Questo articolo è una sintesi dell’ultimo capitolo del libro «La Spoon River dei braccianti», Meltemi, 2023
«Pensando alla vicenda di caporalato scoperchiata dalla procura di Padova ci si aspetta uno scantinato fatiscente e invece ci si trova davanti a una vecchia villetta anni Sessanta nella campagna di Trebaseleghe». Il cronista del “Corriere Veneto” sta seguendo il caso di una grande tipografia accusata di sfruttare manodopera pakistana. Non nasconde il suo stupore. Come tutti, è abituato ad associare “la nuova schiavitù” al degrado dei ghetti meridionali, non certo alle casette del padovano.
Il ghetto, prima che un luogo fisico, è una barriera mentale. una serie di associazioni meccaniche che ci portano a immaginare la questione circoscritta ai campi di pomodoro del Sud, a schiavi e schiavisti con la pelle nera imperlata di sudore, a un mondo arcaico da riportare alla civiltà con una solida attività ispettiva e repressiva.
In realtà il grave sfruttamento non riguarda soltanto l’agricoltura. Ci sono inchieste per caporalato nel food delivery, nei cantieri navali, nella logistica, nella grande distribuzione. Si lavora a cottimo nelle rifiniture dell’automotive di lusso, c’è sfruttamento nella distribuzione del libro e nelle tipografie. Queste vicende riguardano ogni angolo d’Italia: dal Trentino al Veneto, dal triangolo della logistica Milano-Novara- Piacenza fino alle valli del bergamasco. Ed è appena il caso di ricordare Paola Clemente per spiegare che la questione non va affrontata dividendo italiani e stranieri, ma sfruttati e sfruttatori.
Il ghetto, prima che un luogo fisico, è una barriera mentale
Questo non significa che tutte le situazioni siano uguali. Chi vive in un ghetto sperimenta situazioni indegne dell’essere umano. Una condizione costruita attraverso tre negazioni:
- il visto che permetterebbe di arrivare in Europa per vie legali;
- il permesso di soggiorno che garantisce l’accesso ai diritti;
- un salario degno che aprirebbe le porte a un’abitazione normale.
Al contrario, queste negazioni spingono sempre più verso la marginalità. Anche senza arrivare all’estremo di una baraccopoli, la marginalizzazione porta verso abitazioni di periferia, segregazione, nessun contatto con gli italiani al di fuori dei rapporti di lavoro. Così i migranti restano imprigionati dentro un’identità precaria, divisa tra un’origine ormai lontana e un approdo che ancora non si è materializzato.
Tutto questo è perfettamente funzionale alla filiera di un paese dell’Europa del Sud. Abbiamo quindi lavoratori inferiorizzati, razzializzati, separati da una problematica di tipo sindacale e inseriti in un quadro securitario-umanitario, a base di vertici in prefettura, tendopoli militarizzate, interventi della Protezione civile e Ong. Anche i ghetti appaiono funzionali, perché sono condizioni abitative informali e quindi adatte a manodopera ultra-flessibile, che arriva e sparisce giusto il tempo della raccolta. Ecco quindi la brutalità dello sfruttamento selvaggio accanto alla logistica sofisticata della grande distribuzione nazionale e internazionale.
A livello ideologico, non è casuale l’alternanza tra commiserazione (“Poverini, in che condizioni vivono”) e il disprezzo (“Ma non potevano rimanere al proprio paese?”). Un’oscillazione che non coglie il vero problema – il sistema dello sfruttamento – e che fornisce una rappresentazione limitata e stereotipata.
Il complesso rapporto tra l’Italia e il razzismo
A questo va aggiunto il complesso rapporto tra l’Italia e il razzismo. Si parla di razzismo sistemico per indicare una discriminazione permanente, che ha anche un volto istituzionale. Due esempi sono i limiti nell’accesso al permesso di soggiorno e alla cittadinanza italiana.
Il razzismo sistemico è generalmente negato, perché “gli italiani sono brave persone” e ”non sono razziste”. Così, sui giornali e nei talk show, uomini bianchi e ricchi chiudono la questione affermando che il tema riguarda la maleducazione di poche mele marce e che le vittime devono resistere e non curarsene. Oppure si scagliano contro la fantomatica cancel culture e contro la “dittatura del politicamente corretto” per concludere con l’immancabile “ormai non si può dire più niente”. In un paese, peraltro, dove politici di primo piano hanno parlato di spari sui gommoni dei profughi.
Un altro tema fondamentale non è solo l’oggetto di cui si parla ma il soggetto che parla:
“Chi parla di immigrazione (ma più in generale anche di razzismo, cultura, attualità o religioni) è prevalentemente bianco. Le trasmissioni che ospitano discussioni sul tema sono in prevalenza occupate da politici o giornalisti, perlopiù uomini, che trattano di questioni che non li riguardano in prima persona”, scrive Oiza Q. Obasuyi.
Solo per fare qualche esempio, il razzismo sistemico si manifesta attraverso:
- la generalizzazione: “loro sono abituati a vivere in quelle condizioni”, “loro non sono abituati a ribellarsi”;
- la responsabilità collettiva, per cui per esempio se un tunisino spaccia sono chiamati in causa tutti i suoi connazionali;
- l’accettazione di leggi discriminatorie e del diritto speciale: “prima gli italiani”, “se commettono un reato tornano a casa loro”;
- l’ammirazione verso figure come quelle del white savior: esempio tipico, la volontaria bianca che abbraccia il ragazzino nero appena sbarcato;
- l’idea per cui le persone di origine straniera e con la pelle nera non sono e non possono essere italiane.
Le campagne, tuttavia, non sono luoghi isolati dove vivono “schiavi” senza consapevolezza. Basti pensare, tra i tanti esempi, a quello che accade dopo la morte di Gassama Gora, investito in bici lungo le buie strade di Rosarno.
Durante la protesta che ne segue, gli altri braccianti neri innalzano cartelli con scritto “Black lives matters”. Ormai, anche il più sperduto campo di arance del Sud Italia è connesso alle lotte globali.
Ma il razzismo è soprattutto uno strumento di gestione aziendale e sottomissione della forza lavoro. Lo provano le numerose indagini della magistratura sul grave sfruttamento. La condizione di ricattabilità permette alle aziende di risparmiare sui salari. La vulnerabilità – permessi di soggiorno in scadenza, documenti negati – è possibile perché si tratta di “loro”, persone inferiorizzate che devono conquistare i loro diritti giorno dopo giorno.
Le campagne, tuttavia, non sono luoghi isolati dove vivono “schiavi” senza consapevolezza. Basti pensare, tra i tanti esempi, a quello che accade dopo la morte di Gassama Gora, investito in bici lungo le buie strade di Rosarno.
Durante la protesta che ne segue, gli altri braccianti neri innalzano cartelli con scritto “Black lives matters”. Ormai, anche il più sperduto campo di arance del Sud Italia è connesso alle lotte globali.
Il ghetto mentale
Questo articolo è una sintesi dell’ultimo capitolo del libro «La Spoon River dei braccianti», Meltemi, 2023
«Pensando alla vicenda di caporalato scoperchiata dalla procura di Padova ci si aspetta uno scantinato fatiscente e invece ci si trova davanti a una vecchia villetta anni Sessanta nella campagna di Trebaseleghe». Il cronista del “Corriere Veneto” sta seguendo il caso di una grande tipografia accusata di sfruttare manodopera pakistana. Non nasconde il suo stupore. Come tutti, è abituato ad associare “la nuova schiavitù” al degrado dei ghetti meridionali, non certo alle casette del padovano.
Il ghetto, prima che un luogo fisico, è una barriera mentale. una serie di associazioni meccaniche che ci portano a immaginare la questione circoscritta ai campi di pomodoro del Sud, a schiavi e schiavisti con la pelle nera imperlata di sudore, a un mondo arcaico da riportare alla civiltà con una solida attività ispettiva e repressiva.
In realtà il grave sfruttamento non riguarda soltanto l’agricoltura. Ci sono inchieste per caporalato nel food delivery, nei cantieri navali, nella logistica, nella grande distribuzione. Si lavora a cottimo nelle rifiniture dell’automotive di lusso, c’è sfruttamento nella distribuzione del libro e nelle tipografie. Queste vicende riguardano ogni angolo d’Italia: dal Trentino al Veneto, dal triangolo della logistica Milano-Novara- Piacenza fino alle valli del bergamasco. Ed è appena il caso di ricordare Paola Clemente per spiegare che la questione non va affrontata dividendo italiani e stranieri, ma sfruttati e sfruttatori.
Questo non significa che tutte le situazioni siano uguali. Chi vive in un ghetto sperimenta situazioni indegne dell’essere umano. Una condizione costruita attraverso tre negazioni:
Al contrario, queste negazioni spingono sempre più verso la marginalità. Anche senza arrivare all’estremo di una baraccopoli, la marginalizzazione porta verso abitazioni di periferia, segregazione, nessun contatto con gli italiani al di fuori dei rapporti di lavoro. Così i migranti restano imprigionati dentro un’identità precaria, divisa tra un’origine ormai lontana e un approdo che ancora non si è materializzato.
Tutto questo è perfettamente funzionale alla filiera di un paese dell’Europa del Sud. Abbiamo quindi lavoratori inferiorizzati, razzializzati, separati da una problematica di tipo sindacale e inseriti in un quadro securitario-umanitario, a base di vertici in prefettura, tendopoli militarizzate, interventi della Protezione civile e Ong. Anche i ghetti appaiono funzionali, perché sono condizioni abitative informali e quindi adatte a manodopera ultra-flessibile, che arriva e sparisce giusto il tempo della raccolta. Ecco quindi la brutalità dello sfruttamento selvaggio accanto alla logistica sofisticata della grande distribuzione nazionale e internazionale.
A livello ideologico, non è casuale l’alternanza tra commiserazione (“Poverini, in che condizioni vivono”) e il disprezzo (“Ma non potevano rimanere al proprio paese?”). Un’oscillazione che non coglie il vero problema – il sistema dello sfruttamento – e che fornisce una rappresentazione limitata e stereotipata.
Il complesso rapporto tra l’Italia e il razzismo
A questo va aggiunto il complesso rapporto tra l’Italia e il razzismo. Si parla di razzismo sistemico per indicare una discriminazione permanente, che ha anche un volto istituzionale. Due esempi sono i limiti nell’accesso al permesso di soggiorno e alla cittadinanza italiana.
Il razzismo sistemico è generalmente negato, perché “gli italiani sono brave persone” e ”non sono razziste”. Così, sui giornali e nei talk show, uomini bianchi e ricchi chiudono la questione affermando che il tema riguarda la maleducazione di poche mele marce e che le vittime devono resistere e non curarsene. Oppure si scagliano contro la fantomatica cancel culture e contro la “dittatura del politicamente corretto” per concludere con l’immancabile “ormai non si può dire più niente”. In un paese, peraltro, dove politici di primo piano hanno parlato di spari sui gommoni dei profughi.
Un altro tema fondamentale non è solo l’oggetto di cui si parla ma il soggetto che parla:
“Chi parla di immigrazione (ma più in generale anche di razzismo, cultura, attualità o religioni) è prevalentemente bianco. Le trasmissioni che ospitano discussioni sul tema sono in prevalenza occupate da politici o giornalisti, perlopiù uomini, che trattano di questioni che non li riguardano in prima persona”, scrive Oiza Q. Obasuyi.
Solo per fare qualche esempio, il razzismo sistemico si manifesta attraverso:
Le campagne, tuttavia, non sono luoghi isolati dove vivono “schiavi” senza consapevolezza. Basti pensare, tra i tanti esempi, a quello che accade dopo la morte di Gassama Gora, investito in bici lungo le buie strade di Rosarno.
Durante la protesta che ne segue, gli altri braccianti neri innalzano cartelli con scritto “Black lives matters”. Ormai, anche il più sperduto campo di arance del Sud Italia è connesso alle lotte globali.
Ma il razzismo è soprattutto uno strumento di gestione aziendale e sottomissione della forza lavoro. Lo provano le numerose indagini della magistratura sul grave sfruttamento. La condizione di ricattabilità permette alle aziende di risparmiare sui salari. La vulnerabilità – permessi di soggiorno in scadenza, documenti negati – è possibile perché si tratta di “loro”, persone inferiorizzate che devono conquistare i loro diritti giorno dopo giorno.
Le campagne, tuttavia, non sono luoghi isolati dove vivono “schiavi” senza consapevolezza. Basti pensare, tra i tanti esempi, a quello che accade dopo la morte di Gassama Gora, investito in bici lungo le buie strade di Rosarno.
Durante la protesta che ne segue, gli altri braccianti neri innalzano cartelli con scritto “Black lives matters”. Ormai, anche il più sperduto campo di arance del Sud Italia è connesso alle lotte globali.
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