Il modo di produzione africano

© Flickr CC
Alberto Sciortino
  Per capire le guerre in Africa occorre rivedere il concetto stesso di conflitto: non scontro tra stati per il controllo del territorio, né semplice riflesso di interessi strategici esterni. Qui la guerra oppone soprattutto chi è armato e la popolazione inerme. Una lettura dei conflitti come forma specifica della globalizzazione, per il controllo delle risorse e la connessione ai mercati internazionali
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“Nelle regioni del mondo situate al margine dei grandi mutamenti tecnologici contemporanei, la decostruzione materiale dei quadri territoriali esistenti va di pari passo con la messa in opera di un’economia della costrizione il cui obiettivo è la distruzione pura e semplice delle popolazioni superflue e lo sfruttamento delle risorse allo stato primario. Il funzionamento di una tale economia – e la sua sostenibilità – è subordinato al modo in cui si stabilisce la legge di ripartizione delle armi nelle società considerate. In queste condizioni, la guerra in quanto economia generale non oppone più necessariamente tra loro coloro che dispongono di armi. Oppone, di preferenza, chi dispone di armi e coloro che ne sono privi”.

(A. Mbembe, in Le Monde Diplomatique, 11.99)

 

 

Premessa

Per capire i conflitti in corso in questi anni in Africa bisogna rivedere il nostro concetto di conflitto. Se infatti pensiamo alla guerra come a uno scontro tra due stati o comunque tra due entità territorialmente organizzate, che configgono per il controllo di porzioni di territorio, non riusciremo a capire quasi nulla di ciò che accade in varie parti dell’Africa negli ultimi decenni. Allo stesso modo non capiremmo nulla se volessimo applicare agli attuali conflitti africani uno schema di lettura che faccia solo riferimento (come ai tempi della guerra fredda) agli interessi strategici esterni. L’ipotesi di lettura che invece io propongo si pone all’interno delle definizione contenuta nella citazione iniziale: la guerra come economia generale; la guerra come strategia che oppone soprattutto chi è armato e la popolazione inerme. In questo senso credo si possa dire che il sistema economico di guerra è il modo specifico con il quale l’Africa partecipa ai processi di globalizzazione.

 

 

 

Parte prima

 

Tra il 1954 e il 1994 si sono contati in Africa 35 conflitti maggiori, con circa 10 milioni di morti. Nel 1990 c’erano 30 conflitti aperti. Ad oggi ce ne sono 26, che coinvolgono una trentina di paesi, ma in realtà il numero dipende da come li si giudica. Di questi 26 infatti, 10 hanno registrato episodi violenti recenti, 6 sono in corso ma senza scontri recenti e altri 10 sono da considerare “quiescenti”, cioè apparentemente chiusi, ma le cui cause restano irrisolte. Ma, variando la definizione, può variare la “contabilità”: un rapporto del PNUD del 1994 indicava che “negli ultimi 3 anni” vi erano stati 82 conflitti, ma di questi ben 79 erano non delle classiche guerre internazionali, bensì delle crisi originate all’interno di singoli paesi, spesso per motivi economici.

 

La prima parte di questa relazione, che – inutile dirlo – non pretende di avere rintracciato una spiegazione vera una volta e per tutte sui conflitti del continente africano, sarà quindi di tipo principalmente descrittivo e si pone sul piano della geopolitica.

 

La descrizione degli avvenimenti si rende necessaria soprattutto per l’ovvia ragione che non sempre i conflitti in corso sul continente africano generano un sufficiente flusso di informazioni sui nostri media. Come tutti sappiamo accade spesso che alcuni avvenimenti, alcune fasi particolari attirino l’attenzione dei nostri mezzi di informazione per un periodo limitato per poi scomparire completamente per lunghi periodi o venire dimenticati  per sempre.

 

Personalmente ricordo molto bene le immagini televisive (in bianco e nero) della tragedia del Biafra dei primi anni sessanta, quando ero bambino. Tuttavia mi rendo conto che la parola Biafra da noi ha un qualche significato solo per quelli della mia generazione, i bambini di allora la cui immaginazione veniva ferita dalla visione di altri bambini, neri, con il ventre gonfio, che morivano per una ragione che era impossibile capire. Quella del Biafra è una guerra dimenticata, ma la sua memoria ci può aiutare a comprendere ciò che sta avvenendo oggi nel paese che comprende la regione del Biafra, che – a proposito – è la Nigeria.

 

Ma procediamo con ordine, seguendo un primo criterio meramente geografico, percorrendo da nord a sud il continente.

 

 

MAROCCO – SAHARA – MAURITANIA – ALGERIA

In questo modo il primo conflitto irrisolto che incontriamo è quello del Sahara occidentale. Pur volendo limitare questo panorama all’Africa propriamente subsahariana, per non correre il rischio di dover includere anche le grandi tematiche che derivano dal prendere in considerazione l’insieme geopolitico arabo-mediorientale, con tutto il suo enorme portato di attualità, non possiamo fare a meno di citare i paesi dell’area settentrionale, araba e mediterranea, per le influenze che gli avvenimenti che li riguardano hanno sul resto del continente. Siamo abituati a considerare Africa bianca e Africa nera come due entità distinte dal punto di vista della geografia umana e della politica. Molti elementi indicano invece che non è così: esiste tra i due insiemi una compenetrazione di tipo umano e storico prima di tutto, ma anche di tipo politico e militare d’attualità, che la geopolitica non può ignorare.

 

Nel 1976 la Spagna si apprestava a lasciare il suo dominio coloniale, uno degli ultimi che l’Europa deteneva ancora in Africa, sul territorio detto appunto Sahara Spagnolo. Il governo spagnolo (era appena caduta la dittatura franchista) decideva di suddividere questo territorio in gran parte desertico tra i confinanti Marocco e Mauritania. D’altra parte il Marocco aveva già precostituito posizioni con la “marcia verde” del 1975 (dettata soprattutto dalla necessità di politica interna di riunificate il paese contro un obiettivo esterno) con la quale vennero occupati i principali centri della parte settentrionale del Sahara spagnolo.

 

Una parte della popolazione locale si oppose a tale decisione e costituì il Fronte detto Polisario (Fronte Popolare di Liberazione del Sahara e del Rio de Oro), che proclamava l’indipendenza della Repubblica Araba del Sahara Democratica (RASD) e iniziava la resistenza armata. Tale resistenza, partiti gli spagnoli, si trasformava in guerra contro gli eserciti del Marocco e della Mauritania che invadevano il paese. I due paesi entravano anche in conflitto tra loro: il Marocco, in nome di ragioni storiche che risalgono a prima dell’epoca coloniale, esprimeva rivendicazioni su una grande fetta del deserto meridionale, che l’avevano portato nel 1960 a opporsi alla stessa indipendenza della Mauritania. Le mire marocchine furono apertamente osteggiate e frenate dalla Francia, che aveva ed ha interessi nello sfruttamento del ferro mauritano, ma la povera Mauritania comunque non poté permettersi a lungo tale conflitto e decise di ritirarsi già nel 1979. A seguito di ciò, il Marocco invadeva l’intero territorio dell’ex Sahara spagnolo.

 

Uscita dal conflitto la Mauritania, vi entrava invece l’Algeria, che vedeva nella creazione di uno stato indipendente da lei protetto in quella fascia di deserto costiero un modo per garantirsi uno sbocco sull’Atlantico, utilissimo per l’avvio delle sue risorse naturali sui mercati mondiali. È in Algeria che si stabiliscono i profughi sahariani e quindi le basi logistiche della guerrilla, causando una crisi diplomatica con il Marocco.

 

Nel 1986 sembra arrivare una svolta: Hassan II riceve i dirigenti del Polisario e si giunge ad un accordo per un referendum sotto l’egida dell’ONU sul futuro del Sahara. Ma, nonostante la RASD sia riconosciuta da 71 stati e dall’OUA, il referendum non si terrà mai, per la politica temporeggiatrice del Marocco che continua ad insediare coloni nel territorio sahariano per acquisire consensi in vista di questo referendum ormai ridotto ad un miraggio.

 

Nel 1989 viene creata l’Unione del Maghreb Arabo (UMA), ma questo non favorisce la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Marocco e Algeria (che nel 1999 riafferma ancora il proprio appoggio incondizionato all’indipendenza del Sahara), relazioni che saranno riallacciate solo nel 2000 (ma la frontiera terreste resta chiusa). In quello stesso anno, una nuova tornata di negoziati sulla questione del Sahara si conclude senza risultati. Ancora nel 2002 il Marocco riafferma la propria sovranità sul territorio sahariano e l’assenza di scontri armati si spiega solo con la decisione unilaterale del Fronte Polisario di abbandonare la lotta violenta, decisione peraltro revocata di recente (al momento senza conseguenze).

 

 

MAROCCO – SPAGNA

Per quanto la cosa difficilmente avrà conseguenze militari, il Marocco ha riaperto di recente il dossier delle rivendicazioni territoriali con la Spagna (che com’è noto possiede ancora due enclaves – Ceuta e Melilla – in territorio marocchino), con la breve occupazione dell’isolotto di Perejil (Leila in arabo) interrotta dalle truppe spagnole. Non è da escludere che – a parte motivazioni nazionaliste rivolte alla politica interna – alla base ci sia la decisione spagnola di autorizzare alla francese TotalFinaElf e alla statunitense Kerr McGee prospezioni petrolifere nelle acque tra il Sahara occidentale e le Canarie.

 

 

MAURITANIA – SENEGAL

Spostandoci un poco più a sud incontriamo il primo caso rappresentativo delle possibili tensioni che derivano da quella compenetrazione tra Africa bianca e Africa nera cui accennavo prima.

 

La Mauritania, il Mali, il Niger, il Ciad e il Sudan sono paesi al cui interno passa la linea di demarcazione (per nulla netta e definita) tra queste due entità. Tutti questi paesi in qualche modo hanno subito conseguenze derivanti da questa condizione.

 

Nel 1989 la Mauritania ha assistito a un conflitto interno tra le due comunità che si è subito trasformato in conflitto internazionale con il confinante Senegal. La Mauritania infatti, paese enorme di oltre 1 milione di kmq, è in buona parte un deserto costellato da rare oasi e cittadine su quelle che un tempo erano le piste carovaniere. Una ristretta fascia a sud del deserto è costituita da una zona secca su cui la vegetazione cresce solo durante la breve stagione delle piogge, ed è abitata per lo più da pastori di origine araba o berbera. Infine, solo la vallata del fiume Senegal, che fa da confine con il paese omonimo, è provvista di terre coltivabili, e dal punto di vista sociale ed umano entra a pieno titolo nell’Africa nera: la sua popolazione, pur essendo musulmana come il resto del paese, non è di bianchi arabofoni, ma di neri che parlano il peul (o pular) o il wolof. Ebbene nel 1989 le due comunità, bianca e nera, presero a scontrarsi, ufficialmente proprio per il controllo di quelle terre, che i pastori arabi “bianchi” rivendicavano per le proprie attività, specie a seguito di un periodo di intensa siccità che aveva ridotto la portata nutritiva dei pascoli. L’accusa ai neri venne subito riportata sul piano etnico e nazionalistico: si disse che le terre erano occupate da “senegalesi”, e in effetti era perfettamente normale che a sfruttare le terre fosse una popolazione che per sua natura era ed è transfrontaliera: spesso la stessa famiglia ha componenti che abitano nei villaggi della riva nord del fiume (che è mauritana) e altri in villaggi della riva sud (che è senegalese), e persino parenti in Mali, l’altro paese che condivide la valle e le acque del fiume.

 

Nel 1989 la caccia al “senegalese” organizzata dagli “arabi”, durante la quale decine di migliaia di persone furono espulse verso il Senegal e alcune migliaia uccise, ebbe come immediata risposta una caccia al mauritano organizzata in Senegal e la rottura delle relazioni tra i due paesi. Le relazioni sono state in seguito riprese (1992), ma il conflitto tra le due comunità rimane latente (ed è ancora adoperato come argomento di politica interna, anche se va registrato che non è entrato nel recente – 2003 – tentativo di golpe), anche a causa della permanenza di un problema di profughi.

 

 

NIGER

Scontri si sono verificati in Niger nei primi anni ‘90 con i Tuareg del Fronte di Liberazione dell’Air e dell’Azawak, che rivendicano l’autonomia di queste regioni, con i quali si è giunti ad un accordo di pace nel 1995. D’altra parte nel 1996 in Niger c’è stato un colpo di stato. Nel 1997 si sono verificate azioni violente di un movimento della minoranza toubou ai confini con la Libia. Nel 1998 l’Unione delle Forze della Resistenza Armata (tuareg e toubou) ha completato il proprio disarmo e il Frante Democratico Rivoluzionario (toubou) ha sottoscritto un cessate il fuoco, che ha consentito il ritorno di profughi stanziati in Algeria. Ma un altro colpo di stato, nel 1999, a seguito del quale si è insediato un governo civile, ha rinnovato una situazione di instabilità nella quale l’applicazione degli accordi coi i Touareg è ancora in buona parte ipotetica. Disordini proseguono al nord e proseguono le azioni della dissidenza toubou.

 

Due altri dossier si sono aperti intanto in Niger. Da un lato quello religioso: nel quadro del crescente antagonismo tra islam e altre confessioni vissuto da tutti paesi del sahel, scontri si sono verificati a Niamey nel 2000. Sempre nel 2000 si è riaperta la contesa di frontiera, anche con episodi violenti, tra Niger e Benin su alcune isole del fiume Niger, nonostante un accordo che risale al 1965.

 

 

MALI

In Mali, invece, un analogo conflitto con i Tuareg sembra essere stato formalmente risolto da un accordo del 1992, che riconosce uno status particolare al nord tuareg (anche se profughi tuareg dal Mali hanno continuato a fuggire in Burkina, ancora nel 1995). Il governo ha comunque posto fine alle violenze perpetrate contro i tuareg da un movimento di etnia songhai. Anche se episodi di violenza si sono registrati nelle regioni settentrionali ancora nel 2000 e nel 2001, il governo presenta come prova della risoluzione del problema l’avvenuta consegna delle armi da parte dei movimenti tuareg.

 

Un problema tuareg, che si esprime più che altro come banditismo, esiste anche in Mauritania.

 

 

CIAD – LIBIA

La divisione coloniale delle frontiere aveva tagliato in due alcune popolazioni, tra cui l’ordine musulmano della Senussiya, artefice principale della resistenza all’occupazione della Libia da parte dell’Italia fascista. Nel 1973 la Libia di Gheddafi occupò la cosiddetta fascia di Aouzou, territorio assegnato al Ciad. Fino al 1976 né la Francia, protettrice del Ciad, né lo stesso Ciad ritennero di dover reagire (si tratta di una zona desertica). Ma a un certo punto nello scontro entra il tentativo delle potenze occidentali, con in testa gli USA, di abbattere Gheddafi. Uno degli strumenti per farlo è l’appoggio al regine ciadiano. La Libia da parte sua fomenta l’opposizione interna del Ciad.

 

In Ciad, dove ribellione armate si susseguono dal 1965, la Francia aveva aiutato il presidente Hissène Habré ad arrivare al potere, poi l’aveva sostenuto in uno scontro interno del 1983 contro oppositori sostenuti dalla Libia. Nel corso degli anni ’80 anche la CIA lo aveva aiutato, in un contesto internazionale che vedeva svolgersi l’attacco militare alla caserma di Tripoli (1984) e il bombardamento di Tripoli da parte dell’aviazione statunitense (1986: come si ricorderà la crisi internazionale USA-Libia a un certo punto aveva coinvolto anche l’Italia, che pure aveva sempre lasciato aperti i canali diplomatici con Tripoli, e determinato l’esplosione di alcuni missili libici al largo di Lampedusa). Ma dal dicembre 1990 la Francia non sostiene più Habré (è cambiato il clima dopo la fine della guerra fredda?) e quindi l’opposizione interna lo sostituisce con Idriss Déby. Nonostante sia quindi giunto al potere con le armi libiche, Déby non concede nulla alla Libia sulla contesa relativa alla fascia di Aouzou, che invece sottopone alla Corte internazionale dell’Aja, la quale infine da ragione al Ciad (1994). Il conflitto sembra così risolto: una riconciliazione definitiva, con l’apertura della frontiera, è stata sottoscritta nel 1999.

 

 

CIAD

Nello stesso 1994 il Ciad raggiunge un accordo di pace con il movimento ribelle interno (Fronte Nazionale del Ciad). Ma la contesa resta aperta, con sporadiche violenze “autonomiste” (1995-6) nella zona del lago e nel sud, dove il problema è complicato da interessi petroliferi del governo centrale e di imprese statunitensi e francesi. Nel 1997 è stato firmato un accordo di riconciliazione con i guerriglieri federalisti del sud, seguito da un altro nel 1998. Questi accordi non hanno impedito l’apertura di un nuovo fronte nella zona del Tibesti con scontri con il Movimento per la Democrazia e la Giustizia in Ciad, guidato da un ex ministro, a composizione essenzialmente toubou, i cui successi militari, ripetutisi nel 1999, hanno avuto anche il favore degli altri movimenti armati. Nel 2000 i movimenti armati, spesso guidati da ex politici di regime, si sono alleati, mentre le truppe francesi si sono una volta tanto tenute neutrali. Ancora scontri nel 2001 e 2002.

 

La situazione di insicurezza ha indotto gli investitori internazionali (Shell e Elf-Aquitaine) a ritirarsi dalla regione petrolifera di Doba e la Banca Europea per gli Investimenti a ritirare il proprio finanziamento. Ma un cartello dei finanziatori è stato ricostituito su iniziativa della Banca Mondiale nel 2000 (Exxon, Chevron, Petronas) e i primi ricavi per il governo ciadiano sono stai destinati… al ministero della difesa.

 

Di recente (2001-2002) sono sorte tensioni di frontiera tra il Ciad e la Repubblica Centrafricana, che si accusano vicendevolmente di proteggere oppositori.

 

 

SUDAN

Da decenni esiste una resistenza armata di tipo autonomistico nel sud sudanese, zona abitata da popolazioni nere, in contrasto con gli arabi bianchi musulmani che detengono il potere a Khartum.

 

Un tempo sostenuta dall’Etiopia, nel 1991, a seguito della caduta di Menghistu, questa opposizione armata del sud ha perso le sue basi in questo paese ed è stata costretta a rifugiarsi in Kenya. In cambio, il Sudan ha cessato il proprio appoggio all’opposizione liberale etiope basata in Sudan. In compenso è la neonata Eritrea (1993) che si è intromessa adesso nella lotta tra Khartum e i ribelli, sostenendo questi ultimi, con la speranza di ottenere in tal modo appoggio dagli USA, che adesso hanno dichiarato il Sudan proprio nemico (dopo averlo usato come base per destabilizzare l’Etiopia di Menghistu).

 

Nel 1996 si è giunti ad un accordo tra il governo e varie fazioni ribelli, ma non col il SPLA, la fazione più importante, mentre l’ONU ha imposto sanzioni al paese. L’avanzata dei ribelli è ripresa nel 1997 con il sostegno dell’Eritrea, mentre il governo non può più contare sul supporto del deposto dittatore congolese Mobutu, deposto, per interventi alle frontiere. Nel 1999 è stato proclamato lo stato d’emergenza. La guerra tocca ormai le regioni di Equatoria, Monti Nuba, Nilo Blu e Est sudanese (confine con l’Eritrea). Nel 2001, a seguito di un’offensiva governativa, dopo il fallimento di ulteriori colloqui, nuove ondate di profughi si sono riversate verso Kenya e Uganda. I negoziati sono ripresi nel 2002. Dal 1983 la guerra del sud Sudan avrebbe fatto oltre un milione di morti e 4 milioni e mezzo di profughi.

 

Schierato a fianco dell’ex nemico etiope nella guerra con l’Eritrea, il Sudan è uscito dall’isolamento internazionale (ripresa rapporti con la UE, la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia) soprattutto grazie ai contratti di sfruttamento petrolifero concessi nel sud, che hanno fornito nuove entrate al governo. Per assicurare tali contratti, il governo ha ripetutamente bombardato alcune zone del sud, che sono state totalmente svuotate delle popolazioni. In questo contesto l’Eritrea ha sostenuto anche con azioni anche militari i ribelli sudanesi del sud.

 

Mentre nel 1998 gli Stati Uniti hanno accusato il Sudan (e l’Afghanistan) di essere dietro gli attentati alle ambasciate statunitensi di Nairobi e Dar es-Salam, dopo l’11 settembre il Sudan ha ripreso i rapporti con gli USA che non appoggiano l’opzione autonomista dei movimenti del sud, ma che hanno chiesto in segno di buona volontà al governo di Khartum il cessate il fuoco nel sud. Ma questa richiesta non ha avuto seguito, anzi una forte offensiva governativa si è dispiegata nella primavera 2002.

 

L’instabilità nel sud del Sudan si è trasmessa all’Uganda per esplicita scelta del governo sudanese il quale, convinto che l’Uganda dia rifugio e sostegno ai ribelli, ha cominciato a sostenere a sua volta movimenti autonomistici più o meno inventati nel nord e nell’ovest dell’Uganda (ne riparleremo più oltre).

 

 

EGITTO – SUDAN

C’è tra questi due paesi un conflitto irrisolto per la zona di Halaib, sul mar Rosso, che infatti spesso si vede indicata con due frontiere nelle carte. E’ possibile che nella zona vi sia petrolio e quindi, anche se non si sono registrati episodi di guerra aperta, la questione non può essere chiusa.

 

Nella guerra del golfo contro l’Iraq (1991), il Sudan (governato dagli “islamismi”) è stato a fianco dell’Iraq, e questo ha acuito le tensioni con l’Egitto, che invece stava nel fronte degli arabi “moderati” (cioè di fatto con gli USA). Per l’Egitto, il Sudan è una strategica riserva di acqua, un granaio e un’area da tenere sotto controllo per l’influenza che ai due lati della frontiera hanno le “fratellanze” islamiche (la setta Khatmiya ha ad esempio 12 milioni di aderenti dalla due parti). L’Egitto inoltre spera in una risoluzione del conflitto del sud sudanese per realizzare alcune opere sull’alto Nilo a vantaggio della propria agricoltura.

 

 

SENEGAL – CASAMANCE

C’è un conflitto africano che per essere descritto necessita che si parta dal 1578. In quell’anno le mire portoghesi di conquista del Marocco si infransero definitivamente nella battaglia di Oued el-Kabir, dove lo stesso re portoghese perse la vita. Di questa morte e di quella sconfitta approfittò la Spagna per invadere il Portogallo e dominarlo per 60 anni. Ma il Portogallo aveva anche le colonie, che non sempre seguirono la sorte della madrepatria. Uno dei reali di Lisbona fuggì in Inghilterra, paese alleato, e in cambio della protezione inglese cedette alla corona di Londra i “propri” diritti su alcune basi alla foce del fiume Gambia, diritti invero più immaginati che reali, ma che fecero sì che nella successiva spartizione coloniale dell’Africa si incuneasse tra i territori francesi del Senegal e della valle del Casamance una zona di interesse inglese. Al momento della decolonizzazione, mentre Senegal e Casamance venivano unificati nello stato senegalese, il Gambia – anglofono – faceva stato a sé.

 

Tutto questo per spiegare la strana conformazione dei confini attuali, che costituisce una delle argomentazioni del movimento indipendentista della Casamance. Questa regione, malamente collegata al resto del paese, ne costituisce la regione più ricca in risorse agricole e con grosse potenzialità nel turismo e nella pesca. Queste ricchezze non hanno mancato di attirare insediamenti di senegalesi di altre regioni, specie quando, ed è il caso degli anni ’80, le altre regioni sono state vittima di ondate di siccità. A partire dagli anni ’70 le infrastrutture di trasporto, turismo e pesca sono state sviluppate a vantaggio di popolazioni ed interessi economici provenienti da altre parti del paese o addirittura dall’estero. Il risultato è che dal 1982 la zona è teatro di scontri, ripetutisi fino al 1997, che hanno preso la forma di un movimento indipendentista dell’etnia dioula contro il centralismo dello stato senegalese, anche se la distinzione tra il vero e proprio movimento ribelle e il semplice banditismo non è sempre chiara. Gli Stati Uniti e la Francia, “protettori” del governo senegalese, sono intervenuti a sostegno della repressione con aiuti, tanto che si può affermare che il conflitto è a costo zero per lo stato senegalese. Nel 2001 è stato sottoscritto tra il governo senegalese e i ribelli della Casamance un accordo di pace.

 

Un risvolto internazionale di questo conflitto sta nel fatto che i ribelli hanno basi in Guinea Bissau, cosa che ha indotto nel 1998 l’esercito senegalese a intervenire a Bissau in difesa del governo locale, contro una ribellione ritenuta legata al Movimento delle Forze Democratiche di Casamance.

 

 

LIBERIA

Anche se le tre crisi sono fortemente intrecciate (nelle cause e negli avvenimenti) cerchiamo di tracciare separatamente il corso degli eventi in Liberia, Sierra Leone e Guinea Conakry.

 

Dal 1980 la Liberia è stata sotto la dittatura di Samuel Doé, il cui regime autoritario era ampiamente sostenuto dagli Stati Uniti. Nelle regioni orientali si è sviluppata dal 1989 una guerriglia di contestazione che ha preso la forma della rivendicazione etnica delle popolazioni dan/gyo, e che si è organizzata nel Fronte Nazionale Patriottico Liberiano (FNPL) guidato da Charles Taylor. Uno dei centri su cui si è articolato lo scontro sin dall’inizio sono le miniere di ferro dei monti Nimba, ma ben presto la guerra si concentra sulle piantagioni di alberi da gomma e soprattutto sulle miniere di diamanti.

 

Nel 1990 è stata costituita una forza di interposizione per iniziativa della Comunità Economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (CEDEAO, o Ecowas in sigla anglofona)[1], con un contingente (Ecomog) che vede al suo interno un ruolo prevalente della Nigeria. C’è chi parla a tal proposito di inizio della capacità degli africani di regolare le proprie questioni senza fare ricorso agli interventi esterni, ma – a parte l’incapacità di fatto della forza di frenare il conflitto – non si può non sottolineare come la stessa Nigeria abbia interessi politici e di egemonia regionale che la spingono al ruolo attivo. Di fatto l’Ecomog blocca Taylor alle porte di Monrovia (e quindi non svolge un ruolo neutrale).

 

Nello stesso 1990 Samuel Doé viene assassinato. Vari “presidenti” si autoproclamano al suo posto: uno di questi è Taylor, sostenuto dalla Costa d’Avorio (all’epoca ancora governata dal “padre padrone” dell’indipendenza Houphouet-Boigny, che aveva già tentato di sostenere un golpe contro Doé) e dal Burkina Faso di Blaise Compaorè[2]. L’appoggio del Burkina porta a Taylor anche quello della Libia (mentre Doé su pressione statunitense aveva espulso i consiglieri militari libici e accolto quelli israeliani). Il Ghana[3] sostiene altri oppositori di Doé che non si pongono nel campo filo statunitense. La Nigeria e la Guinea Conakry, che stavano a fianco di Doé, e che adesso tentano di usare l’Ecomog per bloccare l’avanzata di Taylor sostengono un ulteriore candidato. Dietro di loro, gli Stati Uniti (sono loro che incitano la Nigeria a costituire l’Ecomog, cui partecipano il Ghana, la Guinea, il Gambia e la Sierra Leone).

 

Dal 1991 nasce un nuovo movimento all’ovest, l’ULIMO (Mov. Unito di Liberazione per la Democrazia), che destabilizza… la Sierra Leone. Un nuovo conflitto nasce così in Sierra Leone (vedi sotto). Al sud della Libera nasce una nuova fazione ribelle, il Liberian Peace Council, e ancora un’altra al confine guineano (Lopa Defence Force), determinando un nuovo punto di crisi in quest’ultimo paese (vedi ancora sotto). Alcuni scontri si estendono alla Costa d’Avorio, le cui regioni orientali sono abitate da etnie transfrontaliere (una delle quali è l’etnia di provenienza dell’ex dittatore Doé, un’altra quella a cui si appoggia Taylor). Contro tutte queste fazioni, l’Ecomog insedia un governo provvisorio. Un flusso di oltre 650.000 profughi liberiani si dirige per lo più verso la Guinea e la Costa d’Avorio. Nel 1993 è sottoscritto un accordo di pace per la Liberia., seguito da un tentativo di golpe nel 1994. Un cessate il fuoco del 1995 non è rispettato, anzi i combattimenti si intensificano per tutto il 1996.

 

Nel 1997 in Liberia si tengono finalmente elezioni: Taylor viene eletto presidente, ma  inizia lo scontro con una fazione ribelle, mentre le forze di Taylor, adesso esercito regolare, continuano a saccheggiare la popolazione.

 

Nel 2001, mentre il conflitto liberiano si è ormai esteso apertamente alla Guinea Conakry, l’ONU impone sanzioni alla Liberia (governo Taylor) per il suo sostegno al RUF della Sierra Leone. Nella stessa Liberia gli scontri proseguono e il presidente Taylor ne accusa la Guinea e la Gran Bretagna. Un accordo di pace generale per l’area Sierra Leone – Liberia – Guinea Conakry è sottoscritto con la mediazione del Marocco nel 2002. Nel 2003, con la fuga di Taylor, la situazione in Liberia si è nuovamente ribaltata, mentre nelle campagne i gruppi armati continuano ad operare.

 

 

SIERRA LEONE

Apertamente stimolato dalle fazioni in lotta in Liberia (e in particolare dal FNPL di Taylor, il conflitto che inizia in Sierra Leone nel 1991 genera ondate di profughi verso la Guinea e la stessa Liberia. Anche se lo scontro prende la forma di guerra di etnie; alla base vi è la disgregazione delle strutture statali dovuta all’assoluta mancanza di risorse, conseguenza della crisi economica. La fazione principale è il Fronte Rivoluzionario Unito (RUF), sostenuto dal FNPL. A fianco del governo della Sierra Leone si schiera invece la Guinea Conakry. Il RUF professa una vaga idea socialista, ma in realtà l’unica molla che spinge molti giovani ad aderire è la fame. I soldati regolari disertano. I capi della guerriglia combattono per il controllo dei diamanti, con i quali pagano anche mercenari dall’Ucraina o dal Sudafrica e le armi.

 

Nell’aprile 1992 in Sierra Leone un golpe sostituisce militari con altri militari, ma questo non frena la guerra per bande. Il RUF riesce ad isolare la zona diamantifera e toglierla al controllo del governo di Freetown. Nel resto del paese prolifera il crimine e si acuisce il fenomeno dei bambini soldato. Del resto l’esercito “regolare” non è da meno, facendo ampio uso di mercenari (persino nepalesi), finanziandosi con i saccheggi, e rivolgendosi per certi servizi a società private di protezione di origine sudafricana.

 

Nel 1995 la guerriglia del RUF si intensifica e l’anno dopo un nuovo golpe militare sostituisce la giunta al potere. Successivamente si tengono elezioni e un nuovo golpe nel 1997: il presidente civile fugge in Guinea, mentre il RUF partecipa al governo militare. Con gli accordi di Conakry l’esercito restituisce il potere ai civili ed è posto sotto controllo dell’Ecomog.

 

Quest’ultima nel 1998 occupa Freetown e arresta i leaders del RUF, scatenando una violenta reazione dei ribelli, che l’anno successivo attuano una forte offensiva. Con gli accordi di Lomé si sottoscrive la pace in cambio di una amnistia; il RUF entra nel governo, ma la violenza è ormai endemica. Nel 2000 il RUF della Sierra Leone prende in ostaggio 500 caschi blu che sono liberati per la mediazione del presidente liberiano Taylor. Nella crisi entra attivamente un contingente britannico (di fatto a sostegno del governo della Sierra Leone). I leader del RUF sono arrestati.

 

Mentre paradossalmente l’Ecowas nomina proprio Taylor (il “padrino” politico del RUF della Sierra Leone) come mediatore nel conflitto della Sierra Leone, nel 2001 l’ONU impone sanzioni alla Liberia proprio per il suo sostegno al RUF. Un offensiva del governo della Sierra Leone contro  ribelli è sostenuta anche dalla Guinea Conakry.

 

Dopo gli accordi del 2002, in occasione delle elezioni dello stesso anno, il RUF si è trasformato in movimento politico, dimostrando peraltro di non avere seguito.

 

 

GUINEA CONAKRY

A causa degli scontri nelle zone di confine, anche in Guinea intanto la politica interna si polarizza intorno a sostenitori e oppositori della ribellione liberiana di Taylor. Nel 2000 questa polarizzazione si trasforma in conflitto aperto: l’esercito regolare si scontra con i ribelli del RFGD. Le due parti sono sostenute rispettivamente dal governo della Sierra Leone e dall’opposizione Liberiana (con il governo guineano); dal governo liberiano e dall’opposizione della Sierra Leone (con il RFGD).

 

Da parte sua la Guinea ha utilizzato l’opposizione a Taylor, inviso agli Stati Uniti, per ottenere accordi economici con gli USA, proprio mentre UE e FMI rimettevano in discussione la propria cooperazione a causa delle forti illegalità politiche del governo guineano. Nel 2002 anche la situazione guineana è rientrata nell’accordo generale per i tre paesi.

 

 

COSTA D’AVORIO

Considerato per decenni uno dei paesi più stabili dell’intero continente, a partire dal 1999 è stato scosso da una serie di colpi di stato e di tentativi di colpi di stato che hanno lasciato una situazione di instabilità generalizzata e alcune province sotto il controllo di gruppi ribelli, a volte in contatto con analoghi gruppi della confinante Liberia.

 

Nel 1999 il governo di Konan Bedié, successore designato del padre dell’indipendenza Houphouët-Boigny, in un clima di crescente tensione sulla questione della “ivorianità” (su cui torneremo) è stato abbattuto dal colpo di stato del generale Gueï. Un altro tentativo di colpo di stato nel 2000 è stato seguito da elezioni, nelle quali si è impedita la partecipazione ad alcuni candidati sulla base della nascita non ivoriana. Le violenze sono proseguite soprattutto nel nord ovest del paese, e hanno assunto l’aspetto di “caccia allo straniero”. La Francia, intervenuta per difendere i cittadini europei, è stata accusata di difendere in realtà il governo. Nel settembre 2002 un nuovo tentativo di golpe ha riacceso la tensione. Inoltre, come già ricordato, il paese è stato coinvolto anche nel conflitto liberiano, a causa delle tensioni che questo ha generato tra popolazioni che vivono da entrambe le parti della frontiera.

 

Dopo che accordi di pace firmati in Francia nel gennaio 2003 non sono stati rispettati, di recente (novembre 2003) un ulteriore tentativo di mediazione dei paesi dell’Ecowas si è rivelato fallimentare, mentre i ribelli, riuniti nel “cartello Forze Nuove”, si sono ritirati dal governo di unità nazionale costituito nell’ambito di quegli accordi. Queste forza, che controllano il nord del paese, hanno ripreso a parlare della necessità di separare il paese, rendendo il nord indipendente.

 

 

NIGERIA

Nella regione del delta del Niger varie popolazioni (gli Ogoni, gli Ijaws, gli Itsakiris, gli Urhobos) si scontrano tra loro, con lo stato nigeriano e soprattutto con il potere delle multinazionali del petrolio, in un conflitto “a bassa intensità”. Attentati alle strutture petrolifere del delta del fiume Niger si sono verificati nel 1998, ma in realtà finora i danni alla produzione e ai profitti petrolieri non sono stati particolarmente rilevanti, visto il carattere off-shore di buona parte della produzione.

 

Nelle regioni dell’est si sono verificati scontri nel 1992. Le elezioni del 1993 hanno visto un intervento dell’esercito. Gli scontri con gli Ogoni hanno avuto un aggravamento nel 1995, anno in cui il regime ha condannato a morte i leader del movimento (tra cui lo scrittore Ken Saro-Wiwa). Nel 1999 la città di Lagos è stata teatro di scontri tra haussa e yoruba e scontri sono proseguiti, nonostante l’avvento di un regime più “democratico” con le minoranze delle zone petrolifere (in particolare gli Ijaws) che reclamano una migliore distribuzione dei profitti, oltre che un risarcimento dei danni ambientali provocati dalle infrastrutture petrolifere. Nel 2000 l’applicazione della sharia ha causato scontri nello stato di Kadana, che sono proseguiti nel 2001. Scontri “etnici” si sono verificati nel 2001 negli stati di Nasarawa, Benue e Plateau.

 

 

CAMERUN

La prima questione che riguarda questo paese sembra essere soprattutto una crisi interna, che trova le sue radici nella definizione coloniale e postcoloniale delle frontiere. Dalla fase dello “scrambling” (termine con cui si indica la spartizione dell’Africa tra gli europei negli ultimi decenni dell’800) alla prima guerra mondiale, il Camerun fu zona di interesse e poi colonia tedesca. La vita delle colonie tedesche terminò appunto con la guerra e nel 1922 quello che i portoghesi avevano chiamato “paese dei gamberi” (Camarões) viene suddiviso dalla Società delle Nazioni tra una zona di influenza britannica, di fatto amministrata dalla colonia britannica della Nigeria, e una zona di influenza francese, annessa all’Africa centrale francese. Al momento dell’indipendenza una serie di referendum sancì l’unificazione di questo paese (tranne una piccola zona settentrionale che scelse l’annessione alla Nigeria), che è rimasto bilingue e ha visto svilupparsi al suo interno alcuni contrasti tra le comunità “anglofone” e quelle “francofone”. Ad oggi, nelle regione occidentali operano movimenti separatisti e autonomisti, che nel 1997 hanno tentato senza successo un’insurrezione armata.

 

 

NIGERIA – CAMERUN

In questi contrasti non si sarebbero inseriti interessi stranieri se non per una seconda questione: il petrolio. La penisola di Bakassi viene a causa del petrolio contesa tra Camerun e Nigeria. Un conflitto di frontiera si è verificato per questa ragione nel 1994-5. Nel 1995 il Camerun si è rivolto alla corte dell’Aja. Nel 1996, nonostante un accordo, gli scontri sono proseguiti. La questione è ancora aperta.

 

 

REPUBBLICA CENTRAFRICANA

È un paese strutturalmente instabile, teatro di una continua lotta per il potere.

 

Il paese ha ospitato fino al 2000 basi militari francesi che insieme a quelle del Senegal, del Gabon e di Gibuti hanno costituito l’ossatura del sistema d’intervento francese nel continente. E’ quindi la Francia che sostiene negli anni ’70 il dittatore Bokassa[4] e nel 1979 è la Francia stessa che lo sostituisce. Per tutti i 10 anni seguenti un consigliere francese sarà attivo presso la presidenza e nel 1993 si svolgono elezioni la cui logistica è assicurata dall’esercito francese. Ancora nel 1996 la Francia interviene militarmente per salvare la presidenza di Patassé (già ministro di Bokassa) da una rivolta militare inizialmente nata per ragioni economiche.

 

Nel 1997 sono proseguiti gli scontri e l’instabilità è stata accentuata dagli avvenimenti militari vissuti dai vicini Congo Kinshasa e Congo Brazzaville, che hanno messo in crisi la sicurezza dell’asse fluviale Obangui-Congo, una delle poche finestre verso l’esterno della Repubblica Centrafricana. Nel 2001 un tentativo di golpe è stato violentemente represso, con il sostegno di truppe libiche e dei ribelli (filo-ugandesi) del nord della Repubblica Democratica del Congo. La repressione ha assunto la forma di persecuzione dell’etnia yakoma.

 

 

CORNO D’AFRICA (ETIOPIA – ERITREA – GIBUTI – SOMALIA)

Si tratta indubbiamente di una delle aree calde del continente. Se consideriamo tutti i tipi di crisi militare e di sicurezza, anche di derivazione interna, dal 1945 al 2000 l’Etiopia è stata interessata da 15 conflitti, l’Eritrea (che esiste dal 1993!) in 7 e la Somalia in 9.[5]

 

Le questioni principali che si intrecciano nei seguenti avvenimenti sono: la lotta per l’indipendenza dell’Eritrea, lo smembramento della Somalia, le resistenza anti-amhara[6] delle popolazioni del sud Etiopia.

 

 

L’indipendenza dell’Eritrea

La questione dell’Eritrea si pose già all’indomani della seconda guerra mondiale, quando l’ex colonia italiana venne data in gestione all’Etiopia di Hailé Selassie, campione della lotta al colonialismo italiano. In teoria il mandato etiope non contemplava l’annessione, ma questa avvenne di fatto, mettendo fine ad ogni ipotesi di stato indipendente o anche di provincia autonoma: l’Etiopia aveva ed ha estremo bisogno dei porti eritrei, unico suo sbocco al mare.

 

Quando Hailé Selassie fu ucciso e sostituito dal regime filosocialista del Derg, sembrò che ci fosse uno spiraglio di apertura per l’autonomia eritrea, ma il presidente etiope Aman Andom, che era egli stesso un eritreo, fu ucciso a  sua volta e sostituito nel 1974 dal maresciallo Menghistu, che rappresentava l’ala militarista e nazionalista del Derg. Una volta avviata l’alleanza strategica con l’URSS, con il suo appoggio l’Etiopia respinse a lungo gli attacchi del fronte di liberazione eritreo. Quest’ultimo riceveva invece appoggio da alcuni paesi arabi, che cercavano in tal modo di riaffermare la propria influenza sull’area del Mar Rosso, in particolare l’Arabia Saudita.

 

Nella guerra del golfo contro l’Iraq del 1991, l’Etiopia di Menghistu sceglie la coalizione anti-irakena e guadagna in tal modo il favore dei sauditi, che smettono di appoggiare gli eritrei, i quali invece si schierano con l’Iraq.

 

Nell’estate del 1991 (in clima di disgelo della guerra fredda) cade anche Menghistu, sconfitto dall’alleanza tra eritrei e tigrini. Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai va al potere ad Addis Abeba (vedi oltre) e nel 1993 un referendum sancisce finalmente l’indipendenza dell’Eritrea, ponendo fine al più antico conflitto del continente nel dopoguerra (era in corso dal 1961).

 

 

SOMALIA – ETIOPIA

Nella prima fase della guerra fredda l’alleato principale dell’URSS nella zona era la Somalia, che, forte di questa alleanza, decise di attaccare il sud dell’Etiopia, dove popolazioni somale convivevano in modo conflittuale con gli Oromo, a loro volta sempre in contrasto con il regime di Addis Abeba (vedi oltre). Tuttavia, un improvviso cambio di politica estera dell’URSS portò Mosca ad abbandonare l’alleato somalo e sostenere il governo del Derg etiope, fino a determinare la sconfitta della Somalia.[7] Nel 1988 è stato sottoscritto un accordo di pace tra i due paesi, ma la situazione è stata rimessa in discussione dal precipitare della crisi somala, sia per il carattere tranfrontaliero del popolo somalo, sia per i tentativi di ingerenza etiope nel conflitto somalo. Molti somali sono nel frattempo sono fuggiti nell’Ogaden etiope che Addis Abeba non controlla.

 

 

SOMALIA

Nel 1991 in Somalia cade il regime di Siad Barre, sostenuto diplomaticamente fino all’ultimo dall’Italia. Il Somaliland (ex Somalia britannica), dove è attivo l’indipendentismo degli Issak, che conta su finanziamenti della diaspora (emigrati nel Golfo, nello Yemen e in Arabia) ne approfitta per dichiararsi indipendente (ma non ottiene alcun riconoscimento internazionale).

 

Nel resto del territorio della Somalia del dopo Barre, si scontrano vari movimenti. Il 1992-3 è l’anno dell’operazione internazionale “Restore Hope”, che si risolve nel fallimento che tutti ricordiamo: il paese piomba nella totale guerra per bande. Nel 1993 l’ex Somalia è divisa in 8 regioni “claniche” e circa un milione di profughi si trovano fuori dal paese. Dopo il fallimento della mediazione internazionale, il governo somalo (generale Aidid) è riconosciuto solo dalla Libia.

 

Nel 1998 l’esempio del Somaliland è seguito di fatto dal Puntland, anche senza una dichiarazione formale di indipendenza. L’anno successivo anche il Bay e il Baqool prendono la stessa strada, tirandosi fuori dalla contesa per il controllo della ormai inesistente struttura statale di Mogadiscio. In tal modo circa i 2/3 della Somalia è ormai “pacificata”, lontano dagli sforzi della comunità internazionale che insiste per un’unità nazionale che di fatto consente il proseguimento della lotta per il potere. Se una fazione dovesse prevalere a Mogadiscio sarebbe immediatamente tentata di ristabilire il proprio controllo sull’intero territorio dell’ex Somalia, riaprendo i conflitti con le regioni oggi pacificate.

 

Nel 1999 in Somalia riprendono gli scontri, tra fazioni armate anche da Eritrea, Etiopia e Libia. Mentre Bay e Baqool vengono ricoinvolti nella guerra, una conferenza di riconciliazione nazionale viene aperta nel 2000 (con il sostegno diplomatico della Lega Araba, dell’OUA e dell’Italia), a seguito della quale viene costituito il primo governo dopo 10 anni, che però non controlla buona parte del territorio.

 

 

GIBUTI

Nel 1992 sorge un movimento ribelle armato tra la minoranza Afar di Gibuti, soprattutto a causa della situazione sociale esplosiva. Il governo di Gibuti si regge soprattutto sull’appoggio della Francia, che contribuisce al 60% del PNL. Il movimento si rifornisce di armi nei depositi abbandonati dall’esercito di Menghistu in fuga davanti all’avanzata eritrea. Nella lotta a questa minoranza, il governo di Gibuti gode dell’appoggio militare dell’Etiopia.

 

Invece le relazioni tra Eritrea e Gibuti sono interrotte nel 1998 a causa della questione Afar. La minoranza Afar è infatti transfrontaliera e pone un problema sin dall’inizio per l’Eritrea indipendente. Qui gli Afar sono maggioranza nella zona del porto di Aden, al confine appunto con Gibuti, e preferirebbero una soluzione federale in ambito etiope piuttosto che una indipendenza che la vedrebbe ridotta a unica minoranza a fronte di un potere totalmente all’élite politica del nord eritreo.

 

Un accordo sulla minoranza Afar è sottoscritto a Gibuti nel 2000, ma la sua applicazione resta problematica.

 

 

ETIOPIA – OROMO

La storia dell’Etiopia, almeno dalla fine dell’800 (cioè con gli imperatori Johannes e Menelik II che completano la formazione dell’impero etiope), è anche la storia della progressiva estensione del dominio sulle popolazioni del sud e dell’est del paese (Oromo e Somali, soprattutto) da parte dell’élite amhara del nord. La caduta di Menghistu, sconfitto nel 1991 dall’alleanza tra eritrei e tigrini, non cambia questo presupposto. Quello che va al potere ad Addis Abeba, anche con il sostegno degli USA (la sua ideologia, un tempo marxista-leninista, è adesso liberista) e che adesso assume il nome di Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope, altro non è che il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai. La sua composizione è essenzialmente tigrina (i tigrini sono 6 milioni su 35 milioni di abitanti) e non è quindi in grado di controllare, né tanto meno di rappresentare l’est, l’ovest e il sud del paese. Nel sud dell’Etiopia ad esempio la “minoranza” oromo comprende circa 20 milioni di persone, a volte in conflitto con l’altra minoranza, i somali. Durante gli anni ’90, in Etiopia il Fronte di Liberazione Oromo ha scelto la lotta armata, che è proseguita fino ad oggi, sia pure a bassa intensità.

 

 

SUDAN – ERITREA

Se con la caduta di Menghistu è venuto meno il sostegno etiope all’opposizione sudanese e quello sudanese all’opposizione etiope, il problema si è invece ricreato tra Sudan e Eritrea, che nel 1994 hanno rotto le relazioni diplomatiche per questo motivo. Dal 1996 il sostegno eritreo alle minoranze sudanesi è anche armato.

 

 

ETIOPIA – ERITREA

All’inizio le relazioni della neonata Eritrea con il vicino etiope sono ottime – nonostante quest’ultimo abbia perso con l’indipendenza eritrea ogni sbocco al mare – essendo i due governi entrambi sorti dalla comune lotta contro il regime di Menghistu. È quindi sembrata a molti una delle guerre più incomprensibili dell’ultimo decennio quella scaturita da alcune questioni di confine su cui a un certo punto i due paesi cominciano a dividersi.

 

Il confine tra Eritrea ed Etiopia scelto al momento dell’indipendenza della prima fa riferimento a un trattato anglo-italo-etiopico del 1902. Tuttavia esso era delineato solo per grandi linee e non segnato sul terreno e a complicare le cose esistono alcune tribù transfrontaliere, come i Kuneimas. Già durante la causa comune contro Menghistu il FPLE e il FPLT si erano scontrati su questa questione.

 

In realtà i problemi tra i due paesi erano iniziati prima dello scontro sui confini. Nel 1997 l’Eritrea decise di dotarsi di una propria moneta, mettendo fine all’unione monetaria con l’Etiopia. La conseguenza per Addis Abeba fu un aumento del costo dell’uso dei porti eritrei. A questo motivo di contrasto si aggiungevano ragioni di politica interna dei due paesi che rendevano “utile” la presenza di un nuovo nemico esterno.

 

Nel 1999 si inizia a combattere a partire da un attacco eritreo per rivendicare le aree di incerta definizione e il combattimento sembra concentrarsi sul controllo del porto di Assab. Il mancato sostegno di USA e Israele all’Eritrea, in questo contesto, porta il paese a chiedere l’adesione alla Lega Araba e a riavvicinarsi alla Libia. Inoltre l’Eritrea prende ad appoggiare i ribelli oromo e somali del sud Etiopia. Da parte sua, l’Etiopia si riavvicina al Sudan, in funzione anti-eritrea. Nel 2000 un’offensiva etiope è seguita da accordi di pace. La guerra (1998-2000) è sanguinosa e, sul piano delle rivendicazioni di confine, vinta dall’Etiopia.

 

Dopo gli accordi, l’Etiopia ha riallacciato le relazioni con il Sudan e con Gibuti e continua sostenere l’opposizione in Eritrea. D’altra parte l’Eritrea non cessa di sostenere gli Oromo del sud Etiopia in lotta con il potere centrale. L’Etiopia ha inoltre ripreso a intervenire con forniture di armi nel conflitto somalo.

 

 

ERITREA – YEMEN

Almeno un accenno va fatto al conflitto degli anni ’90 tra questi due paesi per la questione delle isole Hanish, che si trovano a metà strada sul mar Rosso. Tra le varie isole di questa parte del Mar Rosso, le Dahlak vennero annesse all’Eritrea italiana (e nel periodo di alleanza tra l’Etiopia – che aveva annesso l’Eritrea – e l’Urss erano usate come basi dai sovietici). Il destino di Perim e Camaran, rivendicate degli inglesi, rimase invece più incerto. Le Hanish nell’800 facevano formalmente parte dell’impero ottomano, ma erano frequentate, oltre che da pescatori delle due rive, dai francesi (in buone relazioni con gli ottomani), che vi avevano installato dei fari. Tuttavia l’Eritrea italiana già le rivendicava. Negli anni 1935-40, in corrispondenza con la conquista italiana dell’Etiopia, le isole furono effettivamente annesse dagli italiani, ma dopo la seconda guerra mondiale rimasero a lungo desertiche, salvo come sempre le frequentazioni dei pescatori eritrei e yemeniti. La divisione in due dello Yemen tra un nord filoccidentale e un sud filosovietico nel quadro della guerra fredda aveva portato a un contrasto tra i due paesi per le isole, con Aden che ereditava dalla Gran Bretagna Socotra, Perim e Camaran, e San’a che pretendeva le Hanish. Nel 1972 tra i due paesi si giunse anche alla guerra. Dopo la fine della guerra fredda, riunificato lo Yemen e sorta l’Eritrea, il contrasto si sposta tra questi due paesi. Nel 1995 si giunge alla crisi: un imprenditore italiano realizza un hotel nelle isole dall’incerta appartenenza, chiedendone il permesso in Yemen. Inoltre compagnie petrolifere di varie nazionalità premono per avere permessi di prospezione petrolifera. L’Eritrea, sostenuta diplomaticamente da USA e Israele, reagisce e infligge una sconfitta allo Yemen. Da allora lo Yemen comincia ad accogliere l’opposizione eritrea in esilio. Ma nel 2000 la Corte di Giustizia dell’Aja riconosce definitivamente la sovranità yemenita sulle isole, accordando all’Eritrea solo alcuni diritti di pesca e trasporto.

 

 

GUINEA EQUATORIALE

Al momento dell’indipendenza dalla Spagna, ottenuta nel 1968, la Guinea Equatoriale assume l’aspetto di una dittatura (apertamente sostenuta dalla Francia) organizzata per lo sfruttamento del cacao, del caffè e del legno a vantaggio di pochi gruppi legati ai mercati internazionali. Come in molti paesi con una simile struttura, i cambi di regime, come il colpo di stato militare del 1979, non cambiano l’essenza del sistema. Le piantagioni sono di proprietà dell’entourage del presidente e concesse in uso a società spagnole. Le telecomunicazioni sono in mano a imprese francesi. Un altro elemento dell’accumulazione interna a vantaggio dell’élite è il traffico di cocaina che vi si svolge, sulla strada tra America latina ed Europa. Nessuna modifica del sistema economico si registra neppure dopo che, nel 1992, una società statunitense trova il petrolio sull’isola Bioko (ex Fernando Poo), che con Annobon costituisce la parte insulare del paese, ben distante e diversa da quella continentale, annessa a quest’ultima solo dai giochi spartitori delle potenze coloniali. Le royalties del petrolio accrescono le entrate statali, ma nessun beneficio ne deriva alla popolazione. E’ così che sull’isola Bioko (che peraltro è in buona parte anglofona, in un paese la cui lingua coloniale è lo spagnolo) negli anni ’90 si sviluppa un movimento di ribellione che assume sia toni indipendentisti, sia colorazioni etniche (il nemico viene individuato nel popolo fang della parte continentale, cui appartiene il clan onnivoro del presidente).

 

 

REPUBBLICA DEL CONGO (BRAZZAVILLE)

È un altro dei paesi endemicamente instabili, come la Repubblica Centrafricana. I contrasti sono interni, ma resi internazionali soprattutto dalla presenza francese e dal problema dei profughi.

 

Gli anni 1993-4 sono un periodo di guerra civile, che si esprime con motivazioni etniche, religiose e regionaliste. Un primo accordo di pace viene raggiunto nel 1995. Ma nel 1997 si ripetono scontri armati tra le milizie dei diversi candidati alla presidenza. Ancora scontri nel 1998 oppongono nella regione della capitale l’esercito regolare, sostenuto da quello dell’Angola e dalla milizie “cobra” del presidente Nguesso, alle milizie “ninja” dell’ex primo ministro Kolélas. Si fa massiccio il fenomeno dei profughi in fuga verso Pointe-Noire, verso il Gabon e la RDC.

 

Nel 2000 è stato sottoscritto un secondo accordo di cessate il fuoco, con la mediazione del presidente del Gabon. Gli scontri con le milizie cosiddette “ninja” proseguono, ma si è aperto il dialogo “intercongolese” e nel 2002 si sono tenute regolarmente le elezioni.

 

 

UGANDA

Dopo che nel 1979 l’esercito tanzaniano aveva rovesciato il sanguinario dittatore Idi Amin Dada, nel paese si era instaurato (1980-85) il  regime caotico di Milton Obote. Nel gennaio 1986 questi è a sua volta soppiantato da M. Yoweri Museveni, guerrigliero “di sinistra” osteggiato dagli USA.[8] Il governo di Museveni è combattuto da vari movimenti indipendentisti, alcuni dei quali sono creati o sostenuti dal Sudan, a causa di un (vero o presunto) appoggio del governo ugandese allo SPLA e agli altri movimenti del sud sudanese.

 

Nel 1995, quando il Fronte Patriottico Ruandese prende il potere in Ruanda, i due paesi si alleano contro il regime zairese di Mobutu (che invece è alleato con il regime islamista sudanese nel tentativo di destabilizzare l’Uganda). Lo stesso anno l’Uganda rompe le relazioni con il Sudan, a seguito di tensioni di frontiera e del tentativo sudanese di sobillare la minoranza musulmana ugandese.

 

Nel 1997 un’offensiva congiunta dell’esercito ugandese e del movimento ribelle SPLA del sud Sudan mette in crisi le milizie indipendentiste che operano in Uganda, ma una nuova guerriglia, le Forze Democratiche alleate, sorge nel sud-ovest con il sostegno di Sudan e Zaire (quest’ultimo fino alla cacciata di Mobutu).

 

Lo stesso anno, l’Uganda sostiene, con il Ruanda e il Burundi, il movimento dell’est congolese che rovescia la dittatura del maresciallo Mobutu (vedi oltre). Ma subito dopo i due paesi entrano in contrasto con il nuovo leader congolese Kabila, prima alleato, e occupano sia direttamente con i propri eserciti, sia indirettamente tramite “movimenti politici” locali parte del territorio del Congo (ex Zaire).

 

Nel corso del 1999 le guerriglie locali ugandesi hanno ripreso a farsi sentire (Forze Democratiche Armate nell’ovest; Esercito di Resistenza del Signore nel nord), mentre è apparso un fenomeno di terrorismo rivendicato da un Esercito del Fronte di Salvezza dell’Uganda e assassini di stranieri sono stati attribuiti alla minoranza hutu, di origine ruandese.

 

Nel corso del 2000 una rottura si rende evidente tra l’Uganda e l’alleato Ruanda, a causa di difformità di interessi nell’occupazione delle regioni orientali della Repubblica del Congo, dove i due eserciti giungono a scontrarsi. Alla fine del 2001 si è temuta la guerra tra i due paesi, evitata anche per la mediazione britannica. Si riallacciano invece (2001) i rapporti dell’Uganda con il Sudan, che ha consentito al primo di perseguire i ribelli basati sul proprio territorio (e che prima il Sudan sosteneva). Nel 2001 le elezioni si sono tenute in un clima di violenze e un forte attacco governativo è condotto contro  ribelli.

 

Ancora nel 2003 la Lord Resistance Army ha continuato a massacrare, stuprare, razziare i villaggi e rapire ragazzini per arruolarli. Gli USA offrono al governo ugandese aiuti militari per combattere questa guerriglia.

 

 

RUANDA

Le vicende del Ruanda, del Burundi, dell’Uganda e della Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire) sono difficilmente separabili. Abbiamo fatto cenno a quelle ugandesi (che si ripercuotono anche nei rapporti tra questo paese e il Sudan), ma l’Uganda entra anche nella storia del conflitto ruandese e insieme al Ruanda, in quello congolese, come vedremo.

 

Già prima dell’indipendenza, in Ruanda, nel quale i belgi avevano assegnato un ruolo dominante alla minoranza tutsi, l’egemonia tutsi viene spezzata e 500.000 tutsi sono costretti alla fuga. Nel 1962 Ruanda e Burundi diventano indipendenti.

 

In Ruanda nel 1972 per rappresaglia rispetto agli avvenimenti burundesi dello stesso anno si verificano uccisioni di tutsi e l’anno successivo un hutu (Habyarimana) prende il potere con un colpo di stato. Il suo sistema (la “rivoluzione sociale hutu”) è preso a modello dall’opposizione hutu burundese. Rispetto a tale “modello” si coagula una opposizione di tutsi e hutu moderati che costituisce il Fronte Patriottico Ruandese. Molti di questi si rifugiano in Uganda, dove entrano a far parte delle forze ribelli di Museveni e quindi dell’esercito regolare ugandese quando questi prende il potere.

 

Nel 1988 le elezioni ruandesi – evidentemente truccate – sono vinte con il 100% dal presidente Habyarimana, che ne approfitta per una campagna di repressione non solo contro i tutsi, ma anche contro gli hutu di tendenze politiche diverse dalla sua. Il governo gode di fatto del sostegno indiretto delle forze militari di Belgio e Francia.

 

Nel 1990 il FPR lancia l’offensiva su Kigali. Le sue forze provengono dai circa 2 milioni di rifugiati ruandesi in Uganda, Tanzania, Zaire e Burundi, che esigono il diritto al ritorno delle masse di profughi (per lo più tutsi), a cui il presidente Habyarimana oppone l’argomento della mancanza di terre sufficienti per tutti. Le truppe francesi – come già nel 1963 e 64 – difendono il governo, che cerca di dipingere il FPR come un’ingerenza ugandese. Nel 1993 sono sottoscritti accordi inter-ruandesi di Arusha, tra Habyarimana e il FPR.

 

Nel 1994 il presidente Habyarimana è assassinato, insieme al suo nuovo collega burundese, dagli hutu dell’hutu power, che cercano di far passare l’omicidio come opera dei tutsi (mentre la motivazione sono gli accordi di Arusha, considerati un cedimento del presidente in favore dei tutsi). La popolazione viene apertamente incitata al massacro dei tutsi: le vittime sono tra 500.000 e un milione. L’Operation Turquoisedell’esercito francese, cui l’FPR è ostile, si rifiuta di fermare i massacri, impedisce il dispiegamento delle forze interafricane e garantisce inoltre la fuga dei responsabili dei massacri[9]. Alla fine il FPR vince e prende il potere. Molti hutu prendono la fuga, in genere verso lo Zaire. Dopo aver costituito una costante minaccia alla frontiera, nel 1996 questi rifugiati hutu cominciano a rientrare, ben accolti dalle autorità locali, dimostrando così che erano gli estremisti hutu (gli interahamwe) che li trattenevano per giustificare le proprie scorribande e farsene scudo, paradossalmente grazie anche agli aiuti umanitari. Il governo del FPR del resto comprende sia hutu che tutsi.

 

A fine 1997, organizzato e spinto da Uganda, Ruanda e Burundi, inizia il contrattacco “tutsi” in Zaire. Gli hutu fuggono questa volta verso il Ruanda. Inizia la campagna di guerra che porta alla caduta di Mobutu e subito dopo la lotta del nuovo presidente congolese Kabila contro gli ex alleati del Ruanda e Burundi.

 

Infine, nel 2000, il Ruanda rompe la sua alleanza con l’Uganda, e le truppe dei due paesi (con i rispettivi movimenti congolesi alleati) si scontrano sul territorio dell’est congolese. L’esercito ruandese caccia quello ugandese da Kisangani, conquista posizioni nelle zone minerarie del Katanga e “mette in sicurezza” le frontiere del Burundi, minacciate da profughi hutu basati in Congo. Nel luglio 2002 Ruanda e Rep. Dem. Del Congo hanno sottoscritto un cessate il fuoco di difficile applicazione.

 

 

BURUNDI

Fino al 1965 hutu e tutsi partecipano in eguale misura al governo del Burundi. Ma nel 1965 il primo ministro hutu è assassinato e il potere va nelle mani di una minoranza tutsi. Si verificano alcuni massacri di hutu. Nel 1966 è proclamata la repubblica, con una netta supremazia tutsi nelle istituzioni. Nel 1972 a seguito di un tentato colpo di stato hutu, si accendono scontri “etnici”, con massacri di hutu.

 

Nel 1987 il comandante Buyoya (tutsi, proveniente dalla stessa formazione culturale dell’ugandese Museveni e del ruandese Kagame) prende il potere sostenuto ancora dai tutsi, ma nel 1988 gli hutu assassinano centinaia di tutsi nel nord del paese. Il governo pratica degli sforzi di conciliazione nazionale: viene nominato un governo a guida hutu e composizione egualitaria, che  cerca di avviare un’apertura tra le comunità, ma Buyoya perde le elezioni, che sono vinte dal partito hutu, guidato da Ndadaye. Il vincitore si mostra però altrettanto aperto al dialogo, ma poco dopo viene ucciso in un tentativo di golpe (i golpisti sono nell’esercito che è a maggioranza tutsi), cui la gente reagisce con omicidi di tutsi mentre l’esercito a sua volta reprime gli hutu.. Il Ruanda accoglie circa 300.000 burundesi in fuga. La comunità internazionale costringe i golpisti a ripristinare il governo dei ministri di Ndadaye, ma il loro obiettivo (destabilizzare il paese e seminare l’odio) è comunque raggiunto.

 

Nel 1995 crescono ancora le violenze e la radicalizzazione politica. Il paese è segnato da scontri tra bande armate guidate dai politici. Bande di hutu si alleano con gli interahamwe[10] congolesi (hutu anch’essi). Cresce anche la criminalizzazione della politica e dell’economia e si intensificano i traffici di armi e droghe[11]. La guerriglia hutu basata in Zaire unita agli hutu interahamwe congolesi destabilizza le zone di frontiere. Dal 1996, gli eserciti a maggioranza tutsi di Ruanda e Burundi spingono i banyamulenge (i tutsi congolesi) a difendersi. I tutsi prendono nuovamente il potere in Burundi, reinsediando il maggiore Buyoya.

 

Ancora nel 1999 si verifica una nuova offensiva dei ribelli basati in Congo su Bujumbura, seguita da un accordo di pace (mediato dal sudafricano Mandela) nel 2000 e da un’altra offensiva nel 2001, seguita ancora dalla sospensione degli accordi di pace e da un tentato golpe. A fine anno si forma un governo di transizione, con la partecipazione sia di hutu che di tutsi, ma i ribelli continuano a combattere.

 

 

REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO

Si tratta di un paese coinvolto in circa 15 conflitti dal 1945 al 2000[12].

 

Il coinvolgimento nelle vicende appena descritte del Ruanda, dell’Uganda e del Burundi ha determinato nel 1997 una svolta storica in questo paese, rimasto per circa 35 anni sotto la dittatura (ben tollerata e sostenuta a Parigi, Bruxelles e Washington) del maresciallo Mobutu, che ha ampiamente saccheggiato il paese e lo ha ridotto a essere uno dei più poveri del mondo nonostante le (o proprio a causa delle) enormi ricchezze del suolo e del sottosuolo.

 

Nel 1997 un movimento di liberazione, guidato da Laurent Désiré Kabila, si costituisce nell’est del paese, da sempre base dell’opposizione al regime, prendendo spunto da una rivolta dei tutsi banyamulenge[13], spinti anche a reagire dalle scorribande di estremisti hutu provenienti dalle fila dei rifugiati ruandesi e burundesi, e – con l’esplicito appoggio militare di Ruanda, Uganda, Burundi, Angola e Zimbabwe – caccia dal potere Mobutu e insedia un nuovo regime[14].

 

Tuttavia, una volta giunto al potere, Kabila realizza un repentino stravolgimento delle alleanze, escludendo i tre vicini dell’est dalla partecipazione a ciò cui di più puntavano (oltre alla “messa in sicurezza” delle frontiere, minacciate in continuazione dagli estremisti hutu rifugiati tra i profughi proprio in Congo): lo sfruttamento minerario. Così gli alleati diventano improvvisamente nemici e occupano militarmente, dietro il paravento di una nuova rivolta locale (ancora una volta di banyamulenge) contro il potere di Kabila, una buona parte del paese (le truppe ugandesi e un movimento da loro appoggiato il nord e l’Equateur; le truppe ruandesi e il Rassemblement Congolais pour la Démocratie, da loro creato tra banyamulenge, le regioni dell’est).

 

Così la nuova “rivolta” si trasforma in una sanguinosa occupazione ai danni delle popolazioni dell’est, che solo di recente, e comunque dopo che nel gennaio 2001 il presidente Kabila è stato assassinato a Kinshasa e sostituito dal figlio, sembra essere avviata ad una qualche forma di ricomposizione. Recentemente un governo di unità nazionale è stato costituito a Kinshasa con la partecipazione di quasi tutte le fazioni “ribelli”.

 

La particolarità di questo ennesimo conflitto della regione centrale dell’Africa è che esso ha potuto essere definito la “prima guerra mondiale africana” per l’alto numero di paesi coinvolti a vario titolo: contro il Ruanda, l’Uganda e il Burundi (dietro i quali c’è chi vede la diplomazia e i servizi statunitensi e del Belgio), si sono schierati a fianco della Repubblica Democratica del Congo  l’Angola, lo Zimbabwe, il Ciad e la Namibia, che sono intervenuti con proprie truppe, mentre il Gabon, l’Eritrea, l’Etiopia, la Tanzania e lo Zambia appoggiano Kabila diplomaticamente. Il Sudafrica ha preso invece le redini dei negoziati di pace.

 

La ribellione contro Kabila dal 1999 inizia a dividersi sulla base delle divisioni dei rispettivi “padrini” (Uganda e Ruanda). Si giunge a scontri armati tra le varie fazioni, mentre sorgono movimenti armati favorevoli a Kabila (i cosiddetti Mai-Mai).

 

Nel gennaio 2001, come già ricordato, il presidente Kabila viene assassinato, ufficialmente senza che ciò si possa porre in relazione con il conflitto in corso, e viene sostituito dal figlio, che rilancia il dialogo interno con le opposizioni, riprende i contatti con Ruanda e Uganda e le relazioni con USA e Belgio, protettori di Ruanda e Uganda. Nel 2002 le truppe straniere presenti nel paese iniziano a ritirarsi e nel 2003 si giunge alla formazione di un governo di unità nazionale, anche se gli scontri all’est proseguono.

 

 

TANZANIA – ZANZIBAR

La Tanzania risulta dall’unione dell’ex Tanganica (colonia tedesca e poi britannica) con l’arcipelago di Zanzibar (comprendente anche le isole di Pemba, Mafia e Tumbatu) ex protettorato britannico. Ma questa seconda componente geografica ha visto entrare la propria economia in crisi a seguito della caduta del prezzo internazionale dei chiodi di garofano, e in corrispondenza ad una svolta economica liberista del governo di Dar Es-Salam dopo il “socialismo” dell’epoca di Nyerere. Cominciano quindi ad esprimersi negli anni ‘90 nelle isole rivendicazioni autonomiste e le ricorrenti violenze assumono anche colorazioni di lotta religiosa tra la maggioranza zanzibarita musulmana e la componente tanzaniana cristiana. Pochi risultati ha avuto nel 1999 una mediazione del Commonwealth. Nel 2001 il governo tanzaniano ha lanciato una forte repressione a Pemba e Zanzibar, che ha determinato la fuga di profughi verso il Kenya. Successivamente è stato sottoscritto un accordo sulla situazione di Zanzibar.

 

Un’altra situazione di tensione per la Tanzania è alla frontiera con il Burundi, che l’accusa di proteggere guerriglieri hutu nei campi profughi che accolgono migliaia di burundesi fuggiti alle varie violenze.

 

Nel 1998 l’ambasciata statunitense a Dar es-Salam è oggetto di un attentato attribuito al movimento internazionale islamico.

 

 

COMORE

Nel 1974, delle quattro isole principali che compongono l’arcipelago, una sola, Mayotte, ha rifiutato l’indipendenza ed è rimasta quindi territorio francese. Le altre tre costituiscono lo stato delle Comore, dove negli anni si susseguono i colpi di stato. Le isole rivaleggiano tra loro per il controllo di scarsi flussi finanziari (per lo più aiuti internazionali), di cui Gran Comora si riserva la quota maggiore. L’isola di Anjuan è inoltre afflitta da un flusso di emigrazione verso la francese Mayotte. Nel 1992 viene attuato l’ennesimo tentato golpe nel paese. Un altro golpe fallisce nel 1995 per l’intervento francese a difesa del governo.

 

Nel 1997 Anjuan proclama la propria indipendenza, ratificandola con un plebiscito, ma al suo interno esplode una guerra civile che oppone i contadini poveri e la borghesia araba della città.

 

Un altro golpe e agitazioni indipendentiste nelle isole si svolgono nel 1999, con scontri che proseguono nel 2000. Nel 2001 si giunge ad un accordo con i separatisti e alla promulgazione di una costituzione federativa, ma l’anno si chiude con l’ennesimo tentativo di golpe.

 

 

ANGOLA

Il conflitto angolano è uno dei più noti della recente storia africana. Angola, Mozambico e Capo Verde sono tra i paesi africani di più recente accesso all’indipendenza. Le persone della mia generazione ricordano la rivoluzione portoghese del 1975, quella detta “dei garofani”, nella quale un gruppo di militari di sinistra, che spesso aveva prestato servizio nelle colonie e ne aveva provato orrore, abbatteva la dittatura e dava quindi il via libera anche all’indipendenza delle colonie africane.

 

Angola e Mozambico dovevano tuttavia cadere subito nel gioco della guerra fredda: nati da una rivoluzione di sinistra, i loro governi si videro subito osteggiati dagli Stati Uniti e dal Sudafrica allora razzista, che iniziarono a fomentare e sostenere guerriglie interne. A difesa dei due governi (e per garantire la loro permanenza nel quadro delle alleanze del Patto di Varsavia) intervenivano quindi l’Unione Sovietica e Cuba.

 

Nel 1975 quindi il Mov. Popolare di Liberazione dell’Angola (MPLA, di sinistra) proclamava l’indipendenza, mentre si ritrovavano all’opposizione il Fronte Naz. di Liberazione dell’Angola (FNLA), finanziato dalla CIA, e l’Unione per l’Indipendenza Totale dell’Angola (UNITA), una forza politica che dapprima aveva collaborato con gli occupanti portoghesi e successivamente aveva iniziato a ricevere appoggio dal Sudafrica razzista per frenare lo spostamento a sinistra della regione. Le truppe sudafricane invadono anche direttamente il paese, ma sono respinte dal MPLA che riceve un appoggio di truppe cubane. Il governo del MPLA viene riconosciuto dall’OUA.

 

Nel 1985-6 si ripetono incursioni sudafricane, che attaccano anche in Botswana, Zimbabwe e Zambia per colpire le basi dell’African National Congress (ANC) – leader dell’opposizione al regime dell’apartheid – e appoggiano l’opposizione armata in Mozambico. Tutta la zona è insomma destabilizzata dal Sudafrica per sue motivazioni di lotta interna, ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si oppongono a ogni sanzione da parte dell’ONU. Dal confine nord dell’Angola, aiuti statunitensi all’UNITA giungono attraverso la dittatura zairese di Mobutu[15].

 

Nel 1988 le truppe cubane, come conseguenza della fine della guerra fredda, si ritirano. I primi (1991) accordi di pace non vengono però rispettati: nel 1992 il MPLA vince le elezioni, ma l’UNITA ne contesta i risultati e riprende la guerriglia, anche contro l’aperta condanna da parte delle Nazioni Unite. I nuovi accordi di Lusaka del 1994, sono, come quelli del 1991, frutto della fine della guerra fredda. Ma gli interessi locali e interafricani fanno proseguire lo scontro … e le miniere lo finanziano.

 

Nel 1995 intervengono le Nazioni Unite con un proprio contingente. Nel 1996 l’UNITA respinge un nuovo accordo (veniva offerta al sua leader Savimbi una vicepresidenza simile a quella di De Klerk in Sudafrica). Nel 1997 la caduta di Mobutu in Zaire toglie all’UNITA un importante supporto logistico, mentre l’esercito angolano interviene sia nella crisi del Congo-Kinshasa (a sostegno di Kabila contro gli ex alleati Ugandesi e Ruandesi) che in quella del Congo-Brazaville (a sostegno del presidente Nguesso)[16].

 

Intanto nel paese aumenta il banditismo. Milioni sono le mine anti-persona disseminate. L’UNITA riesce a riarmarsi sfruttando i diamanti del Lunda-Norte, che dal 1992 al 1996 avrebbero prodotto circa 2 miliardi di dollari di entrate e le lobbies diamantifere non vedono male l’instabilità del paese e l’occupazione delle zone diamantifere da parte dell’UNITA. Il reddito pro capite crolla; la crescente povertà e il fatto che l’UNITA faccia leva su rivalità etniche fanno crescere (anche nel MPLA) il razzismo verso le popolazioni dell’interno.

 

Nel 1999 i combattimenti si estendono ancora e il governo realizza una forte offensiva militare. Lo scontro nei mesi successivi si concentra intorno alle miniere di diamanti. Ondate di profughi si rifugiano in Namibia. Nel 2002 l’UNITA si arrende. Savimbi, leader del movimento ormai privo di sostanziali appoggi internazionali (non ha più le basi in Namibia, Sudafrica e Congo) e ridotto al rango di signore della guerra locale, viene ucciso.

 

 

MOZAMBICO

È l’altro grande conflitto che l’Africa australe eredita dall’epoca della guerra fredda. Le analogie con quello angolano sono molte: la decolonizzazione portoghese è seguita dalla presa del potere da parte di un movimento di sinistra, il Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) osteggiato da movimenti interni sostenuti dal Sudafrica e dagli Stati Uniti, in particolare la Renamo. Il conflitto inizia nel 1977 e assume a volte l’aspetto di uno scontro tra la campagna (le zone sotto controllo Renamo) e la città o tra i ceti contadini e quelli urbani legati al commercio e agli impieghi pubblici.[17]

 

Nel 1992 si giunge ad un accordo di pace, sottoscritto a Roma, che comprende una certa autonomia di fatto per le zone sotto il controllo della Renamo. Una parte dei ribelli smobilitati si converte al banditismo. Nel 1994, in osservanza agli accordi di Roma, si tengono le elezioni, vinte dal Frelimo, ma nelle quali la Renamo si consolida come espressione delle province povere del nord. I contrasti interni del Mozambico sembrano da allora rientrati nella (quasi) normale dialettica politica.

 

 

NAMIBIA

Come l’Eritrea, affidata all’Etiopia alla fine ella seconda guerra mondiale dall’ONU, è stata annessa da quel paese, l’ex Africa Sudoccidentale Tedesca (Namibia), affidata alla fine della prima guerra mondiale dalla Società delle Nazioni al Sudafrica britannico, è stata da questo annessa come sua provincia. L’occupazione della Namibia da parte del Sudafrica, che l’amministra come una sua provincia, determina il fatto che l’economia venga completamente riorientata secondo gli interessi sudafricani, che detengono il controllo delle miniere e della pesca e forniscono il 90% delle importazioni namibiane. Il controllo della Namibia consente inoltre al Sudafrica di fornire sostegno e basi all’Unita angolana.

 

Inizialmente il movimento di liberazione che vi si sviluppa, la SWAPO, assume colorazioni etniche  e si basa sulle stesse etnie dell’UNITA angolana, con cui condivide persino le basi in Zambia e le armi cinesi.[18] Successivamente, in sintonia con gli appoggi esterni ricevuti nel clima della guerra fredda, mentre l’UNITA viene manovrata dagli USA e dal Sudafrica in funzione antiangolana e antisovietica, la SWAPO si schiera con il blocco sovietico per combattere USA e Sudafrica.

 

L’indipendenza del 1990 si può considerare come un frutto della fine della guerra fredda ed è completata nel 1993 con la restituzione delle ultime zone (un porto e alcune isole) sotto controllo sudafricano.

 

All’epoca coloniale bisogna invece tornare per capire un problema politico-militare della Namibia indipendente. Il “dito di Caprivi” appartiene all’odierna Namibia a causa di un accordo (Trattato di Helgoland) della fine dell’800 tra la Germania e la Gran Bretagna, in base al quale la Gran Bretagna cedeva alla Germania l’isoletta di Helgoland (nel Mare del Nord, utile alla Germania per il controllo dei canali attraverso lo Jutland) in cambio del riconoscimento dell’egemonia britannica su Zanzibar. Con lo stesso trattato, il cancelliere tedesco von Caprivi otteneva un territorio di passaggio dalla colonia dell’Africa Sudoccidentale tedesca verso il fiume Zambesi, necessario per avviare ai mercati esteri, attraverso il Pacifico, le risorse minerarie namibiane, visti gli ostacoli naturali tra queste e l’oceano Atlantico. La zona è dal punto di vista ambientale e umano ben diversa dal resto della Namibia e questo ha dato la motivazione ufficiale al movimento indipendentista, ancora attivo negli anni ’90. Nel 1998 il partito al governo, l’ex movimento di liberazione SWAPO, ha vinto le elezioni anche nel Caprivi, ma ciò è stato anche frutto di una forte repressione che ha causato profughi verso il Botswana. Nel 1999 nuovi combattimenti si sono verificati nel Caprivi e vi è stato proclamato lo stato di emergenza. Intanto alla frontiera l’UNITA angolana continuava ad attaccare le forze namibiane, che quindi autorizzano l’esercito angolano a entrare nel proprio territorio. La situazione di insicurezza nel Caprivi non è ancora risolta nel 2002.

 

Tra il 1998 e il 1999 la Namibia si è impegnata militarmente in Congo a sostegno del presidente Kabila.

 

Altri conflitti:

Essendo rimaste a livello di conflitto sociale interno, per quanto a volte violento, non sono state considerate in questo elenco le situazioni di:

 

–     GAMBIA: 1994 colpo di stato. Disordini e tentativo di colpo di stato nel 2000;

 

–     GUINEA BISSAU, dove nel 1998 è stato formato un governo di unità nazionale, che nel 1999 è stato rovesciato da un golpe militare. Un altro tentato golpe c’è stato nel 2000. Un aspetto internazionale di questa instabilità interna è dato dalla partecipazione di truppe senegalesi e della Guinea Conakry a difesa del governo, truppe poi sostituite da quelle togolesi dell’Ecomog. Mentre l’esercito si costituisce in centro di potere opposto a quello civile, una parte dell’opposizione accusa il governo di “tribalismo”;

 

–     GHANA: agitazioni autonomistiche nel nord, che sfruttano la questione religiosa (nord islamico, sud cristiano) e quella etnica (etnie namumba e konkomba). A partire dal 1982 è stato imposto un lungo stato d’emergenza;

 

–     TOGO: 1992-3 scontri sociali con intervento dei militari. La forte repressione provoca profughi verso il Ghana. Le elezioni del 1994 sono segnate da violenze;

 

–     SAO TOME’ E PRINCIPE: 1995 tentato colpo di stato;

 

–     KENYA: tensioni nella regione del lago Turkana per il controllo della terra. Nel 1992 e nel 1994 si verificano nella Rift Valley scontri “etnici”, di cui i politici kenioti si accusano a vicenda. Negli anni seguenti l’autorità del governo sulle zone del nord-est è solo formale, e le violenze si ripetono (1999, 2000). Nel 1998 l’ambasciata statunitense a Nairobi è oggetto di un sanguinoso attentato attribuito al movimento internazionale islamista;

 

–     MAURITIUS: rivolta della minoranza creola. Repressione poliziesca nel 1999.

 

–     MADAGASCAR: le violenze nella vita politica interna hanno condotto nel 2002 il paese sull’orlo della guerra civile;

 

–     ZAMBIA: nel 1993 stato di emergenza e repressione. Tensione nelle regioni nord-occidentali. 1997 tentato colpo di stato. Persecuzione dell’opposizione.

 

–     ZIMBABWE: per conservare il potere, il presidente Mugabe e il partito al governo (ZANU-PF) lanciano campagne violente sulla questione delle terre ancora in mano agli stranieri (2000);

 

–     LESOTHO: 1994 tentativo di colpo di stato; 1998 agitazioni militari. Intervento del Sudafrica e del Botswana.

 

Va segnalato infine che nel 1986 BURKINA FASO e MALI hanno regolato pacificamente una questione di confine. Va inoltre tenuta presente, per comprendere il quadro diplomatico complessivo dell’Africa centro meridionale, la situazione del SUDAFRICA, visto il ruolo che vi hanno giocato dapprima l’esercito e poi la diplomazia sudafricana. Qui, com’è noto, nel 1993 è stata varata una costituzione provvisoria e con le elezioni dell’aprile 1994 è nata la nuova Repubblica Sudafricana guidata da Nelson Mandela. Peraltro anche nel nuovo Sudafrica persistono contrasti localisti: sono stati aboliti i bantustan (Ciskei e Transkei), ma una parte dell’opposizione nera si esprime su basi etniche (l’Inkhata degli zulu).

 

 

Parte seconda – Alcune considerazioni analitiche

 

Cercheremo adesso di trarre qualche elemento di analisi da questa descrizione sintetica e un pò caotica degli avvenimenti militari africani degli ultimi decenni. Passeremo in rassegna dapprima, come possibili cause dei conflitti, la questione delle frontiere ereditata dall’epoca coloniale, poi l’argomento “etnico”, ma più in generale culturale, che comprende quindi anche quello religioso, poi quello degli interessi economici a livello locale (africano) e la questione del potere interna ai diversi paesi, e infine gli interessi strategici delle potenze, così come si pongono prima e dopo la fine della “guerra fredda”. Naturalmente queste considerazioni non hanno né possono avere alcuna pretesa di completezza né di giudizio definitivo.

 

L’eredita’ coloniale: le frontiere

La questione delle frontiere è evidentemente uno dei problemi che gli stati africani hanno ereditato dall’epoca coloniale. Sappiamo tutti che le frontiere in Africa non tengono in alcun conto le realtà sociali ed umane, ambientali e storiche, che vorrebbero di volta in volta racchiudere dentro uno stesso territorio statale o separare in entità statali diverse. E se questa è forse una considerazione che si potrebbe avanzare per il concetto stesso di frontiera in generale (forse che in Europa non vi sono casi irrisolti di comunità smembrate dalla frontiere o di altre costrette a forza a una nazionalità che non sentono propria?), in Africa le cose si pongono in modo ancora più drastico a causa del fatto che comunque quelle stesse frontiere non sono affatto il prodotto di dinamiche interne, ma di accordi a tavolino o scontri tra le potenze coloniale: sono quindi state imposte dall’esterno e non hanno spesso alcuna giustificazione storica. Vi sono alcuni casi clamorosi, come quello dell’Africa occidentale che si affaccia sul golfo di Guinea, una delle più dilaniate dalla competizione coloniale avente per oggetto soprattutto gli schiavi, in cui le zone d’interesse portoghesi, inglesi e francesi si alternavano come oggi si alternano le frontiere di stati nati dalle  diverse decolonizzazioni. A volte le cose assumono quasi un aspetto comico (se non fosse drammatico) come nel caso del movimento indipendentista del “dito di Caprivi” in Namibia.

 

La stessa Organizzazione dell’Unità Africana, fondata ad Addis Abeba nel 1963, ha stabilito in una delle sue prime risoluzioni l’unica cosa che poteva stabilire in quel contesto, e cioè l’intangibilità di quelle frontiere nate dalla decolonizzazione e che ripercorrono le divisioni tra le zone d’influenza coloniali e le divisioni amministrative all’interno di esse (si pensi all’Africa occidentale francese, un tempo territorio unico suddiviso in province che sono diventate gli attuali Mauritania, Senegal, Mali, Niger, Costa d’Avorio, Burkina e Benin.

 

Da quando quella decisione di intangibilità è stata presa da parte dell’OUA (e quale altra decisione avrebbe potuto essere assunta in merito senza scatenare interminabili guerre?), il principio è stato contravvenuto solo due volte. Una volta in modo ufficiale, con il riconoscimento generalizzato dell’indipendenza dell’Eritrea (ma ricreando così – e non cancellando o modificando – un confine coloniale che era stato eliminato dopo la seconda guerra mondiale!). Una seconda volta di fatto, con l’indipendenza che dura ormai da quasi un decennio senza che nessuno abbia il coraggio di riconoscerla dell’ex Somaliland britannico dalla Somalia unificata sorta negli anni sessanta: e anche in questo caso è un confine coloniale che si ricrea!

 

Tuttavia, la questione delle frontiere – lo si può ben rilevare anche dal semplice elenco di conflitti sopra riportati – non si presenta, come è stato ad esempio è successo nella storia europea, come frutto di un nazionalismo che a volte può essere solo di tipo ideale (pensiamo alle questioni di Trento e Trieste per l’Italia), ma si pone come elemento della genesi di conflitti solo se può essere utilizzata a pretesto di altre cause più profonde e concrete. Si pensi alla questione del Sahara ex spagnolo: al fondo di tutto vi è da entrambe le parti la questione di chi gestirà le riserve di fosfati del sottosuolo e le concessioni di pesca oceanica di questo territorio (da parte marocchina vi sono anche considerazioni di politica interna: è uno degli argomenti forti che unifica tutto il quadro politico da “destra” a “sinistra”). In Casamance l’assurda frontiera coloniale è posta in discussione ancora come pretesto dietro cui sta le gestione delle risorse. Lo scontro tra Ciad e Liba per la fascia di Aouzou è stato tutto politico… finché non si dovesse scoprire ad esempio il petrolio in questa zona, come è successo nella zona di Halaib contesa tra Sudan ed Egitto. Sempre per il petrolio Nigeria e Camerun disputano una zona di frontiera e per sfruttarne le risorse Eritrea e Yemen si contendono alcune isolette. L’incomprensibile contesa per pochi villaggi tra Etiopia ed Eritrea credo si possa dimostrare che avesse più motivazioni di politica interna che radici nazionalistiche. L’indipendentismo di alcune isole della Guinea Equatoriale, di Zanzibar o delle Comore sottintende una situazione sociale di vera o presunta discriminazione e sperequazione. Nei grandi conflitti del continente (Liberia/Sierra Leone, zona dei grandi laghi, Angola, Mozambico) la questione delle frontiere non è determinante e ufficialmente non è mai stata posta.

 

Solo un’ultima considerazione di carattere generale su questo punto. L’Africa è, come a volte è stato detto – dal punto di vista delle frontiere – un continente “balcanizzato”? Se la si raffronta con l’Asia indubbiamente sì: in Asia una popolazione di 3 miliardi di abitanti è suddivisa tra 33 stati; in Africa vi sono 52 stati per 700 milioni di abitanti. Ma se il raffronto si fa con l’Europa, dove 800 milioni di abitanti sono suddivisi in “soli” 33 stati, ma di dimensioni medie nettamente minori di quelli africani, allora l’immagine cambia. Alcuni paesi africani, come il Sudan, l’Algeria, la Repubblica Democratica del Congo o il Sudafrica hanno dimensioni inimmaginabili per l’Europa e racchiudono popoli, lingue e storie diverse che in Europa (specie alla luce dell’esperienza di quei Balcani che hanno dato origine al termine) probabilmente avrebbero determinato altrettanti stati.

 

La mia conclusione è – su questo punto – che, per quanto possa essere a volte utilizzata ad arte, la questione della nazionalità e delle frontiere non è centrale per comprendere le vicende africane. Diciamolo più chiaramente: in Africa, forse più che altrove, qualsiasi frontiera può essere rimessa in discussione (o giustificata) sulla base di argomenti storici, etnici, linguistici, ecc. Che la si giustifichi o contesti dipende da altri argomenti.

 

 

La questione etnica

Uno degli argomenti che più viene tirato in ballo a proposito dei conflitti africani è quello etnico. Un discorso ricorrente sostiene che in fondo ciò che continua ad accadere in molte parti del continente non è altro che la riproposizione di una storia millenaria di scontri tra popoli ed “etnie”.

 

Ma cosa è un’etnia? Il termine è stato tirato in ballo anche per dare qualche spiegazione ai conflitti balcanici e dell’Asia centrale. La recentissima enciclopedia di Repubblica dà la seguente definizione sintetica: “raggruppamento umano che si identifica sulla base di caratteristiche geografiche, linguistiche e culturali”. Tale semplice definizione contribuisce a spiegare gli avvenimenti di qualche paese africano?

 

Uno degli esempi di conflitto più volte definito etnico e quello del Ruanda e del Burundi, dove i due principali soggetti del conflitto sono – secondo la lettura più diffusa – le etnie Hutu e Tutsi. Anche ammesso che sia così (e quindi dimenticando le tendenze politiche che da entrambe le parti hanno sempre cercato il dialogo, finendo per divenire vittime dell’estremismo della propria stessa “etnia”), cosa vuol dire “tutsi” o “hutu”? In entrambi i paesi la maggioranza della popolazione è classificata come hutu, mentre i tutsi sarebbero una consistente minoranza. Eppure, per venire agli elementi della definizione di etnia, i ruandesi abitano da tempo immemorabile lo stesso territorio (e quindi non hanno differenti caratteristiche geografiche), parlano tutti la stessa lingua (il kinyaruanda) e praticano la stessa religione cristiana (con varie confessioni “trasversali”), né si registrano tra l’una e l’altra “etnia” grandi differenze di usi, pratiche e costumi in nessun aspetto rilevante della vita quotidiana. Si usa dire che anticamente i tutsi erano soprattutto pastori, mentre gli hutu soprattutto contadini (il mito di Caino e Abele è duro a scomparire come schema interpretativo della storia dei popoli “primitivi”) e che quindi sia esistita già nella fase precoloniale una storia di conflitti tra questi due modi alternativi di uso del territorio. La realtà è molto semplicemente che prima della dominazione belga, per quanto tutsi e hutu praticassero forme di economia differenti, un conflitto tra le due etnie semplicemente non esisteva.

 

Fu l’amministrazione coloniale belga a approfondire e giocare a proprio vantaggio le divisioni tra le due “etnie”, affidando ai tutsi minoritari il ruolo dominante e sviluppando il mito del tutsi di origine semitica – nilotica, capace di comportarsi come un civilizzato, in opposizione all’hutu negroide selvaggio, incapace di apprendere. Prosegue la definizione dell’enciclopedia: “l’appartenenza ad una etnia può stabilirsi anche sulla base di criteri quali la discendenza (genetica o culturale), la tradizione, le relazioni di scambio e politiche”. Ora, mentre su tradizione e relazioni non vi erano e non vi sono differenze significative tra hutu e tutsi, il mito della discendenza tutsi da un popolo comunque superiore agli hutu è un tipico prodotto della “scienza” razziale europea otto-novecentesca, quella stessa che ha condotto a considerare inferiori tutti i non europei, a marginalizzare e massacrare gli ebrei e a stabilire tipi di criminale sulla base dell’aspetto fisico delle persone ed è stato diffuso dai bianchi in epoca coloniale. Quanto all’aspetto fisico, a volte ancora richiamato in causa per evidenziare le differenze tra tutsi (alti e dai tratti fini – i famosi WaTutsi della nostra canzonetta degli anni sessanta) e hutu (bassi e negroidi), va detto che tra i due gruppi esiste una tale storia di mescolanza e meticciato che, pur restando differenze, al loro interno è possibile trovare tipi umani differenti e simili quanto un valdostano alto e biondo e uno scuro calabrese di bassa statura. Valdostani e calabresi – a parte qualche idiota aderente alla Lega di Bossi – c’è qualcuno che pensa che costituiscano due “etnie”?

 

In Burundi, dove la menzione dell’etnia sui documenti personali è stata introdotta dai belgi, la popolazione viene classificata all’85% come hutu e al 14% come tutsi (il resto sono soprattutto i cosiddetti “pigmei”, maltrattati dagli uni e dagli altri). Eppure entrambi i campi – a dispetto proprio del carattere “etnico” dato al conflitto dagli stessi protagonisti – comprendono “estremisti” e fautori della convivenza: non vi è un senso “ancestrale” di appartenenza al gruppo che guida l’agire politico, vi è – molto di più – il senso di dipendenza/obbedienza dalle autorità che ha portato in questo paese (e ancora di più in Ruanda) a considerare politicamente necessario massacrare i propri vicini.[19]

 

In Congo (ex Zaire) le ondate di popolazioni ruandesi (sia hutu che tutsi) si succedono da lungo tempo. Già in epoca coloniale i ruandesi erano condotti in Congo dai belgi per adibirli al lavoro nelle miniere. Gli anni dell’indipendenza dei paesi dell’area (intorno al 1960) e i conflitti connessi portarono alle prime ondate di profughi. Nel 1991 gli scontri tra il governo ruandese e il FPR hanno spinto nuovi profughi a varcare la frontiera e così i massacri del 1994 (a fuggire sono soprattutto i tutsi) e la successiva presa del potere da parte del FPR (a fuggire sono soprattutto gli hutu). Così gli hutu e i tutsi che già abitavano da secoli le regioni orientali del Congo sono stati coinvolti in dinamiche di scontro in buona parte di derivazione esterna. Adesso nel Kivu (Congo orientale) si è diffusa una diffidenza generalizzata della popolazione hutu verso i tutsi locali (i già citati banyamulenge), congolesi da secoli, che sono stati spinti all’agire politico-militare (che – visto da vicino – non ha nulla di etnico, ma molto di saccheggio delle risorse) dalle dinamiche politiche dei paesi confinanti.

 

Qualcuno ha parlato di lotta etnica persino per la Somalia, una delle situazioni di più difficile lettura e di ancora più complessa ricomposizione. Qui il conflitto appare una vera e propria guerra per bande, le divisioni politiche e militari passano attraverso un paese che è composto da una sola etnia (i somali), la stessa lingua (il somalo) e la stessa religione (musulmano-sunnita), oltre ad avere vissuto una storia sostanzialmente unitaria negli ultimi secoli (dapprima come area di influenza degli arabo-swahili di Zanzibar e poi come colonia italiana).

 

È interessante notare che per spiegare alcuni avvenimenti somali si debba far ricorso in realtà ad una categoria ancora diversa da quella di etnia. Pur essendo tutti somali, i gruppi che si combattono sono divisi in “clan”. Ora, la struttura del clan è una, per quanto antica, struttura di potere, che non ha alcun legame con fatti naturali, etnici o genetici. La lotta tra clan è una pura lotta di potere. I territori di fatto indipendenti del Somaliland, del Puntland, e per un po’ di tempo del Bay e del Baqool hanno una struttura di potere di tipo clanico, in cui i ruoli sono determinati dall’appartenenza alla stessa famiglia di clan. E’ quindi alla lotta per il potere che va fatto riferimento per comprendere questo conflitto. E questo ci dà un’interessante indicazione che può avere valenza più generale e su cui torneremo.

 

Con questo non si vuol dire che l’argomento etnico sia sempre e solo di pura derivazione coloniale o comunque di imposizione esterna. Vi sono indubbiamente – in Africa come altrove – degli elementi culturali “tradizionali” di rivalità, concorrenza per le risorse, incomprensione tra le varie popolazioni che possono contribuire a spiegare certi aspetti dei conflitti. Quel che qui si vuol dire è che nei contesti delle guerre africane di questi ultimi decenni tali elementi sono stati sempre esasperati ad arte per motivi di propaganda politica che avevano in realtà altri fini, a volte con vere e proprie campagne mediatiche. E’ impossibile dimenticare come il governo ruandese dell’hutu power abbia scientificamente soffiato sul fuoco della rivalità etnica per giustificare la propria occupazione del potere, anche contro gli hutu non allineati sulle sue posizioni (e abbia a tale scopo fatto uso massiccio di radio e giornali, elementi moderni, non certo “ancestrali”).

 

L’indipendentismo della Casamance è effettivamente basato sulla popolazione dioula (che peraltro non è originaria solo di questa zona, ma abita tutta l’Africa occidentale, fino al Ghana), che si opporrebbe ai popoli provenienti dal nord del paese (wolof, principalmente), ma – come abbiamo visto – la posta in gioco sono le risorse economiche della regione.

 

In Angola né il MPLA né l’UNITA hanno origine etnica, eppure quest’ultimo ha utilizzato il risentimento degli Ovimbundu dell’interno contro la popolazione meticcia della costa, in nome di una “africanità” reazionaria (paradossalmente sostenuta a lungo dal Sudafrica bianco e razzista), per costruirsi una base di consenso. Del resto nello stesso Sudafrica del dopo 1994, l’opposizione dell’Inkatha si basa sulla rivendicazione dell’identità zulu per assumere un ruolo contro il governo Mandela.

 

È significativo che in Etiopia, dopo la caduta di Menghistu e l’apertura al multipartitismo, questo sia stato inteso solo su base etnica. Solo i partiti etnici sono ammessi: il sistema stesso si fa promotore dell’affermazione sul piano politico delle differenziazioni etniche e quindi le approfondisce.

 

In Sierra Leone le milizie si organizzano anche su base etnica (e si contano fino a 13 etnie coinvolte), ma la loro composizione sociale è fatto di disperati di ogni sorta, che cercano così un modo per sopravvivere (o morire con la pancia piena): sono i “signori della guerra” che giocano le popolazioni l’una contro l’altra, esasperando argomenti “culturali” che prima del conflitto avevano scarso peso politico.

 

In Liberia e Costa d’Avorio l’articolazione etnica è alla base dell’estensione dello scontro in atto nel primo paese anche al secondo. La Liberia è infatti abitata dai popoli Krahn e Dan. Prima della presa del potere di Taylor, il presidente Doé era un Krahn. Taylor si appoggia ai Dan. Dall’altro lato della frontiera orientale del paese abitano i Guéré, che altro non è che il nome locale dei Krahn. Allo stesso modo i Gyo sono la versione ivoriana dei Dan. Quando cominciano ad affluire i profughi dalla Liberia, le posizioni politiche anche in Costa d’Avorio si polarizzano così tra favorevoli e contrari all’avanzata di Taylor in base alla propria appartenenza etnica. Ma sia in Liberia che in Costa d’Avorio, gli stereotipi etnici sono rivitalizzanti dai contendenti tra popolazioni che invece da lungo tempo vivevano in pace pur nella diversità. Per fare questo, ognuna delle due parti sfrutta e accentua gli aspetti dell’immaginario collettivo (che esistono un po’ in tutti i popoli) che tendono a vedere una minaccia in chiunque sia diverso: le popolazioni cominciano ad accusarsi reciprocamente di superstizione, stregoneria e persino di antropofagia.

 

Più in generale, in Mali, Mauritania, Ciad, Niger e Sudan sembra di assistere allo scontro, più che tra singole popolazioni, tra un nord “bianco” e un sud “nero”. In Ciad il potere funziona su basi dichiaratamente etniche, che hanno contribuito a determinare nella storia del paese anche massacri. La già citata sostituzione del presidente Habré con Idriss Déby si è limitata a cambiare l’etnia privilegiata. Ma per questa fascia di paesi, più che l’argomento genericamente “etnico” si tira spesso in ballo l’argomento religioso.

 

Ora, è vero che in Sudan il conflitto oppone un potere centrale che è tra i campioni della diffusione dell’integralismo islamico nel mondo a popolazioni che si dicono cristiane o – più spesso – animiste. Ma prima di guardare più da vicino il conflitto sudanese, cosa che faremo più avanti, va detto che lo stesso argomento non è applicabile agli altri paesi saheliani citati, dove pure il conflitto sembra molto simile, per quanto meno cruento (tranne in Ciad) e a volte a parti invertite (il potere è bianco in Sudan e Mauritania, ma nero in Mali e Niger): entrambe le parti in conflitto in questi paesi sono musulmane.

 

Ancora una volta va invece richiamato l’argomento storico. A parte il Sudan, sotto il dominio britannico fino al 1960[20], tutti gli altri paesi della zona erano colonie francesi. In tutti, Sudan compreso, l’economia coloniale si basava sullo sfruttamento delle risorse della parte “nera”, soprattutto piantagioni, mentre la parte desertica o semidesertica era poco interessante e quindi ampiamente sottovalutata dal potere coloniale per qualsiasi tipo di intervento sia di investimenti/sfruttamento che di infrastruttura o di tipo sociale. Al momento di concedere l’indipendenza, la Francia e la Gran Bretagna hanno ceduto di punto in bianco le leve del potere alla “maggioranza”: gli arabi in Sudan, i mauri in Mauritania, i neri in Niger, Mali e Ciad. Da questo elemento, non quindi dal colore della pelle o dalla religione, deriva lo scontro tuttora in atto in questi paesi.

 

Se si vuole, lo stesso conflitto della Casamance, già letto in termini etnici, si può vedere in termini religiosi, pur non essendo in questo caso il governo senegalese accusabile di integralismo islamista: i Dioula sono per lo più animisti e sono guidati da un prete cattolico (per quanto sconfessato dalla chiesa), ma anche l’elemento religioso, come quello etnico, nasconde gli interessi più concreti.

 

Un paese scosso da contrasti “etnici” e “religiosi” è la Nigeria. Non è certo un paese di facile lettura: un mosaico di oltre 300 etnie con religioni e lingue diverse. Ma è dalla fine della dittatura nel 1999 che gruppi radicali tentano di utilizzare queste diversità per rafforzare la propria posizione. Nelle regioni petrolifere, la popolazione Ijaws vede un nemico nella polizia statale, a maggioranza yoruba, ma la questione è il controllo dei redditi petroliferi. Parallelamente una fazione del Congresso del Popolo Oodua (Yoruba) ha cercato di incrementare gli antagonismi etnici, di cui sono stati vittima commercianti haussa. In questo pericoloso contesto, nel 2000, quaranta anni dopo il tentativo di secessione della regione, è risorto un Movimento per la Realizzazione della Sovranità del Biafra, che ha causato scontri.

 

Qui l’argomento religioso è stato risvegliato dalla decisione di alcuni stati del nord (la Nigeria è una Repubblica Federale) di applicare la sharia anche in ambito penale: centinaia di cristiani ibo e yoruba uccisi nel nord sono stati “vendicati” da omicidi di haussa musulmani nel sud. Ma quanto incide in questa decisione di islamizzazione la volontà politica, che nulla ha di religioso, di questi stati di opporsi allo stato centralizzato? E quanto la propaganda politica (con veste religiosa) del movimento islamista internazionale, che nella fascia saheliana interviene con argomenti concreti costituiti dai finanziamenti sauditi o iraniani?

 

L’argomento religioso, come quello etnico, è indubbiamente comodo per orientare il consenso. In Liberia la guerriglia guidata da Taylor, poi divenuto presidente, ha a lungo giocato la carta dell’accusa al governo di organizzare massacri di musulmani.

 

In Somalia, paese uniformemente musulmano sannita, la questione religiosa non ha avuto apparentemente alcun peso nel conflitto fino ad oggi. Tuttavia la disgregazione sociale, l’assenza di qualsiasi struttura statale, lo scontro tra le diverse bande che controllano porzioni di territorio grazie all’economia militare di saccheggio, aprono spazi inaspettati alla propaganda dell’estremismo religioso, spesso di importazione: un’ulteriore ipoteca sul futuro del paese.

 

Un aspetto religioso sembra avere la tensione di confine tra Sudan e Uganda, ma è un aspetto religioso particolarmente rivelatore. Qui un governo fondamentalista islamico, quello sudanese, sostiene la guerriglia ugandese di un gruppo fondamentalista cristiano, l’Esercito di Resistenza del Signore (con caratteri di pura follia collettiva come dimostra il fatto provato che il suo leader dichiari un odio sviscerato per i vecchi, gli insegnanti e … i ciclisti). Allo stesso modo, per destabilizzare l’Uganda, che teme possa diventare base per la sua guerriglia del sud, il Sudan oltre la carta religiosa tenta quella delle rivendicazioni etniche delle minoranze nubi, kakwa e aringa, organizzando un Fronte di Liberazione della Riva Occidentale del Nilo (FLRON), che opera con basi nel Congo (allora Zaire).

 

A un certo punto, dall’azione congiunta del governo islamista di Khartum e della dittatura (cattolica!) zairese, alleate nel tentativo di destabilizzare l’Uganda, nasce l’Alleanza delle Forze Democratiche (AFD) che opera nell’ovest ugandese con basi in Zaire: la sua composizione è un misto di fondamentalismo musulmano, rivendicazioni sociali di giovani disoccupati, e rivendicazioni “etniche” delle minoranze baganda, banyoro, batolo, dell’antico autonomismo bakonjos (una minoranza che già all’inizio del ‘900 avversava gli accorpamenti amministrativi operati dagli inglesi) e infine di hutu ruandesi, implicati nel genocidio dei tutsi del 1994, poi rifugiatisi nei campi profughi di Goma (Zaire) dopo la vittoria tutsi in Ruanda e adesso cacciati anche da quei campi a causa dell’avanzata di Kabila e della caduta del dittatore Mobutu, e quindi fuggiti in Uganda.

 

Se ne può facilmente concludere che sia l’argomento etnico che quello religioso sono stati propagati ed agitati per fini di lotta politica fino a farne componenti ideologiche delle azioni anche militari. D’altra parte, perché non ci si chiede come mai queste tensioni, con questi contenuti, non esistevano prima che esplodesse il conflitto politico tra i paesi dell’area e come mai le intolleranze “etniche”, “religiose” e “culturali”, ammesso che preesistessero al conflitto, non assumevano precedentemente rilevanza politica?

 

Anche in Etiopia il Sudan ha cercato alleanze facendo ricorso all’argomento etnico. Dopo che un primo tentativo di sfruttare l’opposizione degli oromo del sud Etiopia (in maggioranza cristiana) verso il governo di Addis Abeba non aveva dato frutti, il Sudan ha creato dal nulla organizzazioni di oromo islamici e ha stretto alleanze con i somali dell’Ogaden, che sono anch’essi musulmani. Se e quando l’argomento religioso, sotto forma di conflitto tra Amhara cristiani (monofisiti) e popoli sottomessi musulmani dovesse assumere veste religiosa, cosa per nulla improbabile, si dirà che si combatte per motivi religiosi?

 

Oltre l’etnia e la religione, di questo gruppo di motivazioni per il conflitto fa parte ovviamente la lingua (e in Africa di lingue ce ne sono molte).

 

Una questione linguistica ed etnica sembra stare ad esempio sullo sfondo del conflitto interno del Camerun, che oppone l’ovest anglofono al potere centrale in buona parte in mano ai francofoni. Ma dietro la questione linguistica c’è una sostanza più concreta anche in questo caso. Da un lato, per gli anglofoni, la centralizzazione fiscale dello stato camerunese è vista come drenaggio di risorse verso un centro che poi non è in grado di ridistribuire servizi e investimenti, dall’altro il potere centrale riceve pressioni da parte della Elf francese, che ha interessi petroliferi nella zona anglofona. Come risultato si ha non solo l’opposizione delle province occidentali al potere centrale, ma anche il tentativo di quest’ultimo di dividere e contrapporre le popolazioni occidentali, unite dall’inglese come lingua coloniale, sulla base dell’appartenenza etnica per impedire la formazione di fronti compatti.

 

Non va mai dimenticato che in quasi tutta l’Africa il sistema di riferimento delle lingue è ben diverso da quello europeo: in Africa il bilinguismo il trilinguismo o persino il quadrilinguismo naturali sono diffusissimi (lingua locale, lingua regionale, ad esempio il kinyaruanda; lingua sovraregionale, ad esempio lo swahili o il lingala; lingua coloniale, ad esempio il francese). Anche in Camerun francese e inglese “passano” attraverso popoli che al di sotto del livello della lingua di derivazione coloniale parlano lingue identiche, simili o apparentate.

 

A metà tra questione etnica e questione delle frontiere sta la “questione nazionale”. Gli stati africani sono tutti di recente formazione e – come sappiamo – la loro consistenza territoriale è stata per lo più imposta dall’esterno. La formazione di una “coscienza nazionale” (laddove non esiste spesso alcuna identificazione tra il territorio e la comunità), è quindi molto difficile. Eppure anche su così fragili basi può, in date condizioni, porsi una questione nazionale.

 

Prendiamo il caso della Costa d’Avorio, dove una componente fondamentale del conflitto (quasi interamente interno) in corso è non tanto l’appartenenza culturale, bensì – caso forse unico in Africa – quella “nazionale”. Esiste anche in questo paese una componente etnica del panorama politico, che deriva dal fatto che il potere è generalmente in mano agli akan, i quali nella storia indipendente del paese si sono scissi in fazioni che spesso ricalcavano le sottocomponenti delle etnie akan, in particolare gli agnis e i baoulé (da cui proveniva il padre padrone dell’indipendenza Houphouët-Boigny). Negli anni settanta le lotte di potere passavano tra le fazioni baoulé e beté. La questione etnica è presente inoltre in Costa d’Avorio a causa degli influssi della vicina Liberia.

 

Tuttavia alla radice dei tentativi di destabilizzazione degli ultimi tre anni non vi è tanto l’appartenenza etnica quanto piuttosto un’apparente battaglia per la questione delle “ivorianetà”, come appartenenza nazionale. Il dibattito politico si è concentrato sul diritto o meno alla partecipazione alla vita politica (e quindi ai benefici della politica economica e sociale) di chi non è ivoriano di nascita[21]. In realtà, se si guarda bene la cosa seguendo il dibattito politico interno del paese degli anni che hanno immediatamente preceduto lo scoppio delle aperte ostilità militari, si vede come sia stato lo stesso ceto politico al potere (allora raccolto intorno al presidente Bedié, erede del fondatore della nazione Houphouet-Boigny) a fomentare a piene mani l’odio, il razzismo e l’esclusione verso chi non fosse provatamente ivoriano. La ragione? Almeno due: una di bassa cucina politica. Il principale oppositore di Bedié ha vissuto a lungo in Burkina e non è in grado di provare di essere davvero ivoriano di nascita. Con una legge che escludesse i non ivoriani dalla candidatura per le elezioni politiche, Bedié pensava di aver eliminato il principale ostacolo alla propria permanenza al potere (è stato poi comunque deposto da un colpo di stato militare!). Da parte sua, l’oppositore in questione, Aslane Ouattara, ha pensato bene di stare al gioco coinvolgendo nel senso di esclusione tutta la popolazione del nord del paese, spesso di origine non chiaramente ivoriana, e in maggioranza musulmana. In questo modo è stata rifomentata nel paese, insieme a quella “nazionale”, la questione religiosa che sembrava non creare grossi problemi nonostante la folle politica in tal senso condotta sotto Houphouët-Boigny, che aveva più volte clamorosamente favorito la sua etnia di appartenenza (i Baulé), la sua zona di origine (fino a fare del suo villaggio natale – Yamoussoukro – la capitale del paese) e la sua religione, fino a costruire la più grande chiesa al mondo, con enorme sperpero di capitali, in un paese povero in cui i cattolici sono solo il 20%.

 

La seconda ragione della politica della “ivorianetà” è invece più profonda. Fino agli anni ’80 la Costa d’Avorio ha goduto di stabilità politica, perché le entrate garantite dalle esportazioni (soprattutto caffè e cacao) venivano almeno in parte ridistribuite in modo da garantire sostegno politico al sistema. Buona parte delle produzioni per l’esportazione erano peraltro ottenute con il contributo determinante di lavoro immigrato dai paesi vicini. Con il crollo generalizzato dei prezzi internazionali delle materie prime cui si assistito dalla metà degli anni ’80, queste entrate si sono drasticamente ridotte, fino a mettere in crisi tale sistema redistributivo e di consenso. Quale migliore politica allora, per mantenersi al potere, del dare a una parte della popolazione l’impressione che la colpa della crisi fosse di tutti questi immigrati dal Burkina o dalla Liberia che vengono a consumare le risorse del paese? La tendenza a espellere queste popolazioni è peraltro in sintonia con l’attuale crisi delle piantagioni, che non abbisognano più della loro manodopera.

 

Ancora a proposito di “sentimento nazionale”, di recente mi è capitato di sentir argomentare, da oppositori congolesi dell’occupazione ruandese delle province dell’est, che uno dei motivi della loro resistenza era per loro l’importanza dell’integrità nazionale del Congo. Tuttavia quando ho cercato di capire cosa fosse alla base della “nazionalità” congolese (paese che raccoglie un grande numero di popolazioni di lingue e culture diverse e su un territorio enorme e scarsamente collegato), confesso di non aver mai avuto risposte per me soddisfacenti. Sarà una mia mentalità troppo da economista, ma la disputa sull’est congolese personalmente mi appare molto più chiara se si guarda alle sue risorse (ci torneremo più oltre).

 

Credo ce ne sia abbastanza per concludere che quelli che sembrano scoppi di irrazionale rabbia “etnica”, religiosa o nazionalista siano spesso in realtà massacri preordinati, strumenti politici, mezzi per acquisire o mantenere il potere. Quello che va allora esaminato sono gli elementi attorno a quali si articola la contesa concreta per il potere.

 

 

Il sistema dell’economia di saccheggio

Uno di questi elementi – senz’altro non l’unico, ma uno di quelli determinanti – è la questione delle risorse del suolo e del sottosuolo e la lotta per il loro controllo. Lo sfruttamento illegale delle risorse è a mio avviso una delle determinanti principali del permanere dello stato di conflitto in buona parte del continente africano. Ma cosa significa illegale? Quali sono le leggi a cui questo sfruttamento contravviene? E questo sistema di sfruttamento è un fatto temporaneo, dovuto appunto all’instabilità e alle guerre, o un fatto strutturale, che determina e perpetua l’instabilità e le guerre? Vediamo i principali esempi.

 

In Liberia, Sierra Leone e Guinea (Conakry) la gomma, i diamanti e il ferro sono la causa e allo stesso tempo le risorse che consentono il proseguimento del conflitto: le fazioni politiche in lotta per il potere si sono reciprocamente contese le piantagioni di hevea (gomma) della Firestone, le più grandi del mondo (dove peraltro si praticano ampiamente la schiavitù e il lavoro forzato). Le esportazioni di diamanti della Liberia superano di almeno 15 volte la sua capacità di estrazione: il resto proviene dal coinvolgimento nel conflitto della Sierra Leone, grazie alla guerriglia che la Liberia sostiene. In assenza di una soluzione al conflitto, analoga sorte rischia di toccare alla Guinea Conakry, che possiede altre miniere di diamanti.

 

L’embargo che l’ONU tenta di imporre ai diamanti che finanziano il RUF della Sierra Leone è facilmente aggirato da volenterosi intermediari in Togo, Burkina Faso, Liberia. In particolare in Burkina si ha notizia di trafficanti dell’Europa dell’est che portano in cambio le armi derivanti dalla smobilitazione del Patto di Varsavia.

 

Com’è stato scritto a proposito della Sierra Leone: “La sfida di questa guerra, oltre che prendere il potere, è di fare man bassa sulle ricchezze del paese (i diamanti). Il conflitto pare si perpetui grazie a un sistema di baratto. Diamanti sarebbero scambiati nella vicina Liberia, soprattutto, contro riso e armi. L’esaurimento delle miniere a cielo aperto avrebbe potuto significare la fine della guerra. Ma le autorità hanno concesso, il 15 marzo 1999, una licenza alla compagnia britannica Branch Energy per giacimenti sotterranei a Kono e Tongofield, due tra i siti diamantiferi più ricchi del mondo, situati in pieno feudo ribelle. Un primo contratto di prospezione, firmato nel 1995, aveva permesso a Branch Energy di ingaggiare i mercenari sudafricani di Executive Outcomes, per garantire la sicurezza delle sue operazioni e aiutare il governo di allora a lottare contro il RUF”[22]

 

Una situazione analoga si può disegnare in riferimento al conflitto nell’est del Congo. Le ripetute denunce delle organizzazioni non governative e delle Nazioni Unite hanno definitivamente aperto gli occhi alla comunità internazionale sulle vere ragioni dell’occupazione ruandese e ugandese (per il tramite anche di movimenti fantoccio) di una buona metà del territorio congolese. Non solo i diamanti, ma ancora più significativa è per il caso congolese la questione del coltan, la famosa colombo-tantalite divenuta un minerale essenziale per l’aeronautica e l’informatica, su cui si soffermano a lungo quelle denunce (che peraltro coinvolgono tutto un sistema di imprese non solo ugandesi o ruandesi, ma anche europee e nordamericane). E al coltan si aggiungono ancora l’oro, lo stagno, il caffè, il legname. In Congo, come in Sierra Leone, si è strutturato quindi un sistema di sfruttamento delle risorse di cui la guerra è parte integrante.

 

La stessa partecipazione di alcuni altri paesi al conflitto si spiega nell’ambito dello sfruttamento delle risorse. Se l’Angola aveva sicuramente interesse a chiudere i santuari della “sua” guerriglia (l’UNITA) nello Zaire di Mobutu, e per questo ha appoggiato Kabila, lo Zimbabwe è stato mosso da interessi puramente economici, tanto da essere stato compensato del suo appoggio a Kabila, tanto durante la presa del potere quanto nella resistenza agli ex alleati dell’est, con concessioni minerarie, con contratti di forniture militari (in realtà triangolazioni di armi cinesi), e con la concessione di mezzo milione di ettari nel Katanga alla sua Rural Development Authority.

 

E, per converso, allo sblocco della situazione di stallo in cui si trovava il conflitto congolese deve aver contribuito non poco la decisione di Kabila figlio, dopo l’assassinio del padre, di rimettere in discussione le concessioni diamantifere. Durante la lotta per la presa del potere, Kabila padre aveva stipulato contratti con imprese statunitensi, ruandesi e ugandesi che poi non ha rispettato, preferendo le società angolane, dello Zimbabwe e persino coreane. Il nuovo presidente, che non a caso ha visitato subito Washington, Parigi e Bruxelles, ha invece riaperto la questione e predisposto una nuova legislazione per lo sfruttamento minerario.

 

Ma un insegnamento interessante del caso congolese che va sottolineato è il seguente: il fatto che il sistema economico di sfruttamento delle risorse sia garantito da uno stato sia pure a vantaggio di poche imprese o di paesi stranieri e senza tener conto delle esigenze delle popolazioni che abitano i territori interessati (e anzi sottoponendole a regimi di sregolato sfruttamento) oppure che – come nella attuale situazione dell’est congolese – sia garantito da una occupazione militare, e da una situazione di instabilità permanente non è di per sé indifferente, ma ha conseguenze sul sistema socio-economico nel suo compesso.

 

Si provi a paragonare la situazione di questi ultimi anni in quelle province con quella precedente al 1996, quando il dittatore Mobutu regnava incontrastato su tutto il Congo – Kinshasa (allora Zaire) con l’appoggio di non poche potenze africane, ed internazionali (Francia, Belgio, Stati Uniti). Allora lo sfruttamento delle risorse minerarie del Kivu, dell’Ituri, del Maniema, della Provincia Orientale e del Katanga (che si chiamava Shaba) era “legale”, garantito cioè da uno stato che controllava l’intero territorio e decideva il regime di concessione sotto cui lavoravano le compagnie di sfruttamento o ne organizzava di proprie. La situazione della popolazione da questo punto di vista non era diversa. Nessun miglioramento, nessun reddito (se non i salari da fame dei minatori) ne derivava per loro. Né d’altra parte vi era una maggiore possibilità di controllo democratico, la prospettiva che un giorno le cose avrebbero potuto cambiare, visto che lo sfruttamento era garantito da un forte apparato statale di tipo repressivo e dagli appoggi di cui esso godeva in ambito internazionale proprio in quanto garantiva quello sfruttamento anche a vantaggio di interessi stranieri. Ciò che è peggiorato nell’est del Congo con le guerre degli ultimi anni è il contesto complessivo. Lo sfruttamento delle risorse minerarie e delle foreste ha consentito il proseguimento delle guerre grazie all’afflusso di armi (e quindi ha fatto sorgere un nuovo forte interesse economico a quello sfruttamento illegale delle risorse) e ha finanziato lo stato di occupazione da parte di formazioni politico militari che hanno assunto l’aspetto di milizie predatrici, aggredendo ogni angolo della vita delle popolazioni. La scala dell’economia di saccheggio si è estesa così a tutta la vita economica: commercio, trasporti, banche, mercato locale, agricoltura, fino alla prostituzione, lo sfruttamento sessuale e militare dei minori, il taglieggiamento di ogni attività.

 

Non c’è bisogno di moltiplicare ulteriormente gli esempi, ma quello dell’Angola, in rapporto a quanto accaduto nel conflitto “parallelo” del Mozambico, è illuminante. Alla luce della fine della guerra fredda, con la liberazione della Namibia e ancora di più con il cambio di regime in Sudafrica, entrambi i conflitti, che dalla guerra fredda prendevano origine, avrebbero potuto concludersi. Ma solo quello mozambicano si trasforma, già agli inizi degli anni ’90, in normale dialettica politica. Quello angolano persiste invece come conflitto sotto altre forme: priva degli appoggi degli Stati Uniti, del Sudafrica e dello Zaire di Mobutu, la guerriglia resiste ancora a lungo grazie ancora una volta ai diamanti, con i quali compra armi e consenso nelle zone occupate. La guerriglia diventa insomma un’occupazione economica per chi la pratica. E se adesso finalmente, con la morte del signore della guerra e la resa dell’UNITA, il conflitto si avvia a soluzione è anche perché la comunità internazionale ha deciso di far pesare il proprio ruolo in favore del governo del MPLA che può recuperare il controllo su quei diamanti e sarà chiamato a darne conto e ragione ai mercati internazionali. In Mozambico, i diamanti non ci sono, e questa differenza si vede nel fatto che il paese, pur nella somiglianza delle condizioni politiche di partenza, raggiunge la pace oltre dieci anni prima dell’Angola (e anzi il Sudafrica, uno dei paesi che prima destabilizzava il Mozambico per motivi attinenti al confronto della guerra fredda, ha adesso invece interesse a stabilizzarlo, visto che dal punto di vista economico esso costituisce – specie nelle regioni del sud – una sorta di sua provincia).

 

Secondo un rapporto del 1995 presentato al governo francese, il fenomeno della criminalizzazione dell’economia è in Africa ampiamente generalizzato. Quasi ovunque gli aiuti umanitari vengono deviati per scopi privati; droghe e diamanti si intrecciano sullo sfondo delle situazioni politiche della Liberia, della Sierra Leone, del Burundi, del Ruanda, del Ciad, dell’Angola: “al punto che – si legge in quel rapporto – molti dei conflitti subsahariani sembrano rispondere meno a delle logiche politiche, etniche o regionali che a una logica economica di predazione”.

 

È un intero sistema di produzione e commercio (i marxisti direbbero un “modo di produzione”) che si costituisce attorno all’economia di guerra. In Sierra Leone sorgono aeroporti privati per l’esportazione dei diamanti e agenzie commerciali gestite da libanesi e israeliani. In un paese in cui i trasporti interni non esistono in vaste aree e spesso sono scomparse anche le strade, esiste un volo diretto Freetown – Amsterdam: la linea dei diamanti dal produttore al consumatore. I ricavi dei diamanti consentono di pagare armi e mercenari che servono a loro volta a garantire il controllo del territorio: potere, saccheggio delle  risorse e armi si sostengono a vicenda.

 

L’altro elemento del modo di produzione di saccheggio, speculare a quello del saccheggio delle risorse e strettamente intrecciato con esso, è quello del traffico delle armi leggere. In un sistema mondiale degli armamenti che ha visto declinare l’importanza delle armi leggere (sin dagli anni ’80 – quelli dello stazionamento dei missili nucleari, dello scudo stellare poi ripreso da Bush, dell’Air-Land Battle – i sistemi d’arma non convenzionali hanno reso largamente obsolete le armi leggere), in Africa il loro mercato tende ad allargarsi. La tipologia specifica del conflitto e il territorio ambientale e sociale in cui si svolge rendono qui “competitive” armi che altrove non hanno più mercato. E come se non bastasse, l’aumento generalizzato dell’insicurezza che questi paesi soffrono, anche all’interno delle città, ha allargato il mercato delle armi da difesa personale per i civili che possono permettersele e per le imprese, fino a creare un fiorente mercato delle agenzie private specializzate nella difesa delle persone e delle proprietà (le ditte sudafricane specializzatesi in anni di difesa dell’apartheid si stanno ampiamente espandendo su tutto il mercato continentale). Infine, ultimo aspetto dalle future conseguenze imprevedibili ed inquietanti, non solo la proliferazione e la diffusione di armi leggere favorisce l’aumento della criminalità, spinta anche dall’estrema povertà delle popolazioni delle bidonvilles, ma favorisce il sorgere di movimenti “politici” a matrice spesso religiosa fondamentalista (islamista o cristiana poco importa) che teorizzano e praticano il proselitismo armato.

 

In generale la stessa partecipazione alle bande di guerriglieri, agli eserciti irregolari, alle milizie è ormai per molti africani un modo come un altro per sfuggire alla miseria e alla fame, acquisendo una qualche forma di paga e comunque un titolo di partecipazione al saccheggio: “La guerra è un’alternativa all’economia di pace che non dà più di che vivere: il kalashnikov è il miglior mezzo di produzione”[23]. Quando per una qualche ragione i miliziani sono espulsi dal processo di produzione violento (smobilitazione, sconfitte, sbandamenti a seguito di avvenimenti militari), spesso portano con sé il proprio strumento di produzione, l’arma, e si trasformano in semplici banditi, senza neanche più la protezione ideale della guerra che stavano combattendo. In certi paesi, “si assiste progressivamente alla nascita di formazioni sociali dove la guerra e l’organizzazione della guerra tendono a divenire delle funzioni regolari”[24].

 

Ciò che va sottolineato è però che tale criminalizzazione reciproca dell’economia e della politica non coinvolge soltanto i poteri irregolari, ribelli, ma spesso gli stessi governi: il governo dello Zambia sarebbe coinvolto in traffici internazionali di droga, quelli del Madagascar, del Congo (Brazzaville), della Repubblica Centrafricana nel riciclaggio del denaro sporco; il traffico di diamanti nel Congo ex Zaire sarebbe stato praticato anche dall’opposizione politica legale.

 

Ristabilire l’ordine “legale” in Congo Kinshasa servirà a ridurre la pressione della guerra e del saccheggio sugli aspetti della vita quotidiana della popolazione e sarà quindi un grande passo avanti affinché la gente possa ricominciare a vivere. Ma sarà solo una parte della soluzione. Il resto del problema, forse il più difficile da risolvere, è come la popolazione possa almeno in parte appropriarsi dei benefici che derivano dall’uso delle risorse del proprio territorio. Più difficile non solo perché rimette in discussione una storia che si trascina dall’epoca coloniale (sono cambiati i soggetti e le tecniche, ma non gli oggetti e gli scopi); non solo, come durante la guerra fredda, perché non è circoscrivibile alle condizioni locali visto che coinvolge interessi stranieri anche extrafricani, ma soprattutto perché il sistema criminale dello sfruttamento ha generato un tale intreccio di interessi da fa sì che i gruppi e i ceti sociali si definiscano ormai in rapporto alla partecipazione (o meno) al sistema stesso: l’economia dipende dal mantenimento di tale sistema di saccheggio e le trasformazioni politiche e militari devono tenerne conto.

 

Nel suo ultimo recentissimo rapporto, il gruppo di esperti delle Nazioni Unite sullo sfruttamento illegale delle risorse naturali del Congo scrive che “lo sfruttamento illegale rimane una delle fonti principali di finanziamento per i gruppi interessati a perpetuare il conflitto. Durante l’ultimo anno, questo sfruttamento è stato caratterizzato da intensa competizione tra i vari attori politici e militari che hanno teso a mantenere, e in certi casi espandere, il loro controllo sul territorio”.[25] Nello stesso rapporto si rappresenta tale sistema di sfruttamento come un triangolo i cui vertici sono lo sfruttamento, il traffico d’armi e il conflitto, che delimitano l’area dell’insicurezza e dell’impunità. Nelle sue conclusioni il rapporto pone l’accento sul fatto che in quella regione, se si vogliono davvero superare le cause del conflitto, “c’è bisogno di convincere la gente che la pace è meglio del conflitto. È vitale rompere il legame di dipendenza tra i gruppi armati che praticano lo sfruttamento illegale delle risorse e le comunità locali”.

 

È fondato a mio avviso affermare che il sistema risorse/armi/potere costituisce quindi il “modo di produzione” specifico dell’Africa di oggi (o almeno di buona parte di essa). E a questo proposito va fatta una considerazione generale.

 

Molto spesso si sente dire che l’Africa è un continente escluso dalla globalizzazione, perché i suoi commerci figurano nelle statistiche internazionali con cifre quasi insignificanti. A me questa affermazione sembra di una stupidità oltre ogni limite, se non una vera e propria copertura ideologia di ciò che sta avvenendo. In realtà in questo continente è in atto la definizione di un modo di produzione e circolazione (che significa anche avviamento verso l’esterno) delle risorse che è perfettamente funzionale alla globalizzazione, e che assegna (come tutti i modi di produzione) ruoli precisi ai vari soggetti: stati, eserciti, opposizioni, gruppi ribelli, etnie, individui e imprese. Un modo di produzione dalle conseguenze devastanti sul continente e che a questo danno aggiunge la beffa di essere considerato ufficialmente un continente inutile, come se il coltan non servisse all’aeronautica o all’informatica dei paesi ricchi, come se i diamanti non fossero un fiorente mercato in mano anche europea, come se il petrolio o i legnami preziosi fossero elementi insignificanti delle nostre economie e le armi non fossero uno dei più fiorenti mercati mondiali contemporanei.

 

Le dinamiche mondiali sui mercati di questi beni e i comportamenti dei soggetti che vi operano a livello globale entrano a pieno titolo nella determinazione dell’andamento dei conflitti, esattamente come i conflitti africani determinano il quadro locale in cui avviene lo sfruttamento e l’avviamento sui mercati mondiali di quelle risorse.

 

Ma si può andare ancora più in profondità nell’analisi dei legami tra gli andamenti dell’economia globale e le cause degli attuali conflitti. Cosa ha determinato il fatto che per l’Africa certe risorse minerarie divenissero centrali nel determinare le dinamiche economiche e politiche? Uno degli aspetti da sottolineare nell’analizzare il fiorire dell’economia di sfruttamento illegale del continente è che la crescita di importanza delle risorse minerarie coincide temporalmente con (e deriva logicamente da) la crisi delle tradizionali risorse agricole che avevano garantito una base di consenso alle élites al potere. E tale crisi è a sua volta effetto dello scontro mondiale in atto dagli anni ’80 per le “ragioni di scambio”, di cui l’arma del debito estero e le strategie della Banca Mondiale sono stati strumenti: col calare dei prezzi internazionali delle materie agricole, le élites hanno iniziato a scontrarsi per il controllo di risorse minerarie che in alcuni casi propri in quegli anni sono cresciute enormemente d’importanza e di prezzo a causa della rivoluzione informatica e delle trasformazioni tecniche dell’industria bellica.

 

Un solo esempio può dare l’idea delle sfide a cui sono confrontate le élites africane almeno dalla metà degli anni ‘90: la Costa d’Avorio esporta essenzialmente caffè, cacao e cotone e non è un paese produttore di petrolio, che invece deve importare. Tra il 1970 e il 2001 i prezzi internazionali di questi prodotti sono calati strutturalmente della metà per il cacao, del 75% , per il caffè, del 55% per il cotone, mentre il prezzo di acquisto del petrolio è passato da 4,08 € a 23,90 € al barile. La crisi delle entrate ivoriane sia nel settore privato che nel bilancio statale è in queste condizioni irreversibile. Di questa crisi hanno approfittato da un lato le multinazionali per imporre ai governi nuove condizioni più sfavorevoli alla parte pubblica. Quando nel 2002 il presidente Gbagbo ha cercato di rimettere in discussione il potere delle imprese concessionarie delle piantagioni, ricorrendo a nuovi appalti internazionali, è stato bloccato da una nuova “rivolta”. Ma la conseguenza principale è che in Costa d’Avorio la coperta si è fatta troppo corta e fazioni del potere hanno cominciato a sentirsi escluse dalla redistribuzione che prima il sistema riusciva a garantire: di qui lo scoppio delle rivolte in seno al potere stesso (ad esempio l’esercito).

 

 

La questione del potere

Andiamo quindi ad un discorso più generale sul potere in Africa, che implica e comprende il discorso sulle risorse, ma non si limita ad esso.

 

Una delle conseguenze dell’economia globalizzata dagli anni ‘90 ad oggi è quella sul ruolo dello stato in Africa. Che la globalizzazione abbia cambiato – e in generale indebolito – gli stati nazionali è ormai un discorso ricorrente. Ma in Africa tale discorso assume significati del tutto particolari. Proprio l’esempio della Costa d’Avorio si può facilmente generalizzare a quasi tutti i paesi subsahariani. La crisi del debito estero degli anni ’80, il crollo dei corsi internazionali delle materie agricole e minerarie, che spesso rappresentano la quasi totalità delle esportazioni dei paesi africani, le conseguenti crisi delle entrate statali (in paesi in cui i redditi interni da sottoporre a tassazione sono deboli e quelli delle imprese più importanti, spesso multinazionali, sono sottoposti a tassazioni di favore), le ricette di “risanamento” imposta dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale (tagli alle spese sociali, privatizzazioni delle imprese e delle risorse che spesso significa svendita agli stranieri, taglio dei sussidi alle categorie svantaggiate e dei controlli sui prezzi), hanno ridotto fortemente le capacità di manovra anche degli stati più volenterosi. Come ha dimostrato ampiamente Stiglitz[26], l’unico stato a essere sfuggito in parte a questa morsa è proprio quello che NON ha seguito le ricette del FMI, il Botswana. A un certo punto l’indebolimento del ruolo dello stato ha coinvolto anche gli apparati militari e repressivi che si sono trovati a corto di risorse per fronteggiare una crescente conflittualità interna ed esterna. Lo stato – sostiene una affascinante quanto a mio avviso realistica teoria del diritto – altro non è se non l’ente monopolizzatore della forza. Se così è, in diversi stati africani lo stato non esiste più, proprio perché ha perduto il monopolio dell’uso della forza ed è invece apertamente contrastato nel suo controllo territoriale da milizie e bande (o da eserciti di altri stati) che acquisiscono la gestione della violenza in intere regioni (e ne organizzano l’economia a proprio vantaggio) e nel suo controllo sociale da società private di sicurezza e dal proliferare delle armi nelle mani dei cittadini.

 

Nell’ambito di questa crisi generale dello stato va articolato il discorso sul potere. Così come sottintende un sistema economico ben preciso, che si regge sul triangolo instabilità/risorse/traffico d’armi, nel quale ogni vertice alimenta gli altri due e ne viene sorretto, lo scenario delle guerre africane sottintende un discorso sull’articolazione del potere che deve farci riflettere, in quanto è di estrema modernità e fornisce un esempio che rischia di diffondersi ben oltre i limiti geografici del continente.

 

Formalmente molti paesi africani sono delle democrazie di tipo occidentale. Anche nei paesi che avevano scelto di seguire altri modelli (ad esempio quello socialista abbracciato da molti volontariamente subito dopo l’indipendenza o comunque “costretti” nel quadro della guerra fredda), tali altri modelli sono stati ampiamente soppiantati dalla costituzione di democrazie parlamentari, in cui i governi sono in varia misura responsabili verso parlamenti eletti. Anche il ricorso alle dittature militari si è fatto più raro negli ultimi anni.

 

Eppure spesso si tratta solo di apparenza: la sostanza dietro la similitudine delle strutture formali, che si apparentano a quelle europee o americane, è ben diversa. E la principale diversità sta nella possibilità di partecipazione reale a tali istituzioni e nei meccanismi di selezione delle élites politiche. Comunque avvenga l’alternanza di governo (guerre, golpe, cooptazioni, elezioni più o meno democratiche), spesso il gioco politico si svolge tutto all’interno di una élite precostituita, le cui differenziazioni interne non hanno nulla di ideologico, né presuppongono differenti idee su temi come la politica economica, il benessere delle popolazioni, i servizi sanitari o sociali, la distribuzione delle risorse tra le fasce sociali. Spesso la differenziazione nasce e si manifesta come scontro politico solo e unicamente attorno all’occupazione del potere stesso.

 

L’occupazione dello stato garantisce (salvo quando contestata da altri settori dell’élite stessa tramite lotte più o meno cruente) lo sfruttamento delle risorse a vantaggio dell’élite stessa e – attraverso gli schieramenti in politica estera – lo sfruttamento degli aiuti stranieri sia civili (umanitari, di cooperazione sociale, di cooperazione economica) che militari. L’occupazione dello stato, per quanto indebolito, diventa quindi un fine in sé stessa, strumentale rispetto alla gestione dei flussi di quelle risorse e quindi alla costituzione dell’élite, dell’appartenenza o meno ad essa, della capacità di manovrare flussi redistributivi. La sostituzione di un gruppo con un altro non cambia affatto il quadro in rapporto allo status della popolazione esclusa dal potere, quale che sia il livello formale di funzionamento della democrazia. Quando una parte dell’élite si vede minacciata di esclusione (o intende escludere un’altra parte o comunque ricontrattare i termini della compartecipazione) una delle strategie possibili è quella del ricorso alla contestazione sul piano militare (più o meno supportata per ragioni tattiche e di consenso da argomentazioni che possono essere attinte dal bagaglio culturale, etnico, religioso o dalle paure, aspirazioni o rivendicazioni di certi settori della popolazione. Certo, al momento della vittoria di un gruppo élitario che ha usato a proprio vantaggio l’argomento etnico o quello religioso, alcuni gruppi di aderenti all’etnia o religione momentaneamente privilegiate vedranno aperte le strade dell’accesso ad alcuni vantaggi del potere (posti di responsabilità, risorse da gestire, afflusso di interventi statati in una data zona, favore nell’accesso agli impieghi,…). Ma ciò non significa che l’appartenenza all’etnia o alla religione o la provenienza da una certa zona geografica sia garanzia di perpetua partecipazione al potere o che tutti gli aderenti possano giovarsene. Nel momento in cui il potere élitario vedrà ristretti i margini di redistribuzione o messa nuovamente a rischio una quota della propria rendita di posizione reagirà con l’esclusione del potere, anche di settori o individui appena prima alleati fedeli: Habyarimana, presidente hutu del Ruanda, è stato ucciso dall’Hutu power nel momento in cui aveva tentato una cauta apertura di riconciliazione nazionale e così facendo metteva a rischio l’ideologia e la pratica di governo che consentivano non agli Hutu (maggioranza della popolazione ruandese) ma a ristretti gruppi di Hutu di sfruttare a proprio vantaggio il potere.

 

E così che si spiega che spesso a contestare il potere siano ex aderenti allo stesso potere, messi in disparte per qualche ragione o che aspirano a maggiori fette di potere. Taylor, l’oppositore del dittatore Doé in Liberia, era un ex uomo dello stesso Doé, poi accusato di saccheggio ai danni dello stato. In Mauritania il tentato golpe di quest’anno (2003) è stato praticato da settori dell’esercito molto vicini al presidente Ould Taya ed è dimostrabile che anche dietro la caccia al “senegalese” del 1989 (uno dei più chiari esempi di “questione etnica”, apparentemente) vi sia stato in realtà un regolamento di conti interno all’élite al governo, nel quale i mauri hanno ridotto la partecipazione della componente nera, e per farlo hanno fomentato la caccia al nero da parte dei pastori mauri del sud. D’altra parte non è la prima volta che in Mauritania i regolamenti di potere tra le varie componenti passano attraverso gli argomenti etnici, o linguistici: l’imposizione dell’arabo come lingua nazionale (1966), l’adesione alla Lega Araba (1973) e l’adesione all’Unione del Maghreb Arabo (1989) sono stati elementi di rafforzamento della componente araba “maura” così come l’adesione all’Ecowas o un tentato golpe del 1987 servivano a riaffermare il ruolo della componente nera.

 

L’oppositore storico di Mobutu nell’ex Zaire era un suo ex ministro e – la storia si ripete – il capo della fazione detta Rassemblement Congolais pour la Démocratie, che contestava il governo di Kabila (che ha abbattuto Mobutu) faceva parte poco prima dello stesso establishment che sosteneva Kabila stesso. Il principale movimento ribelle del Ciad è promosso da un ex ministro e Idrissi Déby prima di divenire l’oppositore che avrebbe sostituito Habré in Ciad faceva parte dell’élite al potere ed era entrato in contrasto con l’ex presidente solo su questioni di spartizione, salvo poi utilizzare strumentalmente le rivendicazioni dell’etnia toubou. L’oppositore storico per il quale l’ex presidente ivoriano Bedié ha contribuito a scatenare la questione dell’ivorianità era ministro del precedente presidente Houphouët-Boigny, lo stesso che ha designato Bedié come proprio successore. In Repubblica Centrafricana e nella Repubblica del Congo (Brazzaville) le fazioni militari corrispondono a fazioni politiche dell’élite, le quali – specialmente nel secondo paese – alternano lo scontro armato ad accordi e a “normali” fasi di regolazione del conflitto attraverso le elezioni.

 

Lo sfruttamento illegale delle risorse, di cui abbiamo parlato, nei suoi aspetti economici, va visto anche nel quadro delle contese per il potere interne alle élites dominanti. I meccanismi di gestione e trasmissione del potere legati all’economia di guerra hanno come abbiamo detto alla radice una situazione di crisi economica che si riflette nel ruolo stesso dello stato e delle élites. In questo senso si può dire che le crisi belliche africane sono prevedibili. I primi segni di una crisi sono infatti, nel contesto del degrado economico, l’accaparramento delle risorse pubbliche (e degli aiuti internazionali) da parte dell’élite politica o parte di essa, la decomposizione dello stato, sospinta all’estremo dai tagli di bilancio imposti dal FMI e dalla Banca Mondiale, la conseguente disaffezione al proprio ruolo di schiere di funzionari e militari mal pagati o non pagati affatto, il riemergere, come una delle possibili risposte politiche alla crisi, di identità etniche e tribali, spesso incentivato ad arte da alcune parti politiche, la lotta per il controllo della terra e delle risorse.

 

 

Gli interessi strategici delle grandi potenze

Naturalmente, i discorsi sul sistema economico e sul sistema di potere africano – discorsi quindi interni alle dinamiche del continente (ma come abbiamo visto ben dentro le tendenze generali della globalizzazione) non devono farci dimenticare il ruolo strategico delle potenze, anche esterne al continente, tra le ragioni che determinano e orientano i conflitti.

 

Come il mondo intero, anche l’Africa è stata teatro della competizione mondiale della guerra fredda. Prodotti maggiori di tale confronto in Africa sono stati i conflitti di Angola e Mozambico, ma anche il sostegno occidentale a regimi sanguinari come quelli di Bokassa nella Repubblica Centrafricana, Amin Dada in Uganda o Mobutu nello Zaire e, per converso, quello sovietico al Derg etiope di Menghistu. E come per il mondo intero, il quadro strategico è cambiato con la disgregazione del blocco sovietico.

 

Nel quadro della guerra fredda, tra le aree africane di attrito tra i due blocchi solo in Angola e Mozambico si è giunti allo scontro militare (quasi) diretto tra i blocchi, e la ragione di ciò la si può rintracciare nel contesto mondiale. Al momento della prima grande ondata di decolonizzazione (1958-63) la spartizione del continente in aree di influenza tra USA e URSS avvenne in maniera relativamente discreta, anche grazie all’influenza del movimento dei non allineati, che cercava di costituire una terza via sia strategica (in alternative alle potenze), che economica (in alternativa all’opposizione socialismo reale/capitalismo). Quando crolla l’impero portoghese in Africa (1975) il clima internazionale è invece tale (anche a causa della guerra del Vietnam) che le due potenze decidono di intervenire in modo molto più diretto nelle vicende interne di Angola e Mozambico per determinarne la collocazione internazionale. Strumenti degli USA e dell’URSS in questo conflitto sono rispettivamente il Sudafrica e Cuba.

 

Un altro scenario caldo della guerra fredda in Africa è stata l’area del Corno d’Africa e del Mar Rosso. Prima del 1989 la flotta sovietica era la seconda del Mar Rosso, con basi nelle isole Dahlak (etiopi), sull’isola di Perim e sull’isola di Socotra (yemenite). Gli occidentali più a contatto con essa erano i francesi della base di Gibuti. Il sistema di alleanze sovietico contava sullo Yemen del Sud e sull’Etiopia, che possedeva ancora la regione costiera dell’Eritrea. Gli obblighi derivanti dalla guerra fredda facevano sì all’epoca che gli USA, pur di contrastare il regime etiope vicino all’URSS, non disdegnasse di utilizzare il Sudan come base per sostenere i movimenti di opposizione al regime di Menghistu, nemmeno dopo la salita al potere a Khartum di un governo dichiaratamente islamista (1989).

 

Dopo il 1989, con la fine della guerra fredda, ovviamente gli scenari dei rapporti in queste aree cambiarono radicalmente, e non solo per motivi ideologici: la Russia post sovietica spesso non disponeva più delle risorse per mantenere l’apparato militare mondiale precedente (le basi delle isole Dahlak pare siano adesso utilizzate dalla marina degli USA e di Israele). Anche il contesto geopolitica del Mar Rosso cambia: una delle conseguenze della fine della guerra fredda (ma anche della scoperta congiunta da parte di operatori russi e statunitensi di giacimenti petroliferi), è nel 1990 l’unificazione dei due Yemen, in un nuovo stato alla cui guida prevale il nord filo-occidentale (Sana’a).

 

L’Etiopia perde l’appoggio sovietico e si avvia al cambiamento, grazie al maggior margine di manovra di cui dispongono adesso i movimenti di liberazione dell’Eritrea e del Tigrai. In modo solo apparentemente paradossale, con il ritiro sovietico Menghistu – ex alleato sovietico – nell’ultima fase del regime cerca appoggi in USA e Israele. Quest’ultimo ha interesse a ridurre le influenze arabe nell’area del Mar Rosso (va ricordato che Israele si affaccia su questo mare), e quindi scegli di appoggiare Menghistu contro il movimento eritreo, appoggiato a sua volta dai paesi arabi. La svolta è tale che nella guerra del golfo del 1991 contro l’Iraq, l’Etiopia di Menghistu sceglie la coalizione antiirakena e guadagna in tal modo il favore dei sauditi, che smettono di appoggiare gli eritrei, i quali si schierano invece con l’Iraq.

 

Nonostante i nuovi appoggi, nell’estate del 1991 cade anche Menghistu, sconfitto dall’alleanza tra eritrei e tigrini. Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai diventa Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope e va al potere anche con il sostegno degli USA.[27] L’assenza di netti schieramenti ideologici fa sì che almeno dal 1996 gli Stati Uniti forniscano aiuti militari (“non di guerra”) sia all’Etiopia che all’Eritrea e che l’Etiopia, adesso alleato degli USA, si allei però con il governo di Khartum (adesso nemico degli USA) in funzione del contrasto con l’Eritrea (a sua volta alleato degli USA).

 

L’assenza del nemico sovietico consente all’occidente di rivedere una serie di atteggiamenti che la situazione precedente giustificava: ad esempio l’appoggio ai regimi dittatoriali o al Sudafrica razzista. Per le potenze ancora in gioco (gli Usa, soprattutto, ma anche Francia o Israele) non si tratta più di apporre pedine di qualsiasi genere pur di occupare posizioni che altrimenti sarebbero occupate dalla potenza antagonista, ma di valutare di volta in volta l’interesse concreto in gioco e il livello di rischio connesso alla sua affermazione. Questo fa sì che alcuni dei conflitti classici dell’epoca della guerra fredda possano cambiare di sostanza e a volta avviarsi a soluzione, come strada per mantenere quegli interessi concreti senza tutto il dispendio militare e strategico che la guerra fredda richiedeva anche a prescindere dalla posta locale.

 

Nati da quel contesto di guerra fredda, i due conflitti di Angola e Mozambico agli inizi degli anni ’90 possono avviarsi (se non a soluzione) quantomeno a svolte decisive quando quel contesto prende fine. In entrambi i paesi iniziano negoziati di pace, ma – come già ricordato – mentre gli accordi sul Mozambico vengono effettivamente applicati, in Angola invece il conflitto cambia contenuto e da episodio di uno scontro mondiale per l’egemonia tra le potenze si trasforma in un conflitto locale per il controllo delle risorse. Mentre fino al 1993 il Sudafrica razzista continua a mantenere la sua ingerenza in tutta l’Africa australe per scopi di egemonia regionale, il movimento interno di opposizione armata che esso appoggia in Angola si trasforma sempre più in uno di quei fenomeni di guerriglia endemica alimentata dal traffico illegale di risorse (diamanti) in cambio di armi che caratterizza molti tra i principali conflitti africani. Allo stesso cambiamento di regime in Sudafrica, avviato proprio nel 1993, non è estraneo il mutato contesto mondiale successivo alla “caduta del muro”.

 

A fianco del ridimensionamento drastico del ruolo della Russia, il dato essenziale che emerge esaminando l’azione delle potenze esterne al continente dopo la fine della guerra fredda è la nuova qualità dei rapporti tra la Francia e gli Stati Uniti.

 

La Francia è l’unica potenza coloniale ad avere mantenuto una presenza (al confronto, il disimpegno militare della Gran Bretagna è impressionante), con oltre 60 accordi di cooperazione militare che coinvolgono 24 paesi del continente. Di questi, 8 sono accordi di difesa che obbligano la Francia a intervenire se il paese è minacciato: si tratta di quelli con Camerun, Costa d’Avorio, Comore, Gibuti, Gabon, Repubblica Centrafricana, Senegal e Togo. E sta alla Francia decidere quando una minaccia, anche di origine puramente interna, costituisca motivo di intervento. Tra il 1959 e il 1996 la Francia ha fatto uso 28 volte di questo suo potere: 14 volte per difendere i governi in carica da minacce interne (rivolte, colpi di stato), 7 per aggressioni esterne e 7 volte per motivi “umanitari” (ad esempio difendere i cittadini francesi presenti nel paese) o nel quadro di interventi multilaterali. I suoi interventi si sono spesso risolti in sostegno a regimi odiosi: dalla “pulizia” delle regioni bamileke del Camerun negli anni ’60, alla pacificazione delle zone minerarie dello Zaire negli anni ’70, all’intervento in Gabon nel 1990, ai ripetuti interventi in Centrafrica. E se pensiamo anche che tra gli interventi cosiddetti “umanitari” rientra la già citata “Operation Turquoise” in Ruanda, che dietro il paravento della salvaguardia dei cittadini francesi proteggeva i responsabili del massacro dei tutsi, abbiamo un’idea di come Parigi abbia usato il proprio potere nel continente. Inoltre, lontano dall’impegno ufficiale del governo, mercenari filofrancesi in qualche modo protetti o tollerati da Parigi sono stati all’opera in Angola, Guinea, Benin e nelle Comore.

 

Tuttavia anche per la Francia il contesto del dopo ’89 è cambiato. Al vertice di La Baule con i paesi dell’africa francofona del giugno 1990, per la prima volta il governo francese chiarisce che il suo sostegno riguarda gli stati e i sistemi politici, ma non necessariamente i governi anche nelle loro lotte interne. La svolta non è certo immediata. Nel corso degli anni ’90 la Francia interviene ancora direttamente (sempre a sostegno dei regimi, di fatto anche se non dichiaratamente) in Costa d’Avorio, Congo-Brazzaville, Zaire, Gibuti, Somalia, Ruanda, Comore e – nell’ambito di forze multilaterali ONU – anche in Guinea Bissau, Repubblica Centrafricana, Kivu (est Congo), Eritrea e Angola. Il suo sostegno politico e la sua presenza militare sono inoltre ancora indispensabili per la stabilità di governi dittatoriali come quelli del Togo e del Gabon o “democratici” come quello del Mali. Tuttavia si è assistito ad un cambio di importanza relativa dell’Africa presso il governo francese, non più disposto a difendere la stabilità dei governi locali (in cambio di un occhio di riguardo per gli interessi francesi) a qualsiasi costo (economico). La svalutazione drastica del 50% del Franco CFA (moneta comune di molti stati francofoni africani, legata al franco francese – e quindi oggi all’euro – da un tasso fisso), decisa nel 1994 formalmente dagli stessi governi africani, ma dietro una chiara pressione di Parigi in tal senso, ha significato una perdita netta di risorse per gli stati coinvolti (aumento del prezzo delle importazioni e diminuzione dei ricavi delle esportazioni) e quindi ha dato un duro colpo al sistema di consenso su cui i governi si reggevano. Nel 1998 la Francia inoltre ha riformato i principi della propria politica di cooperazione in Africa e ha chiuso le basi militari in Repubblica Centrafricana.

 

Dall’altra parte, e a dispetto di tutte le dichiarazioni di disimpegno dettate alle agenzie di stampa dagli ultimi presidenti statunitensi, l’attivismo diplomatico degli USA si sta invece intensificando. Nel corso degli anni ’90 la presenza statunitense in Africa non ha fatto che aumentare ed è significativo che nel 1998 gli Stati Uniti abbiano deciso di sopprimere le barriere doganali per l’ingresso nel loro paese di 1.800 prodotti dell’Africa subsahariana (in evidente concorrenza con il trattamento di favore che i prodotti di molti paesi africani ricevono in Europa grazie agli accordi di Lomé).[28]

 

Questo attivismo può essere legato alle dinamiche in atto nel sistema di sfruttamento delle risorse africane, in bilico, come abbiamo visto, tra il modo di produzione dominante criminale delle zone di guerriglia e le dinamiche delle élites nelle zone controllate dai governi. Se i processi in atto porteranno alla stabilizzazione della situazione in alcuni paesi oggi sottoposti a sanguinosi conflitti, questo metterà a rischio i processi criminali di esportazioni di preziose risorse (dai diamanti, al legname, al coltan) e un florido mercato per le armi cosiddette leggere. Agli USA sembra stare diventando chiaro che bisogna intervenire, se non per salvaguardare il più a lungo possibile questi meccanismi illegali, comunque per creare in tempo delle alternative che perpetuino lo sfruttamento. È per questo che alla fine gli stessi Stati Uniti hanno dato il via libera all’eliminazione del movimento angolano dell’UNITA, che per decenni hanno sostenuto: la stabilizzazione del paese può consentire di salvaguardare gli interessi economici anche statunitensi, che una guerriglia autocentrata sullo sfruttamento diamantifero non garantisce più.

 

In Liberia è possibile dimostrare un ruolo non secondario degli interessi economici e politici degli Stati Uniti nelle sorti del potere e del conflitto in corso,[29] interessi presenti nelle piantagioni di gomma (Firestone) e nelle miniere di ferro; il paese è inoltre base per traffici di droga che gli Stati Uniti sembrano ignorare (nessun Plan Colombia tenta di sradicarli) ma nei quali la criminalità statunitense sembra ben impiantata.[30]

 

In certe situazioni, il cambiamento delle priorità politiche successivo alla fine della guerra fredda ha fatto sì che gli USA diventassero più pragmatici nell’appoggio a certi regimi. Se fino agli ultimi mesi di vita del suo regime, la Francia ha ritenuto Mobutu un interlocutore imprescindibile, gli USA hanno invece “tollerato” il tentativo di presa del potere da parte di Kabila e hanno addirittura bloccato un intervento “pacificatore” internazionale che avrebbe frenato Kabila e dichiarato apertamente che la ragione del loro sostegno a Mobutu è finita con la fine della guerra fredda. In questo modo ritenevano di avere rimesso in discussione la spartizione delle risorse minerarie del paese, almeno fino a che Kabila non ha rimescolato le alleanze che lo sostenevano.

 

In sostanza, con la fine degli obblighi di schieramento della guerra fredda, l’azione delle grandi potenze sempre meno si può spiegare con soli interessi “strategici” o di politica generale e sempre più invece con l’incidenza di interessi più diretti. Se nelle nuove relazioni tra USA e Francia sul continente africano si è aperta una fase in cui la precedente alleanza si è fatta più conflittuale, ciò avviene specialmente laddove – come in Nigeria, Angola, Congo, Camerun, Gabon e Ciad – gli interessi concreti (spesso quelli petroliferi) divergono nettamente. Più chiaramente di prima, quando le valutazioni politiche e strategiche potevano prevalere su quelle economiche, adesso sono soprattutto queste ultime a determinare le relazioni tra i due paesi.

 

È così nel contesto degli interessi strategici (e non in quello dell’economia di saccheggio) che bisogna parlare della questione del petrolio. La differenza tra l’economia dei diamanti o di minerali come il coltan e quella del petrolio è infatti prima di tutto una differenza di scala dell’investimento nella produzione. Mentre i primi possono essere ricavati in miniere “artigianali”, praticamente prive di infrastrutture e che fanno uso di manodopera spesso in condizione di costrizione schiavistica, per il petrolio, che necessita di infrastrutture di estrazione e trasporto colossali, questo non può essere vero. Il risultato è che mentre le risorse di quei minerali possono finanziare direttamente le guerriglie che controllano i territori di estrazione, l’azione sul petrolio è riservata necessariamente a grandi compagnie in regime di concessione ottenuto dagli stati e sostenute dagli stati (diplomazia, uffici commerciali, servizi segreti, eserciti) dei paesi di provenienza delle stesse compagnie. L’economia dei diamanti e dei minerali presuppone la disgregazione delle strutture statali. L’economia del petrolio presuppone il controllo di strutture statali che invece devono continuare a funzionare. La diplomazia del petrolio è necessariamente in mano alle grandi potenze.

 

Il petrolio è una delle risorse che contribuiscono a spiegare le crescenti divergenze tra Francia e Stati Uniti negli avvenimenti africani, e non da oggi. È nota ormai l’implicazione della Francia in quella tentata secessione del Biafra dalla Nigeria che citavo all’inizio. Obiettivo francese era all’epoca compromettere gli interessi delle britanniche Shell e BP. Oggi il petrolio in Nigeria è ancora la chiave di lettura indispensabile per almeno una parte dei conflitti interni a cominciare dalla repressione delle popolazioni, come gli Ogoni, che hanno la disgrazia di vivere nelle aree petrolifere o in quelle di transito degli oleodotti.

 

È noto ancora che sin dagli anni ’60 la Francia ha assunto il controllo del petrolio gabonese grazie alle azioni dei servizi segreti o che il sostegno che essa accorda al presidente N’Guesso in Congo (Brazzaville) è dettato proprio dagli interessi petroliferi. In Angola la società petroliera Elf ha finanziato direttamente sia il governo del MPLA di Luanda, sia i ribelli dell’UNITA.

 

Per gli Stati Uniti, che parlano di disimpegno dall’Africa ma praticano un impegno crescente, il petrolio è una delle poste in gioco centrali: secondo alcuni calcoli, il petrolio africano potrebbe fornire il 20% del totale delle importazioni statunitensi da qui al 2020 e comunque costituire un’alternativa strategica rispetto alle turbolenze politiche mediorientali e centrasiatiche. La diplomazia statunitense in Nigeria, Angola (paese in cui il 75% della produzione è controllata dalla  statunitense Chevron) e Guinea Equatoriale si fa sempre più presente. In particolare il caso della Guinea Equatoriale è significativo delle determinanti dei criteri politici degli USA. La CIA stessa, che non è un’organizzazione filantropica, definisce questo paese una “nazione gestita da dirigenti senza legge che hanno saccheggiato l’economia nazionale”, eppure da quando i 2/3 delle concessioni petrolifere sono stati concessi a operatori legati all’amministrazione Bush e i giacimenti off-shore sono protetti da società di sicurezza statunitensi, gli USA hanno riaperto la rappresentanza diplomatica nella capitale Malabo. Va inoltre tenuto presente che, ad eccezione della Nigeria, nessuno dei paesi africani produttori di petrolio aderisce all’OPEC e quindi le loro quote di produzione possono essere molto utili nell’eterna strategia dei paesi occidentali consumatori per indebolire i produttori organizzati.

 

Il petrolio gioca un ruolo essenziale nel conflitto che oppone – apparentemente per motivi religiosi – il governo islamista di Khartum ai movimenti di liberazione cristiano animisti delle regioni del sud Sudan. “Scoperto dalla compagnia USA Chevron nel 1980, è stato il petrolio, e non la sharia la vera causa della guerra scatenata nel maggio 1983. La ribellione del sud inizia nel maggio 1983 e la sharia è stata proclamata soltanto nel settembre di quell’anno. Lungi dall’essere la vera causa della guerra, la legge islamica ne è stata la conseguenza, in quanto il maresciallo-presidente Nemeiry ha tentato di consolidare la sua legittimità islamica”[31]. Quando il governo si rese conto che i giacimenti erano tutti al sud – che per accordi del 1972 aveva un proprio governo autonomo – abrogò gli accordi e creò una nuova provincia, da qui iniziò la rivolta dei “sudisti”, che poi ha preso l’aspetto di rivolta autonomista, di neri contro bianchi e di animisti-cristiani contro musulmani. Nel 1999 il governo sudanese è riuscito a finanziare l’oleodotto verso il mar Rosso, con capitali della Compagnia Nazionale Cinese dei Petroli, della Petronas malese e della Talisman canadese (ex BP Canada). La realizzazione dell’oleodotto è affidata a imprese tedesche e britanniche, la gestione invece alla Greater Nile Petroleum Corporation (GNPC), e frutta al netto 500 milioni di dollari l’anno con cui il governo può acquistare armi (soprattutto dalla Cina) per reprimere la guerriglia sudista. Le prospettive del conflitto sono ulteriormente complicate dal fatto che all’estremo sud del paese la TotalFinaElf francese ha ottenuto una concessione petrolifera non ancora sfruttata a causa dello stato di instabilità della regione.

 

Una partita aperta è lo sfruttamento del petrolio nel sud del Ciad, tra Elf-Aquitaine (Francia), Exxon (USA) e Shell (GB-NL). L’oleodotto che conduce le riserve del sud Ciad alla costa camerunese (con conseguenze ambientali e politiche anche sul Camerun), è stato inaugurato nell’ottobre 2003, con fondi della Banca Mondiale.

 

La geopolitica del petrolio è destinata a mutare sensibilmente il volto futuro dell’Africa: basti pensare all’area del Golfo di Guinea, dove a partire dagli anni ’80 sono state date un numero considerevole di concessioni per la prospezione petrolifera. Se fino ad allora il mercato era spartito tra Shell (anglo-olandese), Agip (italiana) e Elf (francese), adesso sono in corsa un totale di 20 società, tra cui Chevron, Texaco, Totalfina, Norsk Hydra, Statoil, Perenco e Amoco. Immensi giacimenti sono stati individuati di recente in Angola, Congo (Brazzaville), Guinea Equatoriale e Nigeria. Per ragioni legate al controllo del petrolio di quest’area, gli Stati Uniti starebbero progettando l’installazione di un loro comando militare nello stato di Sao Tomé e Principe, al centro del golfo di Guinea ed esso stesso produttore di petrolio.

 

Per completare il quadro delle “interferenze” nei conflitti africani, va ricordato, accanto a quello delle grandi potenze esterne al continente, anche il ruolo che giocano le potenze regionali anche, ma non solo, africane.

 

Il Marocco non solo tenta un’egemonia su un’area sahariana che arriva ai confini del Senegal, ma interviene anche in situazioni molto più lontane (ad esempio organizza fino al 1993 la guardia presidenziale della Guinea Equatoriale, a difesa della dittatura locale) e intensifica da anni la sua politica di cooperazione (con doppi fini politici) in Mali e Senegal.

 

La Libia, il cui ruolo si delinea secondo le varie fasi in cui il colonnello Gheddafi ha cercato di rendere il proprio paese di volta in volta campione dell’unità africana (è il principale finanziatore dell’OUA e ha lanciato la sua trasformazione in Unione Africana, sancita nel luglio 2002), artefice dell’unità degli arabi (ad esempio con l’UMA), fomentatore dell’estremismo islamico su scala mondiale, forza di intervento diplomatico e militare nelle crisi del continente (ad esempio quella liberiana o quella della Repubblica Democratica del Congo). Nel 2000, per rafforzare il proprio ruolo, la Libia ha annullato gran parte del debito dei paesi subsahariani nei suoi confronti.

 

Nei paesi della fascia saheliana, quelli dove il conflitto prende a volte l’aspetto di scontro di religioni, si osserva un crescente attivismo dell’Arabia Saudita e dell’Iran, soprattutto attraverso la cooperazione culturale: formazione di intellettuali, di predicatori, costruzione di moschee, scuole craniche, opere di carità e fondazioni.

 

La Nigeria da anni cerca un ruolo di potenza in Africa occidentale, che a spinge a porsi come mediatore, non sempre disinteressato, nei conflitti dell’area.

 

Il Sudafrica, che negli anni dell’apartheid difendeva il proprio regime e il dominio economico dell’Africa centrale e australe con una politica di intervento attivo in molti paesi della regione (sostegno ai regimi come quello di Mobutu in Zaire o alle opposizioni reazionarie come l’UNITA in Angola e la Renamo in Mozambico), negli anni più recenti del regime democratico si è ritagliato un ruolo di mediatore in molti importanti conflitti, a cominciare da quello dei grandi laghi. Dal punto di vista economico, paesi quali lo Swaziland, il Lesotho e il Mozambico sono non da oggi assimilabili a province del Sudafrica stesso: sudafricani sono la maggior parte degli investimenti nel turismo, nei minerali, nei trasporti, nell’elettricità, nelle banche, e sudafricana è la maggior quota dell’interscambio commerciale. In tali condizioni è evidente che il paese abbia tutto l’interesse a comportarsi da padrino politico dell’intera Africa australe e centrale.

 

Si può notare inoltre una tendenza delle potenze maggiori, extraafricane, a delegare l’intervento diretto nei conflitti alle potenze locali, quando non addirittura a forze private di sicurezza o al proliferare dei mercenari, purché le una e le altre agiscano nel senso del mantenimento degli interessi maggiori della potenza.

 

Così alcune crisi si svolgono nella apparente indifferenza internazionale (Sudan, nord dell’Uganda, Tuareg), e altre vengono delegate a forze di interposizione locali (l’Ecomog citata a proposito della Liberia gode di ben 300 consiglieri statunitensi). In generale si parla di affidare in questo senso l’Africa agli africani: nel 1997 gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna si sono accordati per un programma di rafforzamento delle competenze militari dei paesi dell’Africa subsahariana, con l’obiettivo della creazione di una forza interafricana di peace-keeping.

 

 

Una conclusione

Il “Rapporto sulle cause dei conflitti e per la promozione di una pace e di uno sviluppo durevoli in Africa” presentato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 1998 stilava la seguente classifica delle determinanti dei conflitti:

–     il ruolo dei mercanti d’armi

–     gli interessi stranieri

–     il ruolo di governi che fomentano conflitti presso i paesi vicini

–     il monopolio del potere

–     le questioni di definizioni delle frontiere, specie quando esse separano comunità un tempo unite

–     le questioni legate alla ricerca di accessi al mare, al petrolio, alle miniere

–     gli eccessi di bilanci militari

–     il ruolo degli ex combattenti

–     sullo sfondo di molti conflitti, la riduzione delle entrate derivante dal calo dei prezzi delle materia prime.

 

A ognuno adesso di valutare questa lista alla luce delle cose dette fin qui. Ma è interessante notare che non vi compaiono affatto le questioni etniche, religiose e culturali, né ipotetiche rivalità storiche tra popolazioni.

 

Anche con il supporto di questa constatazione si può trarre una conclusione riassuntiva di quanto qui sommariamente argomentato. Le attuali guerre in Africa assumono spesso l’aspetto di crisi interne ai paesi, che ruotano interno alla questione del potere. Esse sono interpretabili a tre livelli: quello dello scontro per il controllo del potere; quello del controllo dell’economia di sfruttamento delle risorse, spesso di tipo illegale anche se praticato dai governi, e dei traffici d’armi; quello degli interessi strategici delle potenze nel quadro dell’economia globalizzata. L’unico modo per precludersi ogni spiegazione è invece continuare a indulgere nell’immagine di un continente abbandonato a se stesso e in preda a secolari scontri tribali: una spiegazione che fa solo l’interesse di chi vuole nascondere gli interessi in gioco e allontanare le soluzioni dei conflitti.

[1] Organismo di cooperazione economica che raccoglie il Bénin, il Burkina, Capo Verde, la Costa d’Avorio, il Gambia, il Ghana, la Guinea, la Guinea Bissau, la Liberia, il Mali, la Mauritania, il Niger, il Senegal, la Sierra Leone e il Togo.

[2] Assassino del suo vecchio compagno d’armi Thomas Sankara, che aveva avviato un tentativo di governo socialista del paese: Compaoré riallinea la politica interna, economica e internazionale del paese ai dettami della Banca Mondiale.

[3] Il Ghana ai tempi di Sankara aveva costituito con il Burkina e con il movimenti ugandese di Museveni un asse di paesi africani “progressisti” e che invece adesso si pone in opposizione al Burkina dopo il cambio di direzione politica di questo paese.

[4] Famoso è rimasto lo scandalo della fine degli anni ’70, quando il dittatore Bokassa regalava diamanti a Valerie Giscard d’Estaing.

[5] Secondo The Heidelberg Istitute of International Conflict Research, si tratterebbe delle seguenti crisi:

ETIOPIA:

1947-63  crisi internazionale con la Gran Bretagna per il Gadaduma

1950-61 conflitto di frontiera con la Somalia

1962-4    guerra dell’Ogaden con la Somalia

1963-70  secondo contrasto con Gran Bretagna per Gadaduma

1964        guerra dello Shifta con la Somalia

1964-5  crisi con il Sudan per motivi etnici ed autonomistici

1974-78  conflitto di sistema

1974-91  conflitto etnico, religioso, autonomistico del Tigrai

1976-78  secondo conflitto dell’Ogaden con la Somalia

1977        conflitto con Sudan per motivi territoriali

1977-91  conflitto etnico, religioso, autonomista degli Oromo

1978-88  conflitto etnico, religioso, autonomista dell’Ogaden

1991-99 secondo conflitto degli Oromo

1994-99  secondo conflitto interno dell’Ogaden

1998-99  guerra con l’Eritrea per motivi di confine

 

ERITREA:

1946-52    annessione all’Etiopia

1961-67    guerra per l’indipendenza

1967-93 guerra civile

1994-98 contrasto con Sudan

1998-98 contrasto territoriale con Gibuti

1998-99 guerra con Etiopia.

 

SOMALIA:

1963-64  contrasto territoriale con il Kenya

1963-67  contrasto territoriale con il Kenya

1950-61 conflitto di frontiera con Etiopia

1962-64 conflitto dell’Ogaden con Etiopia

1964        conflitto dello Shifta con Etiopia

1976-78  secondo conflitto dell’Ogaden con Etiopia

1988-91 prima guerra civile

1991-99 seconda guerra civile

1991-99 secessione del Somaliland

[6] Gli Amhara sono dai tempi di Menelik il popolo dominante dell’Etiopia.

[7] Mentre i due paesi si scontrano, nel 1984-5 la carestia fa 1.700.000 morti in Etiopia e Somalia.

[8] Museveni introduce una riforma economica su principi apparentemente socialisti, la quale però nella realizzazione di fatto si pone sempre più in accordo con le ricette del FMI, specie con l’avanzare della dissoluzione del blocco dell’est sovietico, tanto che nel 1988 lo stesso FMI lo definisce uno dei suoi migliori allievi.

[9] Inoltre l’Operation Turquoise rafforza Mobutu in Zaire facendone nuovamente un interlocutore, cui fare affluire aiuti per i profughi del Kivu e destabilizzando lo stesso Kivu, che da tempo è una base dell’opposizione zairese a Mobutu. Gli hutu profughi che vi affluiscono dal Ruanda si alleano agli hutu congolesi per perseguitare i tutsi locali (i banyamulenge), circa 40.000 dei quali, a volte in Zaire da secoli,  fuggono in Ruanda.

 

[10] “Coloro che colpiscono insieme”.

[11] In tale contesto la Banca Mondiale ottiene a Bujumbura la realizzazione di una zona franca dove si installano società belghe per il commercio dell’oro, che viene per lo più dallo Zaire (un ministro che si oppone è ucciso).

[12] Fonte: The Heidelberg Istitute of International Conflict Research, sito internet, settembre 2003.

[13] “Il popolo di Mulenge”. Mulenge è la località dove si sono stabiliti i primi tutsi ruandesi in Congo, nel XVII secolo.

[14] È in questo passaggio che il paese cambia nome da Zaire a Repubblica Democratica del Congo. In questo testo usiamo Zaire per riferirci al paese fino al 1997, mentre usiamo Repubblica Democratica del Congo per gli anni successivi.

[15]             La pressione militare contro Angola e Mozambico, se non riesce a dare successi alla guerriglia, costringe però i governi a reperire risorse per la guerra, in una situazione di forte crisi economica. Questa stessa pressione fa sì che nel 1987 l’Angola chieda di aderire al FMI.

 

[16] Tra i due Congo si trova l’enclave angolana di Cabinda, che i ribelli adoperano come propria base. La storia dell’esistenza di questo territorio angolano presso la foce del fiume Congo risale agli accordi del Congresso di Berlino del 1894, quando fu sancita l’esistenza dello Stato Libero del Congo sotto controllo belga. In quella occasione, la Gran Bretagna utilizzò la preesistente presenza portoghese alla foce del fiume per impedire che questa cadesse interamente in mano belga e francese e impose di affidare Cabinda al Portogallo. Da questo, con l’indipendenza, il territorio passò all’Angola.

[17] Come l’MPLA angolano, nel 1987 anche il Frelimo si converte al liberismo.

[18] Erano gli anni ’60, quando i cinesi erano al contempo contro i russi – e quindi potevano essere contro il governo angolano del MPLA – e contro gli Stati Uniti – e quindi potevano essere contro l’occupazione sudafricana della Namibia.

[19] Si legga ad esempio la descrizione dei massacri dei tutsi in Ruanda ne 1994 in P. Gourevitch, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie, Torino 2000.

[20] Ufficialmente si trattava di un “condominio” anglo-egiziano, che però data l’egemonia britannica sull’Egitto, di fatto si riduceva a protettorato britannico.

[21] Nato cioè all’interno del territorio che solo da poco più di 40 anni costituisce la Costa d’Avorio indipendente. Si ricordi però che nel paese la vita media è ben al di sotto dei 50 anni e quindi la maggior parte della popolazione odierna è nata dopo l’indipendenza.

[22] S. Cessou, in AAVV, L’état du monde 2000, Parigi 1999.

[23] S. Smith, in Libération, 29.11.98

[24] A. Mbembe, in Le Monde Diplomatique, 11.99.

[25] UN Security Council, Final Report of the Panel of Experts on the Illegal Exploitation of Natural Ressourcs and Other Forms of Wealth of DR Congo, 23 ottobre 2003.

[26] Stiglitz J., La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino 2002.

[27] La sua composizione è però essenzialmente tigrina (i tigrini sono 6 milioni su 35 milioni di abitanti) e non è in grado di controllare l’est, l’ovest e il sud del paese.

[28] Ci sarebbe da chiedersi se il crescente attivismo statunitense in Africa non possa rientrare tra le motivazioni che hanno portato ai gravi attentati alle ambasciate statunitensi di Nairobi e Dar es-Salam nel 1998, che sono stati attribuiti all’estremismo islamista internazionale: perché all’interno della lotta ormai dichiarata a livello mondiale tra gli Stati Uniti e l’islamismo estremista, quest’ultimo avrebbe scelto proprio due capitali dell’Africa subsahariana per una delle sue più clamorose azioni?

[29] Gli Stati Uniti sono da sempre il santo protettore del paese, che hanno essi stessi contribuito a creare. La Liberia infatti nasce dopo l’abolizione della schiavitù nel nord degli USA (1840), dal tentativo filantropico e maldestro di reimpiantare in una parte dell’Africa scelta a caso (e abitata da altri popoli) alcune migliaia di schiavi liberati negli USA. I pochi che sopravvivono a un clima e un ambiente che non conoscono costituiranno una élite estranea alla cultura locale, che parla solo inglese e tende a riprodurre in Africa lo schema dell’economia schiavista da cui loro stessi sono stati affrancati.

[30] La Liberia è inoltre base per la CIA e per i servizi militari statunitensi (le basi tecniche militari della marina statunitense in Liberia sono state usate anche per il sostegno all’UNITA angolana e per il tentato colpo di stato in Ghana nel 1983); d’altra parte la Liberia del dittatore Doé era il primo beneficiario al mondo degli aiuti statunitensi in termini di cifra per abitante, aiuti che tutti sapevano finire in profitto personale dell’entourage del presidente, e uno dei primi beneficiari di aiuti militari: intervenendo a sostegno di Doé, gli Stati Uniti difendevano i propri stessi interessi.

[31] G. Prunier, Le Monde Diplomatique, 12/02.

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