, non ebbe il beneplacito delle autorità. Pertanto, molti contadini furono arrestati.
Verso la fine del 1947, per protestare contro la politica autoritaria seguita dai governi regionale e nazionale, le sinistre organizzarono nell’Isola degli scioperi di carattere provinciale e interprovinciale. Ma il ministro dell’Interno Scelba fece sciogliere con la forza queste pacifiche dimostrazioni. In alcuni casi le forze di polizia ricorsero alle armi da fuoco:
– il 18 dicembre, a Palermo, le forze dell’ordine caricarono con le autoblindo la folla in sciopero, ferendo diverse persone; furono pestati a sangue anche un deputato regionale del Blocco del Popolo (Michele Semeraro) ed il sindacalista Filippo Denaro;
– il 21 dicembre, a Canicattì, le forze dell’ordine spararono contro i dimostranti: morirono Giuseppe Amato, Salvatore Lauria e Giuseppe Lupo; nello stesso giorno si registrò un altro morto a Campobello di Licata (U. Santino, 1995, p. 38).
Ai militanti ed ai dirigenti di sinistra uccisi dalla mafia (37) e dai banditi si aggiunsero, dunque, quelli caduti per la violenta reazione governativa. Per di più, alla aperta repressione poliziesca, seguirono migliaia di arresti e dure condanne.
“la condizione del militante di sinistra divenne tale che, uscendo la mattina di casa, non sapeva se la sera sarebbe rientrato: il rischio cui andava incontro era l’agguato mafioso o l’aggressione poliziesca, prendendo nell’un caso o nell’altro la via del cimitero o quella del carcere” (F. Renda, 1976, p. 68).
Il 12 gennaio 1948, in coincidenza con il giorno del centenario della rivoluzione palermitana del 1848, si riunì nel capoluogo siciliano la cosiddetta <<Costituente contadina>>. Questa era stata organizzata dalla sinista siciliana, nell’ambito di una campagna nazionale del PCI volta a creare una organizzazione – la <<Costituente per la terra>> (v. F. Renda, 1980, pp. 100-104) – distinta da quella sindacale e da quella partitica, che riuscisse a coinvolgere il maggior numero di persone (anche artigiani, intellettuali, piccolo-borghesi ecc.) (38) nella lotta per la riforma agraria generale.
Alla manifestazione siciliana – che mostrò un carattere massimalista – parteciparono diverse decine di migliaia di contadini (“Forse cinquantamila, forse più”, F. Renda, 1976, p. 99), confluiti a Palermo da tutta l’Isola; la parola d’ordine fu <<faremo il ’48>>.
“L’avvenimento merita di essere ricordato come segno della capacità di reazione e di mobilitazione politica del movimento organizzato” (F. Renda, 1976, p. 68).
Sottolinea lo storico Francesco Renda (1976, p. 69) – il quale partecipò attivamente al movimento contadino di quegli anni – che il massimalismo mostrato in quell’occasione
“era solo di facciata, e rifletteva le crescenti difficoltà, suscitate dal rovesciamento della situazione politica generale e dal progressivo isolamento in cui veniva a trovarsi il movimento contadino, sempre più stretto in una morsa dal blocco d’ordine che si andava costituendo. Sarebbe stato peggio, se in presenza dell’attacco avversario non avesse reagito con tanta foga”.
8. LA <<CAMPAGNA ELETTORALE>> DELLA MAFIA PER LE ELEZIONI POLITICHE DEL 18 APRILE 1948: GLI OMICIDI DI EPIFANIO LI PUMA, PLACIDO RIZZOTTO E CALOGERO CANGELOSI
La lotta elettorale che si combatté in Italia nei primi mesi del 1948 fu, sicuramente, la più dura della storia della Repubblica. Circostanze interne (la cacciata delle sinistre dal governo, l’intervento della Chiesa e degli americani in favore della DC), e internazionali (la divisione del mondo in due blocchi contrapposti, il Piano Marshall, l’intervento dell’U.R.S.S. in Cecoslovacchia), trasformarono la consultazione del 18 aprile in una sorta di referendum pro o contro il comunismo.
In Sicilia, il fronte anticomunista, oltre che sul sostegno del clero, dei ceti abbienti, dei siculo-americani e dell’apparato repressivo statale, poté contare sull’intervento sanguinario della mafia.
Durante quella tesa campagna elettorale, caddero altri tre valorosi dirigenti del movimento contadino: Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi. Tutti e tre erano impegnati nella lotta per il rinnovamento sociale e politico della loro terra ed appartenevano al Partito socialista. Circostanze, queste, non casuali. Con la loro eliminazione la mafia volle lanciare un macabro messaggio ai dirigenti socialisti siciliani che condannavano la scissione socialdemocratica, e che si battevano per mantenere unito il proprio partito ed il movimento contadino (39).
“Si volle far capire così, col linguaggio inequivocabile della lupara e della morte, che la strada dell’unità popolare e delle lotte per la terra metteva a repentaglio la stessa sopravvivenza fisica dei suoi protagonisti” (D. Paternostro, 1992, p. 29).
Epifanio Li Puma, era il segretario della Camera del lavoro di Petralia Sottana (Palermo). Era stato tra gli organizzatori del movimento di occupazione delle terre incolte del circondario, e si era opposto all’ingresso di alcuni mafiosi nella cooperativa <<La Madre Terra>>. Fu ucciso il 2 marzo, nel fondo Raffo di Petralia Soprana. A decidere la sua morte furono i grossi agrari della zona; ma l’inchiesta fu archiviata (U. Santino, 1995, p. 39).
Placido Rizzotto, aveva 33 anni quando, la sera del 10 marzo 1948, scomparve dal suo paese, Corleone.
Questo paese dista 56 chilometri da Palermo, ma per la sua posizione geografica – 542 metri sopra il livello del mare, circondato da fitti boschi e alte montagne – risultava allora di difficile accesso e, quindi, <<lontano>>, anche per stile di vita, dal capoluogo isolano.
Nel secondo dopoguerra esso contava circa 14.200 abitanti, dediti in gran parte alla agricoltura ed alla pastorizia. Così come negli altri paesi dell’entroterra, l’economia corleonese era di pura sussistenza, e si basava sullo sfruttamento,da parte di poche famiglie di latifondisti (che dimoravano per lo più a Palermo), del lavoro dei braccianti e dei contadini poveri, che costituivano la maggior parte della popolazione. Questo sistema si reggeva sulla violenta intermediazione dei gabelloti e dei campieri mafiosi, i quali avevano preso in affitto e controllavano i feudi del vasto territorio del paese (che si estendeva per circa 22 mila ettari), “stringendo gli stessi proprietari terrieri in una morsa soffocante da cui diventava impossibile sottrarsi” (D. Paternostro, 1992, p. 25).
I contadini corleonesi che volevano sfuggire al loro misero destino avevano due possibilità contrapposte: entrare a far parte di una delle 64 cosche mafiose (D. Paternostro, 1994, p. 67) che, sotto la guida del dott. Michele Navarra, tenevano in pugno il paese (40); o seguire le orme di quei coraggiosi concittadini – Bernardino Verro in testa – che sin dal 1892 (anno di costituzione del Fascio dei lavoratori di Corleone) si erano organizzati in associazioni per rivendicare migliori condizioni di vita, scontrandosi duramente con la mafia. Fu proprio grazie alla intraprendenza di questi ultimi che Corleone, nota sin dall’inizio del secolo come “la sede della cassazione della mafia siciliana” (41), era diventata anche (come abbiamo visto nei precedenti capitoli) “la capitale politica e morale del movimento contadino siciliano” (F. Renda, 1990a, p. 194).
Tra i giovani corleonesi che negli anni Quaranta scelsero la strada del crimine troviamo dei nomi che, ahinoi, sarebbero diventati tristemente famosi per la loro scalata ai vertici di Cosa Nostra. Prma di tutti, Luciano Liggio, campiere del feudo Strasatto, e capo diuna feroce banda di <<bravi>> che sarebbe stata al servizio del dottore Navarra fino al 1958, anno in cui “Lucianeddu” (P. Buongiorno, 1993, p. 37) decise di eliminare il capomafia di Corleone, per prenderne il posto. Tra i <<picciotti>> (circa una ventina) di Liggio vi erano Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Totò Riina. Costui nel giro di quarant’anni sarebbe diventato, con i propri spietati sistemi (che gli valsero il soprannome di <<la belva umana>>), il capo indiscusso della mafia siciliana, trasformando Cosa Nostra in “Cosa Sua” (P. Buongiorno, 1993, p. 138).
“Nel feudo siciliano stavano nascendo i Corleonesi, razza eletta della specie criminale, la più maledetta delle stirpi che scatenerà odio per un altro mezzo secolo. Nelle campagne arse di Strasatto stavano crescendo i Contadini che avrebbero conquistato Palermo e, con Palermo, Cosa Nostra.
(…) Totò non era uno dei tanti. Era il più astuto. Il più crudele. Il più freddo. Il più diabolico. Era il più Corleonese dei Corleonesi. Il suo istinto lo spingeva lontano. Fuori dal paese. Oltre il latifondo. Lui sapeva già allora quale era la forza sua e la forza di quelli come lui. Totò Riina l’aveva nel sangue la voglia di possedere la Sicilia” (A. Bolzoni, G. D’Avanzo, 1993, p. 19).
Dall’altra parte della barricata troviamo, invece, il socialista Placido Rizzotto. Partito per la guerra all’età di 26 anni, dopo l’armistizio fece al Nord l’esperienza partigiana, che contribuì a far maturare in lui una forte coscienza democratica. Ritornato al suo paese verso la fine del 1945, contribuì subito alla rinascita del glorioso movimento contadino corleonese; questo – dopo la sconfitta del fascismo e dopo l’emanazione dei decreti Gullo – aveva ricominciato ad organizzarsi, costituendo due nuove cooperative agricole la <<Saclà>> e la <<B. Verro>>, e rimettendo in funzione la cooperativa <<Unione agricola>> fondata nel 1906 da Bernardino Verro. Eletto segretario della Camera del lavoro, si impegnò (42) nella organizzazione e nella guida delle prime battaglie per la terra, “ponendosi in prima fila nella lotta contro la mafia e il feudo” (D. Paternostro, 1992, p. 29).
“Placido Rizzotto (…) nei suoi comizi e nelle assemblee faceva cenno alla grave situazione creata dal Liggio e dagli altri gabellotti nelle terre del corleonese, e ogni volta incitava i contadini a denunnziare Liggio ed i suoi protettori ai carabinieri” (M. Pantaleone, 1984, p. 111).
Pur avendo, in sostanza, carattere simbolico, le occupazioni del 1946 fruttarono alle cooperative agricole corleonesi la concessione dei feudi <<Donna Giacoma>> e <<Drago>>. Queste lotte, e quelle seguenti, si svolsero sotto la direzione delle strutture politiche e sindacali di sinistra, visto che
“La presenza cattolica a Corleone, seppur rilevante, non riuscì ad esprimere un reale movimento popolare capace di collegarsi con i bisogni delle masse contadine. Ciò costituì un limite negativo non indifferente, i cui costi sarebbero stati pagati cari, negli anni successivi, dall’intera comunità corleonese” (D. Paternostro, 1994, p. 58).
L’isolamento dei contadini comunisti e socialisti si tradusse, sin dall’inizio, in una maggiore capacità di reazione da parte del blocco agrario-mafioso.
Il 23 ottobre 1946, nel corso dell’invasione dei feudi <<Rubina>> e <<Sant’Ippolito>>, vi furono degli scontri a fuoco tra i contadini ed i campieri mafiosi. Intervennero i carabinieri, i quali arrestarono 4 contadini, tutti militanti comunisti e socialisti, e sequestrarono “un moschetto, una pistola con relative munizioni, e una bomba a mano” (D. Paternostro, 1994, pp. 59-60). I fermati, tuttavia, furono presto rimessi in libertà, per prevenire la reazione di circa 4 mila persone, che si erano riunite, per protesta, vicino alla zona dell’arresto. Quella stessa notte, la mafia, per vendicare l’affronto subito sui feudi, sparò alcuni colpi di arma da fuoco contro la porta dell’abitazione di Michele Zangara (segretario della sezione comunista) e tentò anche di darle fuoco.
La violenza mafiosa, comunque,non scoraggiò il movimento contadino, che, tra l’altro, aveva tratto nuovo entusiasmo dalla vittoria delle sinistre alle elezioni comunali del 6 ottobre 1946. Così, il 20 aprile 1947, giorno delle prime elezioni regionali, il Blocco del Popolo raccolse a Corleone un consenso pari al 44,41% dei voti, una percentuale, cioè, ancora più alta di quella regionale (che fu, lo ricordiamo, del 30%).
Ben presto, però, a Corleone, come nel resto della Sicilia, si scatenò la controffensiva reazionaria, nell’ambito della generale <<normalizzazione>> in atto nel Paese (scissione di palazzo Barberini, strage di Portella della Ginestra, espulsione delle sinistre dai governi regionale e nazionale).
Il capomafia Michele Navarra tentò “in tutti i modi di <<traghettare>> i socialisti verso le sponde più affidabili della socialdemocrazia” (D. Paternostro, 1994, p. 61).
Placido Rizzotto, di contro, apparteneva all’ala socialista più decisa ed impegnata nella difesa dell’unità del partito e della collaborazione politica con il PC. Per questa sua posizione, e per la sua fervente attività di dirigente contadino – amato ed ascoltato dalle masse – divenne bersaglio di minacce (ma anche di lusinghe) da parte dei mafiosi (soprattutto il Navarra), affinché “smettesse di turbare interessi consolidati, assetti sociali secolari” (D. Paternostro, 1994, p. 64).
All’inizio del 1948, i segnali che preannunciavano la tragica fine del sindacalista divennero sempre più chiari e numerosi. Tra questi il più grave fu, sicuramente, l’uccisione di Epifanio Li Puma.
La sera del 10 marzo 1948, mentre stava rincasando dopo essere stato, come sempre, con i braccianti alla Camera del lavoro, Rizzotto fu sequestrato, seviziato, assassinato, gettato in una foiba (profonda 50 m) di Rocca Busambra, in contrada Casale (il cadavere, o meglio quel che ne rimaneva, sarebbe stato ritrovato solo il 14 dicembre 1949).
Qualche giorno dopo, si sparse la notizia che un pastorello di 12 anni, Giuseppe Letizia – che il padre proprio la notte del 10 marzo aveva lasciato a custodire il gregge in contrada Malvello – era morto dopo una breve e misteriosa malattia. <<L’Unità>> e <<La Voce della Sicilia>> sostennero che il bambino era entrato in stato di shock dopo aver assistito all’omicidio di Placido Rizzotto e nel delirio aveva fatto alcuni nomi; ricoverato all’ospedale di Corleone, secondo i due giornali, il Letizia era morto in seguito alle <<cure>> apprestategli dal dott. Navarra e dal dott. Dell’Aria (che subito dopo l’accaduto si trasferì in Australia; v. D. Paternostro, 1994, pp. 67-68). Secondo le indagini svolte dall’allora capitano dei carabinieri di Corleone, Carlo Alberto Dalla Chiesa, però, non vi era alcun nesso tra la morte del bambino e la scomparsa del sindacalista (v. A. Bolzoni, G. D’Avanzo, 1993, p. 23).
Appena appresa la notizia della scomparsa del Rizzotto, i contadini del circondario di Corleone organizzarono delle squadre per battere le campagne, nella ricerca, quanto meno, del suo cadavere e di indizi utili alla identificazione degli assassini; così facendo, essi dimostrarono “il loro coraggio e l’affetto che li legava al capolega corleonese” (D. Paternostro, 1992, p. 33).
Per reagire a questo ennesimo delitto contro il movimento contadino, la CGIL proclamò per il 15 marzo due ore di sciopero generale in tutta la Sicilia. L’iniziativa ebbe un grosso successo. In tutta l’Isola i lavoratori manifestarono nelle piazze la propria indignazione. Particolarmente affollata fu la manifestazione di Palermo.
Il 19 marzo si svolse un’altra importante manifestazione di protesta a Corleone: giovani e lavoratori di tutto il circondario, percorsero in corteo le vie principali del paese,fino alla piazza del Municipio, ove si svolse un comizio. Tra gli altri, presero la parola l’on. Li Causi, segretario regionale del PCI, e l’on. Francesco Taormina, dirigente del PSI. Ecco come l’on. Pancrazio De Pasquale, presente alla manifestazione, descriveva – in una lettera al Paternostro, del 5 gennaio ’81 – la tensione di quei momenti:
“Ricordo che la piazza era spaccata in due: da una parte i nostri compagni, e dall’altra i democristiani (si era in piena campagna elettorale). Il clima era di estrema tensione. Lo schieramento di polizia e carabinieri era imponente e divideva le due parti con un cordone in mezzo. L’atmosfera era cupa. Si sentivano dietro la DC tutta l’aggressività della mafia e, in definitiva, una sostanziale approvazione del delitto, che (…) era parte integrante dell’offensiva elettorale di tutte le forze reazionarie contro il Fronte popolare” (cit. in D.Paternostro, 1992, p.34).
Il clima di terrore che si diffuse a Corleone dopo la scomparsa di Rizzotto condizionò anche la maggioranza socialcomunista che amministrava il Comune. Il sindaco Bernardo Streva, commemorando il dirigente contadino nella seduta del 23 marzo 1948, non nominò neache una volta la parola mafia. Nessun consigliere prese la parola in quell’occasione. Ciò può trovare spiegazione nel fatto che il Sindaco ed alcuni consiglieri socialisti avevano costituito la sezione locale del PSDI, indebolendo il più forte partito della maggioranza.
“Si comprende ancora meglio quel clima se si pensa che la scissione socialdemocratica venne <<incoraggiata>> dalla mafia e direttamente dal dott. Navarra” (D. Paternostro, 1994, p. 71).
A quella seduta, inoltre, non parteciparono ben 13 dei 31 consiglieri in carica. Tra gli assenti i consiglieri comunisti Michele Zangara e Benedetto Barone, “due dei più combattivi dirigenti contadini, fermi e coraggiosi oppositori delle cosche mafiose locali” (D. Paternostro, 1994, p. 71). La loro assenza era un atto di protesta contro la giunta comunale, considerata incapace di affrontare i gravi problemi di Corleone, primo fra tutti quello mafioso. Per lo stesso motivo, insieme ad altri due consiglieri del PC, si dimisero.
La reazione dello Stato di fronte all’omicidio Rizzotto ed allo steminio dei sindacalisti siciliani non fu pronta e decisa come sarebbe dovuta essere. Piuttosto, si notò da parte delle autorità preposte uno scarso impegno nella ricerca degli esecutori e dei mandanti dei numerosi delitti. A parere di Dino Paternostro (1994, pp. 69-70),
“Ciò conferma come allora la mafia fosse cinicamente usata dalla DC e dalle destre per tenere l’ordine pubblico in Sicilia; conferma, inoltre, come ci fosse una chiara convergenza di interessi tra mafia, agrari e partiti di governo, se non una vera e propria complicità. (…) basti dire come fosse notorio che il capomafia corleonese Michele Navarra frequentasse assiduamente lo stesso Scelba, Bernando Mattarella e Salvatore Aldisio, uomini di governo e capi della DC siciliana, recentemente indicati dai pentiti come organici a Cosa Nostra”.
La connivenza tra mafia e pubblici poteri influì, sicuramente, sulla vicenda processuale del delitto Rizzotto.
A Corleone tutti sapevano che a sequestrare ed uccidere il segretario della Camera del lavoro erano stati Luciano Liggio ed alcuni picciotti della sua banda (tra i quali, secondo i servizi segreti, Totò Riina; v. A. Bolzoni, G. D’Avanzo, 1993, p. 20), su mandato di Michele Navarra.
Per non esasperare ulteriormente l’opinione pubblica, stanca delle continue violenze mafiose, la polizia decise di adottare dei provvedimenti senza aspettare l’esito giudiziario della vicenda. Il 12 novembre 1948, Michele Navarra, essendo riconosciuto come pericoloso per la collettività, fu assegnato al confino di polizia, per 5 anni, nel comune di Gioiosa Jonica. Il 28 novembre fu adottato lo stesso provvedimento per Liggio. Tuttavia, il dott. Navarra rimase confinato per pochi mesi, poiché il suo provvedimento fu riformato; e Luciano Liggio risultò irreperibile.
Sulla base di segnalazioni anonime, elementi raccolti dagli inquirenti e, soprattutto, delle rivelazioni fatte da Giovanni Pasqua (ex amico di Liggio), detenuto all’Ucciardone, il 30 novembre 1949 i carabinieri di Corleone arrestarono Vincenzo Collura e Pasquale Criscione (Liggio continuava ad essere latitante). I due fermati – interrogati dal capitano Dalla Chiesa, dal brigadiere Capizzi e dal carabiniere Ribezzo – ammisero di aver partecipato al sequestro di Rizzotto (ma non anche al suo omicidio) in concorso con Luciano Liggio. Il Collura, inoltre, indicò il luogo dove era stato nascosto il cadavere. In seguito a queste dichiarazioni ed al ritrovamento dei resti del povero Placido, il 18 dicembre 1949 i carabinieri denunciarono Pasquale Criscione, Vincenzo Collura e l’irreperibile Luciano Liggio, quali autori del sequestro e dell’assassinio di Rizzotto; un certo Biagio Cutropia fu denunciato per favoreggiamento.
All’inizio del procedimento penale (come accade spesso nei processi di mafia), Criscione e Collura ritrattarono le confessioni rese ai carabinieri, affermando di essere stati obbligati con la violenza a firmare dei verbali di cui sconoscevano il contenuto.
Il 30 novembre 1952 la Corte di Assise di Palermo assolse per insufficienza di prove tutti gli imputati (il pubblico ministero aveva chiesto la condanna all’ergastolo).
“Nella motivazione della sentenza si poté leggere che la Corte aveva giudicato inattendibili le confessioni stragiudiziali rese ai carabinieri da Criscione e Collura e che aveva espresso non pochi dubbi sul riconoscimento dei miseri resti, nonché sugli effettivi motivi che avevano determinato l’assassinio” (D. Paternostro, 1994, p. 77).
Questa sentenza fu confermata in appello l’11 luglio 1959; e divenne definitiva il 26 maggio 1961, poichè fu respinto il ricorso in Cassazione proposto dal pubblico ministero.
Come scrive, legittimamente, il Paternostro, questo deludente – ma non imprevedibile – epilogo fa sorgere alcuni inquietanti interrogativi: perché i giudici fecero maggiore affidamento sulle tesi della difesa (secondo le quali gli imputati erano stati obbligati a confessare cose non vere), piuttosto che sulla buona fede (fino a prova contraria) del capitano Dalla Chiesa e dei suoi collaboratori? Perché non si tenne conto del fatto che gli imputati avevano tutto l’interesse a ritrattare? Perché i giudici non diedero credito al riconoscimento dei resti del Rizzotto da parte dei familiari? Per quanto riguarda, poi, la causale del delitto,
“I giudici non potevano ignorare (stava scritto in tanti rapporti di polizia e carabinieri) che a Corleone esistesse un’associazione segreta denominata <<mafia>> e che essa aveva un’organizzazione e dei rituali propri. Dovevano sapere come questa organizzazione criminale controllasse tutti i feudi del territorio corleonese e (come vi fossero) aspri contrasti tra i suoi interessi e quelli dei contadini guidati da Rizzotto. Erano consapevoli che nessun delitto si poteva consumare senza l’assenso della <<cupola>> mafiosa, eppure in nessuna carta processuale spunta mai il nome di Michele Navarra che di quella <<cupola>> era notoriamente il capo riconosciuto. Eppure nessuno capì o volle capire” (D.Paternostro, 1994, p. 78).
Calogero Cangelosi, esponente socialista e segretario della Confederterra, fu ucciso a Camporeale (Palermo) il 2 aprile 1948. Nell’agguato rimasero feriti due militanti del movimento contadino, Vito Di Salvo e Vincenzo Liotta.
Nel paese di Camporeale, dominato dal capomafia Vanni Sacco, già in precedenza si erano avuti gravi episodi delittuosi.
Il 16 dicembre 1947, il socialista Michele Abbate, rappresentante della Federterra sfuggì ad una raffica di mitra. Nei giorni seguenti, furono rivolte minacce al segretario della sezione socialista, e fu incendiata la sede della sezione.
Venti giorni prima dell’assassinio la mafia aveva cercato di sequestrare il Cangelosi. Dopo il 2 aprile, Vanni Sacco diventò latitante. Il giornale <<La Voce della Sicilia>> chiese, oltre all’arresto dei capimafia, “la sostituzione di tutti i carabinieri più o meno compromessi in rapporto con i mafiosi ” (in U. Santino, 1995, p. 30). Il delitto Cangelosi – tanto per cambiare – rimase impunito.
Oltre ai tre omicidi mafiosi su trattati, la campagna elettorale per le prime elezioni politiche della Repubblica italiana fu costellata da episodi di violenza contro i candidati e i sostenitori del Fronte Popolare. Nel circondario di Montelepre la DC, il Partito monarchico ed il Blocco Nazionale poterono contare anche sul <<sostegno elettorale>> della banda Giuliano.
Il clima di terrore che caratterizzò quel periodo – e che impedì spesso alle sinistre di tenere una qualunque forma di propaganda elettorale (43) – fu alimentato anche dallo scorretto comportamento delle forze dell’ordine, chiaramente schierate con i partiti conservatori:
“(…) il 2 aprile (1948) a San Giuseppe Jato (venne) arrestato il segretario della Camera del lavoro Rosario Piazza. Aveva protestato contro gli insulti rivolti ai candidati del PCI dal liberale Giuseppe Troia, mafioso notorio, impegnato nella campagna elettorale per il Blocco Nazionale. Piazza (venne) condannato a dieci mesi di reclusione per <<oltraggio alla forza pubblica>>. (…)
18 aprile. Nel giorno delle elezioni, decisive nella storia della prima Repubblica, a Barrafranca (Enna) alcuni mafiosi aggredi(rono) il segretario provinciale della Confederterra Pino Vicari, ferendolo seriamente. I carabinieri presenti non arresta(rono) gli aggressori” (U. Santino, 1995, p. 40).
9. L’INIZIO DELL'<<ERA>> DEMOCRISTIANA
Le elezioni politiche del 18 aprile 1948 furono vinte dalla Democrazia cristiana. Visto lo schieramento di forze che era sceso in campo in suo favore, ciò non stupì. Quel che stupì fu, piuttosto, la portata di questa vittoria.
A livello nazionale la DC raccolse il 48,5% dei voti (R. Villari, 1977, p. 544). Per poco, quindi, non raggiunse la maggioranza assoluta.
In Sicilia, essa ottenne il 47,87%, vale a dire più del doppio della percentuale di voti ottenuta nelle elezioni regionali dell’anno precedente (che era stata del 21%). In quattro province raccolse, addirittura, la maggioranza assoluta dei consensi: Catania (56,28%); Agrigento (53,09%); Enna (52,07%); Caltanissetta (51,35%) (in F. Renda, 1990c, p. 288).
Il Fronte democratico popolare, ovviamente, arretrò dalla posizione conquistata nelle regionali del ’47, scendendo dal 30% al 20,89% (a livello nazionale ottenne il 35%; R. Villari, 1977, p. 544). La sua sconfitta, però, non assomigliò ad una disfatta, quanto meno in quelle circoscrizioni ove vi era un forte movimento contadino. Infatti, in provincia di Agrigento il Fronte Popolare ottenne il 34,20% dei voti; in provincia di Ragusa il 32,83%; in provincia di Caltanissetta il 31,51%; in provincia di Enna il 29,44%; in provincia di Trapani il 25,33%. Scarsissimi risultati raccolse, al contrario, in provincia di Messina (12,97%); di Palermo (13,49%); e di Catania (15,24%). Queste basse percentuali furono dovute, principalmente, al voto conservatore espresso dai tre rispettivi capoluoghi (F. Renda, 1990c, pp. 288-289). In Sicilia, dunque, i partiti di sinistra confermarono il loro carattere essenzialmente <<rurale>>.
Dall’analisi del voto siciliano apparve chiaro che il trionfo della DC era stato possibile grazie all’apporto dell’elettorato reazionario (liberale, separatista e monarchico), vale a dire del blocco agrario-mafioso. Pertanto, quest’ultimo costituì una pesante ipoteca sul principale partito di governo:
“In un futuro molto prossimo la DC avrebbe pagato un pedaggio politico e culturale molto pesante al suo abbraccio con le peggiori forze conservatrici e con elementi mafiosi. La natura del vecchio Partito popolare di don Sturzo venne profondamente cambiata, tanto che la DC divenne il partito politico italiano che più di tutti contrastò il movimento contadino e le lotte per la terra, commettendo uno dei suoi più grandi errori politici” (D. Paternostro, 1992, p. 48).
Ma perché il partito dei cattolici, fondato da Luigi Sturzo, mise da parte la sua tradizione popolare e antimafiosa per accogliere nelle sue file le forze più retrive e criminali? Ecco cosa scrive Francesco Renda (1993, pp. 136-137):
“(…) oltre che la rottura dell’unità siciliana fra i vecchi alleati autonomisti (avvenuta in sede di approvazione dello Statuto regionale, N.d.a) (…) A favorire il collegamento destinato a divenire organico fra mafia e DC, influì in modo determinante la cacciata dei comunisti e dei socialisti dal governo, l’inizio della guerra fredda in campo internazionale, la conseguente scelta strategica sul piano interno dell’anticomunismo e dell’atlantismo, la congiunta necessità e il conseguente desiderio di affermare la propria centralità in campo regionale e nazionale, l’esigenza indi emersa di consolidare il potere conquistato e di evitare i rischi di perderlo (…)
La mafia fu assunta come guardia armata del nuovo regime per fronteggiare le spinte di un più avanzato rinnovamento chiesto dal movimento operaio e contadino”.
In sostanza,
“L’anticomunismo è stato la linea di demarcazione fondamentale che ha condizionato tutte le decisioni importanti della DC e che ha indotto i suoi dirigenti regionali e nazionali ad allargare l’area di influenza alle forze mafiose”.
L’anticomunismo, dunque, caratterizzò,almeno per un decennio, i primi governi diretti dal partito scudocrociato. Ciò dipese, oltre che dai motivi elencati dal Renda, anche dalla forte ingerenza della gerarchia ecclesiastica nella politica italiana di quegli anni (44).
Nel luglio 1948 la corrente sindacale cristiana si distaccò ufficialmente (di fatto se ne era già allontanata) dalla GGIL, e costituì la Libera Confederazione generale italiana del lavoro, che ben presto – con l’apporto dei sindacalisti dei partiti socialdemocratico e repubblicano – divenne la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL).
In Sicilia, cadde il governo Alessi e si costituì un governo di centro-destra – presieduto dall’on. Restivo – che era espressione del blocco di potere agrario-mafioso (questo schieramento avrebbe governato fino al 1955).
Nell’Isola, così come nel resto d’Italia, i cittadini furono divisi in due categorie: “gli eletti da una parte; i reprobi dall’altra” (F. Renda, 1990c, p. 291). I primi ebbero riconosciuti diritti e privilegi. I secondi, di contro,
“furono privati alcuni della vita, molti della libertà, moltissimi del lavoro, tutti o quasi tutti della parità di condizione davanti alla legge” (F. Renda, 199oc, p. 291).
I diritti politici più calpestati (se a rivendicarli erano i <<rossi>>), furono quelli di associazione, di riunione, di libera manifestazione del pensiero, di sciopero, di libertà personale;
“(…) in pratica, non ci fu manifestazione o lotta sindacale che non si scontrasse con la disapprovazione o il malanimo delle autorità costituite e che non si concludesse con diffide e minacce, quando non anche con cariche di polizia e con arresti di lavoratori; a volte, gli arresti avevano anche carattere indiscriminato di massa; nel 1949, nella sola provincia di Agrigento, erano detenuti in carcere 35 lavoratori di Campobello di Licata; 13 di Canicattì; 11 di Naro; 9 di Cattolica; gli interi gruppi dirigenti sindacali e politici di Casteltermini e di Siculiana; in tutta la Sicilia, per motivi sindacali o politici i detenuti in attesa di giudizio erano ben 350. (…) il Partito comunista fu posto ai margini della società legale e i suoi iscritti vennero registrati, vigilati ed inquisiti come nemici del pubblico bene. Analogo trattamento fu riservato a chiunque fosse al loro fianco o non fosse apertamente e pubblicamente contro di loro” (F. Renda, 1990c, p. 291).
I preti, dal pulpito, invitavano i <<fedeli>> a romper qualunque legame con i <<reprobi>>. In questa categoria il clero siciliano faceva rientrare coloro i quali – per le loro dottrine – rappresentavano una minaccia ideologica per la religione cattolica; non vi faceva rientrare, invece, i mafiosi, poiché costoro rispettavano, formalmente, le tradizioni e i valori cristiani e, inoltre, facevano parte – a buon diritto – del fronte anticomunista.
“I vescovi, mentre perseguivano sempre più il nemico ideologico, (…) non furono allo stesso modo attenti al pericolo della mentalità mafiosa che non intaccava verità di fede, non attaccava il potere della Chiesa, anzi si mostrava rispettosa dell’istituzione ufficiale, anche se di fatto svuotava il contenuto vitale dell’evangelo, esaltando solo gli aspetti formali e folkloristici della religione (…)
Il momento in cui la identificazione della chiesa con il potere politico in Sicilia raggiunse il suo più alto grado coincise con l’atteggiamento di maggiore ambiguità anche di fronte alla mafia” (F.M. Stabile, 1992, pp. 292-294).
Il 1° luglio 1949, la Santa Sede condannò solennemente e totalmente il comunismo (A. Desideri, 1990, p. 1024).
Parlando delle discriminazioni e delle persecuzioni politiche di quegli anni, bisogna dire, comunque, che, seppur molto dure, esse non travalicarono i confini della democrazia; e non si valsero – tranne in casi eccezionali – della partecipazione attiva dei privati cittadini (F. Renda, 1990c, p. 293). Questo fu dovuto alla prudenza ed allo spirito liberale dei governanti; ma fu dovuto anche, e soprattutto, al “vasto fronte di difesa dei valori laici e democratici” (A. Desideri, 1990, p. 1024) che si formò tra la popolazione italiana, al quale parteciparono milioni di uomini e donne di tutte le età e condizioni economiche e culturali. Grazie alla resistenza ed alla opposizione,di questa moltitudine di persone, alla <<caccia alle streghe>>, allignò in tutto il Paese (dal Nord al Sud) “la democrazia politica ed ideale”, cioè “lo spirito del pluralismo e del rispetto delle altrui convinzioni e posizioni” (F. Rende, 1990c, p. 294).
Perciò, il movimento sindacale siciliano (come vedremo nel prossimo paragrafo) poté continuare il proprio percorso di lotta.
“Pur nei limiti di una battaglia politica e sociale, quel processo di crescita coinvolse lamaggior parte dei siciliani, e concorse a modificare mentalità e costumi secolari ma anche a creare le premesse per il sorgere ed il consolidarsi di un saldo e duraturo movimento organizzato dei lavoratori. Partiti di sinistra e sindacati da quella prova del fuoco uscirono rinforzati così nell’aria del consenso come in quella delle strutture operative” (F. Renda, 1990c, p.294).
Nell’entroterra della provincia di Palermo (come abbiamo detto nel paragrafo precedente), la DC, il PNM e il BN nella competizione elettorale per la prima legislatura nazionale erano stati sostenuti dalla banda Giuliano. I suddetti partiti, inoltre, avevano potuto avvantaggiarsi del clima di terrore che si era creato in Sicilia a causa della lunga serie di delitti politici impuniti – a cominciare dalla strage del 1° maggio ’47 – che avevano dimostrato “da che parte stesse la forza” (D. Paternostro, 1992, p. 48).
Dopo il 18 aprile 1948, Salvatore Giuliano presentò il conto. Egli pretese che venissero mantenute le promesse (“denaro, riabilitazione, espatri”, O. Barrese, 1973, p. 15) che erano state fatte a lui ed ai suoi gregari prima delle elezioni. Ma il conto non fu saldato. Risultò impossibile, difatti, cancellare gli innumerevoli crimini di cui si era macchiato il bandito di Montelepre, specie tenendo conto di due circostanze: buona parte delle sue vittime, almeno all’inizio della sua <<carriera>>, apparteneva alle forze dell’ordine; ormai da tempo l’opinione pubblica nazionale premeva sulle Istituzioni affinché ponessero fine alla latitanza dorata del bandito.
Essendosi realizzato, a livello regionale e nazionale, il disegno di <<normalizzazione>>, Giuliano divenne inutile. Pertanto, fu abbandonato sia dalla mafia – che aveva stretto una sorta di patto non scritto con pezzi di Stato, “Per ignorarsi o per aiutarsi, dipendeva solo dai momenti e dalle circostanze” (A. Bolzoni, G. D’Avanzo, 1993, p. 48) – sia dalla destra agraria, che si sentiva abbastanza garantita dal partito al potere, la DC.
La mafia, che a quel punto voleva ristabilire <<l’ordine>> nei territori da essa controllati, si mise al servizio delle forze di polizia per sconfiggere definitivamente il banditismo siciliano:
“Numerosi (furono) i banditi assassinati da mafiosi, anche se <<ufficialmente>> risulta(rono) uccisi in conflitti a fuoco con la polizia” (O. Barrese, 1973, p. 16).
Salvatore Giuliano, tradito e braccato, divenne ancora più spietato, e riprese a colpire le forze dell’ordine, contro le quali nel 1947 e nella prima metà del 1948 gli attacchi erano stati sporadici:
“(il 3 settembre 1948) a Partinico la banda Giuliano ucci(se) il capitano dei carabinieri Antonino Di Salvo, il maresciallo Nicola Messina e il commissario di P.S. Celestino Zapponi. Il 26 novembre ucci(se) tre agenti ed il 16 dicembre cad(de) un brigadiere di P.S. e ven(nero) feriti tre agenti (…)
(l’8 luglio 1949) A Roanello (Palermo), la banda Giuliano uccise Leonardo Renda, segretario della sezione democristiana di Alcamo. Costretto ad ospitare i banditi, aveva denunciato il fatto ai carabinieri” (U. Santino, 1995, p. 40).
Nel maggio 1949, i banditi attaccarono due autocolonne dell’esercito, uccidendo un carabiniere e ferendone altri; nei pressi di Palermo, furono uccisi due carabinieri e una guardia (O. Barrese, 1973, p.17).
L’episodio più grave avvenne il 19 agosto 1949, a Bellolampo (Palermo). Ivi la banda Giuliano fece saltare in aria un automezzo militare. E fu di nuovo strage: morirono 7 carabinieri; 11 rimasero feriti.
Nella campagna intrapresa per la cattura di Giuliano, si scatenò una forte emulazione tra carabinieri e polizia. Entrambi i corpi, pur di prevalere l’uno sull’altro, si ostacolarono a vicenda e ricorsero a qualunque mezzo pur di prendere – vivo o morto – il bandito. Così, mentre decine di agenti e carabinieri venivano uccisi, le più alte cariche della polizia, dei carabinieri e del Comando forze repressione banditismo (C.f.r.b.) – creato dopo la strage di Bellolampo – si incontravano con Giuliano per convincerlo ad arrendersi “con la valigia dei suoi (eventuali) segreti” (S. Lupo, 1993, p. 164); e, allo stesso tempo, patteggiavano con la mafia (la polizia con alcuni mafiosi, i carabinieri con altri) per la sua consegna o eliminazione.
Il C.f.r.b. riuscì ad allargare la rete dei propri informatori agganciando Gaspare Pisciotta – cugino e luogotenente di Giuliano – con “elargizioni in denaro, premi, salvacondotti, promesse di impunità” (O. Barrese, 1973, p. 22). Grazie anche alle sue informazioni, furono catturati diversi componenti della banda Giuliano, e si riuscì a creare il vuoto attorno al bandito.
Infine, la notte tra il 4 ed il 5 luglio 1950, nel cortile De Maria di Castelvetrano, fu ritrovato il cadavere di Salvatore Giuliano. Secondo i rapporti ufficiali il bandito era morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Ben presto, però, un giornalista (Tommaso Besozzi dell’Europeo; v. <<La Repubblica>>, 26.6.1996, p. 17) scoprì che, in realtà, egli era stato ucciso in un’altra zona della Sicilia e trasportato in seguito a Castelvetrano.
Perché i carabinieri fornirono una falsa versione dei fatti (versione difesa da Scelba per ben 21 anni) ? Semplice, dovevano nascondere la vergognosa verità! Il C.f.r.b. per eliminare il <<re di Montelepre>> (A. Bolzoni, in <<La Repubblica>>, 26.6.1996, p. 17), si era servito della mafia di Monreale e di Gaspare Pisciotta, il quale fu, probabilmente, il materiale esecutore dell’omicidio.
E perché Salvatore Giuliano, invece di essere semplicemente catturato, fu ucciso?
“(…) morto non (poteva) parlare, non (poteva) comparire davanti alla corte d’assise di Viterbo, ove (era) in corso il processo per la strage di Portella della Ginestra, a fare i nomi di protettori e mandanti” (O. Barrese, 1973, p. 23).
Il 5 dicembre 1950, Gaspare Pisciotta, nonostante il salvacondotto fornitogli dal colonnello Ugo Luca (comandante del C.f.r.b.), venne arrestato. Il 3 maggio 1952, la Corte di Assise di Viterbo lo condannò all’ergastolo (la stessa pena fu inflitta a suo padre e ad altri componenti della banda Giuliano). Prima della sentenza, aveva dichiarato in aula di essere un collaboratore dei carabinieri, ed aveva gridato al Presidente della Corte:
“Noialtri siamo un corpo solo: polizia, banditi e mafia. Come il Padre il Figlio e lo Spirito Santo” (cit. in A. Bolzoni, in <<La Repubblica>>, 26.6.1996, p. 17).
Il 9 febbraio 1954, Gaspare Pisciotta, detenuto all’Ucciardone, fu avvelenato con un caffè <<corretto>> con la stricnina. Stando alle recenti rivelazioni del pentito calabrese Nino Mammoliti, la sua morte fu decisa dal capo di Cosa Nostra palermitana del tempo, don Gaspare Ponente; il sicario sarebbe stato un picciotto della ‘ndrangheta, aiutato dalla complicità di un agente di custodia e dallo stesso padre della vittima. Il Pisciotta fu ucciso perché
“aveva manifestato la volontà di riferire alle autorità quanto era a sua conoscenza sulle attività della banda Giuliano e, in particolare, sulla strage di Portella della Ginestra” (dalla deposizione di Nino Mammoliti ai funzionari della DIA nel marzo 1995, in <<La Repubblica>>, 26.6.1996, p. 17).
10. LE LOTTE PER LA TERRA DEL 1949-50
Il 1948 fu un anno difficile per il movimento contadino siciliano e per i partiti della sinistra. La violenta controffensiva agrario-mafiosa e la sconfitta elettorale del 18 aprile li avevano prostrati. Era tempo, quindi, di leccarsi le ferite, ma anche di preparare la riscossa.
In quell’inverno, ripresero le lotte dei braccianti per l’imponibile di manodopera (a Corleone e nei paesi della costa palermitana) (45) e, in qualche centro rurale (come ad esempio Contessa Entellina; A. Blok, 1986, p.81), le occupazioni di ex-feudi. Tuttavia, si trattò di episodi circoscritti e isolati.
Il PC ed il PSI, per superare questa situazione di stallo e la sfiducia che si eradiffusa tra le masse contadine, intensificarono la propria attività politica e
sindacale.
La Federazione comunista di Palermo inviò nei vari comuni dell’entroterra funzionari giovani e pieni di entusiamo (tra questi, Pio La Torre, cui fu assegnata la zona di Corleone), per riorganizzare i lavoratori e rivitalizzare il movimento contadino. Un’attenzione particolare fu dedicata alla ripresa della lotta per la terra.
Il 31 maggio 1949 scadeva il termine per la presentazione – da parte delle cooperative agricole – delle domande di concessione delle terre incolte. Nella provincia di Palermo furono presentate richieste per 19.222 ettari (P. La Torre, 1980, p. 28); la zona più attiva, in questo senso, fu, ancora una volta, quella di Corleone.
A luglio, nelle organizzazioni sindacali di sinistra cominciò il lavoro di preparazione delle lotte di autunno, la stagione delle semine. I contadini si prefissero un importante ed avanzato obiettivo: seminare le terre incolte che avevano chiesto in concessione. L’idea, cioè, era quella di intraprendere occupazioni effettive delle terre, e non più semplici invasioni simboliche, come era avvenuto fino ad allora.
La Federazione comunista palermitana accolse con favore la rivoluzionaria indicazione dei contadini. Pertanto, lanciò una campagna per la raccolta del grano necessario alle semine autunnali, e cominciò a diffondere lo slogan <<la terra a tutti>> (P. La Torre, 1980, p. 31). Durante l’estate in numerosi paesi del corleonese e delle Madonie, si tennero delle assemblee per censire i feudi incolti e malcoltivati e per fare un elenco di quelli da occupare (alcune di queste assemblee si conclusero con la costituzione di nuove sezioni del PC).
Come era accaduto altre volte in passato (v. strage di Caltavaturo del 20 gennaio 1893, e strage di Riesi dell’8 ottobre 1919), fu un eccidio di contadini il detonatore della lotta. Questa volta il tragico episodio si verificò in Calabria. Il 29 ottobre 1949, a Melissa (Catanzaro), nel corso di una delle tante occupazioni simboliche di terre che in quel periodo si stavano svolgendo in quella regione, la <<Celere>> (un reparto speciale di polizia antisciopero, creato dal ministro dell’Interno Scelba) sparò su alcuni contadini già in fuga: “Quindici contadini furono feriti, tutti <<alle spalle>>; tre, Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito, furono uccisi” (F. Avolio, 1986, p. 87).
La strage di Melissa suscitò una forte indignazione in tutta la Nazione. Ma allo sdegno, seguì la reazione. La CGIL organizzò per il 31 ottobre uno sciopero generale di protesta, che vide una massiccia adesione. In tutto il Mezzogiorno si scatenò una nuova, e più imponente che mai, ondata di agitazioni agrarie, concretatesi, soprattutto, in occupazioni di terre. Il mondo contadino, in modo unanime, reclamò l’abolizione del latifondo e la riforma agraria generale.
In Sicilia, i dirigenti comunisti e socialisti decisero di anticipare la data d’inizio del movimento di occupazione degli ex-feudi. Nella provincia di Palermo – ove la lotta per la terra era più pronta ed organizzata che nel resto dell’Isola – le occupazioni cominciarono il 13 novembre.
“Si era stabilito di partire in dodici paesi contemporaneamente: Corleone, Campofiorito, Contessa Entellina, Valledolmo, Castellana Sicula, Polizzi, alcune borgate di Petralia Sottana, Alia, S. Giuseppe Jato, S. Cipirello, Piana degli Albanesi” (P. La Torre, 1980, p. 33)
I punti strategici erano Corleone e Petralia-Castellana. Quella mattina, a Corleone, insieme ai contadini, ai funzionari ed ai dirigenti del PC e del PSI, vi erano:
“delegazioni di operai delle fabbriche, del cantiere navale, dell’Aeroscuola, della Omssa, delle fabbriche metalmeccaniche dell’epoca, e anche (…) professionisti, avvocati, insegnanti, donne” (P. La Torre, 1980, p. 33).
A Palermo, il Partito comunista organizzò una sottoscrizione per finanziare le lotte agrarie;
“il risultato fu al di sopra di ogni previsione anche per la mobilitazione degli operai dei cantieri navali” (testimonianza di Emilio Arata, in P. La Torre, 1980, p. 160).
Seguendo le orme di Giovanni Orcel e Nicolò Alongi (v. capitolo precedente, paragrafo 3), si tentò, dunque, di dare pratica attuazione all’alleanza rivoluzionaria operai-contadini, tanto cara a Lenin e Gramsci (46).
La parola d’ordine di andare a seminare le terre incolte per tenersele aveva diffuso tra le masse rurali un entusiamo senza precedenti. Nel corso della marcia sui feudi, i paesi dell’interno si svuotarono. L’evento, infatti, coinvolse tutta la popolazione ad eccezione, naturalmente, dei ceti possidenti e degli inabili (47). Ogni mattina, gli occupanti, insieme alle proprie famiglie, si riunivano nel luogo prestabilito, e in corteo – intonando struggenti canzoni del movimento contadino o inni rivoluzionari – muovevano verso le terre da coltivare, portando con sé tutto l’occorrente per la semina.
Emilio Arata, uno dei giovani funzionari comunisti inviati nei comuni dell’entroterra per dirigere il movimento contadino, rievocava così una di quelle mattine cariche di speranza:
“Il giorno (stabilito per l’occupazione dei feudi Giardinello e Conte Ranieri, del comune di Campofiorito, N.d.a.), davanti alla sede della Camera del lavoro, convennero gli occupanti (…) e si organizzò la spedizione. Si presentarono anche gli scolari con il grembiule ed il fiocco al collo; la preparazione dell’iniziativa era stata tanto attenta e capillare che eravamo riusciti a mobilitare l’intero paese: scuole e negozi erano chiusi senza autorizzazione delle autorità. Non mancavano le donne e un gruppo di musicanti del paese che improvvisarono una marcetta in omaggio alla lotta in corso che aveva per titolo <<La Fanfaredda vincìu>>. C’erano i contadini a cavallo, sui muli e gli aratri a chiodo trainati, i braccianti a piedi e tutta una folla di studenti, artigiani, negozianti, piccoli proprietari. Tutto il paese accanto ai contadini” (in P. La Torre, 1980, p. 162).
I dirigenti democristiani, in genere, ostacolarono le lotte per la terra del 1949-50, intuendone la forte carica rivoluzionaria. In alcuni paesi, però, essi tentarono di organizzare manifestazioni contadine parallele, ma con scarsi risultati, poiché, per sua natura, il movimento nasceva unitario; pertanto, se le cooperative cattoliche volevano partecipare alla lotta dovevano affiancarsi alle cooperative socialcomuniste. In qualche caso, in effetti, sulle terre occupate, accanto alle bandiere rosse (del PCI, del PSI, della Camera del lavoro e della Federterra) sventolarono quelle bianche. A Bisacquino ciò fu possibile grazie alla intraprendenza delle donne democristiane, le quali entrarono nella sede del loro partito e, contro la volontà dei dirigenti e del parroco, ne presero la bandiera (P.La Torre, 1980, p. 40).
Le donne all’interno del movimento per la riforma agraria ebbero un ruolo di primo piano. Già nelle lotte per l’applicazione dei decreti Gullo la loro presenza era stata significativa; nel 1949-50 essa fu ancora più importante. Ciò fu dovuto, in buona parte, al lavoro propagandistico ed organizzativo portato avanti daipartiti della sinistra (soprattutto dal PCI), i quali – richiamandosi all’antica tradizione dei Fasci delle lavoratrici del 1893 – dedicarono grande attenzione al mondo femminile. Nel secondo dopoguerra le iscritte al Partito comunista, alle camere del lavoro, alla Federterra, crebbero di anno in anno (alla fine degli anni ’40 le iscritte al PCI erano 24.000; J. Calapso, 1980, p. 234); si formarono decine di dirigenti comuniste (48) e, quasi in ogni paese, nelle organizzazioni sindacali vi erano delle responsabili femminili. Fu costituita anche l’Associazione donne della campagna. Ecco la testimonianza di Maria Domina, la quale nel 1949 abbandonò l’Azione Cattolica per il PCI – ritenendo il programma agrario comunista più avanzato di quello democristiano – e divenne una coraggiosa dirigente sindacale:
“(A Castellana Sicula, N.d.a.) La festa dell’Unità precedeva di un giorno l’occupazione del feudo Vanella, e l’abbiamo preparato con decine di riunioni in tutto il comune per parlare con le donne e le ragazze che mai si erano avvicinate al movimento. Si discuteva sì di riforma agraria ma anche del lavoro che sin da allora le ragazze desideravano, della politica di pace e della stampa comunista.
L’indomani della festa dell’Unità, quando il corteo parte verso il feudo, ci sono le vecchie compagne ma ci sono decine e decine di giovani ragazze che partecipano a tutte le occupazioni della terra del novembre 1949 e del marzo 1950 senza intimorirsi mai né della polizia né degli arresti” (in P. La Torre, 1980, p. 142).
Le donne, addirittura, stavano in capo ai lunghi cortei, “e spesso (facevano) da siepe umana alla forza pubblica, impedendole di intervenire o divenendo la prima trincea da travolgere” (F. Renda, 1990c, p. 301) (49).
Nei primi giorni di occupazione le forze di polizia non intervennero. Troppo viva era la commozione per i morti di Melissa. Non era ancora chiara, inoltre, la reale portata di questa nuova ondata di lotte contadine.
Le agitazioni andarono avanti per diversi giorni e si estesero a macchia d’olio. Nella provincia di Palermo, dai dodici comuni iniziali il movimento per la terra si estese a trenta comuni. Nelle altre province siciliane non vi fu lo stesso livello di organizzazione e preparazione; la strage di Melissa, comunque, spinse anche qui i dirigenti contadini all’azione sui campi.
La dimensione e l’impetuosità assunte dal movimento spinsero il Governo (su pressione dei proprietari terrieri) a prendere dei provvedimenti. Il seminare le terre abbandonate fu considerato un attentato alla proprietà, mentre non fu dato alcun valore al principio della funzione sociale di quest’ultima, sancito dalla Costituzione italiana.
“Si esercitò ogni forma di intimidazione contro i dirigenti locali per farli desistere dall’occupazione delle terre (…) In diversi comuni si ricorse alla denunzia e anche all’arresto dei dirigenti locali e di qualsiasi dirigente provinciale che mettesse piede nei paesi.
Si arrivò a generalizzare la pratica del <<foglio di via obbligatorio>> nei confronti dei dirigenti provinciali. Appena uno di loro arrivava in paese con la corriera trovava in piazza il maresciallo dei carabinieri che gli notificava il foglio di via (come se si trattasse di un pericoloso delinquente).
Sembra che il ministro dell’interno, Mario Scelba, si vantasse di aver suggerito personalmente quell’espediente che violava la costituzione” (P. La Torre, 1980, p. 41).
Per bloccare la marcia dei contadini verso i feudi, le forze dell’ordine, all’alba, creavano degli sbarramenti alle porte dei paesi. Gli occupanti, però, senza perdersi d’animo, scioglievano il corteo; formavano dei piccoli gruppi; e raggiungevano le terre attraversando trazzere e scorciatoie sconosciute ed impraticabili dalla polizia.
In qualche caso, polizia e carabinieri si recavano direttamente sui fondi per cacciarne i contadini. Ma questi, per tutta risposta, si disperdevano nelle campagne e andavano ad occupare altre terre. Purtroppo, si registrarono pure arresti di contadini (anche donne; v. P. La Torre, pp. 174-175), e atti di repressione violenta.
Uno degli episodi più gravi dell’autunno 1949 si verificò nelle campagne intorno a San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo. In questa zona il movimento contadino dopo i primi giorni di lotta si era dovuto fermare, poiché le forze dell’ordine avevano arrestato i dirigenti locali, i funzionari comunisti e circa 50 contadini. Nonostante questo, in questi due comuni vi era ancora la volontà di continuare a lottare, anche perché bisognava completare la semina del feudo Pernice, rimasta a metà. Così la Federazione comunista di Palermo, che non voleva assolutamente cedere di fronte all’azione coercitiva della polizia, decise di inviare sul posto un nuovo funzionario per ridare fiducia alle masse rurali e riorganizzare il movimento. Si decise, quindi, di riprendere la lotta.
All’alba del giorno stabilito per l’occupazione effettiva del feudo Pernice, i contadini, per non dare nell’occhio alla polizia, uscirono alla spicciolata dai due paesi. Ben presto, a valle di San Cipirello, si riunirono migliaia di uomini, donne e ragazzi, con i loro animali ed attrezzi da lavoro. Giocoforza, questa moltitudine attirò l’attenzione dello squadrone di carabinieri ed agenti che stazionavano permanentemente in quei due comuni (per tenerne a bada il forte movimento democratico). Così, in aperta campagna, la marcia verso il feudo Pernice fu arrestata da un compatto schieramento di militari a cavallo. Ma i contadini, invece di ritornare alle proprie case, avanzarono. Lo scontro fu inevitabile. Senza alcun preavviso, lo squadrone si lanciò sulla folla inerme.
“Furono buttati a terra e calpestati uomini e donne, in poco tempo si verificò un pandemonio: animali che fuggivano non più controllati, sementi a terra, grida di donne” (testimonianza di Vito Tornambè, in P. La Torre, 1980, p. 168).
L’assalto si concluse con l’arresto di numerosi contadini (uomini e donne), che rimasero all’Ucciardone per 18 giorni.
Comunque, nonostante le intimidazioni e gli attacchi del blocco mafia-agrari-DC, nell’autunno 1949 i contadini siciliani riuscirono a seminare diverse migliaia di ettari di terra (nella sola provincia di Palermo, più di tremila ettari; P. La Torre, 1980, p. 42).
Nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio, a causa del clima rigido, il movimento di occupazione dei feudi si fermò. I dirigenti contadini approfittarono della pausa stagionale per organizzare le lotte primaverili.
All’inizio del marzo 1950, le occupazioni ripresero con ancora più vigore, e interessarono un maggiore numero di centri rurali. Puntualmente, purtroppo, ripresero anche i provvedimenti di polizia. Qualche volta, l’elevato numero degli occupanti, e la loro ostinazione, scoraggiarono la P.S. dall’intervenire (50). Altre volte, la repressione si scatenò furiosa, e numerosi furono gli arresti. Tra questi, ci sembra il caso di segnalare quelli effettuati sul fondo Saganà e a Bisacquino.
Il fondo Saganà “era stato la <<fortezza>> della banda Giuliano” (P. La Torre, 1980, p. 52). Pertanto, assumeva un significato particolare il fatto che i contadini di Partinico, Montelepre, Giardinello e Carini – “spezzando il dominio mafioso” (P. La Torre, 1980, p. 52) – l’avessero occupato.
“Ebbene, contro di loro si scatenò la repressione. A decine furono arrestati e portati in massa all’Ucciardone (…)” (P. La Torre, 1980, p. 52).
Tra i feudi presi di mira dai contadini nella primavera del 1950, uno dei più estesi era quello di Santa Maria del Bosco (di circa duemila ettari), situato tra i comuni di Bisacquino, Contessa Entellina e Giuliana. La mattina del 10 marzo, da ciascuno di questi paesi partì un corteo per la conquista, congiunta, di detto feudo. Pio La Torre guidava il corteo di Bisacquino, il quale era lungo quasi cinque chilometri e contava circa seimila persone, “che marciavano come un esercito pacifico, ma fermo nelle intenzioni” (P. La Torre, 1980, p. 51). Giunti sul luogo, gli occupanti misurarono il terreno; lo divisero in lotti di un ettaro; e fissarono i confini. Nel tardo pomeriggio, sulla via del ritorno, i contadini di Bisacquino furono sorpresi da un’imboscata delle forze dell’ordine. Un gruppo di carabinieri si avvicinò alla testa del corteo per strappare le bandiere dalle mani delle donne. Ma queste reagirono vivamente. Ne seguì un gran parapiglia . Ecco il drammatico racconto di Pio La Torre (1980, pp. 53-54):
“Dalla massa dei contadini partì una sassaiola contro i carabinieri, e a quel punto il commissario Panico diede ordine di sparare. Seppi dopo che molti compagni riportarono ferite da arma da fuoco. I contadini si dispersero. Rimase sul terreno in una pozza di sangue il bracciante Salvatore Catalano nato a Bisacquino nel 1913. Egli venne colpito da una pallottola alla spina dorsale, e da allora è rimasto invalido per le lesioni riportate (…) Gli altri feriti non si fecero ricoverare in ospedale per il timore di montature poliziesche contro di loro”.
I contadini, seppur disarmati, reagirono con forza all’imboscata, continuando a lanciare sassi contro gli agenti ed i carabinieri. La battaglia durò a lungo, e entrambe le parti si abbandonarono ad atti inconsulti. Sempre Pio La Torre (1980, p. 54):
“Ho assistito a cose terribili. Ho impedito fisicamente ad un gruppo di contadini nascosti dietro a un macigno di uccidere un carabiniere a colpi di zappa (…) Il mio fermo atteggiamento evitò che i contadini uccidessero o mutilassero degli agenti”.
A conclusione degli scontri, centinaia di uomini e donne furono arrestati. Tra questi il giovane dirigente comunista palermitano, il quale rimase all’Ucciardone per un anno e mezzo. Durante la sua prigionia – e precisamente nel febbraio 1951 – inviò una lettera al segratario della Federazione comunista di Palermo, Paolo Bufalini. Tra le altre cose, gli scrisse:
“In questi ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola: da Miraglia, a Li Puma, a Rizzotto, a Cangelosi” (cit. in E. Berlinguer, 1982, p. 49):
Purtroppo, la tragica – e lunga – lista dei siciliani morti nella lotta contro la mafia, un giorno – il 30 aprile 1982 – avrebbe contenuto anche il nome di Pio La Torre, “caduto per quegli stessi principi che allora annunciava, alla vigilia del 35° anniversario della strage di Portella della Ginestra” (E. Berlinguer, 1982, pp. 49-50).
In Sicilia il bilancio degli interventi della polizia e della magistratura nelle lotte del 1949-50 fu il seguente: 3.185 contadini furono denunziati e processati; furono comminati 293 anni e 6 mesi di reclusione e 7.543.280 lire di multa (dati pubblicati, alla fine del 1953, dal Comitato regionale di solidarietà democratica; cit. in F. Renda, 1990c, p. 300).
Nonostante la dura repressione, il movimento contadino – che interessò un pò tutta la Nazione – si impose. In qualche località siciliana i contadini riuscirono a mietere il grano che avevano seminato. Ma il risultato più importante fu quello di aver innescato un irreversibile processo di rinnovamento. Il Governo ed il Parlamento, infatti, furono messi nella condizione di non poter negare una risposta legislativa alle masse rurali in rivolta.
11. LA RIFORMA AGRARIA: FINALMENTE IL MOVIMENTO CONTADINO… VIENE SCONFITTO!
Negli anni 1948-49 la politica governativa nazionale in campo agrario era stata caratterizzata dall’esclusione della riforma agraria (rivendicata dalle sinistre), dalla promozione della piccola proprietà contadina – finanziata dallo Stato – e dal potenziamento delle opere di bonifica. Lo stesso indirizzo era stato seguito dalla maggioranza di centro-destra che governava la Sicilia. Di fatti, il decreto legislativo nazionale 24 febbraio 1948 n. 114, sulla formazione della piccola proprietà contadina, era stato recepito e reso applicabile sul territorio regionale con decreto legge del Presidente della Regione 26 giugno 1948 n. 14, ratificato con legge regionale 30 giugno 1949 n. 17 (v. F. Renda, 1990c, pp. 330-331).
Tuttavia, l’irrompere sulla scena dei contadini poveri del Mezzogiorno, dei mezzadri della Toscana, dell’Emilia e della Lombardia, e dei braccianti della Valle Padana, fece saltare il programma agrario moderato del ministero De Gasperi. La forza del movimento contadino del 1949-50 stette nell’ampiezza del fronte di lotta, che si estese appunto dalla Lombardia alla Sicilia; nella contemporaneità tra occupazioni di terre al Sud e scioperi al Nord; e nella sua natura rivendicativa – e non già rivoluzionaria – concretatasi nella chiara richiesta della riforma agraria generale.
Ma a spingere il Governo sulla strada delle riforme non fu tanto la necessità di venire incontro alle esigenze dei contadini quanto la volontà di sottrarre questi ultimi alla influenza comunista.
“Nel proposito degasperiano (…) la riforma agraria fu una ampia quanto audace manovra volta a parzialmente accogliere le rivendicazioni contadine, e ciò al precipuo fine di recuperare nuova fiducia al suo partito e al suo governo, e togliere quanto più consenso possibile al comunismo (…) I comunisti usavano la riforma agraria come arma per aggredire il fronte governativo. Il problema era di strappar loro quello strumento d’offesa, e utilizzarlo a fini anticomunisti (…) dimostrando ai contadini che non occorreva essere comunisti per avere la terra” (F. Renda, 1990c, p. 332).
Il 5 aprile 1950, il Governo nazionale presentò alla Camera dei deputati un disegno di legge sulla riforma agraria generale. Seguirono, il 12 maggio, l’approvazione della cosiddetta <<legge Sila>> – limitata alla Calabria – e, il 21 ottobre, l’approvazione della cosiddetta <<legge stralcio>> di riforma agraria, la cui efficacia era estesa a tutte le regioni meridionali (Sicilia compresa).
La destra agraria siciliana – che faceva parte della maggioranza governativa regionale ma era all’opposizione nel Parlamento nazionale – si sentì tradita dalla Democrazia cristiana. A quel punto l’unica cosa da fare per limitare il danno era quella di
“evitare che in Sicilia in tema di riforma agraria legiferasse il Parlamento nazionale (cioè la DC non condizionata dalle destre) invece che l’Assemblea regionale (la DC al governo assieme con le destre)” (F. Renda, 1990c, p. 333).
Fu per questo che, il 7 giugno 1950, il Governo regionale – presieduto da Franco Restivo – presentò all’Assemblea un proprio disegno di legge di riforma agraria, che – dopo un durissimo scontro politico tra le forze di centro-destra e quelle di sinistra, conclusosi con il voto favorevole delle prime ed il voto contrario delle seconde – divenne la legge regionale 27 dicembre 1950 n. 104. Questa stabiliva: l’esproprio dei terreni superiori ai 200 ettari (escluse le aree boschive), e la loro assegnazione in proprietà ai contadini; l’obbligo della trasformazione colturale in senso intensivo dei terreni tra i 100 e i 200 ettari.
A spingere il deputati del Blocco del Popolo ad esprimere voto contrario al provvedimento legislativo fu la mancata considerazione, da parte di questo, del patrimonio sociale ed economico del movimento cooperativo siciliano. Ad esempio, per quanto riguardava il sistema di assegnazione delle quote di terra ai contadini, la riforma agraria regionale prevedeva il sorteggio individuale generalizzato, secondo quanto proposto dalla DC e dai suoi alleati; le sinistre, invece, si erano battute affinché alla assegnazione partecipassero anche le cooperative. Ed ancora, la legge n. 104 disponeva lo scioglimento di tutti i rapporti agrari pendenti – sia individuali che collettivi – sui fondi espropriati; e riconosceva ai proprietari terrieri la possibilità di scegliere quali fondi conferire agli Enti per la riforma agraria. Ovviamente, i proprietari conferirono i terreni peggiori (lontani dai centri abitati e pietrosi) che erano anche quelli che avevano già concesso alle cooperative agricole, le quali furono, pertanto, espulse senza alcun risarcimento. Quanto poi alle terre non soggette ad esproprio ma ad opere di miglioramento, i proprietari erano sì tenuti a presentare dei piani particolari di trasformazione, ma era data loro facoltà di chiedere la risoluzione dei contratti agrari in corso nonché delle eventuali concessioni a cooperative. Come se non bastasse, agli assegnatari era negato il diritto di associarsi in cooperative liberamente costituite, obbligandoli a far parte di cooperative dirette dai burocrati (per lo più corrotti) dell’Ente di Riforma Agraria Siciliana (ERAS), all’interno delle quali ai contadini non era riconosciuto alcun potere decisionale. (51)
Tutto ciò dimostrava chiaramente che il reale disegno politico delle forze conservatrici che avevano approvato la legge siciliana di riforma agraria – che le sinistre soprannominaroro <<controriforma agraria>> – era il seguente: smantellare il sistema cooperativistico volontario; isolare i contadini poveri (tradizionalmente iscritti alle organizzazioni comuniste) trasformandoli in piccoli proprietari (di terreni per lo più scadenti); indebolire il movimento contadino diretto dalle sinistre.
Nonostante la natura moderata di questa riforma, gli agrari fecero di tutto per sabotarla. Aiutati dall’astuzia dei propri avvocati e dalla connivenza della magistratura (v. G. Di Lello, 1994, p. 56), essi scatenarono la cosidetta <<guerra della carta bollata>>, volta, per l’appunto, a bloccare l’attuazione della legge. Ci riuscirono per ben quattro anni, durante i quali in Sicilia non fu assegnato neanche un ettaro di terra (v. Pio La Torre, 1980, p.78).
Il fatto che, per tutto questo tempo, i proprietari terrieri riuscirono ad influenzare così fortemente l’Assessorato dell’Agricoltura e l’Ente di Riforma Agraria si spiega facilmente. Il personale di queste due istituzioni “era stato assunto con i peggiori metodi del clientelismo privilegiando alcuni rampolli delle più note famiglie mafiose. Le connivenze, pertanto, diventarono un fatto normale” (Aa. Vv., 1976, p. 36).
Nel frattempo, per sottrarsi all’espropriazione delle proprie terre – per le quali avrebbero avuto un indennizzo pari al 40% del loro valore di mercato – gli agrari misero in pratica un altro sistema, ancora più incisivo: lottizzarono i propri feudi e, violando la legge di riforma agraria, ne misero in vendita una buona parte. In realtà, i proprietari avevano iniziato a vendere già nel 1948, in seguito alla promulgazione della legge per la formazione della piccola proprietà contadina; questa permetteva loro di alienare anche i terreni che avevano concesso alle cooperative e prevedeva un aiuto finanziario – da parte dello Stato – per i contadini che non avevano denaro sufficiente. Queste facilitazioni creditizie e la disponibilità sul mercato di una quantità di terra sempre maggiore, suscitarono una sorta di corsa all’acquisto, alimentata, ovviamente, dalla impazienza dei contadini di divenire proprietari. Questa febbre contagiò anche i
militanti del movimento contadino, benché le organizzazioni di sinistra invitassero caldamente a non comprare e ad aspettare che venisse attuata la riforma agraria.
Si ebbe, di conseguenza, un rialzo incredibile dei prezzi (fino a 5, 6 volte il prezzo stabilito dalla legge di riforma); ma questo non fermò l’ascesa della domanda di terra. Il risultato fu che, soprattutto tra il 1948 ed il 1955, gli agrari realizzarono un enorme guadagno. Nel complesso, 80.000 siciliani acquistarono (o ottennero in concessione enfiteutica) circa 400.000 ettari di terra (F. Renda, 1990c, p. 339); il corrispettivo finanziario fu pari a 30 miliardi dell’epoca, che corrispondono ai 600 miliardi di adesso (M. Genco, 1996, p. 5).
Non tutto il denaro sborsato dai contadini (in prevalenza medi e ricchi) per acquistare la terra finì nelle tasche dei proprietari. Una buona parte di quei 30 miliardi fu rastrellata dagli intermediari mafiosi (cfr. S. Lupo, 1993, p. 166). Costoro acquistarono i fondi dai proprietari a 150-200 mila lire l’ettaro; tennero per sé le parti migliori; e nel giro di qualche giorno rivendettero il resto a 300-400 mila lire l’ettaro.
La fine del latifondo in Sicilia, dunque,
“avvenne attraverso un processo contraddittorio. Da un lato venne ritardata e distorta l’attuazione della legge di riforma agraria, dall’altro si realizzò l’operazione vendita delle terre che offrì nuovo campo di attività alla mafia” (P. La Torre, 1980, p. 80).
Le sinistre, intanto, per resistere e reagire a questa “colossale truffa” (Aa. Vv., 1976, pp. 36-37) attuata da proprietari e mafiosi contro i contadini siciliani, oltre ad ammonire questi ultimi – inutilmente – a non comprare, organizzarono, nell’autunno del ’54, delle manifestazioni di protesta che “travol(sero) definitivamente le resistenze e costrin(sero) il governo a porre mano agli scorpori” (P.La Torre, 1980, pp. 80-81) e ad applicare, finalmente, la riforma agraria.
Furono espropriati 115.280 ettari di terra; ne furono assegnati ettari 93.075 (dati INEA, in F. Renda, 1976, p. 84). Finalmente anche migliaia di braccianti e di contadini poveri poterono avere <<la roba>>. Le famiglie assegnatarie furono 23.043. A ciascuna di esse toccò un podere di modesta estensione (3 o 4 ettari) e di mediocre qualità (vista la facoltà concessa agli agrari di scegliere quali terreni conferire all’ERAS).
Tirandolesomme,neglianniCinquantainSicilia 500.000
ettari di terra (il 20% della superficie agraria e forestale e i 2/3 della grande proprietà fondiaria) cambiarono padrone. Per 4/5 il trasferimento di proprietà avvenne sul libero mercato, spesso con l’intermediazione della mafia ed a prezzi altissimi. Il rimanente quinto fu concesso dall’ERAS (tramite sorteggio tra i contadini che ne avevano fatto richiesta) in applicazione della legge regionale di riforma agraria.
La legge 104 del 27 dicembre 1950, dunque, portò alla quasi totale scomparsa del latifondo. Ma ciò, paradossalmente, più che il risultato della sua attuazione fu il risultato degli stratagemmi posti in essere dagli agrari per sottrarsi ad essa. Per di più, non tutta la terra degli ex-feudi passò in mano ai contadini. Migliaia di ettari finì per ingrossare i possedimenti del ceto medio agrario e, in particolar modo, della mafia. Questa, lungi dallo scomparire insieme al latifondo – come teorizzato dalle sinistre ed auspicato dal movimento contadino – seppe sfruttare al meglio (come, del resto, era solita fare) il rivolgimento economico in corso. Ecco cosa scrive Francesco Renda (1993, p.26), che, lo ricordiamo, fu tra i protagonisti delle lotte agrarie di quegli anni:
“(…) si partiva dal convincimento, da un’ipotesi teorica sbagliata, che la mafia fosse un residuo feudale, un prodotto del latifondo e della arretratezza dei rapporti di produzione nelle campagne; che perciò bastava distruggere il latifondo, modificare i rapporti agrari ingiusti ed arretrati, perché, venute meno le condizioni materiali di esistenza della mafia, scomparisse anche la mafia. Ed invece il latifondo è stato distrutto, ed è accaduto l’incredibile e cioè che sia stata la mafia a governare o a controllare e persino a trarre enormi vantaggi materiali e monetari da quel processo di trasformazione”.
Le equazioni latifondo = mafia, piccola proprietà = progresso sociale (v. S. Lupo, 1993, p.10) sono false. Innanzitutto, come sappiamo (v. 1° capitolo, pp. 28-29), sin dalle sue origini, la mafia è stata presente anche nella
rigogliosa Conca d’Oro (dove non esisteva il latifondo) e ha sfruttato anche i traffici commerciali di Palermo (cfr. R. Catanzaro, 1991, pp. 20-24). Inoltre, ripetiamo, non è vero che la mafia è un effetto dell’arretratezza economica e sociale ma, piuttosto, ne è una causa (52).
Con i miliardi realizzati negli anni ’50 con il mercato fondiario né gli agrari né i mafiosi seppero, o meglio vollero, creare nuove occasioni di sviluppo. I primi, “quando non dilapidarono, investirono nei terreni edificabili ed in operazioni finanziarie. I mafiosi investirono, naturalmente, nel malaffare (…)” (M. Genco, 1996, p. 5). Gli ex-campieri e gabelloti (primi fra tutti i Corleonesi) pensarono bene di concentrare le proprie energie nelle città (senza però abbandonare del tutto la campagna): comprarono aree edificabili e tutti i macchinari necessari per la speculazione edilizia; <<rinverdirono>> i propri rapporti con il mondo politico (locale e nazionale); si prepararono ad accaparrare buona parte degli appalti pubblici che – grazie all’istituzione del fondo di solidarietà nazionale (ex art. 38 dello Statuto regionale) e, nell’agosto 1950, della Cassa per il Mezzogiorno – sarebbero piovuti cospicuamente sull’Isola.
Un destino ben diverso fu quello dei centomila capifamiglia divenuti piccolo – o piccolissimi – proprietari, e dei numerosi contadini (quasi duecentomila;
cfr. F. Renda, 1990c, pp. 340-341) rimasti Senzaterra (53).
Chi aveva acquistato la terra a prezzi elevati ora non disponeva del denaro necessario per coltivarla. Chi l’aveva avuta in concessione dall’ERAS (con pagamenti dilazionati fino a trent’anni), vista la modesta estensione e la poca fertilità del suolo si rese presto conto che non ne avrebbe potuto ricavare di che vivere. Sia gli uni che gli altri, inoltre, furono abbandonati a sé stessi, mancando di una adeguata assistenza tecnica e finanziaria da parte dello Stato.
La riforma agraria si risolse in una riforma fondiaria, avendo comportato solo una distribuzione delle terre ma non anche un loro più razionale sfruttamento.
Si assisté, di conseguenza, alla nascita del cosiddetto <<latifondo contadino>>:
“formato da piccole unità poderali, in cui prevalgono le colture estensive, richiedenti cure discontinue con limitatissimo impiego di capitale e metodi di produzione primitivi. Particolarmente nelle zone asciutte, i contadini divenuti proprietari, non avevano alcuna possibilità di effettuare miglioramenti e trasformazioni colturali, e non riuscirono ad evadere dal circolo vizioso del ristagno, dal momento che il reddito dei lotti era insufficiente per assicurare loro l’autonomia” (F. Ferrarotti, 1978, p. 270).
Il movimento contadino ne uscì, in realtà, sconfitto. Ciò significò, tra l’altro,
“la rottura della più importante rete di <<solidarietà sociale allargata>>, la fine di un progetto collettivo, di una speranza di riscatto sociale raggiungibile attraverso la lotta politica in un contesto democratico” (T. Perna, 1994, p. 69).
Il PSI ed il PCI – seguendo ormai una “strategia nazionale di ampio consenso elettorale, rivolta tanto ai lavoratori agricoli quanto ai loro padroni” (A. Blok, 1986, pp. 202-203) – non seppero consolidare la battaglia per la terra e trasformare il movimento popolare del Mezzogiorno in una “rivoluzione più vasta, che avrebbe potuto modificare radicalmente la struttura della società meridionale” (A. Blok, 1986, p. 203) (54).
Ai piccoli proprietari in crisi ed ai Senzaterra non rimase che una strada da percorrere: l’emigrazione. Nel ventennio 1950-70 un milione di siciliani – vale a dire un quinto della popolazione isolana – lasciarono la propria <<terra>> (386.000 nel decennio ’51-61, 624.000 nel decennio ’61-71; F. Renda, 1990c, p. 476) in cerca di maggiore fortuna nell’Italia settentrionale o all’estero. A questi vanno aggiunti coloro i quali, pur rimanendo all’interno dell’Isola, si trasferirono dall’entroterra verso le coste e, di preferenza, verso le città (tra il ’51 ed il ’61 la popolazione di Palermo crebbe di 100.000 abitanti (55) ). Questo movimento demografico interno animò il mercato edilizio cittadino, che divenne particolarmente appetibile per le cosche mafiose.
La grande ondata migratoria di quegli anni è la prova più evidente
“della sconfitta delle lotte contadine, del sostanziale
fallimento della riforma agraria, obiettivo primario di quelle lotte, e della crisi finale del mondo contadino e di una società agraria in cui la mafia aveva solide radici, pur non essendo mai stata esclusivamente agraria”. L’emigrazione, svuotando le campagne siciliane, eliminò “l’antagonista storico della mafia, cioè il movimento contadino, sgombrando definitivamente il campo dalle lotte per il rinnovamento sociale delle campagne, e questo è, obiettivamente, un grande vantaggio per la mafia, che sposta i suoi interessi sempre più dal feudo alla città, non perché è stata sconfitta e scacciata dalle campagne, ma unicamente perché gli interessi legati alla terra tendono ad avere un’importanza sempre minore” (G. Chinnici, U. Santino, 1991, p. 227).
12. GLI ULTIMI CADUTI DEL MOVIMENTO CONTADINO ANTIMAFIA
Anche dopo l’approvazione della riforma agraria, le campagne dell’entroterra siciliano si bagnarono del sangue di contadini e sindacalisti che, a livello locale, lottavano, ancora, per condizioni di vita migliori. Segno, questo, che la mafia, pur seguendo l’urbanizzazione della società siciliana, continuava a mantenere il tradizionale controllo sulle zone rurali.
Il 7 agosto 1952, a Caccamo – un grosso comune agricolo e mafioso in provincia di Palermo – il contadino comunista Filippo Intile fu ammazzato a colpi di accetta. Egli aveva <<osato>> dividere i prodotti del terreno che aveva a mezzadria a 60% e 40% (come stabilito dal decreto Gullo n. 311) e non a 50% e 50% (come stabilito dal concedente mafioso). Per il delitto furono arrestati due uomini; ma furono rilasciati dopo sei mesi, poiché prosciolti in istruttoria. In quel periodo, il capomafia del circondario era don Peppino Panzeca (che, per qualche tempo, è stato anche a capo della Commissione provinciale mafiosa), fratello dell’arciprete di Caccamo, don Teotista, anch’egli mafioso. Don Peppino teneva in pugno, tramite i consiglieri della DC (in fortissima maggioranza), il Consiglio comunale di Caccamo. Il suo potere arrivava al punto che, pur non essendo consigliere comunale (avendo la fedina penale sporca non poteva essere eletto), egli partecipava sovente alle riunioni consiliari, prendendo posto accanto al Sindaco, in una poltrona a lui riservata (questa poltrona sarebbe stata tolta solo nel 1962, in seguito alla elezione di quattro consiglieri comunisti) (56).
Il 16 maggio 1955, a Sciara – un paesino distante appena tre chilometri da Caccamo – un socialista di 32 anni, Salvatore Carnevale, fu ucciso dalla mafia della zona per via della sua attività sindacale in favore dei contadini poveri, dei mezzadri, dei cavapietre (v. R. Siebert, 1994, pp. 269-270). Ecco cosa raccontava allo scrittore Carlo Levi chi aveva frequentato di persona il giovane sindacalista:
“(…) Era uno dei migliori, un vero capo contadino (…) Fu lui a fondare la sezione socialista di Sciara, nel ’51, e a mettere in piedi la Camera del lavoro. A Sciara non c’era mai stato nulla, nessun partito, nessuna organizzazione per i contadini, niente mai. Era un paese feudale (…) E’ un paese poverissimo, naturalmente (…) in mano alla mafia. Non è un grosso centro di mafia come Caccamo, Termini, o Trabia o Cerda che le stanno tutto attorno, perché è poco più di un villaggio. Ma quei pochi mafiosi sono i padroni e fanno la legge (…) Carnevale fu il primo, e mosse ogni cosa con l’esempio e con il coraggio. Perché aveva una mente chiara, e capì che non si può venire a patti, che i contadini dovevano muoversi con le loro forze, che il contadino per vivere deve rompere con la vecchia struttura feudale, non può accettare neppure il minimo compromesso. Capì che l’intransigenza è, prima che un dovere morale, una necessità di vita, e che il primo passo è l’organizzazione, e che ci si può fondare e appoggiare soltanto sulle organizzazioni che non hanno nulla a che fare con il potere (…) L’ha pagato con la vita (…)” (57).
La madre di <<Turiddu>>, Francesca Serio, fu “una delle prime donne ad aver sfidato l’arroganza mafiosa col ricorso alla giustizia” (R. Siebert, 1994, p. 269). Con grande coraggio, indicò per nome gli assassini del figlio, e – assistita da Sandro Pertini – si costituì parte civile al processo. I quattro mafiosi incriminati – difesi da un altro futuro presidente della Repubblica, Giovanni Leone – in prima istanza furono condannati all’ergastolo; ma nel processo di appello furono assolti per insufficienza di prove.
Il 13 agosto 1955 fu ucciso un altro sindacalista, Giuseppe Spaguolo, sindaco di Cattolica Eraclea (Agrigento) (U. Santino, 1995, p. 42).
Il 20 settembre 1960 cadde, sotto i colpi della lupara,
Paolo Bongiorno, segretario della Camera del lavoro di Lucca Sicula (Agrigento) e dirigente locale del movimento contadino.
“La vittima era stata inclusa nella lista del PCI per le imminenti elezioni amministrative. La lista contrapposta raggruppava elementi della DC e del MSI. Gli assassini non sono mai stati scoperti” (Aa. Vv., 1976, p. 194).
Il 24 marzo 1966, a Tusa (Messina) fu ucciso Carmelo Battaglia, assessore al patrimonio – in una giunta di sinistra – al comune di Tusa, e dirigente sindacale.
Questo omicidio, avvenuto a tre anni dall’insediamento della Commissione parlamentare antimafia (avvenuto in seguito alla strage di Ciaculli (58)), <<svelò>> l’esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune: la provincia, <<babba>>, di Messina.
In realtà, nel lembo occidentale della provincia, confinante con le province di Palermo ed Enna, e comprendente buona parte della catena dei Nebrodi, già da tempo si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle <<zone di mafia>> (estorsioni, abigeati, danneggiamenti, attentati) (59).
Negli ultimi dieci anni (1956-66), si erano registrati ben 12 omicidi, tutti consumati in un territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio, che fu soprannominato il <<triangolo della morte>> (v. G. Messina, 1995). Dietro questi delitti vi era la <<mafia dei pascoli>>, e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell’economia allevatoria dei Nebrodi. L’assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue. Ma, a differenza delle altre vittime, il sindacalista era stato assassinato perché si era apertamente, e legalmente, ribellato all’ordine costituito, promuovendo, nel suo paese, un movimento organizzato di contadini e pastori.
Brevemente, i fatti. Carmelo Battaglia era stato uno dei soci fondatori della cooperativa <<Risveglio Alesino>> di Tusa, nata nel 1945 per la concessione delle terre incolte. Nel 1965,i contadini e coltivatori soci di questa cooperativa, insieme a quelli soci della cooperativa <<S. Placido>> di Castel di Lucio, erano riusciti ad acquistare, dalla baronessa Lipari, il feudo Foieri, di 270 ettari. Subito dopo l’immissione nel possesso del fondo, sorsero forti contrasti con il gabelloto comm. Giuseppe Russo – ex vice-sindaco DC di Sant’Agata di Militello – e con il sovrastante Biagio Amata, che avevano avuto in gestione il feudo fino ad allora. Costoro pretesero dai nuovi proprietari la cessione di una parte dell’ex-feudo, per farvi svernare i propri armenti. Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa <<Risveglio Alesino>> e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia.
L’assessore socialista – che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini – fu ucciso all’alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo Foieri. Gli assassini non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra. Il giornalista Felice Chilanti scrisse:
“uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso (in M. Ovazza, 1993, p. 19).
Dunque,
“(…) chiunque sia stato a sparare, ha siglato il delitto con lo stile inconfondibile, solito degli assassini dei Carnevale, dei Li Puma, dei Cangelosi, dei Rizzotto, dei Miraglia, dei capilega e degli organizzatori del movimento operaio e contadino in Sicilia; (…) il delitto ha chiaro il segno dell’odio secolare contro chi è fermo nel perseguimento di pertinaci obiettivi di giustizia e di rigenerazione sociale; la sanguinaria imprecazione contro colui che partecipa più attivamente alla rivolta organizzata dalle masse contro lo sfruttamento e il privilegio, contro chi osa opporsi ad una condizione passiva della miseria siciliana e contribuisce a trasformarla in una carica di lotta sistematica e irrefrenabile; c’è ancora più chiara la volontà primitiva di ammonire, di costringere a desistere chi, continuando a lottare, è protagonista temibile, <<pericoloso>>,e preferisce non sottrarsi alla vendetta della lupara, sempre possibile, sempre eventuale, come fragorosa ed anonima difesa di un’ordine di vergogne sociali da rispettare” (M. Ovazza, 1993, p. 20).
L’omicidio di Carmelo Battaglia e i 12 omicidi consumati precedentemente nel <<triangolo della morte>> rimasero impuniti.
NOTE AL CAPITOLO QUARTO
(1) – Cfr. G. Di Lello, 1994, p. 37 e F. Renda,1990c, p.15 e p. 21.
(2) – V. F. Renda, 1994, pp. 78-79; U. Santino, 1994b, p. 134; S. Lupo, 1993, pp. 158-159.
(3) – Inchiesta parlamentare sulla criminalità organizzata, disposta dal Senato americano, nota per il rapporto conclusivo redatto nel 1951 dal presidente del Senate Crime Investigating Committee, senatore Estes Kefauver (cfr. F. Renda, 1990c, p. 94).
(4) – Il sicilianismo “è stata un’ideologia mafiosa o filomafiosa confezionata e sciorinata ogniqualvolta gli interessi delle classi conservatrici, in primo luogo dei proprietariterrieri e degli affittuari dei latifondi (gabelloti), venivano minacciati, per cui s’innalzava la bandiera della Sicilia calpestata da <<quelli del Nord>>, minimizzando o negando la stessa esistenza della mafia. Ciò avvenne con l’ondata di reazioni all’inchiesta privata di Franchetti e Sonnino del 1876, si ripetè in occasione dello scalpore suscitato dal processo per l’assassinio del direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo (1893) ed ebbe la sua fase di maggiore virulenza nella vicenda separatistica degli anni ’40” (U. Santino, 1994a, p.327).
(5) – “All’interno della indifferenziata schiera di separatisti, con il cuore rivolto alla <<patria>> siciliana e con la mente concentrata sui loro interessi, stanno i grandi agrari per i quali l’indipendenza ha un senso solo se garantirà i reali rapporti di forza esistenti nelle campagne: il governo centrale, con i socialcomunisti dentro, con la minaccia della riforma agraria e con i decreti Gullo (…) non promette nulla di buono in tal senso e, pertanto, la carta indipendentista merita di essere giocata sino in fondo in una prospettiva rigidamente conservatrice” (G. Di Lello,1994, p. 40).
(6) – Cfr. G. Falzone, 1975, p. 256 e F. Renda, 1990c, p. 222.
(7) – Pochi giorni dopo l’arresto dei tre dirigenti, e precisamente il 16 ottobre 1945, la banda dei niscemesi
uccise – in un conflitto a fuoco nei pressi di Niscemi – tre carabinieri. Ma questo fu soltanto uno dei primi tragici episodi compiuti in nome del separatismo.
(8) – In una serie di articoli pubblicati all’inizio del 1946, i giornalisti del settimanale <<Chiarezza>>, diretto da Salvatore Francesco Romano, sostennero che il reale disegno politico di questi avvenimenti era più complesso di quel che potesse apparire. Secondo loro, tali attentati rappresentavano una sorta di ricatto nei confronti dello Stato italiano affinché in Sicilia non fossero intaccati i tradizionali equilibri di potere. Per cui, veniva agitato lo spauracchio del separatismo per ottenere, quanto meno, un’autonomia regionale che consentisse alle forze della reazione (e alla mafia) di continuare a spadroneggiare. I giornalisti di <<Chiarezza>> scrivevano che essi speravano si potesse presto “individuare la figura dei mandanti e i finanziatori del movimento. Essi appartengono alla classe che ha sempre dominato in Sicilia e che oggi (…) ha interesse a creare e a mantenere l’attuale stato di fatto, tentando di giocare l’ultima carta per forzare la mano al governo per la concessione di un’autonomia che ritardi all’infinito l’evoluzione economica delle classi lavoratrici siciliane. Palermo è al centro dell’attenzione, quindi, delle manovre della guerriglia, quella delle montagne e quella dei corridoi politici (…) Ci sono negli stessi organi politici che governano l’isola quei soliti <<amici>> che coprono i maneggi delle grandi classi feudali, dei grandi proprietari agrari e stabiliscono il legame più o meno cosciente tra gli uomini che quegli organi ancora dirigono e il separatismo” (<<Chiarezza>>, 20 gennaio 1946, cit. in S.F. Romano, 1963, p. 240).
Per queste denunzie i redattori del settimanale ricevettero alcune lettere contenenti minacce di morte. Una di queste lettere recava la firma di Salvatore Giuliano ed era indirizzata al direttore del giornale.
(9) – Nel 1866, per reprimere il brigantaggio, e nel 1894 per liquidare il movimento dei Fasci siciliani.
(10) – Nelle elezioni del 2 giugno, il MIS ottenne solo l’8,71% dei voti siciliani, e “si collocò nell’ordine come il quinto raggruppamento elettorale dopo la Democrazia cristiana, l’Unione democratica, il Partito socialista e l’Uomo qualunque (…)” (F. Renda, 1990c, p. 257).
(11) – Nella drammatica vicenda di Villalba si ritrovano alcune caratteristiche tradizionali dell’esercizio del potere mafioso. Ecco come le identifica la Federazione comunista di Caltanissetta in un memoriale, datato 7 gennaio 1964, indirizzato alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia:
“1) Azione violenta della mafia in difesa delle strutture agrarie esistenti, e aperta intimidazione rivolta ai partiti politici, alle organizzazioni sindacali ed ai lavoratori della terra che ponevano l’esigenza della concessione della terra ai contadini.
2) Debolezza – in qualche caso connivenza – dei pubblici poteri di fronte alla mafia (…)
3) Notevole capacità di intrigo e forza di pressione della mafia al punto di consentire ai responsabili della strage di non scontare nemmeno un solo anno di carcere e di riuscire ad ottenere persino la grazia del presidente della repubblica, per intercessione di forze politiche democristiane (in Aa. Vv., 1976, p. 182).
(12) – “A Palermo, in una sola giornata furono arrestati 108 trafficanti; nel catanese, a tutto novembre (1944, N.d.a.) le manette furono applicate ad oltre 2000 evasori” (F. Renda, 1990c, p. 141).
(13) – Secondo F. Renda (1990c, p. 156) i morti furono 26, i feriti 104.
(14) – “Il 14 raggiunse Zafferana; il 15 toccò Castel di Judica; il 16 Ramacca e Scordia; il 17 Pedara e Vizzini; altri centri coinvolti furono Raddusa, San Giovanni Galermo, San Michele di Ganzeria, Fiumefreddo, Giarre e Riposto (…)” (F. Renda, 1990c, p. 161).
(15) – “Palma Montechiaro, Canicattì, Naro, Santa Margherita Belice, Joppolo Giancaxio” (F. Renda, 1990c, p. 161).
(16) – Secondo J. Calapso (1980. p. 229) in provincia di Ragusa il bilancio di sangue fu il seguente: “18 morti e 24 feriti tra carabinieri e soldati; 19 morti e 63 feriti tra gli insorti”.
(17) – Cfr. O. Barrese, 1973, p. 11 e U. Santino, 1995, pp. 31-32.
(18) – “Avveniva che al momento di ritirare il prodotto dall’aia, il proprietario, o più spesso un suo scherano, si recava sul posto per chiedere al mezzadro se intendesse dividere all’antica, o piuttosto come dicevano i comunisti. Appena il mezzadro annunciava di voler dividere secondo i criteri della nuova legge, il padrone si dirigeva ai più vicini carabinieri e vi depositava una querela per appropriazione indebita, chiedendo l’intervento immediato della forza pubblica contro il mezzadro che intanto aveva cominciato a dividere applicando la legge. Il maresciallo dei carabinieri si recava sul posto, e se il mezzadro dimostrava tanto controllo di sè da subire in silenzio tutta l’operazione, la questione si concludeva con il sequestro della quota in contestazione. Se invece accadeva che il mezzadrosi abbandonasse a qualche inconsulto ma comprensibile atto di reazione, la vicenda si concludeva con il suo arresto e con il processo per oltraggio e resistenza alla forza pubblica. Ora è evidente che se nella migliore delle ipotesi, dopo 6 mesi o 1 anno, il pretore avesse giudicato e magari assolto il mezzadro incolpato di appropriazione indebita, e gli avesse restituito il prodotto sequestrato, i danni sofferti dal mezzadro erano pur sempre irreparabili. Solo le spese della causa superavano il valore del prodotto. Purtroppo vi furono anche moltissime sentenze di condanna per episodi di questo genere. Si ritenne cioè di frequente che il mezzadro che pretendeva di applicare la legge senza il previo ricorso al magistrato, si rendesse colpevole quanto meno di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (…) ” (N. Sorgi, “Lotte contadine in Sicilia”, in <<Il Ponte>>, maggio 1959, cit. in F. Renda, 1990c, pp. 192-193).
(19) – Per un’analisi più dettagliata dell’accordo sindacale v. F. Renda, 1990c, pp. 194-197.
(20) – Cfr. F. Renda, 1979, pp. 27-28 e F. Renda, 1990c, pp. 197-199.
(21) – V. S.G. Tarrow, 1972, pp. 216-219 e P. La Torre, 1980 pp. 73-76.
(22) – “I contadini della provincia di Caltanissetta, patria della mafia e del campierato, furono i primi a condurre a fondo una giusta lotta contro il feudo. Essi, riuscirono a legare alle loro rivendicazioni gli operai delle zolfare, in quel periodo chiuse ed inattive per la grave deficienza dei trasporti; i minatori, a loro volta, riuscirono a mobilitare alcuni ferrovieri, anch’essi inattivi per la distruzione della rete ferroviaria. (…) è certo (…) che minatori e ferrovieri ebbero un peso determinante nelle lotte contadine, e le prime occupazioni sono state effettuate nei paesi di Riesi, Sommatino, Butera, Mazzarino, Serradifalco, San Cataldo e Caltanissetta, cioè nella zona del bacino zolfifero della provincia di Caltanissetta” (M. Pantaleone, 1984, p. 101).
(23) – D. Dolci, 1962, “Spreco”, Torino, Einaudi, cit. in F. Renda, 1990c, pp 502-503.
(24) – Al 31 dicembre 1952, quando l’esperienza delle cooperative concessionarie di terra volgeva al termine – a causa anche di alcune disposizioni legislative che li penalizzavano (tra queste, legge sulla formazione della piccola proprietà contadina e riforma agraria regionale, v. F. Renda, 1979, pp. 123-129) – i risultati complessivi del movimento cooperativistico siciliano del 2° dopoguerra furono i seguenti: domande di concessione presentate 4.809; ettari richiesti 904.743; domande respinte 3827; superficie richiesta e non concessa 818.323 ettari; domande accolte 982; superficie assegnata 86.420 ettari (F. Renda, 1990c, p. 203).
(25) – Relazione conclusiva della Commissione parlamentare d’inchiesata sul fenomeno della mafia in Sicilia.
(26) – “Per contadino povero intendiamo una figura mista di mezzo bracciante e mezzo piccolo proprietario, colono-mezzadro; una figura di lavoratore agricolo che ha in qualche modo un appezzamento di terra, non sufficiente però ad assorbire tutta la forza-lavoro della sua famiglia, per cui è costretto a dare una parte della forza-lavoro sua e della sua famiglia ad altri” (p. La Torre, 1980, p. 22).
(27) – Tratto da U. Santino, 1995, pp 31-35 e da C. Pantaleone (a cura di), 1985, pp. 24-27.
(28) – D. Dolci, 1962, “Spreco”, cit. in F. Renda, 1990c, p. 503.
(29) – Il 25 aprile 1957 (quando ormai da tempo la DC governava sia a Palermo sia a Roma e aveva consolidato il legame polico-elettorale con la mafia) si registrò un episodio gravissimo: l’assassinio di Pasquale Almerico, segretario della sezione democristiana nonché sindaco di Camporeale (Palermo). A decretarne la morte, la sua opposizione (isolata) all’ingresso nel partito di un gruppo di liberali mafiosi, capeggiati dal boss Vanni Sacco (cfr. U. Santino, 1995, p. 42; O. Barrese, 1973, pp 160- 167; G. Fava, 1982, pp. 270-271).
(30) – Che continuava, intanto, a mietere vittime: L’11 gennaio 1947, fu aggredito Antonino Mannarà, segretario della Camera del lavoro di Canicattì (Agrigento), il quale, però, rispose al fuoco e riuscì a far fuggire gli attentatori; il 17 gennaio a Ficarazzi (Palermo) fu ucciso il comunista Pietro Macchiarella, il mafioso Francesco Paolo Niosi venne indicato come responsabile (U. Santino, 1995, pp. 35-36).
(31) – Già in altre occasioni le forze dell’ordine erano intervenute duramente per <<calmare>> i lavoratori in agitazione. Infatti, oltre alla strage di Palermo del 19 ottobre 1944, si registrarono i seguenti gravi episodi (v. U. Santino, 1995, pp. 32-34):
– l’11 settembre 1945, a Piazza Armerina (Enna) un carabiniere uccise il socialista Pivelli (o Pivetti) nel tragitto verso il posto di lavoro; l’indomani furono arrestati i segretari delle sezioni del PC e del PSI per avere organizzato uno sciopero;
– il 12 marzo 1946, a Palermo, le forze dell’ordine spararono sulla folla, in agitazione per la mancanza di viveri: 2 i morti (il commissario di P.S. Antonino Calderone, colpito forse dai colpi sparati da un carabiniere, e Giuseppe Maltese, operaio del Cantiere Navale) 22 i feriti;
– il 22 marzo, a Messina, nel corso di una manifestazione si contarono un morto (il soldato Salvatore Caramanna) e 24 feriti;
– il 5 agosto, a Caccamo (Palermo) ebbe inizio un duro scontro tra contadini, carabinieri e agenti di P.S. per questioni concernenti l’ammasso granario; i disordini si protrassero per tre giorni e si conclusero con un pesantissimo bilancio di sangue: “4 morti e 21 feriti tra le forze dell’ordine; circa 20 morti e 60 feriti tra i rivoltosi” (U. Santino, 1995, p. 34).
(32) – Recentemente, grazie ad una ricerca compiuta all’Archivio Centrale dello Stato di Roma dallo storico Mario Casella, si è scoperto che Alcide De Gasperi (presidente del Consiglio dal dicembre ’45 al luglio ’53) e Mario Scelba tra il 1946 ed il 1948 chiesero ai prefetti di tutta Italia di “<<controllare>> periodicamente <<l’attività politica del clero>>” (in <<La Repubblica>> del 25 ottobre 1996, p. 10). A quale scopo? Per verificare “ilgrado di <<fiducia>> dei sacerdoti nei confronti della DC e, soprattutto, se la loro attività pastorale fosse volta a sostenere il partito scudocrociato in chiave anticomunista negli anni cruciali dell’immediato dopoguerra” (in <<La Repubblica>> del 25 ottobre 1996).
(33) – “Il movimento contadino non tardò a fare sentire, sul piano elettorale, il suo peso politico. Le masse che parteciparono alla occupazione dei feudi rimasero legate alla Camera del lavoro, sotto l’influenza dei partiti di sinistra, i quali – come era ovvio immaginare – convogliarono i voti sulle liste del blocco del popolo, nelle quali erano candidati i dirigenti contadini. I proprietari, i gabelloti, i domini diretti proprietari di canoni enfiteutici, gli esattori dei canoni per conto di istituti religiosi, i sovrastanti, i campieri, e quanti altri vivevano nel feudo a spese dei contadini, orientarono le loro preferenze a favore delle liste dichiaratamente anticomuniste e antisocialiste. I dirigenti politici e sindacali dei partiti di sinistra seppero trarre vantaggio da questa spontanea divisione politica dichiarandosi intransigenti verso qualsiasi forma di infiltrazione della mafia ed intervenendo di autorità in quei paesinei quali, durante l’occupazione alleata, o nella fase di ricostituzione dei partiti, alcuni mafiosi erano riuscitia mimetizzarsi in dirigenti contadini per frenare la spinta sociale dei contadini stessi” (M. Pantaleone, 1984, pp. 102-103).
(34) – Fisarmoniche, zufoli, marranzani e chitarre ( O. Barrese, 1973, pp.13-14).
(35) – Giuseppe Alessi aveva chiuso la sua campagna elettorale a Villalba, elogiando la famiglia del capomafia Calogero Vizzini (O. Barrese, 1973, pp. 12-13).
(36) – Presidente dell’Assemblea fu eletto Ettore Cipolla, deputato del Fronte dell’Uomo qualunque.
(37) – Nell’autunno del 1947 altri due dirigenti di sinistra caddero vittime di agguati mafiosi: Giuseppe Maniaci, segretario della Confederterra e membro del PC, ucciso a Terrasini (Palermo) il 22 ottobre; e Vito Pipitone, anch’egli segretario della Confederterra, ucciso a Marsala (Trapani) l’8 novembre (U. Santino, 1995, p. 38).
(38) – Secondo l’ideologia solidaristica seguita allora dal PCI (v. S.G. Tarrow, 1972, pp. 251-253).
(39) – Cfr. Aa.Vv., 1976, p. 34; D. Paternostro, 1994, p. 64; P. La Torre, 1980, p. 17.
(40) – Nel 1946 si registrarono 116 furti, 29 danneggiamenti, 10 rapine ed estorsioni e ben 17 omicidi (D. Paternostro, 1992, p. 24).
(41) Queste parole furono pronunziate da Bernardino Verro, in un comizio tenuto il 31 ottobre 1910, cit. in D. Paternostro, 1994, p. 42.
(42) – Insieme a, tra gli altri, Michele Zangara, Vincenzo Schillaci, Gioacchino Gervasi, Luciano Rizzotto (D. Paternostro, 1992, p. 27).
(43) – V. Aa.Vv., 1976, p. 30 e p. 210; O. Barrese, 1973, p. 22; P. La Torre, 1980, p. 19.
(44) – A tal proposito vedi G. Verucci, 1988, “Dopo il 18 aprile i gruppi ecclesiastici integralisti avanzano pesanti ipoteche sugli indirizzi di governo”, in A. Desideri (a cura di), 1990, pp. 1024-1025.
(45) – V. D. Paternostro, 1992, p. 49 e P.La Torre, 1980, p. 27.
(46) – Gli operai del Cantiere Navale di Palermo, oltre a sostenere – come avevano già fatto nel 1° dopoguerra – le lotte dei contadini, ingaggiarono, sin dal 1947, una durissima battaglia contro la cosca mafiosa del rione Acquasanta, che aveva avuto in appalto alcuni servizi interni al Cantiere, tra cui l’incarico di <<controllare>> i lavoratori (v. S. Lupo, 1993, p. 188). Per <<mantenere l’ordine>> i mafiosi non disdegnarono di ricorrere alle maniere forti, come accadde il 17 gennaio 1947, quando spararono sugli operai che si ribellavano alla gestione mafiosa della mensa: due operai rimasero feriti (U. Santino, 1995, p. 36).
La coraggiosa lotta dei lavoratori contro i <<caporali>> mafiosi si protrasse sino al 1968-69, e si concluse con la cacciata di quest’ultimi dal Cantiere; tramite le ditte appaltatrici, però, la mafia sarebbe riuscita a rientrarvi, seppur indirettamente (cfr. N. Dalla Chiesa, 1976, pp. 106-107; O. Barrese, 1973. p. 33-35; U. Santino, 1994, p. 30).
(47) – A Corleone, nel 1949, alle occupazioni delle terre parteciparono circa seimila persone; tra i terreni prescelti per la semina forzata vi era anche il feudo Strasatto, controllato da Luciano Liggio (P. La Torre,1980, p. 35).
(48) – “Fra le più note: Gina Mare (deputata regionale alla I e alla II legislatura); Anna Grasso, Ina Ferlisi, Giuseppina Zacco La Torre, Maria Domina, Orietta Potenza, Antonietta Renda (che insieme a Giuseppina Vittone -moglie di Li Causi, N.d.a.- organizzarono le occupazioni nella Sicilia occidentale e soprattutto nel palermitano); Giuliana Saladino, Lina Casano, Carmela Montalbano; Maria Costantino e Maria Conti, organizzatrici delle occupazioni nel Messinese” (J. Calapso, 1980, p. 234).
(49) – Cfr. P. La Torre, 1980, pp. 35-36 e 162.
(50) – Come a Pianello, dove, il 18 marzo, 150 poliziotti non riuscirono a bloccare 1.535 contadini;ed a Prizzi (v. P. La Torre, 1980, pp. 155 e 159).
(51) – “Il programma di riforma agraria del dopoguerra non riuscì nemmeno a consolidare il movimento cooperativo contadino. Piuttosto avvenne il contrario, in quanto l’Ente per la riforma agraria poteva indebolire le associazioni cooperative che avrebbe dovuto organizzare e sostenere. Queste associazioni erano diventate delle appendici dell’Ente di riforma, il quale imponeva i suoi leaders, i suoi avvocati, i suoi ragionieri, e così via. I contadini vi aderivano per poter usufruire delle assegnazioni di terre, di creditispeciali e di altri servizi, ma laloro partecipazione era esclusivamente nominale. In effetti di ogni cooperativa facevano parte amministratori dell’Ente di riforma agraria e una lista di membri, stilata in base a criteri di clientelismo politico: il prezzo da pagare era la fedeltà al partito di governo” (J. e P. Schneider, 1989, pp. 177-178).
(52) – Cfr. M. Centorrino, 1995; V. Li Donni, 1994; T. Perna, 1994, pp. 103-117; A. Spanò, 1978, p. 255.
(53) – “Molti di loro – racconta Francesco Renda a Mario Genco – avevano partecipato alle lotte, ma quando furono sorteggiati i lotti il loro nome non fu estratto” (M. Genco, 1996, p. 5).
(54) – Cfr. S.G. Tarrow, 1972, pp. 208-267 e 314-345; F. Avolio, 1986, p. 91.
(55) – V. Finley M.I., Mack Schmith D., Duggan C.J.H. p. 337.
(56) – Cfr. V. Pegna, 1992; U. Santino, 1995, p. 41; O. Barrese, 1993, p. 125.
(57) – C. Levi, 1955, “Le parole sono pietre”, Torino, Einaudi, cit. in F. Renda, 1990c, pp. 513-514.
(58) – Il 30 giugno 1963, nella contrada palermitana di Ciaculli, 7 uomini delle forze dell’ordine furono dilaniati dallo scoppio di una Giulietta imbottita di tritolo, che essi stavano cercando di disinnescare. L’autobomba era <<indirizzata>> alla famiglia mafiosa dei Greco – in guerra dal 1962 con i fratelli La Barbera – ma era stata abbandonata prima di giungere a destinazione e una telefonata anonima aveva avvertito i carabinieri.
La strage di Ciaculli sconvolse l’opinione pubblica nazionale. “Alla stampa nazionale, che sollecitava drastici ed urgenti interventi, facevano eco tutte le organizzazioni democratiche del paese, i rappresentanti dei partiti popolari i quali manifestarono lo sgomento di una vasta massa di lavoratori tradizionalmente oppressa dalla violenza e dalla prepotenza mafiosa. Un comitato antimafia costituito dai tre sindacati di Palermo, ai quali si unirono gli studenti di tutte le facoltà, dichiarò il lutto per due giorni; più di centomila persone seguirono i feretri delle sette vittime” (M. Pantaleone, 1969, p. 161).Secondo G. Fava (1982, pp. 139-143), il funerale fu seguito,nelle strade principali di Palermo, da duecentomila persone.
Come si sarebbe ciclicamente ripetuto nella storia della Repubblica italiana, alla supposta <<recrudescenza>> del fenomeno mafioso (che in realtà non rappresenta un’emergenza ma un problema costante) lo Stato – spinto all’azione dallo sdegno e dalla commozione generali – reagì con provvedimenti eccezionali. Tra l’altro, convocò d’urgenza la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia – la cui istituzione, richiesta inutilmente sin dal 1948, era avvenuta nel dicembre 1962, su pressione dell’Assemblea regionale siciliana – e rafforzò nell’Isola il proprio apparato repressivo. L’offensiva scatenata dallo Stato riuscì a mettere in ginocchio Cosa Nostra per qualche anno (v. testimonianza del pentito Antonino Calderone in P. Arlacchi, 1992, p. 72; sulla strage di Ciaculli e sulla reazione dell’opinione pubblica e dello Stato cfr. G. Di Lello, 1994, p. 92-93).
(59) – Al tempo del prefetto Mori, nel circondario di Mistretta, era stata scoperta una ampia e potente rete di relazioni mafiose – gestita dal’avv. Ortoleva – volta, tra l’altro: al recupero, dietro pagamento di un riscatto, di animali rubati; all’imposizione di determinati campieri e gabelloti ai proprietari terrieri; all’accaparramento di ex-feudi; alla corruzione di giurati e giudici (cfr. S. Lupo, 1993, pp. 137-139;A. Spanò, 1978, pp. 49-64; G. Raffaele, 1995).
Interviste a testimoni privilegiati dell’associazionismo
antimafia degli anni Ottanta e Novanta
GIOVANNA TERRANOVA PRESIDENTESSA DELL’ASSOCIAZIONE DONNE SICILIANE PER LA LOTTA CONTRO LA MAFIA
Palermo, 9 settembre 1993
(L'”Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia” è stata la prima associazione antimafia a nascere in Sicilia)
Giovanna Terranova : …Sa cosa esisteva, per essere proprio sinceri, c’era il Centro Impastato, da pochissimo, che però non è un’associazione antimafia, è un centro di documentazione, quello solo c’era, poi come movimenti antimafiosi non ce n’erano e il fatto che siano state le donne che per prima… perché tutti i giornalisti francesi, americani si domandavano ma come mai le donne? Proprio le donne! Che hanno… le siciliane c’è il preconcetto, il pregiudizio che siano donne ammantate di nero, e invece proprio le donne sono quelle che si ribellano per prime contro la mafia! E’ un fatto storico, secondo me importante.
D. COME MAI AVETE SENTITO LA NECESSITA DI FONDARE QUESTA ASSOCIAZIONE?
R. Ma è nata così, abbiamo cominciato a riunirci fra di noi, allora veramente eravamo tantissime, molte di più di ora devo dire, e di vari percorsi politici, venivano da tutte le parti, democristiani, liberali, ecc. ecc., ci riunivamo e discutevamo… poi per esempio,…ecco ancora non eravamo associazione mi pare, quando noi abbiamo chiesto…di costituirci parte civile nel processo …un certo processo SPATOLA/INZERILLO, allora uno dei più grossi processi di mafia e droga
D. IN CHE ANNO E’ STATO?
R. Nell’81 o nell’82, e…un pò sulla falsa riga delle costituzioni di parte civile delle donne in Italia per i processi di violenza carnale, ancora qua era un gesto che non si era compiuto, noi al 99% sapevamo che la nostra richiesta sarebbe stata respinta, però l’abbiamo chiesta lo stesso, perché abbiamo detto vale l’esempio, vale il gesto, come gesto di rottura, è una cosa importante, chiedere la costituzione di parte civile in un processo di mafia e droga, dove noi ci sentiamo parte lesa
D. MA C’ERA QUALCUNA DI VOI DIRETTAMENTE INTERESSATA IN QUESTO PROCESSO?
R. Assolutamente no, appunto questa è stata invece la cosa
importante, proprio come processo di mafia e droga, siccome è la prima volta che c’è un grosso processo di mafia e droga, noi donne siciliane riteniamo di poter chiedere la costituzione di parte civile
D. MA QUAL E’ STATA LA SCINTILLA CHE VI HA FATTO MUOVERE?
R. …sono venuti dei politici e ci …hanno chiesto la nostra firma per una sottoscrizione delle “Donne siciliane e calabresi contro la mafia”, proprio da là è nata la cosa
D. INFATTI C’E’ ANCHE IN CALABRIA UN’ASSOCIAZIONE DI DONNE CONTRO LA MAFIA
R. Perfettamente, “Donne siciliane e calabresi contro la mafia”, le prime a firmare, a sottoscrivere questo documento, che era un appello al Presidente Pertini, siamo state Rita Bartoli Costa ed io, seguirono le altre firme e si raccolsero, circa da 30 a 50 mila firme, moltissime
D. TUTTE DI DONNE?
R. Sì sì, solo di donne, di donne, era un appello delle donne siciliane e calabresi al Presidente della Repubblica Pertini perché ci desse una mano di aiuto, perché centrasse questo problema, per sensibilizzarlo nei confronti di questo fenomeno che veramente che più criminale non poteva essere; allora questo è stato il primo documento diciamo, quando abbiamo avuto la raccolta di tutte le firme, con questo appello siamo andate a Roma, alcune di noi delegate, c’eravamo Rita Bartoli Costa ed io, credo come vedove della mafia, perché io non ho colore politico, poi c’era una liberale, e poi c’era una socialista ed una del PC allora e donne che rappresentavano un pò tutti i partiti e anche dei movimenti, siamo state ricevute in Quirinale dal Presidente Pertini, e là abbiamo chiesto, appunto, perché si guardasse al problema mafia nel Sud che era dallo Stato completamente trascurato e abbandonato, e abbiamo chiesto pure una commissione speciale, che si costituisse una speciale commissione di controllo …sulla mafia
D. QUESTO NELL’80
R. (Guarda gli articoli di giornale che ha conservato sulla storia dell’Associazione), “LE VEDOVE DELLA MAFIA RICEVUTE DA PERTINI”, aprile 1981
D. LE DONNE DELL’APPELLO ERANO TUTTE DONNE CHE ERANO STATE
COLPITE NEGLI AFFETTI DALLA MAFIA ?
R. No no, no no, tengo moltissimo a dire che di vedove eravamo soltanto Rita Costa ed io, di vedove, perchè poi per un pezzo si chiamò l’associazione delle vedove, cosa che mi faceva andare in bestia, perché che c’entra le vedove, le vedove eravamo due, contro 90 donne di tutta Palermo, donne politiche, sindacaliste, casalinghe, studentesse, donne di tutte le specie, di vedove proprio non c’era niente, il comitato delle vedove sarebbe stato fatto da 4 persone allora, perché grazie a Dio non è che poi eravamo 2000 eh, si qua c’è stato l’eccidio, ma insomma non è che poi eravamo tante, quindi è assurdo chiamarlo il comitato delle vedove e invece si chiamò per lungo tempo l’associazione delle vedove, …ecco allora noi nell’81 abbiamo fatto questo primo passo, diciamo così delegazione di donne, quindi già eravamo una diecina, era già un gruppo … ah! Dimenticavo la cosa più importante, quando noi siamo andate da Pertini, abbiamo chiesto sopattutto … che si facesse più rapido l’iter dell’allora proposta di legge Rognoni-La Torre, e noi proprio la nostra richiesta principale era stata quella di fare sì che l’iter della pretica fosse accelerato
D. NELL’81, PRIMA DELL’OMICIDIO DELLO STESSO LA TORRE
R. Certamente, noi abbiamo fatto questa richiesta, che fosse
accelerato l’iter della proposta di legge Rognoni-La Torre, volevamo che fosse funzionante al più presto, ecco
D. COSA CHE AVVENNE SOLTANTO CON L’OMICIDIO…
R. Cosa che avvenne subito dopo il delitto Dalla Chiesa …si è varata immediatamente, nel giro di un mese, diventò legge la proposta di legge Rognoni-La Torre; ecco e quello è stato proprio l’embrione della nostra Associazione, il fatto che noi avevamo fatto delle richieste, che insieme c’eravamo riunite alcune donne per andare da Pertini a chiedere questo acceleramento della propostadi legge e …avevamo imboccato la strada giusta e quindi al nostro ritorno abbiamo detto “Mi pare il caso che continuiamo su questa strada, che abbiamo visto giusto finora, abbiamo imboccato sempre la strada giusta, abbiamo fatto la richiesta della costituzione di parte civile per un processo, abbiamo fatto questa richiesta a Pertini …le nostre proposte finora sono state quelle giuste”, allora, insieme, abbiamo deciso di costituirci e quella che all’inizio non fu associazione, ma fu soltanto comitato, il comitato, come lei sa, ha di diverso dall’associazione il fatto che è temporaneo, non è una cosa duratura, siamo state comitato per qualche mese e poi abbiamo …siamo andate dal notaio a fare l’atto costitutivo, a firmare…
D. COME MAI AVETE SENTITO LA NECESSITA’ DI COSTITUIRE UN’ASSOCIAZIONE DI SOLE DONNE? COME MAI SOLO DONNE, E’ UNA CRITICA CHE VI SARA’ STATA MOSSA…
R. No critica non ci è stata mai mossa, ci è stata sempre sorpresa, perché siccome, appunto c’eravamo delle vedove, 3 o 4 vedove c’erano, avevano un pò l’idea che la donna siciliana, in genere è molto …ancora lo stereotipo della donna siciliana era quella che stava chiusa in casa, l’uomo era attivo, l’uomo usciva, ma la donna in genere stava a casa, ecco questa domanda, con grande sorpresa del giornalista soprattutto quello americano, quello tedesco, proprio …dice “Come mai le donne?”, poi quello giapponese, io sono stata pure in Giappone, e per i giapponesi era qualche cosa di incredibile che ci potessero essere delle donne che, tra l’altro più di 10 anni fa, avessero avuto questa idea di potersi ribellare alla mafia quando ancora nessuno ci aveva pensato ecco
D. MA COME MAI SOLO DONNE?
R. Perché solo donne abbiamo cominciato a riunirci fra di noi, forse perché c’erano delle vedove e non erano vedovi ed erano vedove quelle che erano rimaste, forse perché …io non lo so, eravamo delle donne, le dicevo, è partita un pò dalla sottoscrizione che abbiamo fatto, quindi l’idea è venuta forse… siccome le firme erano tutte di donne, poi tutte donne ci siamo ritrovate, fra di noi, perché quando abbiamo sottoscritto questo appello a Pertini eravamo solo donne, perché la richiesta da parte dei partiti era firma di donne (…) secondo me perché le donne sono una forza fresca, spontanea, una forza nuova…
D. SENZA SOVRASTRUTTURE
R. Senza le sovrastrutture che hanno gli uomini, e infatti noi lo abbiamo sentito di farlo, questo è un fatto, è un dato di fatto questo, forse perché fra di noi c’erano quelle colpite profondamente nei sentimenti proprio più più profondi, forse è stato questo, e allora la donna ha un senso di ribellione più forte di quello che può avere un uomo… perché guardi, io le voglio dire una cosa, che nella storia della mafia, ai tempi di mio marito già due tre donne che avevano parlato, ma erano solo donne, c’erano ma erano due tre donne che avevano parlato, ed erano la vedova Ciuni, Serafina Battaglia, e non mi ricordo se ce ne era una
altra, ma queste due donne avevano parlato
D. PERCHE’ ERANO STATE COLPITE NEGLI AFFETTI
R. Perché erano state colpite, perché Serafina Battaglia, apparteneva ad una famiglia mafiosa, le avevano ucciso il marito, però per lei era scontato o quasi, forse, insomma non …eramesso nel conto, secondo me perché sapeva che il marito faceva questo mestiere e quindi questo mestiere al 90% comporta …questo tipo di morte, invece le uccisero il figlio, poi, 18 20enne, e questo lei non l’ho accettò perché secondo lei il figlio non faceva neanche ancora parte dell’associazione mafiosa, e allora veramente ebbe un moto di ribellione fortissimo, e si presentò lei a mio marito per dire che lei non aveva fiducia nella giustizia terrena, ma solo in quella divina, però aveva fiducia nel giudice Cesare Terranova, e con lui parlò e parlò moltissimo e mio marito diceva che aveva detto tantissime cose importanti che poi riferì ancora, ripetè a Catanzaro quando l’istruttoria di mio marito andò a finire come processo a Catanzaro, Serafina Battaglia fu interrogata, parlò, come è finita? Che le dettero la semi infermità mentale, perché una donna che parla e che dice tante cose, tante verità e che svela tanti segreti dell’associazione mafiosa, non può essere altro che pazza, o almeno semi inferma mentale, quindi fu bollata con la semi infermità mentale e la sua testimonianza non è valsa a niente e il processo si chiuse con uno scandalo perché furono quasi tutti messi fuori, quando mio marito aveva fatto, già come antesignano di Falcone, aveva fatto un processo che allora fece un grandissimo scalpore di 114
D. QUELLO DI CATANZARO?
R. Quello che, sì, che poi andò a finire a Catanzaro, 114 erano …questi 114, o quasi tutti io me li sono rivisti quando sono andata al maxiprocesso, erano tutti dietro le gabbie, quindi mio marito aveva trovato le persone giuste, da mettere dentro voglio dire, giuste in questo senso, insomma non aveva fatto una sbavatura l’istruttoria di mio marito, però a Catanzaro era finita così, come finivano allora quasi tutti i processi di mafia…
D. AVETE TROVATO OSTACOLI DURANTE LE VARIE FASI ATTRAVERSATE PER LA COSTITUZIONE DELLA VOSTRA ASSOCIAZIONE?
R. _Più che ostacoli, è l’indifferenza che abbiamo trovato, insomma un pò di apatia, un pò di indifferenza fra la gente… la nostra richiesta ad esempio di associarsi è caduta spesso nel vuoto …un pò per quella mentalità, correntissima purtroppo, soprattutto in Sicilia ed a Palermo in particolare, “Facciamoci i fatti nostri, sono fatti loro”, ecco io …quello che ho sentito più che altro, dopo la morte di mio marito, più che altro questo distacco dal problema,”Non è problema mio, a me non interessa, vorrei farmi i fatti miei” ecco, non hanno capito l’importanza di un impegno sociale, che se questa società, se questa stessa società si fosse ribellata e avesse partecipato, come oggi fa, 30 anni fa, non saremmo arrivati a questo punto, certamente non ci saremmo arrivati, perché il movimento parte sempre dalla società civile, secondo me, io do molta importanza e molta responsabilità alla società civile e la società civile palermitana, ed io di quella posso parlare, è stata assolutamente indifferente
D. QUANDO SI ALZAVA UNA VOCE, VENIVA SUBITO SOPPRESSA…
R. Sì, l’isolamento in questi casi equivale a condanna a morte, o si è in gruppo, o si è in tanti o si è condannati a morte, in questo Paese, ecco perché oggi è importante la formazione di tantissime associazioni, anche se sono piccole associazioni …io do molta importanza alla reazione della società civile, che non c’è stata, proprio, qua c’è stato un “Facciamoci i fatti nostri” oppure quando c’era il delitto sentirsi dire, cosa da fare accaponare la pelle, per una che l’ha subito sulla propria persona, “Questi sono fatti loro”, come se il magistrato o il poliziotto, fossero già, soltanto per per il loro mestiere… dovevano fare questa fine, o per avere fatto quello che avevano fatto, tipo mio marito …facendosi i fatti loro e facendo invece il loro dovere, perché non facevano altro che il loro dovere, “Fatti loro”, questa era …la peggiore epigrafe che si potesse mettere sulla tomba dei nostri morti, “Fatti loro”, sono fatti di ognuno di noi tutto quello che accade, finalmente oggi lo hanno capito, con le stragi, hanno capito che l’uccisione di ognuno di questi uomini è un fatto che ci riguarda personalmente, anche se noi questo uomo ucciso non lo avevamo mai visto nella nostra vita, ma è un fatto che offende tutta la società civile, e non soltanto me che sono vedova ma tutta la società civile, … tutte le istituzioni sono state decapitate e la società civile è stata privata degli uomini migliori che avesse, quindi è una perdita enorme, questo… se lei mi parla di ostacoli io più che ostacoli, che è peggio forse di un ostacolo, ho trovato questo
D. MI RIFERIVO, PIU’ SPECIFICATAMENTE, AGLI OSTACOLI INCONTRATI DURANTE LA COSTITUZIONE DELL’ASSOCIAZIONE
R. No, non ricordo … no penso proprio di no, naturalmente ci può essere stato, soprattutto all’inizio, adesso ci siamo abituati, “Ma chi te lo fa fare, ma perché non resti a casa tua, ma perché ti esponi…” o perché ti esponi per il pericolo o perché ti esponi per esibizionismo, per protagonismo ecco, c’è sempre… perché chi si muove, in questa città… pureFalcone era protagonista, e pure mio marito era protagonista, perché chiunque opera e fa qualche cosa naturalmante viene additato, viene segnalato, diventa un personaggio popolare e allora è protagonista, è malato di protagonismo, anche noi ci potevamo muovere per andare in televisione, che era l’ultimo nostro pensiero, ma l’idea poteva essere quello, ecco, qualche critica da questo punto di vista si, l’ho ricevuta io, personalmente, “Ma lo fai per andare in televisione…”, veramente lo faccio perchè l’impegno è molto importante secondo me e, fra l’altro, penso che noi abbiamo dato l’esempio di quello che può essere una associazione contro il fenomeno mafioso
D. QUALI SONO GLI SCOPI CHE SI PROPONE L’ASSOCIAZIONE?
R. l’Associazione è un movimento di opinione e non ha né mezzi né strumenti per fare altre cose perché… soltanto… sensibilizzare le coscienze e quindi lavorare sulla società civile giorno per giorno, quotidianamente, perché questo si può fare in famiglia, si può fare a scuola, si può fare nel posto di lavoro, si può fare ovunque, ovunque, sensibilizzare le coscienze, diffondere la cultura antimafiosa, che invece abbiamo vissuto sempre con una mentalità e una cultura mafiosa, diciamo di mafiosità non mafiosa, perché per carità non voglio accusare tutti di mafia, perché non lo sono, anzi la maggior parte, naturalmente, della società non lo è, ma questo… acquiescenza, questo consenso diciamo, anche c’è stato fino a qualche anno fa, parlo di 15, 20 anni fa (…) questo è stato il nostro compito, quello di sensibilizzare le coscienze, e essere molto attente, sempre, questo lo abbiamo fatto, quotidianamente, agli avvenimenti del giorno, a quello che succedeva, che si verificava a palazzo di giustizia, non so per esempio in occasione del… quando si cominciò a vedere la minaccia di uno smantellamento del pool antimafia, noi prima, molto prima che si facesse, abbiamo fatto un sit-in davanti al Palazzo di Giustizia, ecco sempre attenzione a quanto si verificava nel campo giuridico, sociale, a Palermo.
D. MI PARLA DELLA SUA ESPERIENZA IN GIAPPONE?
R. ho avuto prima un incontro qua, con un gruppo di 35 avvocati penalisti giapponesi penalisti, preoccupatissimi della invadenza della Yacuza, la loro mafia, volevano proprio organizzarsi in associazione, allora hanno pensato di… hanno chiesto prima un incontro con me personalmente, a quello sono andata io sola, come presidente dell’Associazione, per chiarire le idee, per avere dei suggerimenti, di come si costituisce, come si organizza, perché là in Giappone ancora contro la mafia, contro la loro Yacuza non c’è nulla completamente, non c’è nessuno che si sia mai mosso, e avevamo avuto un incontro qua, a Villa Igea, io con questi 35 avvocati, i quali mi hanno fatto 1000 domande, hanno voluto sapere tante cose, alla fine di questo incontro mi hanno chiesto se potevano avere il piacere, sa come sono i giapponesi, molto, molto formali, estremamente cortesi, se potevano avere il piacere e l’onore di avermi in Giappone, io ho accettato, sono stata 15 giorni in Giappone e ho fatto un ciclo di conferenze in tre città: Tokio, Osaka e Sapporo, e credo a quello che ho capito, da quello che mi diceva la guida, che era la prima volta che in ognuna di queste città si facesse una manifestazione antiYacuza, la prima volta.
D. C’ERAVATE SOLO VOI DELL’ASSOCIAZIONE DONNE CONTRO LA MAFIA?
R. C’ero io sola, sono andata con Elvira Rosa che mi ha accompagnato, ma proprio l’invito era a me fatto.
D. QUINDI LA CONFERENZA ERA SOLO LEI A TENERLA
R. Sì sì, io sola, io sola, io mi mettevo là e poi c’era quello che mi traduceva, e infatti durava un’ora, un’ora e mezza, perché con loro dovevo fare tutta un pò la storia di quello che noi ormai qua in Italia sappiamo a memoria, per loro era una cosa nuova, ovviamente, quindi ho fatto un pò la storia… avevo circa 2000 spettatori ogni volta, cioè una cosa imponentissima, e l’ho visto che loro erano un pò preoccupati dal fatto che io avevo intorno a me 7 poliziotti, 7! E non mi potevo muovere di un metro se non avevo i poliziotti intorno (…)
D. SI ERA MAI IMPEGNATA PRIMA IN ALTRE ASSOCIAZIONI?
R. No, non ero impegnata in associazioni, non avevo alle spalle una storia politica …
D. QUAL E’ STATO IL MOTIVO CHE L’HA SPINTA…
R. E per me è stato importantissimo, per me è stato un impegno… per il tributo pagato da mio marito insomma
D. QUINDI UN VOLER CONTINUARE…
R. Un voler continuare, e ci sono state delle spinte che lei sa, che le ho raccontato, proprio delle spinte materiali, quelle che mi hanno fatto uscire dal privato, ci sono state proprio delle spinte immediate, e che poi, naturalmente, maturando io e crescendo capivo invece, mi sono resa conto dell’importanza che quello che, per me era valido …questo impegno, perché dovevo farlo,dovevo farlo …personalmente per un …unomaggio a mio marito, alla memoria di mio marito, personalmente ecco, e invece poi mi rendevo conto che era un impegno sociale importantissimo, affinché questo non avvenisse più, cercare di, per quello che potevamo fare nel nostro piccolo, con le nostre minime possibilità, perché noi siamo autotassate e quindi economicamente non nuotiamo nell’oro per niente, non abbiamo mezzi e strumenti, nessuna di noi, noi non possiamo fare grandi cose, ma quel poco che si può fare io ho sentito di doverlo fare, anche perché non si può dopo una prova di questo genere, nella vita di una donna che che la cambia letteralmente, che la sconvolge, la vita, e non si può continuare a fare quello che si era fatto prima, io ero stata soltanto la moglie di un uomo importante, vivevo nella sua ombra, mi interessavo al suo lavoro, questo e …non voglio dire che io ho abbandonato la mia vita sociale perché avevo i miei amici e ho continuato a frequentarli,però capivo che non quello solopotevopiù fare D. IN GENERE, DALLA CHIESA AVETE AVUTO AIUTO PER LEVOSTRE BATTAGLIE?
R. Dalla Chiesa no, abbiamo contatti personali, per esempio con padre Lillo Scordato che lavora all’Albergheria, cioè una zona di Palermo delle più depresse, e lui ci lavora moltissimo proprio dedica la sua vita e ai bambini e ai ragazzi, e noi abbiamo anche collaborato per un periodo, con lui siamo andate spesso in Albergheria, abbiamo fatto il nostro lavoro e anche noi siamo state in questa zona ma ecco a livello personale, non la Chiesa ufficiale, dalla Chiesa ufficiale non abbiamo avuto mai nessun riconoscimento (…) c’è padre Turturro, per esempio, che ci ha chiamato più volte per andare …per le sue manifestazioni sì, questo sì, ma sempre ripeto non dalla Chiesa ufficiale
D. E CON LA SCUOLA CHE RAPPORTO AVETE AVUTO, LE ISTITUZIONI
SCOLASTICHE VI HANNO AIUTATO …OPPURE ANCHE DA PARTE LORO
INDIFFERENZA?
R. A metà e metà, c’erano delle scuole impegnatissime, io sono stata chiamata per esempio non lo so, a Vittoria, a una scuola di Vittoria, a una scuola di Taormina, a una scuola di Livorno, sono andata a Livorno, e ho incontrato dei ragazzi di liceo, quindi dei ragazzi grandi ma preparatissimi, con domande pertinentissime, è stato un incontro fra i più belli questo che ho avuto e fra i primi e fra i più belli, e poi anche qua, sì ci sono le scuole le quali invece non ti chiedono questo tipo di incontro e anche perché so che la legge 51, la famosa legge 51, è stata applicata così, non so se al 50%
D. HA NOTATO UNA MAGGIORE SENSIBILIZZAZIONE NEGLI ULTIMI ANNI?
R. Sì Sì però sono, sempre, in proporzione, sono poche le scuole … dovrebbero essere molto più impegnate le scuole
D. ANCHE FRA LA GENTE HA NOTATO UNA MAGGIORE SENSIBILITA’?
R. Sì, sì
D. NON C’E’ PIU’ QUELL’INDIFFERENZA DI CUI PARLAVA PRIMA?
R. Non c’è più , non c’è più
D. SECONDO LEI CON QUALI MEZZI E ATTRAVERSO QUALI CAMBIAMENTI PUO’, FINALMENTE ESSERE DEBELLATO IL FENOMENO MAFIOSO?
R. Iosono dell’opinione che non si può delegare la magistratura e dare tutto il compito soltanto, restringerlo soltanto alle forze repressive, forze dell’ordine e magistratura, loro hanno un compito importantissimo, ma non è da loro soltanto che deve venire …questa repressione perché è un concorso, dovrebbe essere il concorso di tutti ecco, come insegna il commerciante che si ribella, come la società civile che partecipa, e che nel suo piccolo quotidiano non viva più di compromessi, ecco, proprio cambiando il tipo di mentalità, di cultura e quindi è un lavoro lento, ma è un lavoro che va fatto e secondo me col.. tutte queste cose riunite insieme possono… non è soltanto un… “E’ la magistratura che deve fare tutto”, oggi sono tutti molto più vicini ai magistrati, almeno quelli che sappiamo che lottano alla mafia, io so dell’isolamento invece che aveva mio marito, guardi che sono passati soltanto 14 anni ma è come se ne fossero passati 50, dal cambiamento enorme
D. ANCHE FALCONE ERA STATO ISOLATO
R. Era stato isolato, ma non era no la solitudine di mio marito che era proprio …trascurato, negletto, non c’era.
ELVIRA ROSA MEMBRO DEL CONSIGLIO DIRETTIVO DELL’ASSOCIAZIONE
DONNE SICILIANE PER LA LOTTA CONTRO LA MAFIA
Palermo, 20 settembre e 13 ottobre 1993
D. QUANDO E’ NATA L’ASSOCIAZIONE? R. Intorno agli anni ’80. D. PERCHE’ AVETE DECISO DI FONDARLA? R. Per esprimere piena solidarietà alle vedove dei numerosi delitti eccellenti di quegli anni, e anche alle vedove di ambienti mafiosi.
D. PERCHE’ AVETE AVVERTITO LA NECESSITA’ DI COSTITUIRE UN’ASSOCIAZIONE DI SOLE DONNE?
R. Perché abbiamo capito che in Sicilia le donne, per essere veramente libere, dovevano innanzitutto liberarsi da un grossissimo ostacolo: la mafia, la quale impedisce la piena realizzazione della libertà e dei diritti della persona, la mafia è una esasperazione dei principi maschilisti della società; solo un’associazione di donne poteva espimere una reale solidarietà affetttiva ad altre donne; perché a morire erano gli uomini e quindi a restare erano le donne, ed io all’inizio ho voluto mettere in chiaro che anche le donne provenienti da ambienti mafiosi avevano bisogno della nostra solidarietà; gli uomini fanno spesso le cose per protagonismo, le donne perché le sentono veramente.
D. AVETE RICEVUTO CRITICHE PER QUESTA VOSTRA SCELTA? R. Sì, abbiamo ricevuto critiche, perché non capivano proprio la necessità delle donne di liberarsi dalla mafia per poter realizzare a pieno i propri diritti e perché ancora non si capiva l’urgenza di sviluppare una cultura antimafiosa.
D. COSA RISPONDETE A CHI VI ACCUSA DI ESSERE UN’ASSOCIAZIONE CHE ESCLUDE L’IMPEGNO DEGLI UOMINI IN UNA LOTTA CHE RIGUARDA L’INTERA SOCIETA’?
R. Gli uomini possono impegnarsi in altre associazioni miste, alcune di noi, ad es., fanno parte anche di altre associazioni di tipo misto e anche con queste associazioni combattono la mafia, ma in modo diverso.
D. POTREBBE RACCONTARMI LE VARIE FASI E GLI OSTACOLI INCONTRATI PER LA SUA COSTITUZIONE?
R. All’inizio era un comitato che riuniva le parti femminili di varie associazioni (partiti, Acli, sindacati), si raccolsero 30.000 firme per una petizione da inviare al presidente Pertini e al presidente della Comunità Europea Simone Veil, …c’è prima la lettera a Pertini, poi c’è l’appello a Pertini, che è più preciso, rispetto alla lettera, e poi quello a Simone Veil è praticamente lo stesso. Ci si riunì, per esprimere solidarietà, attorno alle vedove Costa, Terranova, Giaccone, Mancuso, Lo Sardo, Valarioti. Nell’82 il Comitato chiese la costituzione di parte civile al processo Spatola-Inzerillo, venne respinta. Era molto difficile riuscire a muoversi perché ognuno, siccome era in rappresentanza di un’associazione o di un partito anche, perché c’erano anche donne dei partiti, è chiaro che, per un verso non si sentiva libera di esprimere il proprio parere perché non parlava a titolo personale, ma si sentiva legata comunque a posizioni, per es., prese che potevano anche, prese dall’associazione, o dal partito di appartenenza, che potevano non essere perfettamente in sintonia con le decisioni che invece prendeva il Comitato Promotore, e quindi c’era chi sapeva già di posizioni prese dai partiti ecc. e quindi faceva uno sforzo per adattare le decisioni del Comitato alle decisioni prese dal proprio partito, ora considera, per es., quale poteva essere la consonanza non della singola presente lì delle Acli, per es., o della singola presente lì del PC, ma di quella che pensava di rappresentare, che riteneva di essere presente in quanto rappresentava le Acli, e quella che riteneva di essere presente in quanto rappresentava le donne del PC, su tutta una serie di prese di posizione è chiaro che era difficilissimo trovare un accordo che magari queste due persone che parlavano fuori dal loro ruolo avrebbero, dico non sempre, ma avrebbero potuto concordare, ma che loro stesse erano prigioniere, a volte, di prese di posizione, o comunque sapevano che se tu convincevi quella che era lì comunque lei doveva andare a convincere altre, non rappresentava se stessa, quindi aveva un ruolo che comunque non era un ruolo perfettamente libero, (…) a quei tempi le differenze tra associazioni e partiti erano molto più forti, poi ci fu il periodo del secondo referendum sull’aborto, che fu proprio scatenante, come fatto di rottura, per noi, perché poi si inserirono altre cose, cioè l’unità sulla mafia era difficile ottenerla quando si partiva da certi pregiudizi, e da presupposti di posizioni diversificate, e poi c’era anche il fatto che ognuno, è vero, che cercava pure di dire, di acquistare un ruolo prioritario in base, spesso, al ruolo prioritario che aveva nella lotta alla mafia il proprio partito, per cui certe volte, le donne del Pc hanno peccato un poco, pure, di presunzione, non voglio dare la colpa a loro del fallimento, però, dico, c’erano per es. le donne del PC che un pò di presunzione peccavano all’inizio, perché sapevano di avere alle spalle una tradizione, e invece altre che si sentivano quasi imbavagliate dalla posizione dei loro partiti, perché certo, le Acli che era DC, quella delle Acli che era, in fondo DC e votava DC, in una riunione nostra si chiudeva a difesa, o lo stesso per la repubblicana, cioè c’erano profonde contraddizioni, quindi per questo poi si decise di costituire un’Associazione; in modo che ognuna parlasse a titolo personale; così nell’84 venne costituita l’associazione delle donne contro la mafia. Venivamo accusate di voler fare politica, in quanto, in maggioranza, eravamo di sinistra.
D. QUALI SONO GLI SCOPI CHE SI PROPONE L’ASSOCIAZIONE? R. Diffondere una cultura antimafiosa; quando ci siamo costituite è stato molto difficile fare accettare l’idea che ci fosse una mafiosità diffusa, ora si parla spesso e con facilità di cultura mafiosa, ma in quegli anni siamo state forse noi le prime a parlarne, così come degli intrecci tra mafia e politica; esercitare una funzione di stimolo e controllo presso le autorità statali e scolastiche.
D. QUALI SONO GLI STRUMENTI CHE ESSA USA PER IL PERSEGUIMENTO DEI SUOI OBIETTIVI?
R. Gli stumenti variano a seconda degli scopi e delle attività: incontri nelle scuole, sostegno alle donne che si costituiscono parte civile, corsi sui diritti, nei quartieri a rischio, all’interno dei centri sociali (San Saverio); ognuna offre le proprie capacità; gli strumenti sono quelli che la situazione richiede.
D. QUALI SONO LE SUE ATTIVITA’? R. Nei primi anni ’80 abbiamo anche chiesto la costituzione di parte civile nei processi per stupro che si tenevano in Italia, in quanto eravamo contro ogni forma di violenza; domanda di costituzione di parte civile nel processo Spatola-Inzerillo e nel processo Chinnici, tutte e due respinte; nel processo in cui Maria Benigno si costituì parte civile noi le abbiamo dato sostegno morale, siamo andate al processo (…) abbiamo organizzato dei corsi sui diritti civili all’Albergheria, all’interno del Centro Sociale, cercavamo di tirar fuori le donne, almeno per un paio d’ore alla settimana, dai problemi quotidiani e da un ambiente pesante, insegnando loro anche semplicemente come compilare un modello, come richiedere un certificato, le donne che vi partecipavano avevano, in qualche modo, già attuato una scelta di libertà; parlavamo loro di mafia in maniera indiretta, come negazione di diritti, educandole ad esercitare e pretendere i propri diritti. In occasione del maxiprocesso, assieme al Centro Impastato lanciammo una sottoscrizione in favore delle vittime della mafia, questi soldi sono stati dati direttamente, noi abbiamo raccolto pochissimo, perché contemporaneamente alla sottoscrizione aperta da noi, fu aperta la sottoscrizione di Repubblica … effettivamente furono CGIL CISL e UIL a lanciare la sottoscrizione attraverso Repubblica
D. QUINDI LA VOSTRA FU UN’ALTRA SOTTOSCRIZIONE, COSA AVETE FATTO CON I SOLDI RACCOLTI?
R. Noi li abbiamo dati direttamente, perché non è che avevamo un comitato, era l’Associazione che raccoglieva, a noi mi pare che ci arrivarono, potrei sbagliarmi, ma ci arrivarono una ventina di milioni, non di più, e li abbiamo dati a Vita Rugnetta, Michela Buscemi e Piera Lo Verso, e a Maria Benigno, … … … noi li abbiamo raccolti proprio per i familiari delle vittime della mafia, anche perché allora, già c’era la legge regionale che dava i contributi ai familiari delle vittime dello Stato, quindi allora restavano scoperti, rispetto ai fondi regionali, restavano scoperti proprio Vita Rugnetta, Michela Buscemi e la Lo Verso … … per noi i soldi erano destinati proprio ad aiutare tutte le vittime della mafia, tutte quelle che avevano bisogno per il difensore…
… … … … … … … … … … … … … … …
… … … … … … … … … … … … … … … D. QUALI OBIETTIVI LA VOSTRA ASSOCIAZIONE HA GIA’ RAGGIUNTO? R. La costituzione di un fondo nazionale per le vittime della mafia, il fondo serve sia per aiutare quelle che si costituiscono parte civile, sia per dare proprio un aiuto materiale, anche a chi non si costituisce parte civile, o a chi non può, evidentemente costituirsi parte civile, o a chi non vuole per vari motivi, cioè è un fondo nazionale per tutte le vitttime della mafia che li aiuti soprattutto dal punto di vista economico
D. PER POTERSI ISCRIVERE ALLA VOSTRA ASSOCIAZIONE, BISOGNA AVERE DETERMINATI REQUISITI?
R. Requisiti morali, che non si appartenga a famiglie mafiose, o che, se vi si appartiene, se ne sia rifiutato in pieno i principi; possono farne parte anche donne italiane ma come sostenitrici (contributo in denaro) o aderenti, in quanto, altrimenti, come socie ordinarie, bloccherebbero i lavori dell’assemblea.
D. QUANTE SOCIE CONTAVA ALLA SUA NASCITA? E ADESSO? IN QUALE ANNO AVETE REGISTRATO MAGGIORI ADESIONI?
R. Alla nascita dell’Associazione circa 60 (nell’84), l’anno scorso (1992) circa 120, molte non rinnovano la tessera, quest’anno, ad es., solo 50 l’hanno rinnovata, quindi spesso diventa difficile stabilire il numero delle tessere per ogni anno; durante le manifestazioni spesso si registrano numerose adesioni e tesseramenti, ma, levato il primitivo entusiasmo, tutto finisce là; spesso diventa difficile riunire le socie: si spediscono 250 lettere e si presentano all’assemblea pochissime socie (5, 6); l’anno scorso abbiamo aggiornato lo statuto per rispettare le normative vigenti e per far rientrare l’Associazione nella recente legge sul volontariato; il vecchio statuto non era così dettagliato come quello attuale e non vi era distinzione tra socie ordinarie e sostenitrici, inoltre non era previsto il requisito della presentazione da parte di 2 socie per potersi iscrivere all’Associazione.
D. POTREBBE FORNIRMI INFORMAZIONI RELATIVE ALLA ETA’, TITOLO DI STUDIO E PROFESSIONE, PREVALENTI NELLA VOSTRA ASSOCIAZIONE?
R. Varie, ma in prevalenza laureate, insegnanti, di età media (40 anni), che precedentemente si sono già impegnate nel sociale, nei partiti, soprattutto di sinistra e nei sindacati; non mancano le casalinghe e le giovani, ma sono in netta minoranza, inoltre vi sono coloro che sono state colpite, dalla mafia, negli affetti sia come vedove di Stato, sia come donne provenienti da ambienti mafiosi che hanno rinnegato, quindi hanno deciso di inpegnarsi soprattutto per questo, invece le altre donne, non colpite hanno deciso d’impegnarsi per una loro maturazione culturale, un loro percorso ideale.
D. LEI PERCHE’ HA DECISO DI FAR PARTE DI QUESTA ASSOCIAZIONE?
R. Il mio impegno contro la mafia è un pò il frutto delle mie esperienze passate, del mio vissuto e percorso individuale; impegnata fin da ragazza nei movimenti femminili, di liberazione della donna, e nel sindacato, ho visto come uno sviluppo naturale del mio percorso culturale, del mio impegno nel sociale, il far parte di una associazione di donne che lottano per rimuovere uno dei principali ostacoli frapposti in Sicila allo sviluppo e dispiegamento della propria personalità, alla realizzazione delle proprie aspirazioni e al pieno godimento dei propri diritti; le donne in Sicilia, per raggiungere finalmente la parità, una effettiva emancipazione e per esplicare liberamente e serenamente i propri ruoli all’interno della società, devono lottare contro un nemico in più rispetto alle donne del resto del mondo; la sconfitta della mafia è il primo e imprescindibile passo verso una piena realizzazione dei principi democratici e quindi di una società migliore.
D. LA VOSTRA ASSOCIAZIONE E’ VICINA, ANCHE SOLO IDEALMENTE, A QUALCHE PORMAZIONE POLITICA?
R. No, non chiediamo tessere di partito alle socie. D. SIETE STATI APPOGGIATI DALLE AUTORITA’, STATALI, ECCLESIASTICHE E SCOLASTICHE?
R. Il nostro rapporto con queste singole istituzioni dipende dai vari momenti, dalle richieste che facciamo e, soprattutto, dalle persone con le quali abbiamo a che fare (…) Abbiamo scritto un pò a tutte le scuole palermitane, ma poche ci hanno risposto, molte scuole del nord sì invece; atteggiamento mutato in meglio negli ultimi anni; abbiamo sempre rifiutato i finanziamenti regionali e statali istituzionali, non li abbiamo mai chiesti, noi abbiamo chiesto sempre finanziamenti non all’Associazione, ma all’iniziativa (…) Non si può generalizzare, quindi, dicendo che dalle autorità (statali, ecclesiastiche e scolastiche), abbiamo avuto ostacoli o appoggi; buoni rapporti con singoli preti;
D. QUAL E’ L’ATTEGGIAMENTO DEI CONCITTADINI, COME REAGISCONO ALLE VOSTRE INIZIATIVE? E’ MUTATO NEL TEMPO?
R. La gente dimostrava interesse, anche prima, ma ora partecipa di più, ho paura, però, che agiscano sotto l’onda emotiva delle stragi; noi, l’anno scorso abbiamo avuto molti nuovi tesseramenti, ma poi poche hanno rinnovato la tessera; durante le nostre iniziative molte firmano, ma tutto finisce là; anche tra di noi, ad impegnarci veramente siamo in poche.
D. SI SONO FORMATI NUCLEI DI QUESTA ASSOCIAZIONE IN ALTRE CITTA’?
R. Oltre che a Capo d’Orlando un tentativo si sta facendo a Catania, dove abbiamo fatto delle tessere come aderenti, ed a Agrigento, si dovrebbero costituire come nuclei ma non è detto; in passato si era tentato a Trapani ma è fallito , ed a Gela, ma è diventata un’associazione completamente autonoma da Palermo, mista ed in prevalenza di giovani.
D. QUALE PUO’ E DEVE ESSERE, SECONDO LEI, IL CONTRIBUTO SPECIFICO DELLE DONNE ALLA LOTTA CONTRO LA MAFIA?
R. Il contributo delle donne può essere altissimo, perché le donne fanno da tramite a qualunque forma di cultura, per le professioni che esse svolgono, per il ruolo che ancora esse svolgono nella società, e, inoltre, nel bene e nel male, sono e saranno sempre, madri e possono trasmettere sia la buona come la cattiva cultura.
D. CON QUALI MEZZI E ATTRAVERSO QUALI CAMBIAMENTI PENSA CHE POSSA ESSERE DEFINITIVAMENTE DEBELLATO IL FENOMENO “MAFIA”?
R. Non c’è una ricetta, bisogna lavorare dal punto di vista culturale, informando i giovani sul fenomeno mafioso, facendo capire loro che la mafia blocca l’economia, il funzionamento del comune; muovendosi e aiutando tutte quelle realtà del territorio che agiscono per creare dei cittadini: cioè gente che rifiuta i ricatti, le sopraffazioni, non correre il rischio di essere fagogitati nella mafia; opera di controllo del funzionamento della cosa pubblica, questo è quello che può fare il singolo cittadino, poi naturalmente la magistratura deve fare il suo mestiere, lo Stato da solo non ce la può fare.
ALCUNE NOTIZIE SULLE DONNE DEL DIGIUNO, GRUPPO DEL QUALE ELVIRA ROSA FA PARTE:
D. QUANDO E’ NATO QUESTO GRUPPO? R. Subito dopo i funerali di… Borsellino, perché siccome sono stati troppo vicini Falcone e Borsellino non vorrei sbagliarmi
D. LEI FA ANCORA PARTE DI QUESTA ASSOCIAZIONE? R. Sì perché non si è mai costituita formalmente né si è mai sciolta, quindi… …in itinere si sono aggiunte altre non c’è una tessera, tant’è che è rimasta solo la sigla ormai, e basta
D. VI RIUNITE ANCORA IN PIAZZA CASTELNUOVO? R. No, ormai è finito, no, troppo eterogenea per essere un’associazione, non esiste più praticamente, perché non c’erano elementi di continuità né di programma, che potessero tenere insieme un’Associazione, perché fondare una loro associazione c’era già l’Associazione Donne Contro La Mafia, tantissime erano già iscritte all’Associazione Donne Contro La Mafia, il problema è che fu un fatto di opportunità chiamarsi Donne Del Digiuno, perché il titolo riportava la manifestazione, cioè la protesta, fu una cosa, così, estemporanea, e quindi si disse, alcune non erano dell’Associazione Donne Contro La Mafia, allora per non chiuderla dentro una sigla, “Le Donne Del Digiuno”, e rimase Le Donne Del Digiuno
D. PERCHE’ ERAVATE DIVERSISSIME? R. C’erano molte dell’Associazione, ma c’erano anche donne che all’Associazione in quanto tale non ci credevano, e però hanno fatto il digiuno come forma di protesta, ecco perché, e sono quelle stesse che non vogliono, si sono opposte a costituirla come associazione in quanto tale, per cui Le Donne Del Digiuno è una sigla, non è un’associazione, … è un gruppo che probabilmente si ricostituirà su un fatto eclatante, se ci dovesse essere un fatto eclatante
D. QUINDI NON DIGIUNATE PIU’ R. No, infatti è assurdo pure chiamarsi Donne.. si costituiva un’associazione “Donne Del Digiuno”, che senso aveva, …. il digiuno è una forma di protesta che si fa per ottenere una cosa, non è che lo puoi fare… perché siamo le donne del digiuno, diventa una cosa assurda
D. SE NON MI SBAGLIO, DIGIUNAVATE FINO ALLA CATTURA DEGLI AUTORI DELLE STRAGI
R. E infatti alcune cose poi furono fatte, poi ci fu, diciamo, si trattò di organizzare le manifestazioni all’anno, perché l’ultimo digiuno fu a Natale, e basta non ce ne furono più digiuni, si disse a Natale, perché venga segnato anche il Natale, cioè ci sia una presenza diversa, cioè per ricordare, più per ricordare, a Natale la gente va a fare le compere, gli acquisti ecc. ecc. che si ricordi che c’è stata la strage Borsellino e Falcone (…)
D. CHE ETA’ HANNO, IN MEDIA, LE DONNE DEL DIGIUNO? R. Variegata, questa sì estremamente variegata, dalle ragazze di 15 16 anni, anche perché appunto, tante hanno detto “Io voglio fare un giorno di digiuno”, e quindi erano donne del digiuno, perché facevano un giorno di digiuno, dopo di che è chiaro che, né questo le coinvolgeva se non per un fatto di testimonianza, per cui hanno gravitato attorno alle donne del digiuno, 3000, 4000 donne probabilmente, ma non c’è nessun reale fatto associativo o altro, allora noi nella raccolta delle firme ci siamo fatte lasciare anche l’indirizzo, per dire “Eventualmente vi contattiamo”, dopo di che, appunto perché non esiste un’organizzazione, questi indirizzi, sono ancora conservati,
ma sono assolutamente inutilizzati, perché solo un’associazione può mantenere un minimo di rapporti.
D. LE DONNE ERANO IN MAGGIORANZA DI SINISTRA, DELL’AREA CATTOLICA…
R. Stranissime, cioè io ti posso dire chi era il nucleo promotore, cioè le 12 donne, le 12 donne erano tutte di sinistra, le 12 donne erano: io, Antonia Cascio, Bice Mortillaro, Daniela Dioguardi, Claudia Perricone, Piera Fallucca, … nacque da donne sempre politicamente impegnate,… dai 35 ai 45 50 anni, Bice ce ne ha molti di più, età media 48, c’erano, quindi donne impegnate, 2, 3, dell’UDI, un gruppo dell’Associazione Donne Contro La Mafia, (…), è una esperienza, per me la definizione migliore è gruppo spontaneo di aggregazione di donne, che già avevano altri rapporti, si conoscevano, perché donne che fanno politica e che prese dalla disperazione, non sapere che cosa fare, per fare una protesta scelsero la forma del digiuno, dopo di che sono stati i giornali, in fondo, a darci il nome delle Donne Del Digiuno, allora siccome si disse, al primo comunicato, “Come ci firmiamo? Vabbé, ci chiamano Le Donne Del Digiuno, firmiamoci Donne Del DIgiuno”… … … cioè non è che ogni tanto non ci vediamo o non ci..se c’è bisogno di interventi, infatti si è detto, “Non c’è bisogno, dato che non è mai stata fatta questa associazione, non c’è motivo di scioglierla, ci conosciamo tutte, sappiamo chi siamo”, queste 12, certe volte siamo 15, siamo 20, “Ci conosciamo, se dovessimo individuare un, qualcuna di noi dovesse dire è il caso forse che interveniamo come Donne del Digiuno…”, resta come ipotetico gruppo di pressione, che utilizza di nuovo la forma del digiuno come forma forte di protesta, … per cui può essere che..ecco, per padre Puglisi, non c’era bisogno che si facesse la riunione, “Facciamo 2 giorni di presenza”, bene, chi può, fa 2 giorni di presenza, non c’è un progetto di attività…
ANTONIA CASCIO componente del direttivo dell’ASSOCIAZIONE DONNE SICILIANE PER LA LOTTA CONTRO LA MAFIA.
Palermo 20 e 28 Settembre 1993
D. PERCHE’ AVETE COSTITUITO UNA ASSOCIAZIONE DI SOLE DONNE? R. Perché a morire erano gli uomini ed a restare, quindi, donne; perché associazioni miste ce ne erano tante (partiti, sindacati, Acli); ed io direi anche per una nostra specificità perché pensavamo, eravamo, siamo convinte, che proprio nell’universo femminile ci fosse un desiderio, una capacità, anche molto forte, di fare questa lotta alla mafia e che non andava taciuta, che non andava messa da parte, quindi anche la scelta di dare la voce, per es., alle donne che da sole non ce la facevano, cosa che probabilmente sarebbe stata difficile all’interno di un partito o di un sindacato.
D. POTREBBE RACCONTARMI LE VARIE FASI ATTRAVERSATE E GLI OSTACOLI INCONTRATI PER LA SUA COSTITUZIONE?
R. Visto che il Comitato Promotore, per la raccolta delle firme, aveva avuto successo, abbiamo deciso di continuare. Ci siamo costituite in associazione nell’84, perché ci avevano detto che per poterci costituire parte civile (al processo Chinnici) dovevamo essere costituite in associazione, così, nottetempo, abbiamo firmato l’atto costitutivo dal notaio, per potere, nei termini prescritti, chiedere la costituzione di parte civile al processo Chinnici, che si svolse a Caltanissetta nell’84, ma fu ugualmente respinta in quanto non avevamo avuto danni materiali, come, invece, il comune di Palermo, che poté costituirsi parte civile in quanto aveva avuto 2 auto danneggiate in seguito allo scoppio dell’autobomba. Per quanto riguarda gli ostacoli si poteva parlare o di indifferenza, soprattutto, qualche volta anche ostilità, ma fondamentalmente indifferenza, anche nella richiesta alle scuole, per es.
D. QUALI SONO GLI SCOPI CHE SI PROPONE L’ASSOCIAZIONE? R. Organizzare… la promozione proprio di una coscienza antimafia, soprattutto attraverso il lavoro con i giovani e il lavoro con le donne, individuando, anche suggerendo agli enti preposti delle iniziative anche istituzionali per sostenere chi si volesse impegnare nella lotta alla mafia; poi riviste… nello statuto prevediamo tante cose in realtà.
D. QUALI SONO I MEZZI, GLI STRUMENTI, CHE ESSA USA PER IL PERSEGUIMENTO DEI SUOI OBIETTIVI?
R. Il lavoro con le scuole, contatti con i centri sociali dove ce lo chiedono, e poi questi convegni, proprio per trovare anche spazi di dibattiti un pò più allargati, coinvolgendo le scuole, il sindacato, le donne in generale.
D. QUALI SONO LE SUE ATTIVITA’? R. Abbiamo organizzato 2 grossi convegni: uno nell’88, la mattina corteo con i sindacati, pomeriggio incontro con Nilde Jotti; l’altro con le donne dell’Anpi, qua a Palermo, il 6 e 7 marzo 1991, c’è stato la mattina un corteo, poi un incontro con le scuole, ai ragazzi era stato dato il questionario sulla resistenza e sulla mafia, per verificare cosa sapessero, se conoscevano i nomi, soprattutto di figure femminili che si erano distinte, e poi il pomeriggio, invece, una tavola rotonda alla Sala Gialla, all’assemblea regionale, in cui donne dell’Anpi, donne dell’Associazione, le donne palermitane discutevano su quali strumenti del passato e del presente potevano essere utilizzati, e quali invece strumenti nuovi, nella battaglia contro la mafia (..) Nell”86, in occasione del maxiprocesso, insieme al Centro Impastato abbiamo deciso, invece di vedere rifiutata la nostra costituzione di parte civile al processo, di istituire un fondo a favore delle donne che potevano costituirsi parte civile. Ci fu una spaccatura sia al nostro interno e sia tra le varie associazioni, perché alcune di noi volevano indirizzare i soldi soltanto alle vittime dei servitori dello Stato, altre, come me , anche a coloro che si erano costituite parte civile, ma non erano parenti di servitori dello Stato. Alcune associazioni e partiti aderirono al Comitato per il Monumento, che raccoglieva fondi per erigere un monumento alle vittime della mafia. Alcune di noi, in seguito a questi disaccordi, uscirono dall’Associazione (…) Noi decidemmo che i soldi li raccoglievamo solo per le donne che erano state escluse dalla prima sottoscrizione, in quanto non vedove o parenti di vittime servitori dello Stato, (…) noi abbiamo pagato gli avvocati, di queste donne ed abbiamo dato i soldi a queste donne… gli avvocati poi ci fu il comune pure che pagò la parcella…
D. QUALI OBIETTIVI LA VOSTRA ASSOCIAZIONE HA GIA’ RAGGIUNTO? R. In un primo momento verrebbe di rispondere nessuno, ma, secondo me, il fatto che ancora continuino ad uccidere oggi, padre Puglisi, come hanno ucciso nel ’79 Terranova è, paradossalmente, una cosa positiva: … io che la mafia uccide per debolezza io non ci credo proprio, io continuo a pensare che la mafia è ancora forte … io dico che è ancora forte la mafia, però, se nel ’79 hanno cominciato con Terranova ed ancora oggi hanno ammazzato padre Puglisi, vuol dire che gente che si oppone alla mafia ce n’é stata ed continua ad esserci, anzi oggi ce n’è di più di prima, tant’è che ammazzano, perché se no non ammazzerebbero, se non ci fossero persone che si contrappongono; … certo ci sono ormai degli equilibri che evidentemente si sono rotti, vuoi perchè qualche donna, anche per disperazione, ha parlato, vuoi perché c’è qualche prete che si oppone, quindi forse, dico, anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo seminato qualche piccola … D. QUANTI SOCI CONTAVA ALLA NASCITA LA VOSTRA ASSOCIAZIONE? R. Circa 120
D. IN QUALE ANNO AVETE REGISTRATO MAGGIORI ADESIONI? R. Nel periodo del maxiprocesso. D. LEI PERCHE’ HA DECISO DI FAR PARTE DI QUESTA ASSOCIAZIONE? R. Perché indignata dall’ondata paurosa di delitti eccellenti, di uomini che combattevano la mafia; per solidarietà alle vedove, per una mia profonda convinzione morale, ideale; la stampa tendeva a mettere in luce soltanto l’impegno delle vedove, che avevano deciso d’impegnarsi soltanto per essere state colpite negli affetti; io l’ho fatto per i miei ideali. Spesso i giornalisti riportavano ciò che avevo detto io loro, nelle interviste, sotto il nome di G.Terranova.
D. HA PARTECIPATO IN PASSATO A QUALCHE ALTRA ASSOCIAZIONE, ANCHE POLITICA, O MOVIMENTO?
R. Quando studiavo a Roma ero impegnata nei Comitati di Quartiere, prima ancora che questi diventassero obbligatori per legge, e nell’Università; tornata a Palermo mi sono impegnata nella CGIL.
D. LA VOSTRA ASSOCIAZIONE E’ VICINA, ANCHE SOLO IDEALMENTE, A QUALCHE FORMAZIONE POLITICA?
R. Ufficialmente no, ma di fatto è vicina al PDS o comunque alla sinistra.
D. SIETE STATI APPOGGIATI O OSTACOLATI DALLE AUTORITA’, STATALI SCOLASTICHE ED ECCLESIASTICHE?
R. E’ capitato che abbiamo spedito delle lettere di richieste, di sollecito, alla Regione, alla Chiesa ed a delle scuole, senza avere neanche risposta. La Chiesa non ci ha ostacolato ma neanche appoggiato; abbiamo scritto a molte scuole, chiedendo di poter tenere delle conferenze e molte non ci hanno nemmeno risposto. Il sindaco Orlando ci faceva tante promesse che poi non manteneva. (…) allo Sperone c’era una struttura costruita come centro sociale, che era stata completamente abbandonata, e allora in accordo con un gruppo del quartiere abbiamo organizzato lì dentro una manifestazione, con delle bambine che hanno fatto uno spettacolo di danza, noi come Associazione abbiamo proiettato un documentario che era stato girato proprio sull’Associazione, e sono venute Bianca Guidetti Serra, ed Ada Becchi Collidà, che sono 2 donne molto impegnate in politica, … abbiamo invitato queste due donne che facevano parte, se non ricordo male, della Commissione nazionale antimafia, c’era anche un motivo preciso, in quel momento, per cui le abbiamo invitate, e Orlando ci doveva fare pulire i locali, mandare i fiori, le piante, le sedie, doveva venire lui, … era un modo per dire ai cittadini questo è un centro sociale, avete il diritto di chiedere che vi venga sistemato, pulito, e che voi lo dobbiate utilizzare per i vostri figli e per le attività che si possono fare in un quartiere, era questo il messaggio, cioè di dire questi centri non devono essere abbandonati in questo modo, queste strutture ci sono, bisogna ristrutturarle, aggiustarle e farle funzionare, e vi facciamo vedere due cose, due tre cose che si possono fare dentro un centro sociale, quindi era un modo per portare questo messaggio … e Orlando diceva “Ma perché le bimbette non le facciamo ballare a piazza Niscemi”, e noi gli abbiamo spiegato che le bimbette vivevano allo Sperone, e che era giusto che la città si spostasse ed andasse allo Sperone, visto che allo Sperone non si fa mai niente e c’è il deserto, perché appunto, al solito, le cose si devono fare sempre dove ci andiamo gli amici e i figli degli amici a vederle.
D. QUAL E’ L’ATTEGGIAMENTO DEI VOSTRI CONCITTADINI, COME REAGISCONO ALLE VOSTRE INIZIATIVE? E’ MUTATO NEL TEMPO?
R. Erano interessati, ma con l’idea della delega “Brave, continuate così, fate bene”, ma alla fine loro non s’impegnano, non denunciano (es. dei commercianti che hanno negato di pagare il pizzo, usando la scusa delle omonimie); ora la gente partecipa di più alle manifestazioni, ma ho paura che sia spinta più dall’emozione per le stragi, che non da una radicata presa di coscienza, e che nei fatti continuino a non collaborare con la giustizia; una volta i grandi delitti non destavano grande emozione tra la gente, con le stragi, invece, tutti si sono sentiti personalmente colpiti, anche, forse, per la grande crudeltà usata; ora la gente si organizza e fa qualche cosa, qualche manifestazione…
D. QUALE PUO’ E DEVE ESSERE, SECONDO LEI, IL CONTRIBUTO SPECIFICO DELLE DONNE ALLA LOTTA CONTRO LA MAFIA?
R. Io direi proprio la nostra… anche a partire dai luoghi in cui noi donne siamo presenti, la nostra sensibilità rispetto al problema della mafia, che si è vista, appunto, anche nella scelta delle donne che si sono costituite parte civile, non è che lo hanno fatto dopo che gli hanno ammazzato tutti quanti, o dopo che hanno tentato di vendicarsi, cioè se pigli Buscetta o altri pentiti prima hanno ammazzato, poi quando hanno visto che probabilmente il carcere era più sicuro che fuori dal carcere, si sono pentiti ed hanno fatto queste scelte, le donne quando si sono avvicinate alla giustizia, quando hanno denunciato, lo hanno fatto proprio per un bisogno loro, anche di giustizia, senza ottenere in cambio ne sconti di pena, ne niente, quindi io credo che il nostro primo contributo sia proprio questo, un desiderio che probabilmente per le donne è più forte, anche di giustizia, un desiderio di solidarietà, anche; … direi che è proprio una sensibilità diversa che hanno le donne, nella lettura anche di certe situazioni, una maggiore sensibilità, un diverso approfondimento.
D. QUAL E’ L’IMPORTANZA ED IL RUOLO CHE LE DONNE HANNO ALL’INTERNO DI COSA NOSTRA?
R. Così come nel resto della società, all’interno della mafia ci sono donne che contano molto e donne che non contano, esse non possono, soltanto, essere affiliate a Cosa Nostra, spesso le mogli provengono, anch’esse da famiglie mafiose, non partecipano passivamente ma attivamente all’interno di Cosa Nostra; all’interno di Cosa Nostra gli uomini parlano per avere uno sconto di pena, le donne per brama di giustizia, e ne ricevono tanti danni. Sinceramente non so più se, potendo tornare indietro, rilancerei quegli appelli che ho lanciato alle donne vittime della mafia, affinché si costituissero parte civile, perché considerando quello che hanno ottenuto! I figli di Piera Lo Verso sono stati arrestati per droga, fallimento delle loro attività economiche per l’isolamento in cui caddero; il Comune diede loro 3 milioni.
D. CON QUALI MEZZI E ATTRAVERSO QUALI CAMBIAMENTI PENSA CHE POSSA ESSERE DEFINITIVAMENTE DEBELLATO IL FENOMENO MAFIOSO?
R. …secondo me intanto perseverando in questo tipo di scelte, nel senso che si continua… a intensificare, secondo me, il lavoro delle scuole, ma non tanto soltanto delegando alla singola testimonianza, come hanno fatto, non so invitando G.Terranova, invitando Carmine Mancuso e qualche altro, a fare gli incontri con gli studenti, secondo me anche è importante che gli insegnanti acquistino loro stessi una coscienza antimafiosa e che abbiano proprio anche una formazione loro, che gli permetta di affrontare con cognizione questi argomenti, …i ragazzi escono dalle scuole superiori e dal liceo senza sapere niente della storia moderna, e la storia moderna, ormai, è fatta anche da questo, non è che possiamo non parlare, quindi lavorando molto secondo me nelle scuole, che è il posto dove ci sono i ragazzi, e da lì cominci, facendo in parte un discorso specifico di mafia, però dando, gli insegnanti stessi, gli adulti anche un es. proprio di onestà, di trasparenza, di comportamento, perché dico, nel nostro piccolo, che ne sò io non ho mai comprato, per dire, sigarette di contrabbando, neanche quando fumavo, per un discorso di scelta, cioè se io so, certo a Palermo è un pò difficile, però di quei locali, di quei cinema di cui si sa dichiaratamente che sono attività losche, per es., noi per scelta non ci andiamo (…) e quindi io direi, sicuramente, dico questo discorso dell’informazione e anche proprio della pratica di una coscienza antimafiosa, io dico che anche gli strumenti che finora sono stati praticati, a partire il Comitato delle Lenzuola, noi dell’Associazione, altre attività, io credo che si debbano continuare, perché appunto, sono degli strumenti che in alcuni momenti servono, il fatto di essere in molti, di occupare le piazze, le strade, io credo che serva anche, per fare vedere che in fondo siamo in tanti a pensare che bisogna lottare contro la mafia, credo che gli enti locali, il comune, le amministrazioni … … sicuramente servono anche questi momenti in cui si dà visibilità, si dà e ci si dà visibilità, cioè si dimostra che la gente c’è, vuole scendere in piazza, e non ne può più di quello che succede a Palermo, e questo sicuramente, ecco l’impegno delle istituzioni non si possono limitare a scendere la Commissione antimafia ogni tanto a Palermo, a fare l’elenco delle case, delle scuole affittate ad agenzie prestanome ecc., bisogna che ci sia veramente un impegno da parte di chi decide, perché noi, diciamo, noi possiamo dare le idee, ma non è poi che abbiamo il potere, non è chepossiamo… nonabbiamo soldi, non abbiamo strumenti, infatti la mafia ammazza, sicuramente, secondo me, quando chi sa ha anche il potere, perché Falcone è stato ammazzato perché sapeva e perché, per il posto che occupava, poteva, ogni tanto ci chiedono Umberto Santino a lui com’è che non lo ammazzano, Umberto è un archivio dell’antimafia, però non è che ha potere,
D. MA NEANCHE PADRE PUGLISI AVEVA POTERE R. …secondo me il discorso di padre Puglisi, (…) luiha detto “Io ai mafiosi lavoro non ce ne do”, allora lui ha avuto il potere di decidere questa cosa per la sua parrocchia, ma è stato uno che lo ha detto ad alta voce, perché faceva questa scelta, e quindi poteva diventare il primo di una lunga serie
D. COME LIBERO GRASSI R. Libero Grassi era il primo dei commercianti, …quindi, onde evitare che si creassero tanti Liberi Grassi, giustamente hanno bloccato sul nascere, quindi dico, per noi delle associazioni, dei movimenti antimafia, sostenere queste iniziative dei preti nei quartieri ecc. credo che sia un altro strumento che bisognerebbe incentivare non fare passare in secondo piano, e comunque per questo ci vuole anche un impegno, proprio, delle amministrazioni locali, che devono interessarsi a questi centri sociali, devono aprire strutture, anche centri di aggregazione, perché quello che manca a Palermo questo è, mancano centri di aggregazione, luoghi nuovi dove i ragazzi si possono vedere, dove si possono incontrare, dove possono conoscere anche altri modelli alternativi di comportamento.
ANNA PUGLISI socia fondatrice del CSD <<GIUSEPPE IMPASTATO>>
Palermo, 28 settembre 1993
D. IL CENTRO E’ NATO NEL ’77, QUINDI PRIMA DELL’UCCISIONE DI
GIUSEPPE IMPASTATO …
R. Sì, sì, il Centro, appunto, è nato dalla volonta di Umberto (Santino), mia e di altri, che avevamo, un pò quasi tutti, una storia comune, cioè avevamo lavorato nei partiti… noidue per es., ed altri, nel PDUD, prima Manifesto e poi PDUP, e altri… qualcuno nel PC ma altri nei partiti all’estrema sinistra diciamo, che erano nati dal ’68, e a un certo punto avevamo esaurito la nostra volontà di lavoro dentro un partito politico che sempre castra, diciamo, il partito politico ha certe logiche che ad un certo punto sono asfissianti diciamo, e quindi avevamo deciso, una volta usciti, chi prima chi dopo, da questi partiti, avevamo deciso, abbiamo deciso di non andarcene a casa e di… costruire questo… un’aggregazione che servisse come un punto di riferimento per la ricerca sulla realtà siciliana e la mafia, e un punto di riferimento per la divulgazione di certe idee e per un tentativo appunto, di cominciare a fare un’ antimafia più fondata su un’analisi precisa e puntuale, e abbiamo cominciato subito con un convegno su Portella Della Ginestra, con storici, è venuto Vittorio Foa, sono venuti storici come Anna Rossi Doria, Gallerano e altri, è stato un momento molto importante.
D. DI QUESTO CENTRO FACEVA PARTE PEPPINO IMPASTATO?
R. No, Peppino Impastato non faceva parte del nostro centro,
Peppino Impastato ha un’altra… ha una storia diciamo parallela alla nostra, lui ha fatto più… è stato più vicino a Lotta Continua anzi c’è stato un periodo in cui il Manifesto veniva considerato il partito dei borghesi, da parte di questi di Lotta Continua che non… insomma siamo stati abbastanza lontani, Peppino ha fatto per il Manifesto la campagna elettorale del ’72, e allora si sono conosciuti… Umberto lo ha conosciuto, però è stato soltanto… questa è un pò la storia della sinistra, non solo qui ma dovunque, e avevamo… si dice, gli stessi ideali però eravamo disuniti al massimo, e quindi una… un’esperienza così importante come quella di Peppino per es., era pochissimo conosciuta nell’ambiente di sinistra perché lui aveva… in alcuni ambienti, per es. come il nostro, perché lui aveva un’altra storia, e comunque per es. noi, insieme al Centro, avevamo costituito a Palermo una libreria, si chiamava “Cento fiori”, che poi è stata chiusa subito nell’80, e lui veniva nella libreria… quando è stato ucciso, nel ’78, noi siamo andati pur, appunto, non conoscendolo bene, non conoscendo bene la sua esperienza, siamo andati perché abbiamo ritenuto di dovere dare subito testimonianza contro i mafiosi che l’avevano ucciso, e subito quella sera che siamo andati lì, dopo… quando abbiamo saputo della sua uccisione, Peppino è stato ucciso una settimana prima delle elezioni comunali a Cinisi, per cui aveva fatto, insieme ai compagni, una lista chiamata “Democrazia Proletaria”, però lui non faceva parte di Democrazia Proletaria, che del resto era ancora soltanto una
lista, anche a Palermo, aveva fatto questa lista per… e c’erano molte probabilità che sarebbe stato eletto, e infatti, dopo (la morte) è stato eletto! Cioè a Cinisi quella lista… Peppino ha avuto il massimo dei voti … poi è entrato al posto suo, ovviamente, il primo dei non eletti ma insomma lui sarebbe stato eletto.
D. QUINDI, SIMBOLICAMENTE, E’ STATO VOTATO
R. Simbolicamente è stato votato ed è stato eletto al consiglio comunale, quindi i mafiosi lo hanno ucciso per tutto quello che aveva fatto prima e per… perché volevano assolutamente evitare che lui entrasse al consiglio comunale, quindi si era in campagna elettorale, e sono venuti pure alcuni deputati di Democrazia Proletaria, lì i compagni di Cinisi… era previsto proprio per quel giorno un comizio che doveva fare Peppino, per quando è stato ucciso, e allora i compagni di Cinisi hanno chiesto ad Umberto di fare il comizio, e Umberto, subito, ha cominciato a fare un comizio facendo i nomi, ha cominciato a fare i nomi, ha detto che il mandante dell’assassinio era Badalamenti, che Peppino parlava e operava contro i mafiosi di Cinisi e i mafiosi di Cinisi avevano un nome e un cognome, ed erano i responsabili della sua morte, ha gridato contro le finestre chiuse di Cinisi, perché ovviamente la gente… di gente di Cinisi non ce n’era molta, e da allora abbiamo cominciato a… siamo ritornati lì e abbiamo lavorato insieme ai compagni che… che hanno raccolto i resti di Peppino, perché i carabinieri e polizia volevano chiudere tutto facendo credere che fosse un terrorista che stava mettendo una bomba, e invece i compagni hanno trovato le mani di Peppino, questo vuol dire che lui non aveva la bomba in mano ma gliel’avevano messa sotto nel… sotto il petto, e quindi… ci siamo rivolti a Del Cappio che era un medico legale molto importante, che ha fatto appunto la perizia sui resti, ed ha detto che non poteva assolutamente essere uno che stava mettendo la bomba visto quali erano i resti che si erano trovati, e quindi abbiamo fatto tutto il lavoro con i compagni, abbiamo fatto noi, scritto noi le denunce da portare alla magistratura, siamo stati ovviamente accanto alla signora Impastato e a Giovanni, che subito si sono messi… Giovanni Impastato già lavorava con Peppino, il fratello di Peppino… hanno chiuso la casa ai parenti mafiosi, perché… che volevano che si stessero zitti no, gli mandavano a dire di stare zitti, la signora, appunto, ha fatto le sue denunce alla magistratura, e noi abbiamo fatto tutto… tutto il lavoro di denuncia, e andando lì a fare altri comizi e poi costruendo la manifestazione nazionale contro la mafia che abbiamo fatto ad un anno… nel ’79, manifestazione nazionale che è stata la prima, perché non c’erano state manifestazioni nazionali contro la mafia neanche dopo Portella Della Ginestra, cioè la mafia non era un problema nazionale per… non era considerato un problema
nazionale, era soltanto considerato, da parte dello Stato, ma anche da parte dei partiti politici, anche della sinistra, come un problema soltanto nostro, di cui dovevamo preoccuparci noi.
D. CHI PARTECIPO’ A QUESTA MANIFESTAZIONE?
R. La manifestazione noi l’abbiamo… io e Umberto specialmente, l’abbiamo costruita veramente… andando… abbiamo… andando in posti dove sapevamo che c’erano realtà di lotta contro la mafia, per es. siamo andati in Calabria, siamo andati a Gioiosa Jonica, dove c’erano comunità di cristiani che lottavano contro la mafia di là, contro don Stilo, il famoso prete mafioso, siamo andati a Milano, siamo andati a Napoli, a Roma, e sono venuti compagni di tutta l’Italia, certo non moltissimi perché, ripeto, il… non era
entito come un problema nazionale, e quelli che sono venuti,
sono venuti più perché… per ricordare Peppino che veramente convinti di dovere fare una lotta antimafia, e perché il problema è stato considerato… è cominciato ad entrare nella mente che non era un problema nostro, che doveva essere affrontato in modo globale dopo la morte di Dalla Chiesa, prima non… e quindi, ripeto, ci siamo scontrati subito con una realtà di lotta contro la mafia, cioè le… il Centro, che era nato come un centro di documentazione è diventato subito un… centro di lotta anche contro la mafia… diciamo sul territorio, e subito anche un centro di di informazione, di… perché abbiamo cominciato subito a lavorare nelle scuole, perché nell’80, dopo l’uccisione di Terranova la regione siciliana ha fatto la legge 51 per le scuole e noi abbiamo mandato le lettere ai presidi, abbiamo proposto di… di intervenire nelle scuole, a fare seminari, a fare dibattiti, a portare le mostre fotografiche che intanto avevamo fatto sulla mafia.
D. COME REAGIVANO I PRESIDI?
R. All’inizio a rispondere sono stati pochissimi ma questa è una realtà contro cui ci siamo scontrati non soltanto noi del Centro, ma anche, per es., l’Associazione delle donne quando è nata, anche loro hanno fatto lettere, le risposte sono state proprio pochissime, soltanto… anche… ma perché, veramente non si sentiva, o c’era, appunto, ancora l’idea “Ognuno deve farsi i fatti propri”, non si capiva che bisognava… cioè per arrivare finalmente ad un coscienza, alla… se ci si è arrivati, a capire che bisogna parlarne, e che bisogna… fare capire che il… che è anche il nostro comportamento quotidiano che porta a determinate situazioni, questo… ci sono voluti i cadaveri fino a quì, cioè c’è voluta la montagna di cadaveri, io sto parlando del ’79 ’80,
avevano già incominciato ad ammazzare giudici, e avevano ammazzato Terranova, Costa, avevano ammazzato Mattarella, Boris Giuliano, quindi persone… però c’è voluta veramente la montagna di cadaveri, perché finalmente la gente, qualcuno… riuscisse a capire che almeno per le manifestazioni deve scendere in piazza.
D. QUINDI, IN QUALCHE MODO E’ STATO IL DELITTO DALLA CHIESA A SCUOTERE UN PO’ LE COSCIENZE?
R. Prima il delitto Dalla Chiesa per una faccenda di carattere nazionale, cioè allora incominciarono i titoli sui giornali, grossi, cominciarono i titoli sui giornali, cioè cominciarono gli articoli sui giornali che però ebbero la punta più alta per Dalla Chiesa poi l’anno dopo è stato ucciso Rocco Chinnici non c’è stata questa risonanza come per Dalla Chiesa, … e da allora nelle scuole qualche professore ha cominciato ad insistere per fare questi programmi, che però erano sempre delle cose molto… superficiali, cioè quello che chiedevano i professori era che gli esperti, che degli esperti, che andassero lì a fare la conferenza, magari ci chiedevano di portare la mostra fotografica, che era una cosa che colpiva, e basta, quello che tentavamo di fare passare noi era un’altra idea, un altro modo di fare antimafia, cioè noi chiedevamo che invece i professori fossero loro a fare un certo, ad impostare in un certo modo la didattica, cioè non l’antimafia fatta una volta tanto, una volta all’anno con una conferenza, perché questo non serviva a niente, noi abbiamo constatato centinaia di volte che non serve a niente .noi tentavamo di fare… abbiamo sempre tentato di fare capire ai professori, che invece dovevano seguire altri criteri, dovevano essere loro intanto durante la lezione, non in modo episodico, specialmente ovviamente, i professori di materie letterarie, dovevano introdurre determinate idee e fare studiare determinate cose piuttosto che altre, cioè… e crare appunto fare dei seminarietti quindi con un discorso più compiuto, …forse in qualche scuola alcuni professori hanno incominciato a farlo questo, cioè c’è una realtà un pò diversa rispetto a quella di 15 anni fa 10 anni fa, però è sempre tutto molto limitato ed esiguo rispetto alla necessità.
D. QUINDI LEI NON NOTA GROSSI CAMBIAMENTI RISPETTO AGLI ANNI
PASSATI?
R. Dei cambiamenti sì, perché, ripeto, la montagna dei cadaveri è ormai… troppo evidente e non solo questo, ma insomma la gente ha cominciato a capire che… questa realtà lede la nostra libertà, lede il nostro vivere civile e, quindi, per la manifestazione… c’è qualche persona in più, qualche persona in più diciamo, che un certo numero c’è, però per lavorare giorno per giorno, a lavorare giorno per giorno siamo sempre in pochi, l’altro giorno ci dicevano che a Brancaccio si sono presentati, dopo la morte di Puglisi, un certo numero di gente che dice che vuole fare il volontariato però, dicevano “E’ un numero che ormai, per le nostre esigenze è spropositato”, perché ovviamente sono delle realtà molto difficili, di bambini per es. ce ne sono pochiche vanno lì al Centro, quindi, il fatto è che, l’esperienza del San Saverio insegna che all’inizio dell’anno c’è sempre un certo numero di persone che dicono che vogliono lavorare, poi, quando queste persone cominciano a vedere quali sono i problemi, quali sono le difficoltà, ecc. questi diventano sempre molto molto pochi,
D. IL CENTRO SAN SAVERIO E’ UN CENTRO LAICO?
R. E’ legato alla Chiesa di San Saverio, che non è una parrocchia, non è la parrocchia dell’Albergheria, è la… ed è legato, insomma è nato per la volontà di di un prete, di Cosimo Scordato, che prima aveva fatto… era a Casteldaccia, lui è di Bagheria, aveva fatto lì una… un comitato contro la mafia, nei primi anni ’80, però il gruppo che lavora con Cosimo Scordato è un gruppo assolutamente aconfessionale, cioè ci sono credenti, ci son credenti anomali e ci sono non credenti, che lavorano…
D. IL CENTRO IMPASTATO HA RAGGIUNTO QUALCHE OBIETTIVO CHE SI ERA POSTO?
R. Beh sì di obiettivi, di cose, ne abbiamo fatte, intanto abbiamo portato a compimento una serie di ricerche che, appunto, ci eravamo proposti di fare, sì, soltanto che non abbiamo trovato grossi editori, così come non abbiamo finanziamenti, perché vogliamo essere… non abbiamo finanziamenti perché siamo assolutamente al di fuori di logiche spartitorie, ai finanziamenti che la regione siciliana dà ai centri culturali invece sono dentro queste logiche, cioè logiche spartitorie tra partiti, (…) così il fatto di non essere vicini a certi ambienti dell’editoria ecc. ha fatto sì che le nostre ricerche, che eppure hanno avuto recenzioni importanti, perché sono le uniche ricerche sul campo, le uniche ricerche empiriche che ci sono sulla mafia, non sono, non hanno raggiunto questo pubblico, come tante altre… libri e libretti, pubblicazioni che per ora hanno invaso il mercato, comunque sono cose, appunto, che volevamo fare, ricerche che volevamo fare e le abbiamo fatte, la vicenda di Peppino Impastato, anche quella, anche se non siamo riusciti a fare incriminare Badalamenti, però c’è la sentenza che Peppino è stato ucciso dalla mafia per la sua lotta di 15 anni.
D. QUANTI SOCI CONTAVA, ALLA NASCITA, QUESTO CENTRO?
R. Dunque i soci fondatori, proprio come soci fondatori, perché il Centro è nato nel ’77 ed eravamo un buon numero, però era un… non un centro… non eravamo andati dal notaio allora, era un centro così, informale, poi l’abbiamo costituita come associazione nell’80 e l’abbiamo dedicata a Peppino Impastato, quindi allora, nel ’77, eravamo un buon numero, una trentina c’era attorno al Centro e alla cooperativa “Cento Fiori”; poi come soci fondatori del Centro siamo stati mi pare 10 o 12, non ricordo bene, però a questi si sono aggregati subito altri, devo dire che ora non siamo molti, perché non è un’associazione di massa la nostra, noi chiediamo che chi si scrive al Centro dia un contributo anche minimo, sia in denaro appunto, perché è autofinanziato, sia in lavoro, noi chiediamo appunto che si faccia qualche cosa che ci si inserisca in un… o nella ricerca oppure nel lavoro… e quindi fino ad ora abbiamo avuto 2 tipi di soci: il socio ordinario, che è quello che segue più il lavoro del Centro; e il socio aderente, che invece, che è una figura che… riguarda specialmente i soci che non stanno a Palermo che quindi non possono fare il lavoro… proprio, non possono essere più… così… vicini al Centro, sono soci che danno una quota e ricevono le nostre pubblicazioni, ora abbiamo pensato fare un’altro tipo di socio, diciamo un’altra figura, un amico del centro che… sia, insomma una figura di socio, non proprio di socio, una persona che sia interessato a quello che facciamo, e dà un piccolo contributo…
D. SI PUO’ RICOSTRUIRE UN TIPO SOCIALE DEL VOSTRO ASSOCIATO, COME ETA’, TITOLO DI STUDIO, PROFESSIONE, SESSO…
R. Beh, siamo di una certa età per la maggior parte, fino ad ora siamo stati tutti non giovanissimi, e sì, come titolo di
studio… medio alto… una laurea…
D. SIETE STATI APPOGGIATI O OSTACOLATI DALLE AUTORITA’ STATALI?
R. Ignorati (ride), dallo Stato assolutamente nessuna… ripeto, finanziamenti non ne abbiamo avuto da nessuno, abbiamo avuto soltanto dal Comune di Palermo un piccolo finanziamento per la ricerca sull’omicidio a Palermo e provincia, oltre questo c’è stato pochissimo, contributi minimi per la biblioteca quando c’è stato un periodo che la biblioteca era aperta al pubblico, ma abbiamo visto che non… i contributi che ci davano erano assolutamente irrisori, non avevamo assolutamente la possibilità di pagare lo stipendio, neanche lontanamente, di pagare lo stipendio a
qualcuno, e quindi abbiamo dovuto chiuderlo al pubblico, ora
riceviamo solamente per appuntamento.
D. AVETE RICEVUTO SOSTEGNO DA PARTE DELLA CHIESA?
R. No, non c’è nessun… noi abbiamo rapporto con credenti, ma che lavorano… che lavorano nel sociale, come questi del centro San Saverio, con alcuni sacerdoti ma che hanno… ma solo perché hanno un determinato modo di comportarsi, hanno determinati interessi, non siamo assolutamente… qualcuno crede, qualcuno no, di noi…
D. MI RIFERIVO AL SOSTEGNO DA PARTE DELLE ISTITUZIONI ECCLESIASTICHE
R. No no le istituzioni non hanno sostenuto mai il Centro.
D. E PER QUANTO RIGUARDA LA SCUOLA?
R. La scuola… da qualche anno, non voglio essere troppo… per moltissimi anni c’è stato quel tipo di comportamento, da qualche anno, c’è qualche professore che tenta di fare cose diverse e appunto con questi professori noi collaboriamo, insomma quando si vuole introdurre un modo diverso di fare un discorso antimafia, noi siamo d’accordo, e c’è qualcuno che ha incominciato a fare qualcosa di diverso e quindi collaboriamo, insomma con chi ha la volontà di non rimanere soltanto in superficie noi collaboriamo.
D. QUINDI NOTATE UN CAMBIAMENTO
R. Sì un pò sì.
D. COME E’ STATO E COME E’ ORA L’ATTEGGIAMENTO DEI PALERMITANI DI FRONTE ALLE VOSTRE INIZIATIVE?
R. Mah! E’ molto difficile… il problema è che spesso tutto
rimane a livello di emozione, emozione nell’antimafia, emozione nella politica, e per cui siamo… abbiamo avuto manifestazioni grosse, il 23 maggio c’è stata quella grossissima manifestazione… però, per quanto riguarda il lavoro effettivo, eravamo pochissimi e siamo pochissimi, continuiamo ad essere pochissimi, il nostro… il nostro discorso è difficile, questo discorso di passare dall’emozione al lavoro di ogni giorno, a fatti concreti, è un discorso difficile e che la gente non si vuole… non vuole sentirsi… non si vuole sentire, per cui c’è la delega al giudice, la delega ai poliziotti, la delega a chi è così folle di volersi impegnare giorno per giorno, e allora il nostro lavoro non è che sia un lavoro… che attiri molto appunto per il… un discorso sul… un tipo di ricerca… non superficiale come invece è spesso fatto nelle pubblicazioni che ci sono e che vanno per la maggiore,
D. COME AVETE VISTO, VISSUTO, L’ESPERIENZA DELL’ACIO?
R. Una cosa importante, perché riteniamo che sia un movimento così come… importante e basato anche sugli interessi, che è una cosa importante, come era quello dei contadini nel dopoguerra, che lottavano contro la mafia per… ed erano lotte di massa, per avere la riforma agraria, e questa questa… tentativo di aggregare sulla base d’interessi concreti contro la mafia è una cosa molto importante, e poi è molto importante che ci sia stata questa
grossa risposta da parte dei commercianti, ovviamente non si può non fare il paragone con con quello che c’è a Palermo, per es., dove invece Libero Grassi è stato lasciato solo, e dove i commercianti che pagano il pizzo hanno negato di farlo, dove, appunto, la mafia è… chè a Capo D’Orlando la mafia è molto giovane, e qui la mafia è radicata, c’è una sudditanza assolutamente, alla mafia, assolutamente diffusa, e quindi.
D. PERCHE’ E’ FALLITO, SECONDO LEI, IL PRIMO COORDINAMENTO
ANTIMAFIA?
R. Per ragioni… per logiche di partito, ha avuto una vita
stentatissima… era un coordinamento di associazioni però,
purtroppo dietro le associazioni poi manovravano i partiti, la democrazia cristiana dietro le Acli, il partito comunista dietro ad Arci, alla Fgc ecc., e succedeva che dopo… era il periodo di Martellucci, del sindaco Martellucci, e dopo che si facevano delle riunioni piuttosto… con discussioni piuttosto agitate per fare dei documenti contro l’amministrazione, cose precise, che erano successe, magari, ecc., si riusciva a fare passare, all’interno dell’assemblea del Coordinamento documenti in cui si facevano anche i nomi precisi degli amministratori, poi succedeva che magari c’era la telefonata del dirigente delle Acli, che telefonava al dirigente del partito comunista, per tentare di di bloccare la cosa, e la bloccavano, perché ovviamente loro avevano maggiori poteri che non le associazioni, che erano al di fuori di queste logiche, e queste cose sono successe diverse volte…
D. QUINDI QUANTO E’ DURATO?
R. E’durato 2 anni, ’84 fine ’85 (…) si è disciolto, quando si è aperto il maxiprocesso, alcuni di quelli che avevano avuto la responsabilità nel fallimento del primo Coordinamento antimafia, hanno deciso di costituirsi come associazione, chiamandola Coordinamento antimafia, “Associazione Coordinamento Antimafia”, questa risale all’apertura del maxiprocesso, è stata fatta la notte prima dell’apertura del maxiprocesso per chiedere la costituzione di parte civile all’indomani.
D. E’ STATA ACCETTATA?
R. No, non c’era la possibilità, però questo Coordinamento non è un coordinamento, è un’associazione che ha sfruttato quel nome, D. ATTUALMENTE QUANTI SOCI CONTA IL CENTRO IMPASTATO?
R. Siamo, suppergiù, siamo una quindicina di soci ordinari, poi ci sono credo altrettanti soci aderenti, anche negli Stati Uniti li abbiamo, gli Schneider per es. sono soci del Centro.
BEATRICE MONROY del COMITATO DEI LENZUOLI
Palermo, 28 settembre 1993
D. IL VOSTRO E’ UN GRUPPO INFORMALE? R. Sì, sì, noi siamo rimasti un gruppo informale senza… non esiste né una costituzione legale né una sede, siamo delle famiglie che fanno delle azioni simboliche, tutto qua.
D. NON AVETE INTENZIONE DI COSTITUIRVI LEGALMENTE? R. No. D. AVETE TROVATO OSTACOLI PER LA REALIZZAZIONE… R. No, no anzi noi avevamo questo simbolo molto forte, del lenzuolo, e abbiamo avuto anzi molto… una rinomanza molto più grande di quello che noi siamo, perché nella realtà noi siamo un piccolissimo gruppo
D. SECONDO LEI A COSA E’ DOVUTA QUESTA RINOMANZA?
R. Che il simbolo era molto forte, cioè che ha bucato il sistema mediale e quindi questa cosa ha conquistato, diciamo, e il lenzuolo è diventato un simbolo, perché è una cosa, il lenzuolo… è una cosa che segna la disponibilità alla lotta e alla resistenza di ciascuna famiglia, quindi è una cosa che, in qualche modo, colpisce profondamente la società civile, e quindi… anzi siamo stati molto osannati, molto di più di quello che noi siamo, ecco, cioè noi facciamo delle azioni simboliche, però non è che facciamo delle cose… per es. non interveniamo nei quartieri
D. QUINDI VOI OLTRE A ESPORRE QUESTO SIMBOLO DI PROTESTA… R. Facciamo delle azioni simboliche, facciamo delle cose, per es. abbiamo fatto questi “Consigli Scomodi”, che hanno avuto pure un grande successo, abbiamo fatto degli spot televisivi, poi… diciamo facciamo un’azione di propaganda, ecco, non di intervento specifico, e soprattutto puntiamo al fatto che siamo di fronte alla resistenza ad un regime, quindi dobbiamo costruire la resistenza della popolazione, che è una resistenza che si costruisce casa per casa e con piccoli atti quotidiani, nel proprio posto di lavoro, nella propria vita di quartiere, ecco non facciamo delle grandi azioni, facciamo delle azioni minute, poi portiamo questi lenzuoli, esponiamo i lenzuoli alle finestre, che sono già tutti atti molto dirompenti rispetto alla struttura e alla città di Palermo, che è una città abituata ad essere chiusa in questo regime.
D. COSA RISPONDETE A CHI VI CRITICA DICENDO CHE IL LENZUOLO NON BASTA…
R. “Sotto il lenzuolo niente” D. ECCO, CHE CI VOGLIONO ATTI PIU’ CONCRETI R. Ma ci vogliono… è vero che ci vogliono atti più concreti, cioè il lenzuolo non può essere il simbolo della lotta antimafia, il lenzuolo è un segno, un segno del fatto che le famiglie, a Palermo, diciamo la gente, i palermitani si ribellano a questo dominio, ma non è che un segno, è chiaro che poi ci vogliono atti concreti, cioè io sono d’accordo col fatto che… il lenzuolo non può diventare il simbolo di una lotta facile, perché la lotta non è facile, è molto dura ed è molto sanguinaria e cruenta, e quindi si deve rispondere alla guerra… si risponde duramente.
D. QUINDI OLTRE AI LENZUOLI AVETE ALTRI STRUMENTI PER PORTARE AVANTI LA VOSTRA LOTTA?
R. Abbiamo questi “9 consigli scomodi”, e poi questi lenzuolini, ma soprattutto noi facciamo questi… il nostro strumento è la quotidianeità cioè il fatto che ognuno di noi, nel quotidiano, insegna a rispettare, rispettando… si comporta da cittadino.
D. QUINDI IL VOSTRO SCOPO E’ QUELLO DI DIFFONDERE UNA CULTURA ANTIMAFIOSA
R. Sì.
D. C’E’ QUALCHE SUCCESSO CHE GIA’ PUO’ VANTARE, IL COMITATO DEI LENZUOLI?
R. Sì sì D. QUALCHE BATTAGLIA VINTA, IN QUESTA GUERRA… R. Mah, non è che il Comitato dei lenzuoli… non si arroca il diritto di vincere nessuna battaglia, diciamo tutta la battaglia contro la mafia è una battaglia che ha…
D. VI SIETE POSTO QUALCHE OBIETTIVO CHE GIA’ AVETE RAGGIUNTO? R. Gli obiettivi sono quelli che hanno tutti, l’obiettivo di… cioè è chiaro che quando hanno preso Toto Riina è stata una bella vittoria, però anche una bella sconfitta che hanno ammazzato padre Puglisi, cioè è uno stato di guerra, non è che c’è una… cioè noi… per me sono vittorie ogni volta che veniamo chiamati a far delle cose, cioè che, diciamo, che la coscienza civile aumenta, quelle sono le vittorie.
D. QUANTI SIETE? R. Saremo una ventina D. ALL’INIZIO QUANTI ERAVATE? R. 14, più o meno gli stessi. D. IN COSA UN COMITATO DIFFERISCE DA UN’ASSOCIAZIONE? R. Perché non è un’associazione legale, è un comitato, un gruppo di persone che si riuniscono a casa, ogni volta gira a casa di qualcuno di noi e quindi è una struttura libera.
D. LEGGEVO , CHE SI E’ COSTITUITO UN NUCLEO DEL COMITATO DEI LENZUOLI A FIUMEFREDDO, SI CHIAMA PROPRIO COMITATO DEI LENZUOLI O E’ QUALCOSA DI SIMILE?
R. Sì, sì anche a Bologna c’è un Comitato dei lenzuoli, ma non è che è un partito il Comitato dei lenzuoli, quindi non è che esistono delle sezioni distaccate, esistono delle persone che hanno preso questo nome perché è un nome simbolico.
D. QUINDI ANCHE LORO FANNO QUELLO CHE FATE VOI R. Sì. D. LEI COME MAI HA DECISO DI FAR PARTE DI QUESTO GRUPPO? R. Perché eravamo un gruppo di amici ed abbiamo deciso insieme di costruirlo.
D. IN PASSATO AVEVA GIA’ PARTECIPATO A QUALCHE ALTRO MOVIMENTO O ASSOCIAZIONE?
R. Sì, io vengo dalla sinistra D. QUINDI A LIVELLO POLITICO… DI PARTITO R. Sì. D. AVETE RICEVUTO APPOGGIO DALLE AUTORITA’, STATALI, SCOLASTICHE ED ECCLESIASTICHE?
R. Come tutte queste strutture, cioè da una parte ci sono degli appoggi, cioè ci sono delle persone che sono svelte a capire che queste strutture sono interessanti e importanti, e delle altre persone no, perché ci vedono come movimentisti, come gente che sta nelle strade per far casino, cioè questa spaccatura che c’è nello Stato è una spaccatura che c’è a tutti i livelli, quindi ci sono persone che ci appoggiano, giudici, magistrati, politici, e altri che non ci sopportano.
D. LE SCUOLE GIA’ VI HANNO CHIAMATO? R. Sì, delle volte ci chiamano a Palermo, appunto dei dibattiti… facciamo tanti dibattiti. D. I PALERMITANI COME REAGISCONO ALLE VOSTRE INIZIATIVE? R. …Il 19 luglio c’è stata la manifestazione per ricordare Borsellino, che è passata in mezzo ai quartieri, dove si passava, nei quartieri popolari, la gente esponeva le lenzuola.
D. DA QUANDO SIETE NATI, E’ CAMBIATO QUESTO ATTEGGIAMENTO? R. Moltissimo, ma non è merito nostro, è merito del fatto che… cioè quando è stato ucciso Giovanni Falcone c’è stato un cambiamento radicale, a Palermo, quello è stato, a mio parere, nei confronti della loro presa sulla città, un errore gravissimo, la morte di Giovanni Falcone, perché la società civile ha incominciato a capire, e quindi queste strutture che sono nate, tra cui anche noi, sono nate anche in seguito al fatto che… c’è stato uno scollamento radicale dalla mafia, e quindi vengono bloccati, cioè è chiaro che noi, con il nostro gesto… è un gesto che si porta via, fra l’altro, gesti analoghi, cioè non è che i lenzuoli li mettiamo solo noi alle finestre, appunto noi siamo 20, invece se voi venite in città tra il 19 e il 23 di ogni mese, le lenzuola sono moltissime.
D. E VANNO AUMENTANDO?
S. Sì
D. SECONDO LEI, L’ESPERIENZA DELL’ACIO DI CAPO D’ORLANDO HA, IN QUALCHE MODO, INFLUITO SULLA NASCITA DI COSI’ TANTE ASSOCIAZIONI DOPO LE STAGI?
R. Certo, quella è una… sono i padri fondatori, la loro forza e il loro coraggio, mettendo il fatto che è una realtà ben diversa, cioè quella è una realtà… diciamo un paese in cui è più controllabile quel tipo di mafia che c’è, qui la situazione è chiaro che è molto più dura molto più difficile, però certo Tano Grasso e l’ACIO sono dei maestri, secondo me, quello che hanno fatto loro è stato un es. per tutti, un es., una lezione, un modo di fare per tutti quanti.
D. QUINDI, SECONDO LEI, L’ACIO HA CONTRIBUITO ALLA NASCITA DI TUTTE QUESTE ASSOCIAZIONI
R. Moltissimo, moltissimo D. SECONDO LEI, QUALE DEVE ESSERE IL CONTRIBUTO SPECIFICO DEGLI INTELLETTUALI ALLA LOTTA CONTRO LA MAFIA?
R. Gli intellettuali devono… agiscono, io penso che la mafia, che si basa chiaramente su una potenza economica enorme, e quindi è soprattutto una potenza economica, ha… tiene in trappola dei posti anche sulla base del fatto che la cultura è molto simile, cioè io credo che noi palermitani siamo fratelli sia di Riina che di Falcone, cioè questa cultura è dentro di noi, questo brodo di culture, e il ruolo degli intellettuali è rompere questo fronte, cioè rompere questo fronte di connivenze, di omertà e di cultura simile, cioè costruire i valori morali di un mondo diverso, aiutare la gente a costruire questi valori morali, e poi, nel proprio specifico, usarli rispetto ai propri strumenti mediali che si usano, sia la televisione ecc., gli intellettuali hanno accesso ad una serie di strumenti che possono aiutare la gente.
D. SECONDO LEI, FINO AD ORA, GLI INTELLETTUALI HANNO SVOLTO BENE IL LORO COMPITO?
R. In Sicilia? No, perché gli intellettuali sono stati conniventi.
D. ED ORA NOTA UN CAMBIAMENTO? R. Sì, sì, molto forte, adesso in parte, in una parte non sono più conniventi, una parte sì, questa vicenda in corso sul teatro Biondo è un es., cioè pochissima gente si è schierata con Vincenzo Consolo, che è un intellettuale maestro che ha detto che dentro il teatro Biondo c’è la mafia, e pochissimi intellettuali si sono schierati con lui.
D. QUINDI ANCORA NON C’E’ UN GRANDE CAMBIAMENTO R. C’è un cambiamento però insomma D. C’E’ CHI TEME CHE IL MOVIMENTO ANTIMAFIA NATO DOPO LE STRAGI SIA TROPPO FRUTTO DELL’EMOTIVITA’ E CHE ALLA FINE VADA SCEMANDO, PORTANDO A POCHI FATTI CONCRETI, LEI COSA NE PENSA?
R. C’è una parte, io non so se lei ha intervistato questi gruppi che lavorano nei quartieri, cioè questi che lavorano nei quartieri sono il fondamento del movimento antimafia, ed è nata a Palermo una struttura che unisce 50 comitati di base, si chiama “Palermo anno uno”, questa struttura non solo sta avanzando ma sta riuscendo… sta trovando una sede, si sta informatizzando, cioè c’è una… un dilagare di strutture all’interno di quartieri, è chiaro che il problema è che questo è il movimento, come tutte le strutture il movimento il rischio è che non si leghi alla politica, e qua noi siamo sotto elezioni, bisogna vedere quello che succede.
D. SI TEME QUESTA STRUMENTALIZZAZIONE? R. Si teme la strumentalizzazione da un lato e dall’altro lato il pericolo è anche che… che si spacchino, che il fronte si spacca, che non si riesca a creare una struttura di apertura democratica, insomma non è facile.
D. ANCHE ALL’INTERNO DEL MOVIMENTO ANTIMAFIA, A VOLTE SI NOTANO CRITICHE TRA LE VARIE ASSOCIAZIONI…
R. Vabbene, ma quello è ovvio, questa è la città dei veleni, non bisogna dimenticarlo, i veleni sono dovunque.
AUGUSTO CAVADI membro del cosiglio direttivo del CENTRO SOCIALE SAN FRANCESCO SAVERIO
Palermo, 12 ottobre 1993
D. PUO’ PARLARMI, DELL’IMPORTANTE CONTRIBUTO CHE DA’ IL CENTRO SAN SAVERIO ALLA LOTTA CONTRO LA MAFIA?
R. Su questo punto, noi riteniamo di fare un lavoro che non è esauriente, è soltanto un piccolo frammento all’interno di un movimento più vasto, per cui, a Palermo ci sono gruppi che danno o un contributo più a livello di studio, che non è il nostro caso, o anche di progettazione politica globale, e non è neppure il nostro caso, noialtri siamo un pochettino specializzati, per così dire, nel tentativo di riconquistare il territorio, a livello… riprendere, diciamo restituire il territorio ai cittadini, o meglio spingere i cittadini a riacquistare essi stessi una sovranità sul territorio che hanno perduto, perché ormai è in mano, palesemente o velatamente, al potere mafioso, …
D. CHE ATTIVITA’ HA SVOLTO, E SVOLGE, IL CENTRO IN QUESTO SENSO?
R. Mah! Guarda, attività specifiche, noi non ne facciamo, contro la mafia, perché siamo convinti che tutto quello che facciamo ha una valenza oggettivamente antimafiosa, e siamo convinti anche che in questo quartiere sarebbe inutile, anzi contropruducente, etichettare come antimafiose determinate attività, cioè noi, di fatto, abbiamo cercato, cerchiamo, quali sono i modelli di comportamento mafiosi, quali sono i valori della pedagogia mafiosa e, nei fatti, cerchiamo di educare, noi stessi e gli altri, a modelli di comportamento e a stili di vita, che siano alternativi a quelli mafiosi, ogni tanto ci sono stati degli episodi clou, ci sono dei momenti particolarmente cruciali, non so, quando è morto Borsellino abbiamo fatto il giro del quartiere con il megafono, chiedendo alle persone di prendere posizione, o appplaudire ed esporre un lenzuolo
D. COME HANNO REAGITO? R. Insomma diciamo fifty-fifty, noi non siamo stati né demoralizzati del tutto, né entusiasti, soprattutto perché i ragazzi, gli adolescenti, sui 16, 17 si avvicinavano “Ma a noi che ce ne frega se hanno ammazzato Borsellino e Falcone, a noi non erano loro che ci danno il lavoro”, quindi… mentre abbiamo avuto anche delle sorprese in positivo da parte di persone, oppure non so, 3 settimane fa hanno scippato una persona prima della messa, allora alla fine della messa abbiamo fatto il giro del quartiere collettivamente, sempre col megafono, gli striscioni scandendo “Chi fa lo scippatore perde tutto il suo onore”, per dire che noi come comunità, nel primo caso come Centro Sociale, nel secondo caso come Comunità cristiana, perchè le due cose non sono identiche insomma, abbiamo detto che non ci stavamo insomma, che non accettavamo… … e quindi abbiamo fatto questo giro del quartiere per indicare che noi non eravamo d’accordo con lo stile degli scippatori, ma questi sono episodi clou, particolari, perché riteniamo che, se per caso dovessimo farcela la nostra dovrebbe essere una battaglia a lunga distanza , nei periodi lunghi.
D. QUINDI TUTTA LA VOSTRA ATTIVITA’ SI PONE, ALLA FINE, COME ATTIVITA’ ANTIMAFIA…
R. Anche se non soltanto come attività antimafia, ma c’ha una sua valenza antimafiosa.
D. QUALI SONO LE ATTIVITA’ CHE, SINORA, SONO RIUSCITE A COINVOLGERE MEGLIO?
R. Io, appunto, ti posso dire quelle che sono state più riuscite, che poi abbiamo avuto una ricaduta antimafiosa insomma … lo spazio donne, questo lavoro con le donne del quartiere sui 30, 40 anni, le mamme di famiglia
D. QUANDO HANNO FATTO UN SEMINARIO LE DONNE DELL’ASSOCIAZIONE DONNE CONTRO LA MAFIA?
R. Sì, e poi anche qualche successo, piccolissimo, microscopico, con i ragazzi del quartiere che hanno pendenza penale con il Malaspina e che ci sono stati affidati.
D. MI PARLA DI ALCUNI, PIU’ SIGNIFICATIVI, SUCCESSI R. Appunto, forse la cosa più significativa, finora, è stata riuscire ad avviare questa trattoria “Il Vicoletto”, che dà lavoro a 5 persone ormai da 4 anni, perché è un piccolo esempio di che cosa possa significare trovare un lavoro pulito che non venga dato come favore dalla mafia
D. QUESTA TRATTORIA SI TROVA PROPRIO QUA ALL’ALBERGHERIA?
R. E’ proprio… uscendo dalla Chiesa, sulla sinistra c’è un vicoletto e là c’è la trattoria.
D. RISPETTO A QUANDO E’ NATO IL CENTRO, CHE MIGLIORAMENTI AVETE NOTATO IN QUESTO QUARTIERE?
R. Mah! Le persone del quartiere dicono che adesso ci sono molto meno drogati, per es., che sono diminuiti un pò gli scippi, soprattutto quelli da parte dei bambini, però non sono statistiche scientifiche, sono così impressioni.
D. L’ATTEGGIAMENTO DELLA GENTE E’ CAMBIATO, IN QUALCHE MODO?
R. Bah! Noi ci proponevamo, diciamo, 2 tappe, vincere la diffidenza iniziale, e poi, come seconda tappa, coinvolgere loro in un atteggiamento di protagonismo attivo, purtroppo, possiamo dire di avere realizzato soltanto la prima parte, dopo 8 anni, cioè di aver fatto cadere, in molti, la diffidenza, ma non siamo riusciti, onestamente, a coinvolgerli attivamente, diciamo che ci siamo fermati a questa fase e faticosamente stiamo cercando di coivolgere, finora possiamo dire che, sì e no, siamo riusciti a coinvolgere una decina di persone in tutto il quartiere
D. COMUNQUE E’ GIA’ IMPORTANTE R. Sì, è importantissimo ma rispetto a quello che vogliamo fare è soltanto l’inizio
D. DA QUANTO TEMPO ESISTETE? R. DALL’86… D. QUALI SONO STATI GLI OSTACOLI MAGGIORI CHE AVETE INCONTRATO PER FAR NASCERE QUESTO CENTRO?
R. Mah! Gli ostacoli maggiori forse sono stati il reperimento dei locali, perché abbiamo dovuto prima occupare abusivamente questi locali dell’Opera Pia, poi resistere ai tentativi di sfratto, e poi finalmente arrivare ad un contratto regolare solo perché è intervenuto il prefetto e perché c’era anche un clima politico favorevole a questa presenza nei quartieri
D. E ALTRI OSTACOLI? R. No, perché per ora io non sono sicuro che, come dire, la mafia abbia individuato con esattezza diciamo, i pericoli che possono venire da questo tipo di lavoro nel sociale, quindi noi abbiamo soltanto qualche momento di tensione quando ci scontriamo con situazioni particolari, ma, globalmente, la gente del quartiere, anche nelle sue, diciamo, forme, anche nelle sue espressioni meno pulite, viene più colpito da quello che di positivo si fa per la gente che non dai potenziali pericoli di cambiamento di mentalità nelle nuove generazioni, quindi non possiamo dire di avere avuto problemi specifici insomma.
D. QUINDI LEI PENSA CHE VENGA SOTTOVALUTATA, DA PARTE DELLA MAFIA, L’IMPORTANZA DI QUESTI CENTRI?
R. Sì, infatti io attualmente mi sono fatto la convinzione, anche per i contatti che ho con alcune persone di Brancaccio, che l’uccisione di Padre Puglisi, a differenza di quello che si dice nei mass media, non sia tanto un omicidio simbolico, per colpire una determinata area, perché se fosse stato, principalmente, questo si sarebbero dovuti colpire, prima di Puglisi, tanti altri obiettivi molto più significativi, io credo che là c’è stato uno scontro preciso con alcuni interessi, nel territorio, nel quartiere, e quindi questo sia stato il motivo determinante nell’uccisione di Puglisi.
D. SI RIFERISCE ALLA STORIA DELL’APPALTO DEI LAVORI DELLA CHIESA?
R. Quello dell’appalto non regge neppure, a quanto pare, dalle denunzie che lui ed i suoi ragazzi, comunque gli adulti che facevano parte del comitato intercondominiale, avevano denunciato la presenza di alcuni abusivi che spacciavano droga e sigarette in alcuni locali che potevano essere acquisiti per uso sociale
D. QUINDI NON E’ STATO UCCISO SOLO IN QUANTO SIMBOLO R. No, io credo che, diciamo, è chiaro che certo ci sono delle ragioni remote, cioè il contesto è cambiato, e si approfitta dell’occasione per mandare un segnale anche in questa direzione, ma, personalmente, mi pare strano dire che è tutto frutto di una..
D. DURANTE IL VOSTRO LAVORO, QUALI SONO GLI OSTACOLI PRINCIPALI CHE INCONTRATE?
R. Mah! Possiamo dire che l’ostacolo principale è dato dall’indifferenza della gente, dalla incapacità di autoorganizzarsi, dal volere che altri facciano per loro, quindi il nostro meccanismo, che vorrebbe essere che siano loro a lavorare con il nostro aiuto, non scatta, non funziona.
D. PER ADERIRE AL CENTRO, BISOGNA AVERE DETERMINATI REQUISITI ?
R. No, è aperto a tutti i cittadini, purché facciano questo breve corso di formazione, sono 4 incontri che facciamo a distanza di una settimana ciascuno, in modo d’avere un mese di tempo per conoscerci, per riflettere, e poi chi vuole si può iscrivere
D. ALLA NASCITA QUANTI ADERENTI CONTAVA IL VOSTRO CENTRO? R. Alla nascita ce ne erano una quindicina D. E ADESSO? R. Adesso, adesso, in forme diverse siamo un’ottantina di persone.
D. CI SONO DIVERSE MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE? R. Mah! Noi non diamo molta importanza a questo aspetto burocratico, diciamo che, grosso modo, ci sono i soci effettivi, che sono quelli che lavorano, gli operatori, poi abbiamo un comitato popolare di autofinanziamento, che è fatto anche da gente che sta fuori da Palermo, fuori dalla Sicilia o fuori dall’Italia, che manda una quota per sostenere economicamente il lavoro … …
D. QUINDI SIETE CRESCIUTI DI MOLTO RISPETTO ALLA COSTITUZIONE
R. Eh, in 6 anni D. IN QUALE ANNO AVETE REGISTRATO LE MAGGIORI ADESIONI? R. Non glielo so dire, qua c’è un continuo via vai, insomma quello che le posso dire è che adesso, questo flusso, per fortuna si è un pò regolarizzato, nel senso che abbiamo meno persone che si avvicinano, e meno persone che se ne vanno, mentre prima, anche per via del fatto che noi, così, non facevamo come selezione, come filtro, neppure queste, come filtro, neppure queste, questi corsi di formazione, e allora va a finire che la gente se ne andava facilmente.
D. POTREBBE FORNIRMI INFORMAZIONI RELATIVE ALLA ETA’, SESSO, TITOLO DI STUDIO… PREVALENTI NELLA VOSTRA ASSOCIAZIONE?
R. Stiamo riuscendo a coinvolgere persone di ogni ceto sociale e di ogni età, dai bambini agli anziani, comunque, chiaramente il gruppo dirigente è fatto, così, da persone che apparteniamo alla media borghesia intellettuale D. QUINDI LAUREATI R. Sì, il gruppo dirigente è questo, professori, medici, preti, purtroppo, perchè vorremmo invece… D. PER QUANTO RIGUARDA IL SESSO ? NON C’E’, AD ES., UNA NETTA PREVALENZA DI DONNE?
R. No, no. D. COME E’ STATO E COM’E’ IL VOSTRO RAPPORTO CON LE ISTITUZIONI SCOLASTICHE, ECCLESIASTICHE, E STATALI?
R. Mah, a livello si istituzioni centrali c’è indifferenza o, addirittura in qualche cosa, forme di, diciamo di ostilità
D. PERCHE’ OSTILITA’ ? R. Mah ostilità perché, insomma, soprattutto da parte dei responsabili amministrativi, si guarda con sospetto a queste forme di emancipazione popolare e democratica, queste forme di riscatto popolare che, prima o poi, insomma, si traducono in un venir meno del voto clientelare, comunque, se invece parliamo delle istituzioni… non so il Provveditorato, le altre scuole, i gruppi cattolici, le parrocchie, siamo riusciti a fare delle cose molto belle, cioè lavoriamo in sinergia nel quartiere, abbiamo anche un osservatorio contro la dispersione scolastica, in cui ci ritroviamo un pò rappresentanti sia delle istituzioni, che del volontariato, e cerchiamo di lavorare in maniera convergente.
D. QUINDI CON LE ISTITUZIONI A LIVELLO LOCALE… R. Locale, vanno molto meglio le cose. D. E IL COMUNE VI HA MAI AIUTATO? R. Mah, c’è stata qualche fase, molti anni fa, di collaborazione con la prima giunta Orlando, poi, già con la seconda giunta Orlando, visto che noi non accettavamo forme di collateralismo, siamo stati… diciamo già posati dalla seconda giunta Orlando,
D. E CON LE ISTITUZIONI ECCLESIASTICHE? R. Pappalardo ci ignora totalmente, salvo a citarci quando arrivano giornalisti da fuori e deve dire che a Palermo ci sono dei preti impegnati nei quartieri.
D. LEI PERCHE’ HA DECISO DI IMPEGNARSI IN QUESTO CENTRO ? R. Certamente una dose di incoscienza diciamo patologica (ride), comunque c’è in me c’è, sia una motivazione etica, cioè l’idea che avendo avuto dalla vita una certa possibilità d’istruzione e una certa possibilità anche di serenità economica, non mi sembra giusto non tentare di condividere queste risorse con chi non ha né istruzione, né possibilità economiche, e poi c’è anche, in alcuni di noi, per es. in me, anche una motivazione religiosa perché essendo cristiani, riteniamo che la fede nel Dio amore deve diventare, in qualche modo, testimonianza visibile, (…) qua sperimento più concretamente l’iterazione con la gente del quartiere, cioè noi siamo convinti, e stiamo sperimentando che non si viene soltanto per, che qui non si viene soltanto per dare ma anche per ricevere e che questa esperienza forse sta facendo più bene a noi che al quartiere.
D. SECONDO LEI, QUALE PUO’ E DEVE ESSERE IL CONTRIBUTO SPECIFICO DEI CENTRI SOCIALI ALLA LOTTA CONTRO LA MAFIA?
R. Mah, un pò quello che dico nel libretto “Liberarsi dal dominio mafioso”, quindi creare delle forme di aggregazione democratica, lavorare per una cultura alternativa a quella mafiosa, sul piano pedagogico, provare ad attivare forme di autofinanziamento pulito, insomma dare alla gente la sensazione fisica che si può vivere in una maniera non autoritaria ma democratica, non maschilista ma paritaria, cioè realizzare delle forme di convivenza e di aggregazione che sono esattamente il contrario di quella che è stata la cultura mafiosa.
D. LA CHIESA, INVECE CHE CONTRIBUTO PUO’ DARE? R. Mah, dovrebbe liberarsi dagli atteggiamenti mafiosi dal suo interno, democratizzare le sue forme diciamo di organizzazione interna e farsi finalmente, diciamo, attenta a quello che avviene fuori dalle mura del tempio.
NINO LO BELLO Coordinatore di <<PALERMO ANNO UNO>>
Palermo, 18 Novembre 1993
D. COME, E QUANDO E’ NATO, PALERMO ANNO UNO? R. Questo cartello di associazioni, sono circa 57 associazioni, di volontariato… questo cartello di associazioni nasce nel ’92, dopo la strage di Capaci, quindi il 23 giugno ’92 c’è la prima catena umana a Palermo, una serie di associazioni di volontariato, in maniera, diciamo, così, molto spontanea, comincia a lavorare, a fare collegamento tra le associazioni, e si fa la prima catena umana, insieme con Associazione per la pace, il Comitato dei lenzuoli, e altre associazioni, diciamo anche più storicamente collocate, tipo l’ARCI ecc., anche associazioni più piccole, si comincia questa strada comune, questa strada comune che… intanto ogni mese le donne del digiuno…, sfocia, devo dire, in una… presa di coscienza generale che non si poteva più continuare a lavorare in maniera separata, ogni associazione nel proprio ambito, ma che, diciamo, con… per il sacrificio di Falcone poi, dopo, il 19 luglio, di Borsellino ecc., si dovesse, diciamo, lavorare assieme, perché il primo obiettivo, da parte dei cittadini palermitani, attraverso delle associazioni di volontariato era quello di riappropriarsi del territorio, quindi il primo slogan, il primo, diciamo, punto programmatico è: cosa noi dovessimo fare a Palermo per riappropriarci del territorio, rispetto al controllo mafioso di Palermo; … allora che cosa succede? Succede che, nella sostanza, il numero delle associazioni che aderisce al cartello aumenta, e si arrivano ad azioni che non sono più solo in memoria, in memoria di Falcone e Borsellino ecc., della scorta, ma cominciano a diventare momento di riflessione in città, cioè come i cittadini, poi, possono diventare essi stessi… sentirsi Stato, Falcone aveva detto il discorso del… che uno dei problemi, culturalmente, che caratterizzava l’approccio mafioso della gente, era quello di sentirsi famiglia, clan, fare in modo che si coltivasse più questo tipo di attenzione, a questo tipo di organizzazione che non allo Stato in quanto tale, allora comincia ad esserci una coscienza che uscendo dalla famiglia, dal clan, dal gruppo di potere, dal gruppo partitico-politico di consenso, dove, naturalmente, ognuno di noi aveva la sua mappa di amici, protezioni, amici, uffici ecc., come i cittadini potevano essi diventare… non solo Stato, sentirsi far parte dello Stato, e cominciare quella che noi chiamiamo “La Rivoluzione della Legalità”, della richiesta di legalità, si arriva al 21 Novembre del ’92 con la prima azione simbolica emblematica del, diciamo, delle associazioni, che è quella di riappropriarci… quella di fare un’azione, diciamo, estremamente pratica, che riguardava la circonvallazione, 21 Novembre, questi cittadini delle associazioni, insieme con ragazzi delle scuole, con i rappresentanti di quartiere, e cose di questo genere, dicono che alla circonvallazione, noi, società civile cominciamo, dato che questa amministrazione non riesce a risolvere fisicamente il problemma della… finire di costruire la circonvallazione, noi cittadini apriamo un cantiere di lavoro, simbolico, per il ripristino della circonvallazione in quanto tale, bene, allora, rispetto a questo, un momento in cui tutto sembrava… una situazione sembrava assolutamente ferma, perduta, la quale l’agezia per il Mezzogiorno non… stava per chiudere, non si sapeva più di chi era la competenza ecc., si fa questa cosa, simbolicamente si levano le erbacce, simbolicamente si mettono (il pietrischetto)… tutte azioni simboliche, ma dopo una settimana, nel momento in cui si erano fatte interviste che si contestava lo Stato, e noi ci sentivamo Stato, dopo circa una settimana, 10 giorni, i lavori riprendono, riprendono, naturalmente con nostra grandissima soddisfazione (…) arriva il ’93, … e ogni mese si fanno momenti di riflessione, si fa l’appoggio ai magistrati… e si arriva al 23 maggio… del ’93, quest’anno, e naturalmente, per noi è un anno importante perché è il primo anno e noi lo chiamiamo, questo, Palermo Anno Uno, ecco la sigla da dove viene, questo momento è importante perché noi cominciamo a parlare in termini estremamente concreti del territorio, cioè coinvolgiamo tutte le scuole, coinvolgiamo le parrocchie, coinvolgiamo i singoli cittadini, tutti i luoghi di aggregazione, ecc. ecc., e si arriva il 23 maggio alla manifestazione dei 100.000, manifestazione che, naturalmente, segna, un poco, quello che, diciamo dal punto di vista squisitamente organizzativo, diciamo, il porsi come struttura vera e propria, il cartello, perché all’indomani del 23 maggio le associazioni si dicono, proprio, aderenti al cartello che si chiama, ormai, Palermo Anno Uno
D. QUINDI SI PUO’ DIRE CHE QUESTO CARTELLO SIA NATO SPONTANEAMENTE NEL ’92
R. Certo nel ’92, allora, a questo punto, nasce naturalmente questa
cosa, e si comincia a dire, attenzione questo soprattutto ai media, perché i media sono stati sempre poco sensibili, pensavano che noi facessimo solo la manifestazione, allora diciamo “Le manifestazioni che facciamo, sì, sono di ricordo, ma servono per fare in modo di svegliare le altre persone”, sopratutto dei quartieri, dei quartieri più degradati, il centro storico e i quartieri limitrofi, Romagnolo, Arenella, Brancaccio, e cose di questo genere, il CEP, lo ZEN ecc., ecc., per fare in modo che anche queste persone dove lì il controllo mafioso è molto più spinto, molto più evidente, si facesse in modo che anche queste persone, nelle scuole, nelle parrocchie, nelle singole associazioni, anche singoli individui, si svegliassero e lavorassero assieme, quindi la cosa… prima di tutto, il primo segno più importante è il collegamento, il primo concetto, collegare le varie realtà perché? Ma perché la mafia ci aveva portato ad ognuno nella propria casa, che non parlava nemmeno con il vicino, perché aveva tra la paura e il timore, di parlare con il vicino, perché…ci si sorrideva, il muro di gomma, qualunque cosa ci dicesse non c’era, perché chi sa quello chi può essere ecc. ecc., e quindi ci si comincia a parlare, lo stesso fatto del mettere i lenzuoli ai balcone, è una dichiarazione di fronte agli altri, ovviamente, di presa di posizione in città, si arriva al 19 luglio, e il 19 luglio , per Borsellino, si sceglie di manifestare al Borgo Vecchio, nel centro storico, il grande risultato fu che tutte le persone, il popolino, i commercianti, i singoli individui ecc., o chi abbassava la saracinesca, o chi mette il lenzuolo al balcone, al passaggio ecc., e quindi noi vediamo che non è solo, diciamo, la borghesia sensibile che è attenta a queste cose, ma anche la gente dei quartieri, … e quindi questo fu uno stimolo ulteriore, perché ci fece un pò capire che non eravamo solo noi delle associazioni, ma anche la gente, del popolo, dei quartieri, ecc., era molto sensibile a questo, dopo il 19 luglio, dicemmo che non era più il caso di continuare a fare manifestazioni per la gente… per i morti, ma che al contrario gli anniversari potevano servirci per stimolo, di appuntamenti precisi per comunicare quale erano le riappropriazioni che noi facevamo del territorio, ti faccio un esempio: cominciammo a partire, é questo ora il senso del lavoro che stiamo facendo a Palermo Anno Uno, qual è il senso, il senso di darci dei progetti concreti, emblematici, per Palermo, in modo tale che attraverso questi progetti si ottiene 3 cose, 1 le associazioni lavorano assieme, 2° si coinvolgono i gruppi, le singole persone dei singoli quartieri, 3° ti dà il segno che a Palermo si può cambiare e i volontari, le associazioni, la gente comune, può riuscire a sbloccare certe situazioni, ed abbiamo addirittura 6 esempi, che io ho su questo : il primo progetto è l’apertura della scuola dello Zen, del plesso scolastico allo Zen 2… dove c’è la costruzione di una scuola elementare, di una scuola media e di una scuola materna, è un progetto della Regione per circa 10 miliardi, che la Regione, diciamo, cerca di portare avanti, a compimento, ma ci sono tutta una serie di grandissime difficoltà, soprattutto di carattere burocratico, e allora cerchiamo di organizzare una conferenza di servizi, dove tutte le persone interessate, dal Prefetto, il Provveditore, il Commissario straordinario, il rappresentante della Regione, il Presidente della Regione, il comitato di quartiere ecc., fanno ognuno le proprie… per dire “Dobbiamo aprire la scuola, attiviamoci tutti per fare in modo che…”, allora noi che cosa facciamo, facciamo due lavori: primo, cerchiamo di collegare le singole associazioni dello Zen che lavorano ognuno per i fatti loro, in modo tale da fare una pressione estremamente più forte, associazioni di quartiere, laboratorio Zen Insieme, gli Scout, un circolo di sport, la stessa scuola, persone della scuola, la parrocchia ecc., e cerchiamo, in diverse riunioni di farli colloquiare insieme, cosa non facile, tra parentesi, questi si mettono d’accordo assieme, cominciamo a fare, all’interno dello Zen, manifestazioni e pressioni presso la Regione, la Regione, pressata, attiva, naturalmente, e velocizza il suo iter burocratico, e fa in modo che anche autorizzazione dei vigili del fuoco, della USL, ecc. ecc… intanto, insieme con le associazioni, si attivano le mamme, o i genitori in generale, che ovviamente voglione che, all’inizio della scuola, questa scuola sia aperta per portarci i loro bambini, nei vari 3 gradi di scolarità, in modo tale che : 1, i bambini non vadano al secondo turno, 2, che è la cosa per loro più importante, che li possano mandare a scuola, e loro possono andare a lavorare, e non essere legati, soprattutto le mamme, con i bambini a casa, e questa cosa, naturalmente, diventa estremamente importante, viene Luciano Violante, si fanno delle riunioni, ecc., perché le difficoltà, dal punto di iter, sono sempre molto lunghe, seccanti ecc., si arriva finalmente, malgrado con un mese di ritardo, alla consegna del plesso scolastico da parte della Regione, che era costruttrice, al Comune, (…) e finalmente si arriva, quasi un mese fa, all’apertura della scuola, allora Palermo Anno Uno è riuscito, insieme agli altri ecc., a far riaprire una scuola allo Zen; (…) beh, allora che cosa avviene, avviene che… diciamo questa cosa si, diciamo, è la realtà, ora va per terminare, perché aperta la scuola finisce lo scopo, è rimasto tutta una serie di valori, valori di solidarietà, valori di lavoro assieme, persone che magari erano assolutamente, nel passato, non molto solidali tra di loro ecc., e anche l’aver coinvolto le mamme, la gente del quartiere, a richiedere i loro diritti, quindi questa coscientizzazione da parte… è questo è un primo passo, parallelamente a questo, noi abbiamo attivato altri progetti, che sono: la costruzione di un centro sociale alla Magione, c’è un gruppo di lavoro che sta contattando il parroco, va a vedere, rispetto studi precedenti, se ci sono locali per fare questo centro sociale alla Magione, insieme con le associazioni di quartiere, associazione Mandamento Tribunali, cioè che già hanno lavorato nel quartiere, per la rinascita del centro storico, si sta facendo pure questo, e quindi questo è un progetto in essere, poi abbiamo avuto il gruppo di lavoro di appoggio ai magistrati, Caselli… e compagni, hanno detto che, nella sostanza si trovavano… a disagio, hanno chiesto il nostro aiuto, . abbiamo fatto il gruppo di lavoro per fare in modo, parlando sia con il ministro Mancino che Conso, questo per il Governo, e per quanto riguarda… con il CSM, in modo tale che si aumentasse il numero dei GIP a Palermo, dato che le praticheerano tantissime e non ce la facevano, e ché, naturalmente tutti, come tutti penso, vogliamo che i processi siano fatti in tempi brevi e che, soprattutto, i giudici abbiano gli strumenti fisici, lavorativi, per poter… perché è inutile dire che facciamo antimafia se poi i giudici non c’hanno gli strumenti ecc., e quindi questo è un altro discorso, insieme a questo un… c’è un gruppo di lavoro che precendentemente ha fatto una festa bellissima a Villa Trabia, cioè si è costituito un comitato di cittadini che lavora per fare in modo che una villa che abbiamo al centro di Palermo, molto grande, molto bella ecc., venga realmente, non solo adibita, perché già ci si può entrare, ma messa in condizioni di poter funzionare dignitosamente, per accogliere le famiglie, i bambini ecc., …allora a questo punto cosa abbiamo fatto, questa l’ultima festa che c’è stata domenica scorsa, non abbiamo fatto solo la protesta, ma abbiamo detto “Noi riattiviamo la villa”, allora, c’è una fontana che non funziona, ci abbiamo messo l’acqua, le papere ecc., ed ora c’è questa vasca che funziona, i bambini hanno fatto i banchettini dove hanno messo insieme i loro giocattoli, hanno fatto scambio di giocattoli, un gruppo di anziani dell’Albergheria, del centro San Saverio, è venuto lì, ha fatto un piccolo concerto di canzoni antiche, ha cantato… c’è stato un concertino degli Armonici, di un gruppo musicale, poi ci sono state tutta una serie di cose che sono durate tutta la mattinata, e allora per dire che nell’assenza dell’amministrazione i cittadini avevano la capacità di organizzare e far funzionare una villa come è doveroso fare, infatti, in un recente articolo su Avvenimenti, Riccardo Orioles dice che, avendo saputo queste cose, che “Palermo si avvia a diventare una delle città più autogestite d’Italia”, proprio perché i cittadini ormai vedendo che non c’è amministrazione pratica, amministrazione che consiste nel fare funzionare la qualsiasi, gli autobus, l’immondizia, l’acqua, il vivere, l’organizzare il traffico, le cose più normali ecc. ecc., e allora ci stiamo autogestendo quasi tutto, l’ultima, per es., una ciliegina su questa cosa, è che ultimamente il centro sociale a Borgo Nuovo, un centro sociale che è stato inaugurato ben tre volte, tre volte perché, in fondo, per tanta gente non è importante che una cosa funzioni, è importante che si inauguri, che poi dopo funzioni è un fatto per lei assolutamente secondario, l’ultima volta di questa inaugurazione, il centro sociale a Borgo Nuovo è estremamente importante, perché Borgo Nuovo è un quartiere periferico ecc., era stato inaugurato dal ministro Mancino, dal ministro Conso e naturalmente dal Prefetto, dal Commissario straordinario, da Luciano Violante…
D. PERCHE’ QUESTE CONTINUE INAUGURAZIONI?
R. Perché pur avendolo inaugurato, stava arrivando quasi Clinton, la prossima volta ecc., l’avvocato… il capo ripartizione del… la ripartizione attività sociali del Comune, metteva i bastoni tra le ruote, perché voleva che lo gestissero altre persone, perché il centro, in realtà è gestito da associazioni di volontariato, quindi che, addirittura, non chiedono soldi, quindi lo fanno in maniera gratuita, un centro di formazione professionale, un centro sportivo, un centro che… di aiuto ai ragazzi, diciamo, rinchiusi nel Malaspina, e un’altra attività che non mi ricordo, 4 attività… quindi, nella sostanza, dato che si spendevano solo i soldi del… dei custodi, e naturalmente la luce ecc., non c’era niente da speculare, detto con molta… finalmente, la scorsa settimana, per l’intervento sempre di Luciano Violante finalmente le cose si sono ricomposte e anche questo centro sociale al Borgo Nuovo funziona (…) ma, intanto, e questo è il discorso importante, al di là dei progetti, ci vediamo ogni 15 giorni, proprio al centro sociale San Saverio, e cerchiamo di organizzare l’ufficio. Cosa significa l’ufficio? fornire alle associazioni unaseriediservizi: elencodelle associazioni, i referenti dove possono andare, a chi possono rivolgersi, a seconda delle attività che devono fare, quello che si chiama una specie di collegamento, che non è solo collegamento in quanto tale, ma una serie fisica di servizi, per es.,per es., un gruppo di genitori all’Arenella, questo è successo, perché abbiamo partecipato ultimamente a questa cosa, un gruppo di genitori all’Arenella occupa la scuola materna che era in predicato di chiudere, allora noi li appoggiamo e finalmente ecc., la scuola non si chiude più, ecco, allora, un riferimento all’Arenella, è estremamente importante perché l’Arenella è una zona dove c’è un controllo della mafia molto preciso; (…) ci avviamo a diventare un cartello di associazioni che diventa difensore civico della città e controllo dell’amministrazione in quanto tale, questo un pò sinteticamente è la nostra… il nostro obiettivo molto preciso che significa controllo del territorio… ecco, non solo controllo del territorio ma controllo dell’amministrazione che controlla il territorio, quindi questo un poco la sintesi molto veloce delle cose che abbiamo fatto, naturalmente questa è una storia, ma non si possono raccontare né i sentimenti né le emozioni, ovviamente, francamente come ti faccio a raccontare quando abbiamo fatto… ecco, quando c’è stata la morte di padre Puglisi, diciamo l’adesione e l’aiuto al centro sociale Padre Nostro, la partecipazione alle manifestazioni, come si fa a raccontare… la manifestazione alla quale, insieme con i ragazzi delle scuole, ecc., noi, dicevamo No alla mafia, No al controllo mafioso… Buttiamoli in galera ecc., vedevi a Brancaccio, mica altre parti, dove, insomma, c’è un radicamento piuttosto fermo, tutta la gente che, tipo un palazzo, pieno di lenzuoli, cioè la gente aveva voglia…
D. A BRANCACCIO? R. A Brancaccio, capisci? Queste cose… si devono assolutamente vivere…
D. QUANTI CENTRI SOCIALI SONO NATI A PALERMO? R. Che ti posso dire… quelli funzionanti, 4, 5, sicuramente, come numero, come strutture di centro sociale, ma il problema è che, invece, costringere tutte le associazioni, il cartello è formato da circa quasi 60 associazioni, intanto ci sono associazioni che lavorano per l’ambiente, per il verde in generale, per i diritti, per il centro storico, e cose di questo genere … …
D. CHE OSTACOLI AVETE INCONTRATO PER LA COSTITUZIONE DI QUESTO CARTELLO?
R. L’ostacolo, diciamo, prioritario è che questo cartello, prima di tutto è rimasto sempre… siccome non voleva schierarsi con partiti politici, avere cappelli politici, intanto, inizialmente si è autogestito nella maniera più totale possibile, per il 23 maggio siamo andati a fotocopie, A4 e A3, nessuno ci ha dato mai niente, una lira, capisci, una lira! Nemmeno un manifesto, niente
D. MA NON LI AVETE RICHIESTI VOI? R. No, no, non solo non li abbiamo richiesti, non ce li hanno dati proprio, capisci, ma non solo a livello di Comune, istituzionale, dove noi non chiedevamo assolutamente niente, ma nemmeno, capisci, i partiti, qualsiasi partito, buono, piccolo o grande che sia ecc., e siamo andati avanti perché, perché il cartello delle associazioni non si schierava con i partiti, si schierava con la gente, con le persone, con le esigenze, e quindi se doveva dire una cosa non c’erano gli amici partiti o i nemici partiti, era abbastanza trasversale, poi le difficoltà che abbiamo avuto è che quando il cartello è diventato “appetibile”, perché appunto, facevamo… ecco, dopo i 100.000 del 23 maggio, ovviamente, al contrario, tutte le forze partitiche partecipavano, volevano partecipare, perché volevano strumentalizzare il cartello, fortunatamente, siccome abbiamo preso questa linea dei progetti concreti, sui progetti concreti c’è poco da discutere, cioè non c’è una cosa… teorie, ideologie, o cose di questo genere, se tu devi aprire la scuola dello Zen, devi aprire la scuola dello Zen, tutti i compagni di strada sono ben accetti, ma è questo l’obiettivo, non è le cose… cioè su questo, naturalmente, i partiti non si sono trovati a loro agio, anzi non ci potevono quagliare niente e quindi non si sono più presentati, questo è stato il grosso, un grosso pericolo, (…) ma poi il pericolo, il pericolo più subdolo e continuo è questa città, questa città che stanca, questa città che… su cui ogni giorno c’è una cosa diversa, uno dovrebbe andare dietro ad ogni cosa, realmente, e non ce la facciamo, non ce la possiamo fare, sicuramente, perché ogni momento c’è una cosa su cui dovremmo fare manifestazioni, dovremmo fare presenze, proteste, pressioni, o cose di questo genere, ecco perché abbiamo scelto delle cose significative,
D. DURANTE LE VOSTRE ATTIVITA’, INVECE… SONO SEMPRE QUESTI GLI OSTACOLI CHE INCONTRATE?
R. Sì, essenzialmente questi, al contrario, invece, c’è stato una grande familiarità, in questo momento un’educazione comune, l’ascoltare l’altro… che ti posso dire, tra le associazioni, cioè nelle riunioni man mano si… diventava un clima più familiare delle solite riunioni, fumose, confusionarie, anche molto spesso stancanti perché c’era molta, prima, conflittualità, tutta una serie di cose, ti ripeto, sulle cose concrete c’è più da agire e poco da sbizzarrirsi, e quindi questo è stato, un poco, lo stile… quindi abbiamo e stiamo continuando in questo modo, abbiamo raccolto i soldi ed abbiamo comprato un computer, abbiamo fatto tutta una serie di… abbiamo fatto l’ufficio…
D. COME E’ ORGANIZZATO, STRUTTURATO PALERMO ANNO UNO? R. E’ organizzato con una segreteria che è una segreteria tecnica, che lavora proprio all’organizzazione delle riunioni, ai contatti ecc., dopo la segreteria tecnica ci sono una serie di capi referenti, settore scuola, settore parrocchie, settore associazioni società civile, settore… persone che vogliono, anche singole
D. ANCHE I SINGOLI POSSONO ADERIRE A PALERMO ANNO UNO? R. Certo, certo, possono aderire, perchè noi dobbiamo in una… fisica cartina di Palermo, andiamo a colmare dove ci sono carenze, cerchiamo di trovare dei punti di appoggio, ecco il discorso del controllo del territorio, e quindi questa è un poco la nostra ottica
D. ANCHE VOI VI SIETE DIVISI PER FAMIGLIE! R. No ma infatti noi scherzosamente diciamo, tanto per prenderci in giro, perchè è giusto che ogni tanto… che in realtà noi stiamo rifacendo il discorso di controllo mafioso, dove al posto dei capi decina ci sono le associazioni, e i referenti così… dopo di che ci sono le associazioni, però tutte le decisioni, di carattere, chiamiamolo, squisitamente… politico, politico nel senso di prese di posizione ufficiale ecc., si fanno in maniera assembleare, non esiste un direttivo.
D_. INVECE AD ORGANIZZARE LE VARIE COSE SONO I CAPI REFERENTI?
R. I capi referenti, naturalmente si lavora sempre in maniera assembleare, perché nella riunione si porta la discussione, il progetto, o la manifestazione, o la cosa che si deve fare, e poi l’organizzazione, è proprio un’organizzazione… operativa, cerchiamo di essere quanto più capillari possibile
D. QUINDI LE DECISIONI VENGONO PRESE IN ASSEMBLEA R. E le cose operative, pratiche, si fanno in segreteria, si fa queste cose in segreteria, ecco perché ti ripeto abbiamo fatto… l’abbiamo fatto perché non si poteva ogni volta… discutere, anche le minime cose
D. QUANTE ASSOCIAZIONI, GRUPPI, RIUNIVATE ALL’INIZIO? R. Mah, sai, che posso dire, una trentina, ora siamo 57, quasi 60…
D. A PALERMO ANNO UNO HANNO ADERITO ANCHE ASSOCIAZIONI CHE NON NASCONO COME ASSOCIAZIONI ANTIMAFIA…
R. Certo, certo, l’Associazione Palermitana per la Pace, io faccio parte delll’Associazione Palermitana per la pace, faceva altre robe prima… la guerra del golfo, l’educazione contro la violenza, e cose di questo genere, non necessariamente, però vedi, la cosa importante è che tutte queste associazioni, io ti faccio l’esempio dell’Associazione per la Pace, fare pace a Palermo significa lavorare per i diritti e contro la violenza, e quindi contro la mafia… il discorso dell’ambiente, il discorso della distruzione del territorio, del cemento… la scuola, ecco, il comune denominatore, poi, è abbastanza…
D. IL VOSTRO E’ UN COORDINAMENTO DI FATTO O LO AVETE GIA’ COSTITUITO FORMALMENTE?
R. No, no, e ne intendiamo formalizzare, perché è assolutamente inutile, Palermo Anno Uno non è un’associazione, è proprio un servizio a tutte le associazioni
D. IN COSA PALERMO ANNO UNO DIFFERISCE DAL PRIMO COORDINAMENTO ANTIMAFIA, CHE SI E’ TENTATO DI COSTITUIRE A META’ DEGLI ANNI OTTANTA?
R. (…) …devo dire, io non lo so, non vorrei fare dei paragoni, sai perché, la storia è diversa, perché? Ma perché non si può paragonare una struttura nata dopo le stragi Falcone e Borsellino ad una cosa precedente, diceva qualcuno “Noi cresciamo con i funerali”, forse è così, forse è così, però lo spirito che ha animato le persone dopo queste cose non si può assolutamente paragonare con… quello di prima.
TANO GRASSO socio fondatore dell’ACIO
Capo D’Orlando, 5 Dicembre 1993
D. PUO PARLARMI DEI PRIMISSIMI TENTATIVI DI COSTITUIRE L’ACIO?
R. Ci fu un primo tentativo che fallì, secondo me, perché si era svolto, in una data ravvicinata alla scadenza delle elezioni amministrative del ’90, e, quindi, qualcuno dell’establishment politico e delle categorie professionali di Capo D’Orlando, temeva che un associazione sarebbe stata una variabile incotrollabile, e si adoperò per fare abortire il tentativo, il primo tentativo fallisce… … solo questo fu il tentativo, che si fece nel ’90, dopo l’attentato alla pastecceria Pullella e i colpi di pistola contro Marotta, poi quell’iniziativa riparte nel mese di ottobre del ’90, quando dopo avviene questo fatidico incontro fra me e Ciccio Signorino, allora la prima riunione…
D. QUINDI LA PRIMA SCINTILLA… SI E’ AVUTA CON QUESTO INCONTRO
R. Questo incontro fra me e Ciccio Signorino davanti il mio negozio poi la sera la riunione… padre Totino, tutti gli altri, e poi via via…
D. OLTRE CHE PER OPPORSI AL RACKET, SI ERA GIA’ PENSATO DI COSTITUIRE UN’ASSOCIAZIONE DI COMMERCIANTI PER ALTRI MOTIVI?
R. Sì, già io avevo preso, nell’estate, un’iniziativa soprattutto legata ai commercianti del settore abbigliamento, avevamo fatto alcune riunioni, un gruppo di commercianti, del settore dell’abbigliamento e calzature
D. NELL’ESTATE DEL ’90? R. Sì, legata… non era legata al racket, era legata ad una esigenza di un’organizzazione di categoria in generale, però, quando poi si parte a ottobre, novembre del ’90, si parte con la connotazione chiara, ed esplicita dell’obiettivo del racket, anche se nello statuto non è stato messo, perché nello statuto è stata messa una formulazione più generale a difesa degli interessi degli operatori economici, ma l’impronta iniziale è stata questa, io ricordo, quando abbiamo fatto la prima riunione di presentazione “Questa è una associazione antiracket, che nasce con queste finalità, poi ci sono altre finalità, ma la finalità primaria è questa”, perché doveva essere questa la finalità primaria? perché intanto vi erano state, o si stavano verificando i fatti nei confronti di Sarino Damiano, di Signorino, di Scaffidi, di Faranda, e quindi l’associazione doveva nascere, doveva essere lo strumento di tutela, di copertura, di sicurezza, per queste persone.
D. LO STATUTO QUANDO E’ STATO STESO, NELLA FORMA ATTUALE? R. Nella prima riunione, prima di andare dal notaio, quello è uno statuto banale, uno statuto tipo, banalissimo, senza grandi pretese, del resto nessuno pensava anche nel nome ACIO, Associazione dei Commercianti Orlandini, nessuno avrebbe potuto mai immaginare, cosa sarebbe diventato l’ACIO, e il ruolo nazionale che questa associazione avrebbe avuto, per cui lo statuto è uno statuto tipo…
D. SE NON SI FOSSE PRESENTATO QUESTO GRAVE PROBLEMA DELL’ESTORSIONE PROBABILMENTE L’ACIO NON SAREBBE NATA… R. No, si sarebbe fatta l’associazione di categoria, probabilmente, si sarebbe occupata, dei problemi del commercio, dei problemi della qualità del commercio, della promozione del commercio…
D. LEI PENSA CHE SI SAREBBERO SUPERATI GLI OSTACOLI CHE SI FRAPPONEVANO ALLA SUA COSTITUZIONE?
R. Non lo so, forse, con i se è difficile ragionare.
D. PERCHE’, VISTA L’ESISTENZA DI ALTRE ASSOCIAZIONI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI… C’E’ STATA LA NECESSITA’ DI COSTITUIRE L’ACIO?
R. Per due motivi, il primo motivo, immediato, che a noi era chiaro, ed era il fatto che le altre associazioni di categoria, in particolare una, solo la Confcommercio esisteva a Capo D’Orlando, erano associazioni morte, dal punto di vista della organizzazione delle categorie professionali, erano associazioni morte, cioè che non esercitavano alcuna attività di tutela, e di sostegno dei commercianti, e, quindi, intanto, questo fatto, e quindi questa scelta implica, chiaramente, una sfiducia nei confronti di queste associazioni, il secondo motivo, ma questo con il senno del poi, e che io indico sempre negli altri comuni dove vado, è che per affrontare un problema di questo tipo, quale il problema del racket, il modello ideale, è quello di un’associazione sul modello di Capo
D’Orlando, cioè non l’associazione burocratizzate, o burocratiche, come può essere la Confcommercio, o le altre associazioni di categoria, quindi con le loro gerarchie, con i lori filtri di mediazione, ma l’associazione diretta di base, da parte degli imprenditori, proprio un’associazione di base degli imprenditori, perché questo? Perché quando si tratta, non bisogna mai dimenticarlo questo, quando si tratta di opporsi al racket, il commerciante che decide di fare questa scelta, mette in gioco la propria sicurezza, anche la propria vita, e quindi deve avere uno strumento che sia lui stesso a gestirlo, in prima persona, e di cui lui stesso si debba fidare, di cui lui stesso avverta che può fidarsi, quindi sono comitati, come dire, autogestiti, ecco questo deve essere, gestiti direttamente dagli imprenditori che, anche perché, continuando sempre sul problema, anche perché quando si affronta un problema come il racket, su cui c’è tutto questo discorso, non è possibile delegare, delegare ad altri perché, ripeto, tu giochi la tua pelle e, giustamente, te la vuoi vedere tu… non puoi delegare ad altri, questo è un punto cruciale per capire il significato delle associazioni antiracket, cioè che non sono associazioni antimafia come le altre, hanno questa caratteristica, siccome affrontano un problema, questo problema, può essere contrastato solo se il commerciante rischia, se il commerciante denunzia, se il commerciante collabora con le forze dell’ordine, per tutti questi motivi, deve vedere coinvolti direttamente i commercianti.
D. QUALI SONO STATI GLI OSTACOLI PRINCIPALI CHE AVETE INCONTRATO PER LA COSTITUZIONE DELL’ACIO?
R. Quelli, gli stessi che avevano impedito la nascita dell’associazione in una prima fase
D. QUELLI POLITICI R. Quelli politici, un atteggiamento di grande ostilità, da parte di quasi tutte le componenti politiche, di Capo d’Orlando, dell’establishment, usiamo questo termine, dell’establishment politico di Capo D’Orlando, i quali temevano, ed avevano ragione a temerlo, con il senno del poi, che questa esperienza potesse diventare una variabile incontrollabile per i loro giochi e per il sistema di potere di Capo D’Orlando, infatti l’ACIO ha fatto saltare quel
sistema di potere
D. QUINDI ANCHE LE FORZE DI OPPOSIZIONE SI OPPONEVANO A QUESTA ASSOCIAZIONE?
R. Ma c’era un atteggiamento di… da parte delle forze di opposizione c’era magari, un atteggiamento di diffidenza, di freddezza, perché, chiaramente l’ACIO rimetteva tutto in discussione, come lo ha rimesso tutto in discussione
D. COME MAI POI SI RIUSCIRONO A SUPERARE QUESTI OSTACOLI R. Il passaggio cruciale fu il 29 Agosto del 1991, cioè quando si ha la percezione diretta del rischio che si correva, uccidono Libero Grassi, viene data la scorta a me, in quel momento la percezione, sia della classe politica, ma soprattutto a livello dell’opinione pubblica, diventa, la percezione del pericolo diventa forte, e allora scatta un meccanismo di solidarietà attorno a noi, non scatta automaticamente, io ricordo, racconto nel libro, questo incontro che vado a fare con il sindaco a casa, quando lo vado a cercare, cioè ad un certo punto si capisce che non si poteva più continuare noi a fare le cose ed il sindaco ad averlo nemico, bisognava rompere questa situazione e la data di svolta fu il 29 Agosto, dopo quell’omicidio, di svolta anche rispetto all’opinione pubblica, la quale opinione pubblica guardava a questa esperienza nostra come ad una esperienza corporativa, anch’essa con diffidenza, c’era una diffidenza generale, cioè nel senso è un’associazione di commercianti che si difendono il loro interesse, cioè la dimensione generale, della battaglia non fu compresa subito, la dimensione generale qual era, che tu nel momento in cui lottavi gli estorsori non salvaguardavi solo gli interessi tuoi di commerciante, ma salvaguardavi gli interessi generali di una comunità, liberavi la comunità di Capo D’Orlando dalla violenza mafiosa, questo è il punto
D. E QUESTO VENNE PERCEPITO CHIARAMENTE? R. Venne percepito dopo il 29 Agosto, fu chiara la percezione.
D. IO PERCEPIVO UN PO’ DI OSTILITA’ NEI CONFRONTI DELL’ACIO, DA PARTE DELL’OPINIONE PUBBLICA, IN QUANTO LA SI ACCUSAVA DI OFFUSCARE IL BUON NOME DELLA CITTADINA, E QUINDI DI DANNEGGIARE IL TURISMO…
R. Sì certo, c’erano tutte queste… io questa cosa non la
scrivo nel libro io ma la scrive Totò Costantino, con Totò Costantino abbiamo scritto la prima parte del libro, l’abbiamo scritta insieme, ed io racconto allora, perché l’ho scritta a caldo, prima del 29 Agosto l’avevamo scritta, sai c’era questo clima di diffidenza “Eh, distruggerete l’immagine di Capo D’Orlando, il buon nome…”, e invece invece abbiamo salvato una comunità.
D. PER QUANTO RIGUARDA GLI OSTACOLI POLITICI RELATIVI ALLA COSTITUZIONE, COME MAI NEL FEBBRAIO DEL ’90 NON SI RIUSCIRONO A SUPERARE E NELL’OTTOBRE INVECE SI’?
R. Forse le elezioni amministrative erano passate
D. FORSE ANCHE PERCHE’ ERA AUMENTATO IL NUMERO DEGLI ATTENTATI
R. Poi il pericolo aumentava…
D. QUALI OSTACOLI INCONTRA L’ACIO DURANTE LA SUA ATTIVITA’?
R. Ormai bisogna distinguere due cose, bisogna distinguere un pezzo che appartiene alla storia, quello del processo che si è concluso a giugno, in Cassazione, e perciò ormai appartiene alla storia, il problema di oggi dell’ACIO è che, esaurita una fase processuale, liberato, sostanzialmente un territorio, cosa deve essere l’ACIO? E questo è il problema, è chiaro che, tu capisci, il pericolo qual è? I pericoli sono due, da un lato la cristallizzazione in un museo, quindi l’ACIO diventa qualcosa da mettere in un museo, da ammirare e da osservare, dall’altro lato l’ACIO diventa un associazione di categoria, no, deve trovare una soluzione di equilibrio, allora non si cristallizza e né diventa una volgare associazione di categoria se riesce a promuovere, ed èquello che si sta facendo andando in giro per l’Italia a fare nascere altre associazioni, a mantenere vivo questo interesse, e ad essere lo strumento di una maturazione di tutta la comunità, questo patrimonio e questa esperienza deve appartenere a tutti, deve fare crescere, elevare, le coscienze civili dei cittadini di Capo D’Orlando.
D. OLTRE L’IMPORTANTE CONDANNA DEGLI ESTORSORI, QUALI ALTRI RISULTATI HA GIA’ OTTENUTO L’ACIO?
R. E ti pare poco? Il problema della sicurezza, il problema della sicurezza, quando tu ce l’hai, la sicurezza non riesci ad apprezzarla, cioè la sicurezza è uno dei beni, come molti dei beni immateriali, che quando tu ce l’hai non la riesci
ad apprezzare, come la libertà, siamo uomini liberi di esprimere il nostro pensiero, non la riusciamo ad apprezzare, ma se ci ricordassimo che durante il fascismo chi esprimeva il proprio pensiero andava in galera, allora tu l’apprezzi, voglio dire aver ridato sicurezza a questa comunità non è stata una cosa secondaria, cioè Capo D’Orlando poteva diventare come Barcellona, nell’arco di TAC! Di un tempo minimo, come Messina, come Messina dove tutto è avvenuto, a Messina, nell’arco di 10 anni, aver dato sicurezza a questa comunità è stata una cosa importante.
D. SICCOME L’ACIO HA ANCHE ALTRI OBIETTIVI OLTRE LA LOTTA AL RACKET, MI CHIEDEVO SE, OLTRE IL CAPITOLO LEGATO ALL’ESTORSIONE, POTESSE VANTARE ALTRI “SUCCESSI”…
R. Aver contribuito, chiaramente, ad un maggiore controllo nel campo della gestione delle concessioni delle licenze e nella regolamentazione della vita commerciale di Capo D’Orlando, questo sì.
D. QUINDI, ALL’INIZIO ERAVATE 7, POI QUANDO SI E’ COSTITUITA L’ASSOCIAZIONE ERAVATE 27…
R. Poi arriviamo, al primo colpo siamo arrivati a 100 e poi a 150
D. LE MAGGIORI ISCRIZIONI QUANDO CI SONO STATE?
R. Mah il salto decisivo avviene dopo il 29 Agosto, che si arriva a 150, però già prima, fino a quel momento eravamo arrivati a un centinaio.
D. SI SONO MANTENUTE QUESTE ADESIONI?
R. No, alcune, adesso sono venute meno.
D. MA SONO POCHE
R. Sì.
D. COME E’ STATO IL VOSTRO RAPPORTO CON LA CHIESA E CON LA SCUOLA?
R. La scuola, nella fase storica dell’ACIO ha dato un contributo
decisivo, cioè nel senso che gli studenti, più della scuola, gli studenti, hanno contribuito in maniera determinante a rompere quel clima di diffidenza che nell’opinione pubblica circondava l’ACIO, gli studenti furono un elemento decisivo, io non potrò mai dimenticare quella famosa manifestazione che fu fatta… che si concluse davanti all’ACIO, durante il processo, …fu una cosa di grande forza.
D. E PER QUANTO RIGUARDA LA CHIESA?
R. Mah, il rapporto qui è stato oscillante, nel senso che ci fu questa grande delusione che abbiamo avuto, quando venne trasferito padre Totino, e venne trasferito nel momento cruciale, nel momento in cui iniziava il processo, il processo di Patti, poi, per fortuna, con monsignor Casella abbiamo recuperato un solido rapporto, però un poco di… di delusione fu provata in noi… e anche la Chiesa oggi continua a essere, come dire, un punto di riferimento solido, per la nostra esperienza, dal punto di vista morale, dal punto di vista… anche pratico.
D. QUAL E’ L’ORIGINE DELLA MAFIA DEI NEBRODI, E’ UN MAFIA CHE PROVIENE DAI PASCOLI?
R. Sì, su questo non c’è dubbio, cioè nasce in una contingenza economica che chiude alcune valvole economiche, legate sempre ai grandi contributi, alle condizioni di maggiore difficoltà e di maggiore controllo sull’elargizione di denaro pubblico, nasce come una mafia dei pascoli, all’inizio, però riesce ad evolversi in tempi rapidissimi . allora che succede, ad un certo punto, però, questa mafia tortoriciana si evolve con una rapidità impressionante verso una vera e propria mafia moderna, il salto di qualità avviene in due direzioni, da un lato il rapporto con Barcellona, e dall’altro lato il rapporto con Palermo
D. PENSAVO AVESSE LEGAMI CON CATANIA
R. Tramite Barcellona c’è Catania ma dall’altro lato anche con Palermo, …e oggi possiamo dire, con certezza, che la mafia di Tortorici era inserita dentro Cosa Nostra, sono processualmente accertati dei rapporti con palermitani, nel nostro processo io accenno a qualche cosa da questo punto di vista, e credo che uscirà ancora più materiale da questo punto di vista
D. A QUANDO PUO’ FARSI RISALIRE LA NASCITA…
R. Questo salto di qualità avviene negli ultimi 10 anni
D. E LA NASCITA A QUANDO PUO’ FARSI RISALIRE?
R. … … nel dopoguerra, ma il salto di qualità avviene negli ultimi 10 anni con le estorsioni alle grosse imprese edilizie, con l’attività estorsiva nei confronti di queste grosse imprese, ecco lì avviene il salto.
D. QUINDI QUESTA MAFIA INIZIO’ CON L’ABIGEATO…
R. Sì.
D. QUANTE ASSOCIAZIONI ANTIRACKET SONO NATE IN SICILIA?
R. Mi pare che sono una ventina.
D. E’ STATO COSTITUITO UN COORDINAMENTO REGIONALE?
R. Sì, da molto tempo, dal ’92, dal giugno del ’92.
D. E’ FORMALMENTE ORGANIZZATO, STRUTTURATO…
R. No, ci si incontra… si fa il punto…
D. QUINDI IL COORDINAMENTO CONSISTE IN QUESTI INCONTRI MENSILI, NON C’E’ UNA STRUTTURA?
R. No, guai, non la abbiamo voluta fare la struttura per evitare di diventare come la Confcommercio, come la Confesercenti, cioè una struttura burocratica, siccome parliamo di un problema rispetto al quale, se c’è burocrazia il problema non esiste più, non lo puoi più affrontare, allora bisogna fare questa scelta
D. QUINDI IL COORDINAMENTO CONSISTE IN QUESTO, CHE VI RIUNITE…
R. Sì, prendiamo posizioni comuni…
D. CHE OSTACOLI INCONTRA IL MOVIMENTO ANTIRACKET IN SICILIA?
R. Che non c’è nella Sicilia occidentale, cioè nelle provincie dove il fenomeno estorsivo ha più antiche radici ed è più storico, dove è più radicato, dove è più da tanto tempo che si paga, dove più il pizzo è un fatto normale, e sono le provincie di Palermo, di Trapani e di Agrigento, lì c’è grande difficoltà, le associazioni nascono nella Sicilia orientale
D. NELLA SICILIA OCCIDENTALE NON CE N’E’ NESSUNA?
R. No, c’è questa esperienza di Palermo, di SOS Impresa Palermo, mah.. basta.
D. PUO DARMI QUALCHE INFORMAZIONE SU SOS IMPRESA?
R. Io sono il presidente nazionale per ora
D. QUINDI SOS IMPRESA NON ESISTE SOLO A PALERMO…
R. No c’è un rete nazionale però è una cosa… ha il limite di essere un’associazione promossa da una associazione di categoria, che è la Confesercenti, serve per promuovere, per accordo, per consulenza…
D. SI PUO’ DEFINIRE UN’ASSOCIAZIONE ANTIRACKET?
R. Di promozione, sì, di coordinamento antiracket…, ma le vere
associazioni antiracket sono quelle tipo l’ACIO
D. SOS IMPRESA PROMUOVE INIZIATIVE COME IL NUMERO VERDE…
R. Sì, queste cose qua.
D. QUANTE DENUNCIE ANTIRACKET SI CONTANO A PALERMO?
R. Poche.., niente.., a Palermo ci sono commercianti che vengono denunciati, che sono in giudizio per non aver collaborato con le forze dell’ordine.
PADRE SALVATORE RESCA SOCIO FONDATORE DELL’ASSOCIAZIONE CITTA’ INSIEME
Catania, 21 Dicembre 1993
D. QUANDO E’ NATA CITTA’ INSIEME?
R. Questo movimento è nato nell’87, ed è nato… l’imput preciso della nascita del movimento è venuto una sera in cui un gruppo di persone qui della parrocchia, perché c’è una parrocchia vicino, poi su questo le darò delle precise… notizie, per distinguere bene il ruolo della parrocchia dal ruolo del movimento, che sono due cose diverse, abbiamo invitato Nando Dalla Chiesa, anzi, proprio da Palermo, mi ricordo che noi avevamo dei contatti con Città per l’Uomo di Palermo, per presentarci il suo libro “La Palude e la Città”, è venuto Nando Dalla Chiesa, abbiamo fatto un bellissimo dibattito, c’erano circa 150, 200 persone, lei conosce benissimo la sua definizione di città civile che è a metà fra la società criminale e la società politica, è quell’enorme cumulo di vizi e di virtù che bisogna stimolare, tutta quella definizione che lui sociologicamente, evidentemente dà, fatto questo discorso poi siamo andati a cena con Nando Dalla Chiesa, e poi ci siamo ritrovati proprio qui sulla piazzetta, per essere proprio, dal punto di vista storico precisi, e abbiamo detto “Che facciamo per questa città?”, era una città in… che era a quei tempi in mano ai comitati d’affare in maniera totale, una città in cui c’era stato l’omicidio di Pippo Fava e non si sapeva nulla, una città la quale era ridotta in una maniera gravissima, come anche adesso del resto, dalle amministrazioni che c’erano state e si erano susseguite almeno dall’80 in poi, i quartieri periferici degradati, tutto quello che, evidentemente si può evincere dall’analisi di una città come Catania, che poi è molto simile, per altri versi, anche alle città del Sud, abbiamo detto “Vediamoci ogni mercoledì, qualche cosa nascerà”, e allora da quel momento in poi ci siamo cominciati a vedere mercoledì per mercoledì e il nostro obiettivo era semplicissimo, guardare la città, guardare i bisogni della città, sensibilizzare i cittadini ad aprire gli occhi sui bisogni della città, vedere perché questi bisogni non erano esauditi, vedere perché questi servizi, questa vivibilità non c’era, e andare a cercare le colpe di questa situazione, le colpe di questa situazione, evidentemente, risalgono a chi? Agli amministratori, specialmente agli amministratori di quel periodo, i quali tutto avevano in testa se non che di fare l’interesse della città, e facevano i loro affari, e questo noi lo sappiamo in una maniera assolutamente evidente … . guardare la città, guardare i bisogni della città e quindi andare a cercare la causa di queste disfunzioni, la causa di queste disfunzioni, evidentemente era l’amministrazione, e quindi creare un rapporto dialettico con l’amministrazione, che a quei tempi era un rapporto certamente certamente conflittuale, perché noi cercavamo di vedere quali leggi c’erano a monte e per quali motivi queste leggi non venivano applicate per venire incontro alle varie situazioni negative che c’erano in città, ed è cominciato così questo lavoro che come gamma comprende da un lato la sensibilizzazione dei cittadini ad interessarsi della loro città, a partecipare, quindi il concetto di partecipazione, non come clientelismo, come assistenzialismo, come interesse diretto, interesse diretto ai problemi e alla possibilità di risolvere questi problemi, e quindi il confronto con gli amministratori, il confronto con gli amministratori che si svolgeva, ed a continuato a svolgersi in un doppio modo, intanto partecipando in una maniera diretta, c’è stato un periodo in cui partecipavamo in massa, adesso partecipiamo con dei rappresentanti, al consiglio comunale, per vedere di mettere, veramente, le mani all’interno della macchina amministrativa, quindi partecipazione al consiglio comunale, studio di delibere, studio dei bilanci della città ecc.
D. COME IL COCIPA A PALERMO…
R. Sì, qualcosa del genere, anzi qui stava nascendo qualcosa di quel genere lì che poi non è nata per le situazioni amministrative che si sono create dopo, e poi anche il confronto, che continua ancora adesso, e questo in maniera abbastanza puntuale e precisa, tra amministrazione e cittadini, cioè chiamare l’amministratore, l’assessore o il sindaco o il funzionario o chiunque sia, a rendere conto davanti ai cittadini della sua amministrazione, in assemblee con una tematica precisa, la quale affronta, volta per volta, questo tipo di discorso, questo è stato un pò il punto di partenza che, evidentemente, poi si è allargato in una rosa di iniziative varie, che tendevano, in ogni caso, a sensibilizzare sempre di più la città e a farla partecipare, una delle cose che ricordo, … il corso di formazione politica per i giovani … e poi tante altre iniziative sulla stampa, sull’informazione a Catania, noi abbiamo anche un giornale (Città Insieme), e quindi siamo andati avanti in questo tipo di situazione, questa è l’esperienza, volevo dirle che l’esperienza è nata in questo terreno, di questa parrocchia, che è una parrocchia un poco anomala, perché era una parrocchia che già da parecchio tempo si interessava di problemi sociali, specialmente su 2 settori: il settore della mafia, e il settore anche della pace e degli armamenti, lei ricorderà che intorno agli anni 87, 89 c’era tutto il problema dei missili di Comiso ecc., quindi l’ambiente della parrocchia era un ambiente assolutamente sensibilizzato a queste situazioni qui, e quindi la nascita di questa nuova sensibilità, di interessarsi direttamente per la città, ha trovato un terreno molto favorevole su cui poi, evidentemente si è sviluppata, però il movimento Città Insieme non si identifica con la comunità parrocchiale, è un movimento che vuole essere laico, pesca, evidentemente, anche qui, che abbiamo a disposizione… perché il parroco, io non sono il parroco, ci concede l’uso di questi ambienti, ma non si identifica assolutamente con la comunità parrocchiale, anzi può capitare che la comunità, in quanto tale, pigli una posizione, rispetto a determinati argomenti, e Città Insieme, con un suo direttivo e con una sua linea politica, ne pigli tranquillamente un’altra, quindi non si identifica
D. QUINDI E’ UN’ASSOCIAZIONE ACONFESSIONALE…
R. Quindi è aconfessionale e laico, questo discorso qui bisogna assolutamente… anche se ci sono io in mezzo, come tanti altri, noi non siamo dei cattolici che facciamo politica, siamo dei cittadini, in cui ci sono dei cattolici, dei marxisti, dei liberali… siamo aggregati qui perché siamo nati qui, ma l’esigenza… evidentemente ognuno porta all’interno della sua esperienza questo retroterra suo, culturale, queste motivazioni, ognuno va a cercare le motivazioni secondo il retroterra che è maturato nella propria esperienza umana o nella propria esperienza politica, però, concretamente, non c’è assolutamente uno stampo, col tanto che io… noi non abbiamo nessun rapporto con la gerarchia ecclesiastica, con… anzi le dirò, così con molta franchezza, che per certe nostre prese di posizione che riguardano in maniera particolare i rapporti fra la chiesa e la mafia, o meglio ancora, il fatto che la chiesa in generale abbia goduto di protezioni dal punto di vista economico, dal potere politico in Sicilia, che è rappresentato in massima parte dalla Democrazia Cristiana, c’ha portato su posizioni molto critiche dal punto di vista del giudizio che noi diamo sugli interventi che la chiesa ha fatto nel passato, ora un pò di meno, ma non troppo di meno, e tutto… come dire, questo establishment, questo discorso politico-mafioso, e quindi io personalmente, e anche il movimento, abbiamo avuto dei contrasti perché non abbiamo approvato né il silenzio né la morbidezza con la quale la gerarchia ecclesiastica ha spesso affrontato il problema della mafia, che a nostro parere la prima cosa che la chiesa dovrebbe fare sarebbe quella di rifiutare, anche per la prossima visita del Papa, che ci sarà, qualunque tipo di contributo, perché, in questo momento i canali attraverso cui passa il denaro, anche ancora, sono ancora denari sporchi, e sono canali sporchi non sono canali puliti, quindi questo le fa capire, in maniera molto immediata, questa… come dire… distinzione netta e precisa tra la parrocchia in quanto tale e il movimento di società civile in quanto tale, volevo dirle che una delle cose più interessanti, dal punto di vista della strutturazione, che è nata molto bene all’inizio, poi ha avuto un momento di pausa a metà, ed è rinata invece ancora adesso, è la strutturazione in commissioni di studio per particolari problemi, per es., adesso è inutile parlare del passato, parliamo del presente, abbiamo una commissione quartieri, per es., la quale si interessa delle problematiche dei vari quartieri specialmente di quei quartieri a rischio, abbandonati, non so… humus di delinquenza minorile ecc., e noi andiamo nei vari quartieri non tanto a portare una colonizzazione politica quanto a far suscitare, a suscitare nell’ambiente del quartiere delle persone che piglino la responsabilità della loro partecipazione, per es. abbiamo fatto ultimissimamente un incontro nel quartiere Trappeto Nord che è uno dei quartieri di Catania più degradati, ce ne sarà un altro a San Giovanni Galermo se non mi sbaglio, stasera per es., c’è anche un’altra commissione che sta affrontando in maniera particolare il problema dei minori a Catania, con un progetto minori, che noi abbiamo elaborato l’anno scorso in vista delle elezioni comunali, è la seconda riunione che fanno insieme a tutti i rappresentanti degli enti responsabili di ciò che potrebbe essere un progetto minori, e stasera alle 7 si riuniscono ancora una volta per mettere a punto determinate strategie operative per portare avanti e stimolare, evidentemente, la USL il Prefetto, il Sindaco, l’amministrazione, il Provveditorato, le nomino alcuni degli enti che evidentemente sono… fatti a questo discorso qui.
D. QUALI SONO I PRINCIPALI MEZZI, STRUMENTI CHE USATE PER PERSEGUIRE I VOSTRI OBIETTIVI?
R. I mezzi sono: la stampa quando la stampa ci ospita, non sempre; i mass media quando i mass media ci ospitano, con le televisioni abbiamo un rapporto più, come dire… liscio che con la stampa, perché la stampa è “La Sicilia”, l’unico giornale che c’è, perciò a secondo delle posizioni politiche che trova, però abbiamo avuto qualche contrasto però tutto sommato si convive; poi abbiamo le assemblee del mercoledì; abbiamo il giornale che stampiamo e quando capita facciamo anche delle manifestazioni e dei volantinaggi, in particolari momenti, o per portare a conoscenza dell’opinione pubblica delle cose, per es., l’ultimo che c’è stato qualche giorno fa, è stato un volantinaggio di appoggio ai magistrati del pool catanese, che finalmente che si sono svegliati, che si sono mossi, e quindi sembra che si muove, e allora questi magistrati, poveretti, è inutile lasciarli assolutamente soli cerchiamo… oppure qualche manifestazione nel momento in cui avviene qualche fatto eclatante che bisogna sottolineare o che bisogna spingere, per es., i fatti che sono capitati qui di fronte, abusivismo edilizio, in cui dobbiamo dire purtroppo che abbiamo perso la causa, perché abbiamo fatto questo tipo di pressione ma il giudice ha dato ragione agli abusivi derubricando il reato di abusivismo dal punto di vista penale e passandolo sul piano amministrativo, quindi, praticamente, gli hanno fatto pagare la multa ma stanno costruendo abusivamente dove il piano regolatore diceva che doveva esserci una piazza … e questi sono i mezzi con cui evidentemente ci mettiamo in contatto, ripeto, volantinaggi, manifestazioni, televisioni private, radio private, giornale e assemblee, le assemblee sono genralmente ogni mercoledì, ne salta qualcuna qualche volta, e in cui si affrontano o temi che riguardano la città o c’è questo confronto con gli amministratori, per es. un altro dei temi che abbiamo affrontato 2 mercoledì fa insieme a due giudici Caponcello e Lima, ed a un avvocato, abbiamo affrontato il problema del colpo di spugna del parlamento, perché evidentemente la sensibilizzazione politica nei riguardi dei cittadini non la facciamo solamente su argomenti che riguardano la problematica cittadina ma anche su argomenti di indole generale che, evidentemente poi sono afferenti ai problemi che noi trattiamo qua nella città stessa.
D. MI RACCONTA QUALCHE ATTIVITA’ PARTICOLARE CHE AVETE PORTATO AVANTI… AD ES., LEGGEVO DELLA VOSTRA BATTAGLIA CONTRO L’OCCUPAZIONE ABUSIVA DEL LUOGO PUBBLICO CHE STA QUI DI FRONTE, DA PARTE DELLA CONCESSIONARIA D’AUTO DI NITTO SANTAPAOLA…
R. Quella è diventata, come dire… mitica
D. E’ FINITA BENE PER VOI?
R. Sì, è finita bene nel senso che la Pam Car che probabilmente era… apparteneva al clan Santapaola, è andata via per le nostre proteste, è finita bene nel senso che poi l’amministrazione comunale ha appaltato alla ditta Mirenna il verde pubblico spendendo 1 miliardo e 200 milioni, è finita male nel senso che ancora i lavori non sono finiti, ci hanno fatto una colata di cemento quindi noi abbiamo protestato a lungo contro questo discorso, abbiamo fatto delle assemblee qui con i progettisti, abbiamo fatto cambiare il progetto, ora sembra che con l’amministrazione Bianco appena finiscono le vacanze di Natale dovrebbero ricominciare i lavori per metterlo a posto, insomma questa è una battaglia che ancora non finisce mai, ecco questa è stata una delle cose più… 5 anni in cui ci siamo sopra non siamo riusciti ancora a sbloccare, evidentemente non siamo anche riusciti perché le amministrazioni del passato erano più sorde di quella che c’è ora, ora una certa quale collaborazione, una collaborazione che non è esente da critiche evidentemente, perché noi abbiamo anche con questa stessa amministrazione che, a dire il vero, abbiamo appoggiato, perché era una coalizione di forze che evidentemente ha espresso questa amministrazione qui, non è che è una collaborazione acritica, una collaborazione fatta ad occhi chiusi, è una collaborazione che nel momento in cui c’è qualche cosa che non ci sta bene noi siamo assolutamente pronti a dire “No, questa situazione non va, dobbiamo assolutamente cambiare registro”, nei limiti in cui riusciamo, evidentemente, a farci sentire e a farci… però ci sentono, tutto sommato hanno anche un certo quale interesse a non farsene dire quattro, quindi questo ci aiuta da questo punto di vista.
D. QUALI ATTIVITA’ SONO RIUSCITE A COINVOLGERE MEGLIO?
R. Mah, cosa possiamo dire… le assemblee coivolgono molto, le assemblee
D. LE ASSEMBLEE SONO APERTE SOLO AI SOCI?
R. Le assemblee no, la struttura è questa, noi abbiamo dei soci, e questi soci eleggono una volta l’anno, che dura un anno in carica, il direttivo, formato da 15 elementi, però le assemblee dei soci si fa una volta l’anno per questo motivo, poi tutte le attività, comprese quelle del direttivo, sono aperte, cioè non esistono attività chiuse, tutte le attività, l’unica attività chiusa è l’assemblea annuale dei soci che sono quelli che pagano, evidentemente, una quota annuale, mi pare che sia 50.000 lire, e che si riuniscono per eleggere il direttivo, chiunque può partecipare, basta che si tesseri, ma tutte le altre attività tutte, sono attività aperte, sia il direttivo, che lo facciamo ogni domenica alle 7, sia le assemblee, che sono assolutamente aperte a qualunque… chiunque venga può entrare
D. QUINDI E’ APERTA A TUTTI I CITTADINI
R. Sì, tutti i cittadini possono assolutamente… anzi noi ne facciamo propaganda, cioè sul giornale, sul quotidiano, ogni mercoledì c’è il città flash in cui spunta il titolo, l’argomento dell’assemblea, il dibattito, i personaggi presenti ecc., quindi, quando si può, poi facciamo anche un resoconto sullo stesso giornale, o sul nostro giornale, di quello che è avvenuto, quindi sono assolutamente aperte.
D. CHE OSTACOLI AVETE INCONTRATO PER COSTITUIRE QUESTA ASSOCIAZIONE E NELLO SVOLGERE DELLA VOSTRA ATTIVITA’?
R. Mah, l’ostacolo, gli ostacoli sono 2, fondamentalmente, il primo ostacolo è la, come dire, l’insensibilità politica dei catanesi, che, se lei viene da Palermo, è una città dal punto di vista politico molto più addormentata
D. CATANIA?
R. Eh sì, esistono i soliti gruppetti, i soliti gruppuscoli che fanno parte della sinistra, della vecchia sinistra, che non è che riesca ad aggregare moltissima gente, tanto per dirle, qui l’unica occasione in cui siamo riusciti ad aggregare dalle mille alle duemila persone fu quando è morto Falcone, mentre a Palermo si è mossa la città
D. NON PIU’ DI 1000, 2000 PERSONE?
R. Sì, non più di 1000, 2000, cerchiamo di essere chiari e precisi, nella maniera più assoluta, cioè il catanese, a mio parere, è ancora molto individualista, molto sfiduciato, e d’altra parte è spiegabile questo discorso qui perché, evidentemente, 50 anni 0 40 anni 0 30 anni o quanto vogliamo, di malgoverno hanno creato quella acquiescienza, dal punto di vista della coscienza politica, ed anche hanno creato quel farsi strada per i propri interessi attraverso i propri canali, io insomma le mie cose personali me li risolvo da me, perché, evidentemente poi il politico era interessato da questo punto di vista, quindi creare, stimolare la partecipazione dei cittadini, questa è una cosa molto… … il secondo ostacolo è questo, l’impatto con i partiti, perché i partiti, volta per volta, hanno tentato di fagocitare il movimento
D. STRUMENTALIZZARLO
R. Strumentalizzarlo, fagocitarlo, farlo rientrare all’interno dei loro schemi, per cui, volta per volta, noi siamo stati, come dire… identificati, prima con i… prima con il PDS, poi coi Verdi, poi con Bianco ecc., mentre invece noi, a parte il fatto che all’interno del movimento lasciamo la pienissima libertà di decidere e di avere scelte politiche completamente diverse, anche se, dobbiamo dire, onestamente, che ci collochiamo in un’area progressista, per dire, un’area di sinistra, questo è ovvio, perché
altrimenti questo discorso qui non avrebbe assolutamente… non esistono movimenti di società civile di centro o di destra, se esistono sono falsi movimenti di società civile che hanno un’etichetta che sono comitati elettorali… però, una volta fatto un pezzo di cammino, noi ci siamo poi rivoltati contro questo discorso qui, perché non ci interessava né il partito né l’ideologia né altro, ci interessava, invece, fare funzionare, in maniera molto semplice e diretta e concreta, determinate strutture, questo ci interessa, quindi, dai partiti abbiamo avuto ostacoli terribili, basta leggere quello che ha scritto Andò di noi, per es., nei tempi scorsi, ha scritto cose terribili, quindi quello che ha detto… i democristiani di noi non ne parliamo, per fortuna che quello che dicevamo è ora comprovato dai fatti e dalle situazioni, quando noi parlavamo di Nicolosi, Andò, Drago, ecco Drago è in galera, Nicolosi non so se ci andrà, e Andò probabilmente appena cascano le camere forse andrà anche lui a fare una visitina da quelle parti lì, ma dico… da parte, diciamo così, dell’opposizione, una ostilità totale, da parte dell’opposizione a noi, quindi da parte dei partiti di governo, da parte invece degli altri partiti questo tentativo, volta per volta, di farci diventare collaterali, evidetentemente non era difficile accorgersene e quindi i fatti poi dimostrano, a posteriori, che il nostro discorso non è assolutamente un discorso partitico, anche se è possibile, volta per volta, fare un pezzo di cammino per una iniziativa particolare, ecco questo è il discorso.
D. QUAL E’ LA REALTA’ SOCIALE DI QUESTO QUARTIERE?
R. Questo è un tipo di quartiere molto composito, perché abbiamo per un buon 50% una classe media, e poi abbiamo delle sacche in cui c’è una situazione di, a livello sociale, più bassa, però il movimento non è nato per il quartiere, il movimento è nato per la città, tanto è vero che noi ce ne andiamo nei quartieri periferici, non so se mi spiego, quindi non è tanto il discorso dei problemi solo del quartiere, ma il problema di… infatti anche “Città Insieme”, ecco la stessa parola lo dice, è un discorso che riguarda l’amministrazione globale della città, quindi al di là dei bisogni del quartiere che, tutto sommato, troppi non ne ha, evidentemente, messi in raffronto e in rapporto con i bisogni assolutamente terribili di altri quartieri, tanto è vero che noi abbiamo più rapporti con i consigli di quartiere e con le realtà dei quartieri degradati, tipo villaggio Dusmet dove abbiamo lavorato, tipo Trappeto Nord, San Giovanni Galermo, dove stiamo incominciando a lavorare, che con questo quartiere qui, anzi le dirò, molto spesso la gente che viene a Città Insieme non è del quartiere, come la gente che viene in chiesa qui non è del quartiere, perché questo quartiere è il tipico quartiere addormentato catanese, in cui la gente si fa gli affarucci suoi e non vuole assolutamente… anzi noi siamo una spina nel fianco, da questo punto di vista, non per nulla molto spesso, i muri della chiesa sono imbrattati da scritte neofasciste … non per nulla, questo è sintomatico da questo punto di vista.
D. COME E’ MEGLIO DEFINIRE CITTA’ INSIEME: UNA COMUNITA’, UN’ASSOCIAZIONE, UN CENTRO SOCIALE…
R. No, no, nemmeno, non è una comunità perché non è una comunità ecclesiale, come un associazione, un movimento di società civile, io dico movimento perché c’è un nucleo di persone, che non siamo molti eh! I soci saranno una cinquantina, quelli che ci muoviamo siamo una ventina, venticinque, però questo nucleo qui riesce a fare da volano, aggregando, volta per volta, tante altre persone, su iniziative concrete, l’iniziativa può essere una manifestazione, può essere un volantinaggio, può essere un’assemblea, può essere un’azione di forza fatta per impedire che avvenga un sopruso, come quella volta della Pam Car ecc. ecc., quindi è un nucleo di persone che individua dei problemi, e evidentemente più occhi ci sono più problemi si individuano, che poi aggrega, volta per volta, su questi problemi, tutti quei cittadini che vogliono, quindi noi abbiamo un mucchio di simpatizzanti, che magari li vediamo una volta e poi per mesi non li vediamo più, poi li rivediamo la prossima volta quando c’è un altro tipo di… di situazione.
D. QUANTI ERAVATE ALL’INIZIO?
R. I soci fondatori sono 11
D. QUINDI DA 11 SIETE ARRIVATI ORA A 50?
R. Sì, sì, ma dico, quelli che si lavora, io sono molto concreto, io credo che quelli che lavoriamo in continuazione proprio, che programmiamo l’attività, non superiamo i 20, 25, però questo volano aggrega, di volta in volta, moltissime persone, a seconda delle iniziative che ci sono.
D. LA GENTE CHE ADERISCE A QUESTA ASSOCIAZIONE HA DELLE CARATTERISTICHE IN COMUNE, NON SO, SI NOTA, AD ES., UNA PREVALENZA DI GENTE LAUREATA…
R. La più varia, la più varia, abbiamo non so… Aldo Cirni che fa il ferroviere, lui che fa l’operaio, abbiamo il laureato, abbiamo il docente universitario, abbiamo il piccolo imprenditore, abbiamo l’impiegato, abbiamo il professore, abbiamo l’insegnante, insomma la composizione sociologica è la più varia possibile, abbiamo la casalinga, il pensionato, abbiamo i ragazzi, che fanno un gruppo a parte, cioè Città Insieme Giovani è con una attività che è legata al movimento, ma che è autonoma dal punto di vista sia delle iniziative che delle…
D. CHI GOVERNAVA LA CITTA’ CERCAVA DI OSTACOLARVI O VI ERA, MAGARI, INDIFFERENTE?
R. No, il governo della città eravamo noi ad ostacolarlo, perché tutte le giunte che ci sono state prima erano giunte assolutamente basate sul clientelismo e sull’affarismo, quindi noi abbiamo fatto di tutto per farle cadere…
D. E LORO, QUINDI, VI OSTACOLAVANO?
R. Sì, ci ostacolavano nel senso che, evidentemente, come dire… non ci guardavano di buon occhio, ostacolare cosa potevano farci? Perché noi le nostre attività le facevamo lo stesso, anzi direi che avevamo più grinta, più grinta, però, debbo dire che anche gli amministratori delle altre giunte, non so… il Sindaco Giusso, oppure il Sindaco Lo Presti, oppure il Sindaco… l’avvocato, come si chiama… il sindaco che è venuto subito dopo Bianco… come si chiama… l’avvocato… il famoso avvocato di Catania, quello del Consiglio Superiore della Magistratura, insomma i sindaci che ci sono stati, evidentemente, venivano, qui a parlare, ecco, lo cercavano il confronto, così anche gli assessori, venivano a parlare, evidentemente il discorso era molto più conflittuale di adesso, adesso c’è un discorso che è meno conflittuale, perché? Perché gli assessori che sono stati messi lì, sono stati scelti attraverso la nostra precisa collaborazione, c’è addirittura tra gli assessori uno che ha lavorato come un disgraziato a Città Insieme, che è Antonio Guarnaccia, per dirne una ecco, evidentemente, se ci fosse qualche cosa che non ci piace, anche in un assessore che è venuto fuori da Città Insieme, noi saremmo i primi a dirgli “Senti Antonio Guarnaccia, non ci piace quello che stai facendo cerchiamo di cambiare direzione”.
D. E LE ISTITUZIONI ECCLESIASTICHE, VI HANNO APPOGGIATO O OSTACOLATO?
R. Ma io direi ufficialmente né l’uno né l’altro
D. IGNORATO?
R. Ignorato, e penso che l’ignorare da parte dell’autorità ecclesiastica sia un ostacolare, un pò perché già la Parrocchia in quanto tale, per certe sue dimensioni ecclesiologiche, non è ben vista dalla Curia qui, e poi il movimento in quanto tale, ecco io le dirò, mai dalla bocca del Vescovo, dall’87 al ’93 quanti anni sono? 6 anni è uscita mezza parola di presa d’atto, non dico di approvazione, di presa d’atto di questa situazione qui, ripeto questo probabilmente è dovuto al fatto del nostro e del mio, in particolare, atteggiamento critico nei riguardi dei comportamenti che la chiesa ha instaurato nei riguardi del fenomeno mafioso in generale, che è un comportamento, a mio parere, l’ho detto in pubblico 1000 volte c’è stata anche una grossissima polemica sul giornale “Prospettive”, che è il giornale della Curia catanese, quindi molto così… e quindi questo tipo di conflitto… ora, forse si sono mantenuti nel silenzio per evitare di condannare da un lato e per evitare di approvare dall’altro, quindi c’è una ignoranza reciproca … … io ho incontrato parecchie volte il Vescovo, così in situazioni… a scuola perché io insegno, “Oh come stai? Ecc….”, ma mai mezza parola…
D. COME SE IGNORASSE TUTTO QUELLO CHE LEI…
R. Assolutamente, nella maniera più assoluta, come se non esistesse nulla, no, ma dico, non ci… non ci duole più di tanto, insomma, non stiamo lì a cercare… noi abbiamo sempre denunciato il sonno della chiesa catanese e dei preti catanesi
D. QUINDI LA CHIESA CATANESE NON HA FATTO ASSOLUTAMENTE NIENTE…
R. Assolutamente, no, no, la chiesa catanese ha alcuni preti di frontiera che stanno nei quartieri a rischio, e che ci stanno purtroppo, cercando anche lì di fare del bene attraverso il vecchio sistema che è clientelare, cioè non esiste, da parte di questi preti, una sensibilizzazione della gente perché si ribelli e cerchi i propri diritti, esiste una grande fatica, poveretti, e di questo io glie ne dò perfettamente atto, per cercare, fino a qualche tempo fa, quando era possibile, ora non è più possibile, dagli onorevoli vari, ecco, contributi per risolvere i problemi, ma, però, se tu risolvi il problema attraverso il contributo di un politico che è sporco risolvi il problema, ma, conteporaneamente, tieni in sella il politico sporco, questo è quello che non si capisce, io le dirò, un parroco di una zona periferica della città che è stato sempre al servizio dei democristiani, quindi a me non mi ha potuto vedere mai, appena è salita la giunta Bianco è venuto da me a dirmi “Senti, ci andiamo insieme dall’assessore x perché ho bisogno di un contributo?”, Evidentemente l’ho fatto volare (ride) non so se mi spiego, ecco, quindi il discorso non è tanto avere il contributo per fare del bene, è creare quelle condizioni strutturali, all’interno dei quartieri, perché non vi sia più bisogno dei contributi, ecco, questo è il discorso, ciò non toglie che bisogna venire anche incontro alle esigenze come dire… immediate, ma questo come tattica, non come strategia, quello che io rimprovero alla chiesa catanese è la mancanza di una strategia, non so se mi spiego…
D. PER CONCLUDERE, SECONDO LEI CHE RUOLO PUO’ AVERE LA CHIESA NELLA LOTTA CONTRO LA MAFIA?
R. Beh la chiesa nella lotta contro la mafia può avere un ruolo molto preciso, io, per es., in questi giorni dico con tutto quello che sta capitando, mafia, tangentopoli ecc., io non vedo assolutamente degli atteggiamenti recisi dalla chiesa, la chiesa dovrebbe mettersi ad urlare, ecco, perché non lo fa? A livello nazionale non lo fa, secondo me, perché c’è lo IOR, cioè la chiesa in certe cose è implicata in questo discorso, la chiesa perché è stata zitta nei riguardi della mafia? Dicendo delle bellissime parole in teoria ma facendo pochi fatti, perché, purtroppo, in questo sistema, forse in buona fede, è stata collusa, perché tutti i contributi che sono venuti alle opere ecclesiastiche son venuti attraverso la Democrazia Cristiana che era collusa con la mafia, quindi la chiesa, forse in buona fede ripeto, per evitare di farsi esaurire queste fonti di finanziamento è stata zitta, ecco, la chiesa dovrebbe oggi, a mio parere, ecco, fare un gesto profetico cioè rinunziare, per un pò di tempo a qualunque provento, anche se si riduce alla povertà totale evitando qualunque collusione attraverso il potere politico, fin quando il potere politico, almeno, non si purifichi, questo gesto profetico la chiesa non lo fa basta vedere i soldi che saranno stanziati per la prossima visita del Papa a Catania, e noi abbiamo urlato ancora, dicendo che questi soldi vengano spesi almeno per qualche cosa di duraturo non per qualche cosa di effimero che ad un certo punto, quando se ne va è finito, e poi c’è un altro grosso problema, che io le acceno semplicemente e ci vorrebbe molto tempo per parlare, manca assolutamente la coscienza, nelle comunità ecclesiali, della creazione della mentalità politica dei fedeli che non vuol dire farli votare per un partito come abbiamo sempre fatto, ma quello di dire “Gioia mia, se tu sei cristiano, tu ti devi interessare di quello che ti capita attorno, non devi fare i tuoi interessi”, questa dimensione è assente completamente dalla pastorale ecclesiale
D. E NON CREDE LEI IN UN POSSIBILE RINNOVAMENTO?
R. Ah sì, per carità, io a questo possibile rinnovamento ci credo, altrimenti non continuerei a lavorare, … io spero che ci sia un rinnovamento, che d’altra parte in certi preti più sensibili c’è, e il caso di padre Puglisi di Palermo, e i preti di Palermo, alcuni ci sono, ma la realtà delle varie parrocchie è una realtà devozionale, sacramentale, rutinaria, che non crea assolutamente delle teste che sappiano pensare, nei cristiani, e che, specialmente si sappiano compromettere, perché i primi a non compromettersi sono i preti, io farei una cosa: chiuderei le chiese tre anni e manderei tutti i preti in un corso di rieducazione, e poi li rimanderei nelle chiese un’altra volta, questo servirebbe a 2 cose stupende, la prima il rinnovamento mentale dei parrini, il secondo il fatto che la gente si disabitua a tutte quelle pratiche religiose che non hanno nessun senso o perché non hanno nessun impatto nella vita, dopu tri anni, su picca tri anni, ecco, allora forse si potrebbe tentare di ricominciare, tre anni è il minimo, 5, 10, 15, 20, ecco, cambiare faccia alla religione, perché la religione non ha assolutamente nessun impatto con la realtà, così come è vissuta, va bene? E’ semplicemente una maniera per gratificarsi e una maniera per fare delle pratiche devozionali che poi non hanno un risvolto concreto nella trasformazione della realtà, ma Gesù Cristo è nautra cosa!
ASAEC ASSOCIAZIONE ANTIESTORSIONE CATANESE Catania 18 Gennaio 1994
D. QUANDO E’ NATA L’ASAEC?
LINDA RUSSO: R. L’ASAEC, come idea, è nata… subito dopo la costituzione di Capo D’Orlando, perché la signora Nucci una sera mi ha telefonato e mi ha detto “Senti Linda, ma visto che questi commercianti di Capo D’Orlando si stanno riunendo per lottare contro l’estorsione, che ne diresti di invitarli, li facciamo venire e vediamo che ci dicono, perché sarebbe bello fare una associazione anche a Catania”, abbiamo telefonato e loro sono venuti, Tano, Schifano, tutto il gruppo, erano circa 7
D. QUESTO QUANDO, PRIMA DEL PROCESSO?
R. Prima del processo, subito dopo la costituzione, mi pare è stata in giugno…
D. LA COSTITUZIONE DAL NOTAIO E’ STATA NEL DICEMBRE DEL ’90, POI A LUGLIO, MI PARE, C’E’ STATA LA CONFERENZA STAMPA, IN CUI SI RENDEVA NOTA LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE AL PROCESSO…
R. Subito dopo… noi come costituzione l’abbiamo fatta a novembre del ’91, però noi, come idea l’abbiamo avuta prima, infatti la prima riunione l’abbiamo fatta qui
ADRIANA GUARNACCIA: R. E io ricordo che si è inaugurata a settembre e già ci riunivamo in associazione, e ci riunivamo, le prime sere, a Città Insieme LINDA RUSSO: R. Perché io e Pia Giulia facciamo parte di Città Insieme, e quindi noi ci conoscevamo perché facevamo già parte di quel gruppo, e da lì è sorta questa idea, abbiamo invitato alcune persone a venire, ed abbiamo proposta questa cosa, poi a settembre si è costituita, perché tra l’idea e la costituzione passa un tempo, non è che immediatamente uno va dal notaio quando ancora non sa che vuole fare, ecco questo è stato il lasso di tempo, estate ’91 autunno ’91
D. QUINDI IL VOSTRO GRUPPO SI E’ COSTIUITO PRIMA DELL’OMICIDIO DI LIBERO GRASSI…
ADRIANA GUARNACCIA R. Sì, Sì prima, noi, praticamente, mentre ci stavamo costituendo per fare questa associazione… nel momento, saranno stati 2 giorni prima… 2 giorni dopo, noi ci siamo costituiti in associazione, la morte di Libero Grassi, infatti abbiamo aggiunto alla nostra intestazione, abbiamo aggiunto, abbiamo fatto un telegramma alla famiglia, e abbiamo detto che il nostro desiderio era di aggiungere il nome del marito, e loro ci hanno dato il benestare, era morto da 2 giorni, 3 giorni, qualcosa del genere, da pochissimo tempo…
LINDA RUSSO: R. Infatti la nostra è Associazione Anti Estorsione Catanese Libero Grassi.
D. QUINDI VOI, AL CONTRARIO DELL’ACIO, NASCETE ESCLUSIVAMENTE COME ASSOCIAZIONE ANTI ESTORSIONE… QUINDI NON VI PONETE ALTRI OBIETTIVI…
R. No, no
LINDA RUSSO: R. Poi, quest’anno, invece, in occasione dell’assemblea straordinaria, durante la quale noi, tutti gli anni, invitiamo tutti i soci a partecipare, abbiamo proposto di allargare il nostro statuto all’usura e alla concussione, perché ci siamo resi conto che l’estorsione non avviene mai da sola, e quindi c’è sempre, comunque, una forma di usura, una forma di concussione, cioè queste cose sono strettamente legate fra loro, e difatti l’abbiamo proposto in assemblea, è stato accettato, e quindi adesso noi… non siamo ancora stati riconosciuti come associazione dal punto di vista giuridico dallo Stato, perché ci sono alcune associazioni che vengono riconosciute dallo Stato, noi abbiamo fatto tutte le domande, tutte le richieste…
PIA GIULIA NUCCI: R. (Quando sono venuti i commercianti dell’ACIO a Catania) Nell’aprile del ’91… … quando lui ha fatto la dichiarazione ufficiale e io lo lessi sulla Sicilia
D. QUANDO HANNO FATTO LA CONFERENZA STAMPA A PALERMO?
R. Sì esattamente, in quella occasione vennero lui (Tano Grasso), Schifano, Signorino … … …
D. QUINDI LEI STAVA DICENDO CHE STATE SBRIGANDO LE PRATICHE PER OTTENERE IL RICONOSCIMENTO GIURIDICO…
LINDA RUSSO: R. Questo serve per tante ragioni ma, soprattutto, a noi serve per la costituzione di parte civile durante i processi, perché può capitare che qualcuno opponga questa pregiudiziale, dicendo che se… non ci si può costituire parte civile se non si ha il riconoscimento giuridico da parte dello stato, per cui, siccome noi non abbiamo nessun motivo di non fare una richiesta specifica, a parte che poi l’associazione riconosciuta dallo Stato ha anche determinate prerogative, ha determinate facilitazioni che è giusto che noi abbiamo, e poi a noi serve adesso anche per ricevere i fondi, perché siccome recentemente è stata approvata una legge dallo Stato, che consente agli associati di vari tipi di associazioni, di commercianti e di associazioni antiracket, legalmente riconosciute, quindi anche per questo a noi serve questo riconoscimento, di accedere ai fondi che lo Stato ha messo da parte, metterà da parte per aiutare coloro che hanno ricevuto un danno reale da un problema di questo tipo, allora è giusto che si possa…
D. QUINDI AD APRILE CI FU QUESTO INCONTRO CON I COMMERCIANTI DELL’ACIO, ED A SETTEMBRE VI SIETE COSTITUITI DAL NOTAIO…
PIA GIULIA NUCCI: R. …A settembre… perché poi abbiamo avuto una serie di incontri, perché volevamo costituirci già in un certo numero, naturalmente c’erano sempre molte resistenze, non so se gliene avete parlato delle resistenze di quelle sere, il presidente dei commercialisti catanesi, la Confcommercio… la Confcommercio cercava di… diceva sì ci stiamo ma non… sono quelle realtà sempre scomode, perché vanno un pochino contro l’ordine che almeno 2 anni fa era assolutamente costituito, era un sistema, purtroppo, anche quello delle… cioè si andava a scombinare delle situazioni…
LINDA RUSSO: E’ che noi non avevamo pregiudizi nei confronti di nessuno, quindi così come abbiamo invitato alcuni imprenditori, abbiamo anche invitato i rappresentanti delle associazioni dei commercianti già esistenti, da parte di alcuni abbiamo avuto un immediato riscontro, da parte di altri, invece la storia è un pò…
PIA GIULIA NUCCI: Si può dire anche molto chiaramente, debbo dire che un immediato riscontro ci è stato dato dalla Confesercenti locale, la Confesercenti di Catania è stata la prima a essere assolutamente disponibile su questo argomento, rinunciando, in un certo senso, a fare l’SOS Impresa, che lei sa che, invece è a Palermo, a Palermo non esiste un’associazione antiracket, esiste l’SOS Impresa che non è altro che il responsabile della Confesercenti palermitana, io ho visto sempre è solo lui, perché un imprenditore di Palermo non lo abbiamo mai visto noi…
LINDA RUSSO: Ed infatti questo è il lato negativo di una cosa che ha un’etichetta politica, perché l’etichetta politica frena lo slancio dell’imprenditore, noi, siccome non abbiamo nessuna etichetta, di nessun tipo, e allora, probabilmente, la gente si è anche fidata di più…
PIA GIULIA NUCCI: Probabilmente, certo, anzi sicuramente, praticamente avevamo tutti questi incontri, poi venne l’estate di mezzo, come lei può immaginare, tutto si rallentò, a fine agosto ci fu l’uccisione di Libero Grassi, ed io ricevetti una telefonata dell’avvocato Scuderi … … che è tra i nostri soci fondatori, che ora si sta presentando come Presidente della Provincia, il quale disse “Signora, cam’ha fari! Ormai bisogna per forza costituirsi, anche se il tempo non è… se non abbiamo le adesioni che volevamo avere, però una risposta, almeno qui a Catania, dobbiamo darla a un omicidio così efferato”, naturalmente ci trovammo tutti quanti d’accordo e ci trovammo proprio i primissimi di settembre… ci ritrovammo là ed eravamo una trentina… una quindicina, una ventina di persone…
ADRIANA GUARNACCIA: 17 eravamo PIA GIULIA NUCCI: Ah 17, una riunione in cui abbiamo scritto…
ADRIANA GUARNACCIA: Che abbiamo messo i nomi, abbiamo firmato…
PIA GIULIA NUCCI: Ognuno di noi ha firmato, c’era uno statuto, abbiamo firmato questo statuto, ed è stato fatto proprio nello studio di questo avvocato… dopo di che siamo andati avanti, cerchiamo sempre di allargarci…
ADRIANA GUARNACCIA: Eravamo 17, perché abbiamo fatto un pò di ilarità su questo numero…
ADALGISA CAVALLOTTO: Una cosa, pure, è che siamo tutte vicine, Linda è qua, dirimpetto c’è… qua più sotto c’è Margherita ed io…
D. COME MAI QUESTO AVVOCATO, VISTO CHE E’ UN LIBERO PROFESSIONISTA, E NON UN COMMERCIANTE, HA PRESO A CUORE QUESTA INIZIATIVA…
PIA GIULIA NUCCI: R. Perchè è del fronte progressista, questo professionista, diciamo è una persona vicina a questi argomenti…
D. AVEVA RICEVUTO DELLE MINACCE ESTORSIVE?
R. No, ma voglio dire, politicamente è motivato… … … . naturalmente c’era molta preoccupazione in ognuno di noi, di esporsi, come… soprattutto quelli che avevano… diciamo un negozio, una vetrina da potere fare saltare in aria, allora la primissima risoluzione è stata quella che tre professionisti presenti, si sono dichiarati nostri portavoce, per cui quando abbiamo fatto la conferenza stampa, hanno parlato questi portavoce, erano professionisti, erano 2 avvocati, e un commercialista, ed abbiamo organizzato, scenograficamente, la prima conferenza stampa, in una maniera simpatica, cioè facendo al contrario, cioè abbiamo fatto mettere i giornalisti dietro un tavolo, e tutti gli altri, cioè chi si costituiva in associazione, che eravamo una trentina di persone, una quarantina, come ascolto, e i nostri 3 portavoce davanti, e sono loro che hanno parlato, ed è stata, devo dire, scenograficamente mi è piaciuta, perché in un certo senso non si è esposto nessuno di noi, poi a poco poco… poco a poco abbiamo preso un pò di coraggio e un pò tutti, a giro, siamo andati… e all’inizio, all’inizio, per circa 2 o 3 anni, abbiamo evitato di… eleggere un rappresentante ufficiale, il benedetto… st’accidente di presidente che, purtroppo (ride), sono io, appunto per non identificare in una persona la persona da colpire, perché nessuno
di noi ha voglia di andare in giro scortato né tanto meno di essere oggetto di minacce, anche fra le cose più leggere … (all’inizio eravamo) 17, ma poi eravamo… quando abbiamo fatto la conferenza stampa, dopo neanche un mese, eravamo una cinquantina, dopo di che, tra le persone molto motivate, oltre che perché avevano subito il problema, ma anche politicamente, io non voglio dire politicamente come schieramento politico, perché pensavano che fosse un discorso da portare avanti…
D. QUINDI NON ERAVATE TUTTE PERSONE CHE AVEVANO RICEVUTO MINACCE
R. No, no, no ; LINDA RUSSO: Per esempio io, no, mai ho ricevuto… non ho mai avuto un problema di questo tipo…
D. QUINDI LEI LO HA FATTO PER UN MOTIVO DI SOLIDARIETA’…
R. Ma perché mi è sembrato una causa giusta, perché è una causa giusta, per noi è l’unico modo che possiamo avere per iniziare una vera lotta contro questo…
PIA GIULIA NUCCI: Ma perché voglio dire la cosa semplicissima, quasi banale, però deflagrante, è stata questa idea geniale di Tano o dei commercianti, di mettersi in tanti a combattere un problema, in modo che uno è facilmente, diciamo, intimidibile, mentre 20, 30, 40, 50, 100, un’associazione, soprattutto se non ha una persona che si espone sempre… devo dire abbiamo patito molto, che questo qui mi pare che è stato nel ’92, quando Tano ha deciso di candidarsi…
ADALGISA CAVALLOTTO: Perché tutti quanti poi non volevano associarsi perché dicevano “E’ una cosa politica, lo fanno per…”, infatti io c’ho un… sto cercando di convincere il Presidente dell’ALI, Associazione Librai Italiani, che mi diceva sempre che siccome c’è la politica di mezzo, finché ci sarà la politica di mezzo…
D. QUINDI, ADDIRITTURA, LA CANDIDATURA DI TANO HA CREATO PROBLEMI ANCHE ALL’ASAEC, OLTRE CHE ALL’ACIO…
PIA GIULIA NUCCI: R. Sì, vabbé, ma perché è logico, è ovvio no, infatti io, devo dire, mi sono molto amereggiata di questa scelta di Tano, anche se devo dire, ora alla fine ci è tornata utile perché è vero che è una persona in parlamento che porta avanti, che porta avanti… la nostra cosa, è importante, però il movimento, come immagine è stata… un pò pesante da sopperire, da subire.
D. QUINDI, GIA’ DOPO UN MESE ERAVATE 50, E POI, VIA VIA, QUANTI SIETE DIVENTATI?
R. Mah, ora saremo un 300 circa, ma non sono molti, se lei pensa una città come Catania.
LINDA RUSSO: In proporzione ad un piccolo centro siamo pochissimi
PIA GIULIA NUCCI: Siamo pochi, però il catanese, come forse il siciliano in generale, le pulsioni sociali sono poco sentite, se hai il problema vieni, se non ce l’hai difficilmente, e poi la cosa anche noiosa è che in fondo siamo sempre… saremo una ventina che effettivamente… gli stessi che ci vediamo.
D. MA E’ ANCHE VERO CHE LA VOSTRA E’ L’UNICA ASSOCIAZIONE ANTIRACKET NATA IN SICILIA IN UNA GRANDE CITTA’
R. Questo sì, questo qui senz’altro, devo dire, indubbiamente, certo è un segnale bello per la Sicilia, è sempre troppo poco per quello che vorremmo noi, ma effettivamente sì, è l’unica grande città, a Messina non c’è, a Palermo non c’è, a Siracusa non c’è neanche, sì, sì è vero … devo dire da allora abbiamo lavorato abbastanza bene, questa… la famosa legge per cui Tano si è battuto tanto… perché poi, ecco, un’altra cosa su cui abbiamo molto insistito noi, è stata l’idea di un coordinamento di queste varie associazioni, D. SI E’ RIUSCITI A COSTITUIRE UN COORDINAMENTO REGIONALE, COME E’ STRUTTURATO?
LINDA RUSSO: R. No ma non è stato costituito dal punto di vista legale, dal punto di vista formale (pratico), perché noi formalmente ci riuniamo, di volta in volta, nella sede legale di una delle associazioni e discutiamo i problemi comuni da portare avanti nei confronti delle istituzioni, soprattutto a Roma, adesso si parla, invece, di una associazione nazionale, l’associazione nazionale dovrebbe avere come presidente Tano Grasso, che per altro, secondo noi, gli spetta proprio di diritto, e su questo non ci sono discussioni, e difatti noi su questo in questi giorni stiamo discutendo…
D. QUINDI, A LIVELLO NAZIONALE, INVECE, SI VUOLE COSTITUIRE UNA ASSOCIAZIONE LEGALE, CON UN PROPRIO STATUTO ECC., NON IN MANIERA INFORMALE COME QUELLA SICILIANA…
R. Sì, sì, non in maniera informale, anche perché sarebbe una sovrapposizione inutile, se ce n’è uno nazionale ci va bene lo stesso, l’importante noi… ecco, forse probabilmente la forza della nostra associazione è data proprio dal fatto che noi non ci poniamo i problemi relativi ma quelli importanti, i problemi veri per i quali abbiamo costituito la nostra associazione, quindi se noi vogliamo portare avanti un discorso, andare da… dal ministro tal dei tali, o dal presidente tal dei tali, a chiedere le cose, è meglio essere in tanti, i rappresentanti, piuttosto che 2, 3, poi che sia un coordinamento, che ci sia un’associazione nazionale, che ci sia il pinco pallino della situazione, non ci poniamo, non vogliamo mettere il cappello su nessuna cosa, ci va bene che lo facciano anche altri, l’importante è che qualcuno lo faccia
ADALGISA CAVALLOTTO: E poi, secondo me, il bello della nostra associazione è che non sono soltanto commercianti, ci sono tanti professionisti tra i quali commercialisti, avvocati, c’è un ingegnere, c’è anche un veterinario, ci sono medici, per questo è bello…
PIA GIULIA NUCCI: E’ aperta alle casalinghe, agli studenti…
ADALGISA CAVALLOTTO: E poi la cosa più bella è che chi ha dei problemi già è incoraggiato… … poi è molto selettiva… non che, per carità non si fa la selezione, si è capitato proprio un gruppo, veramente, di persone molto qualificate, per cui anche in televisione tutti quanti hanno possibilità di… di dire la loro esperienza di dare dei consigli, poi quando succede qualcosa del genere, queste persone che vengono dai paesi, che telefonano, si mettono in contatto con uno qualsiasi, allora 3, 4… è una cosa molto…
LINDA RUSSO: Si sentono molto confortati, arrivano sconvolti e disperati, poi alla fine se ne vanno molto confortati, perché la solidarietà in questi casi è importantissima … gente che ha ricevuto minacce e non sa cosa fare, non sa a chi rivolgersi, non sa dove sbattersi la testa, e poi, invece, … arrivano le telefonate, si va lì si aiuta, si vede di che cosa hanno bisogno, se vogliono parlare…
ADALGISA CAVALLOTTO: Si va dai carabinieri … D. QUINDI LA VOSTRA ATTIVITA’ IN COSA CONSISTE? RACCOGLIETE QUESTE TELEFONATE DI DENUNZIA…
LINDA RUSSO: R. Noi abbiamo degli avvocati, ai quali potersi rivolgere, una linea preferenziale con la questura, una linea preferenziale con i carabinieri, è sempre la persona che decide con chi e quando vuole poi sporgere la propria denuncia, certamente la nostra funzione è quella di convincerli a denunciare, perché altro modo non c’è, però a volte capita che, ed è capitato ultimamente, poco tempo fa, che uno va a denunziare alla stazione di polizia tal dei tali e non ha alcun aiuto, viceversa se accompagnato da noi, dal carabiniere giusto, il carabiniere già si mette sull’attenti e decide di dare il proprio aiuto vero, è un pò
anche di stimolo nei confronti delle istituzioni.
ADALGISA CAVALLOTTO: Le istituzioni, per esempio molti comuni ci sono dei sindaci che sono… che non ne vogliono sapere niente, invece ci sono dei sindaci giovani che vogliono assistere, aiutare…
LINDA RUSSO: Ma noi facciamo un grosso lavoro nelle scuole, abbiamo fatto un concorso, ora comunque continuiamo ad andare sempre nelle scuole, parlare con i ragazzi, con i professori, è un tenere alto questo problema, perché non bisogna abbassare la guardia.
D. QUINDI IL COMMERCIANTE VI TELEFONA, VOI LO AIUTATE A FARE LA DENUNCIA, E DOPO COSA SUCCEDE?
PIA GIULIA NUCCI: R. Poi, se si prende l’estorsore, noi ci costituiamo parte civile insieme a lui al processo.
D. DI SOLITO ENTRA A FAR PARTE DELLA VOSTRA ASSOCIAZIONE?
R. Certo, certo, cioè noi ci costituiamo parte civile se lui diventa nostro socio, perché ha un senso, se no non ha senso.
D. AVETE AVUTO DIVERSE ESPERIENZE?
R. Sì; GIANNI ZURRIA: Diciamo che 3 ne abbiamo avute, almeno…
LINDA RUSSO: Più di 3
ADALGISA CAVALLOTTO: Anche il Comune ora si costituisce parte civile
PIA GIULIA NUCCI: Sì, noi abbiamo fatto sì che… noi abbiamo… abbiamo lavorato anche a livello istituzionale, siamo andati al comune, parlando con il Sindaco, e abbiamo, in un certo senso, convinto la giunta ad approvare il fatto di costituzione di parte civile del comune ai processi per estorsione
D. QUESTO CON LA NUOVA GIUNTA?
R. No, no, devo dire anche prima, anche con quella precedente
LINDA RUSSO: No, no, anche quella precedente, il Sindaco precedente è stato quello che per primo ha chiesto la costituzione di parte civile, che poi non è stata accettata, ma lui comunque…
PIA GIULIA NUCCI: Questo qui fu… nel ’92 è stato, nel ’92 è stato
D. CHI ERA QUESTO SINDACO?
R. Lo Presti, socialdemocratico.
D. MI RACCONTATE LA VOSTRA PRIMA ESPERIENZA IN UN PROCESSO?
PIA GIULIA NUCCI: R. La prima esperienza, noi non c’hanno accettato perché… c’eravamo costituiti dal notaio dopo i fatti…
D. LE MINACCE?
R. No le minacce, quella è stata un’estorsione di quelle classiche
D. DOPO GLI ATTENTATI?
R. Sì, sì, dopo proprio questo qui… perciò la nostra costituzione non è stata accettata, e da quel processo, fu il primo processo Panarello, era un commerciante, un nostro socio, un commerciante di carta, da questa denuncia venne fuori un bailamme, perché andarono in galera 14 persone, tra cui un ex assessore comunale, classicamente democristiano, che è molto conosciuto a Catania perché ha un’agenzia per insegnare a guidare la macchina, una scuola guida, e poi venne fuori, anche, fu tirato in questo… una figura che sembrava marginale, ed era quella di un tale fioraio, Samperi, che poi il figlio parlò ed è uno dei pentiti importantissimi per cui è stato nominato Andò e compagnia bella, da questa storia banale…
LINDA RUSSO: E’ nata la tangentopoli catanese, da questo processo, perché poi questo processo è stato, per noi, un fallimento, perché in realtà le pene non sono state adeguate, perché i grossi… inquisiti si sono pentiti, anche l’assessore è diventato un collaboratore di giustizia, per cui poi alla fine… ma da un altro punto di vista per la città è stato fondamentale, ma non c’è dubbio…
PIA GIULIA NUCCI: Meglio, perché non ci interessa a noi che uno stia in galera tanti anni, ci interessa che venga scardinato il sistema, praticamente, purtroppo è un sistema…
D. QUANDO E’ STATO IL PRIMO PROCESSO?
R. Nel ’92, tra il ’92 e il ’93… abbracciò entrambi gli anni
D. POTRESTE RACCONTARMI COME SI ARRIVO’ A QUESTO PRIMO PROCESSO? IL PERIODO DI TEMPO CHE VA DALLA VOSTRA COSTITUZIONE AL PROCESSO…
R. Questo qua, sì, immediatamente…
D. IL COMMERCIANTE CHE DENUNCIO’ GLI ESTORTORI ERA UN VOSTRO SOCIO?
R. No, questo è diventato un nostro socio… perché doveva costituirsi parte civile…
GIANNI ZURRIA: Divenne, noi lo spalleggiammo, aveva titubanze, timori…
LINDA RUSSO: Gli abbiamo consigliato l’avvocato… D. ANCHE NEGLI ALTRI 2 PROCESSI ERANO SINGOLI COMMERCIANTI AD AVER DENUNZIATO? NON QUINDI COME AL PROCESSO DI PATTI IN CUI I COMMERCIANTI ERANO DIVERSI…
R. No, no, singolarmente
LINDA RUSSO: La prima volta in cui siamo stati riconosciuti, invece, per la costituzione di parte civile, è stato il processo Nardi, un giovane gioielliere il quale riceve la visita degli estortori nella gioielleria, chiude automaticamente le porte e dice loro “Ma sono finiti i tempi della violenza, la dobbiamo smettere, voi siete pazzi, io adesso blocco le porte e chiamo la polizia”, ha bloccato le porte e ha fatto il numero della polizia, ed è passato un lasso di tempo durante il quale quelli, evidentemente, erano lì davanti a guardarlo, ad un certo punto succede che uno dei due mette la mano in tasca, lui credendo che stesse per uscire un arma, gli dice “E va bene, ammazzami, così tu mi ammazzi, vai per tutta la vita in galera anziché prendere 4 anni, però sicuramente non esci più dalla galera”, quello invece tira fuori 400.000 lire, ne dà 200 al suo amico perché gli dice “In carcere ti serviranno”, quindi lui arriva dai carabinieri, li arrestano, e questo processo si è risolto in 2 sedute, cioè in 2 udienze questi sono stati… c’è stata la costituzione di parte civile anche del comune di Catania, è stata accettata sia quella del comune di Catania che la nostra costituzione, questi 2 sono stati tutti e 2 incriminati, arrestati
D. QUANDO E’ STATO QUESTO PROCESSO NARDI?
R