Voi non mi capite. Sono vecchio, non ho vissuto, ho approfittato della vita.
La vita passa come la guerra, devastando tutto. Vivere è combattere.
Guardate un albero che si innalza verso il cielo con il peso della pesantezza,
dovrebbe aggrapparsi alle rocce come un lichene,
ma si innalza sino a centottanta piedi… E una foresta!…
Vi dirò: morire, moriremo tutti, non dormire né sognare.
No, tutto sarà finito, non ci sarà più niente dopo. Se non
abbiamo vissuto combattendo la nostra morte è giusta,
come è giusto che il bue all’ingrasso sia condotto al mattatoio…
Che coraggio è questo? Cosa vuoi dire essere coraggiosi di fronte alla morte
se siamo stati pavidi di fronte alla vita?
Bisogna che la nostra morte sia un’ingiustizia!
Ogni volta che un essere nasce è un mondo intero, con il suo sole,
le sue stelle, i suoi fili d’erba che nasce
e prende a poco a poco la sua tinta particolare, la sua sfumatura personale.
Ogni volta che un essere muore, è un mondo intero,
con il suo sole. le sue stelle e i suoi fili d’erba che scompare per sempre.
La scomparsa di questi mondi è scandalosa,
ma più il mondo è ricco e colorato più lo scandalo è grande.
Allora facciamo uno scandalo enorme e che dio abbia vergogna.
Pierre Schoendoerffer, L’addio al re.
* Questa poesia è stata dedicata dall’amico Ben Majekodunmi, osservatore delle Nazioni Unite in Ruanda, agli amici Graham e Sastra, colleghi della missione dell’Alto Commissario per i diritti umani, barbaramente assassinati, con altri tre colleghi ruandesi in un attentato, nella prefettura di Cyangugu, al confine con lo Zaire, la sera del 4 febbraio 1997.
Indice
Memoria. L’Hotel Rwanda e i luoghi comuni
“L’odore del sangue era dappertutto”
La guerra delle commemorazioni
Burundi, i massacri dimenticati
Analisi sulle guerre nella regione dei Grandi laghi
L’omertà dei governi e le mine italiane
L’export di morte e la ragnatela dei trafficanti
I mercanti e i loro protettori
Dopo il 6 aprile 1994 la Francia sceglie il campo del genocidio
La Francia ha ricevuto, ospitato o protetto i maggiori responsabili del genocidio
Lettera dal Ruanda. Storie del male e di speranza
I processi e la trappola per topi
Scheda 1 – Il Ruanda dopo la guerra
Scheda 2 – Cronologia essenziale
Scheda 3 – Gli effetti della guerra sui bambini ruandesi
Scheda 4 – ‘Never Again’. Voices from Rwanda Forum
Scheda 5 – Suggerimenti bibliografici
Memoria. L’Hotel Rwanda e i luoghi comuni
Antonello Mangano – Novembre 2005
Un milione di morti in cento giorni, e il mondo non ne ha saputo nulla. La tragedia del Ruanda può essere condensata in questa frase, ma questa sola frase non basta.
Perché non racconta nulla del progetto coloniale coniato dai belgi, che inventarono una “razza superiore”, scegliendo coloro che più somigliavano a loro stessi (quelli più alti, meno scuri, col naso più sottile).
Decenni dopo i ruandesi hanno preso terribilmente sul serio questa distinzione, al punto da arrivare a uccidersi a colpi di machete, ad esigere lo sterminio totale del nemico, ad ingaggiare una guerra permanente fratricida che coinvolge i paesi vicini – il Congo, l’Uganda, il Burundi – e che ancora oggi appare senza uscita.
Dal 1962 in poi, anno dell’indipendenza dal Belgio, la Francia e la Chiesa cattolica hanno giocato col fuoco, aizzando ed appoggiando prima gli uni e poi gli altri in base alle loro esigenze di potere (prima il sostegno ai tutsi, revocato dopo la svolta terzomondista del governo locale).
Il primo esperimento di “pulizia etnica” risale addirittura al 1959, quando un ultimo tentativo dei belgi portò ad un sostegno del potere hutu.
Il risultato furono 300.000 profughi tutsi ricacciati oltre le frontiere. Da allora fino ai nostri giorni tutta la politica dell’area è stata condizionata dallo scontro tra le organizzazioni armate dei profughi e le milizie hutu interne.
L’intervento dell’FPR – l’armata dei tutsi – e l’invasione del Paese mise fine al genocidio. I governi in carica sono stati espressione ora degli uni ora degli altri. Una storia che viene da lontano, un equilibrio del terrore che – ancora oggi – non sembra avviato verso alcuna soluzione.
Cosa è accaduto dopo il genocidio? Almeno due fatti paradossali. Il primo è che le commemorazioni – ed in particolare il decennale – hanno avuto più attenzione dalla stampa, dall’editoria, dal cinema e persino dagli uomini politici di mezzo mondo rispetto al genocidio stesso, quando un po’ tutti trovarono più comodo voltarsi dall’altra parte.
La Somalia era ancora un ricordo vicino, ed un intervento in Ruanda non avrebbe portato neanche un voto in più ad alcun presidente.
Il secondo paradosso è ancora più grave. Per ogni anniversario, a margine delle commemorazioni, accanto ai discorsi ufficiali immancabilmente conclusi col più solenne dei “mai più”, vicino agli impegni per la pace, il sangue continuava a scorrere.
Non come nell’anno del genocidio, ma comunque la guerra non è mai finita, anzi si è estesa nei paesi vicini.
La tensione, ancora oggi, è altissima. In più, la stessa memoria della tragedia è diventata un’arma in mano alle fazioni.
Non pochi parlano di vendetta (magari chiamandola giustizia), ed altri minacciano di “portare a termine il lavoro”, cioè continuare ad uccidere i tutsi scampati alla mattanza del ’94.
Il Ruanda è un paese di circa 7 milioni di persone. Non c’è ancora accordo sul numero dei morti, ma la forbice va da 800mila fino al milione e mezzo. Comunque un’immensa tragedia che ancora segna il paese.
Troppe vedove ed orfani, troppi vicini di casa trasformati in macchine della morte. Troppo odio. Ma non solo.
Il ricordo del genocidio è diventato di fatto uno strumento della guerra politica tra le fazioni, un mezzo in più per rinverdire rancori e creare nuove forme di dominio.
“L’odore del sangue era dappertutto”
“Nel 1959 e nel 1972 uccidevano gli uomini, ma raramente le donne e i bambini. Nel 1959 ero già stata costretta a fuggire. Bruciavano le case, ma non uccidevano così tanto come quattro anni fa (all’epoca del genocidio dell’aprile 1994).
Questa volta è stato completamente diverso. Uccidevano anche vecchi e bambini. Uccidevano tutti i tutsi. Io ho avuto fortuna: quando sono arrivati ci siamo rifugiati in chiesa. Sono venuti a cercarci, e allora ci siamo sparpagliati nella foresta e ci siamo persi di vista. Sono riuscita ad arrivare in Burundi. Diciotto persone della mia famiglia sono morte qui…
Mio marito e tutti i miei figli, tranne la più grande. Non so dove siano sepolti. All’epoca si gettavano i corpi nelle fosse comuni, e ce n’erano tante. Qualche volta vado ancora a pregare.
Chiedo al buon Dio di farmi morire. Sono vecchia. Cosa mi aspetta ora? Chi per aiutarmi mi porta da mangiare non ha più la forza di farlo. Conto su Dio” (La testimonianza di Languide, 87 anni, è tratta dal libro Femmes du Rwanda, di Jean-Luis Quéméner ed Eric Bouvet, Edizioni Catleya, Parigi,1999).
In Ruanda, i superstiti del genocidio del 1994 non riescono a far sentire la propria voce. Sentono di disturbare un potere isolato, concentrato sulla guerra in Congo, e una società povera che cerca di ricostruirsi.
Il collettivo Ibuka (Ricordati), che riunisce le associazioni di difesa dei superstiti, non è mai riuscito a raggiungere un accordo col governo su una data commemorativa. Le tentazioni revisioniste persistono. Il coinvolgimento, non provato, del Fronte patriottico ruandese nell’attentato del 6 aprile 1994, che è all’origine della tragedia, è l’occasione, per gli autori del genocidio, di tentare di sminuire le proprie responsabilità (Claudine Vidal, “Refuser la tentation révisionniste”, Libération, 2 novembre 2000).
I sopravvissuti lamentano anche la lentezza delle condanne e degli indennizzi. Per accelerare il processo di circa 120mila prigionieri, il governo ha riattivato antiche strutture di giustizia tradizionale (i tribunali gacaca): in 10.600 circoscrizioni amministrative, i maggiorenti locali eleggono dei giudici tra i personaggi noti per la loro “integrità morale”.
I crimini più gravi (detti di prima categoria) restano affidati alla giustizia classica. Le confessioni sono incoraggiate con riduzioni di pena, puntando alla ricostruzione del tessuto sociale (“Come dimenticare che hanno sterminato la mia famiglia?” – Le Monde diplomatique – Aprile 2001).
“Ogni uomo, ogni donna, in Ruanda, è una piccola isola poggiata sul vuoto” spiega un personaggio del dramma Corps et voix, paroles rhizomes presentato per la prima volta a Kigali il 28 maggio 2000 (Dramma in 10 quadri di Koulsy Lamko, scritto a partire da estratti di libri sul genocidio ruandese. Presentato al festival Fest’Africa a Lille a partire dall’8 novembre 2000. Nel quadro della manifestazione “Écrire par devoir de mémoire”, organizzata da Fest’Africa, 80 intellettuali africani si sono incontrati a Kigali dal 27 maggio al 5 giugno 2000 e hanno scritto sul genocidio, www.nordnet.fr/ festafrica.
Si veda anche Méfiez-vous de la pierre à barbe, dramma di Ahmed Madani, dal 6 al 30 luglio 2000 a Avignone).
“I cadaveri ricoprivano le strade, si sentiva odore di sangue ovunque, si spingeva una porta e centinaia di corpi ti cadevano addosso”, racconta Alphonse, un medico ruandese esiliato in Francia e rientrato a Kigali due mesi dopo gli avvenimenti (Anne-Cécile Robert, Il Ruanda fra memoria e giustizia, Le Monde diplomatique – Luglio 2000).
Francofoni contro anglofoni
Una suggestiva ipotesi vuole la guerra tra hutu e tutsi come uno scontro tra francofoni ed anglofobi, dunque una sorta di proiezione di uno scontro nato in Occidente e su cui le popolazioni locali si sono tragicamente immedesimate.
La storia, dicevamo, inizia nel 1959 con la prima fuga dei tutsi oltre frontiera.
Fin dall’entrata in guerra nell’ottobre 1990 del Fronte patriottico ruandese – FPR, l’organizzazione politico-militare che si batte per il rientro degli esiliati e i cui esponenti, rifugiati in Uganda, si esprimono in inglese – ogni sua affermazione si era tradotta in un massacro di tutsi.
Nell’agosto 1993 furono firmati ad Arusha, in Tanzania, gli accordi di pace che prevedevano la creazione di un governo di transizione nel quale accanto all’opposizione politica vi fosse una rappresentanza dell’Fpr, con una forza di pace dell’Onu come garante.
Tuttavia, i segnali preoccupanti non mancavano: nel luglio 1993, i “duri” del regime si erano tassati per lanciare la Radio-televisione delle Mille Colline, che screditava gli accordi di pace, diffondeva una propaganda piena di odio nei confronti dell’Fpr, dell’insieme dei tutsi e del contingente belga, accusato di parzialità a favore dell’Fpr.
Già dal febbraio 1993, decine di migliaia di giovani hutu furono reclutati e, in campi che si vedevano dalla strada, si allenavano al maneggio delle armi da fuoco e del machete. Come potevano i servizi di cooperazione militare belgi e francesi, che pure informavano i propri governi circa il minimo movimento di truppe, ignorare questa mobilitazione?
“Nello stesso periodo, i crediti concessi dalla Banca mondiale erano dirottati per acquistare armi da fuoco e machete. Grazie a fondi garantiti dal Crédit Lyonnais, la principale banca francese, l’Egitto aveva fatto varie consegne di armi e di munizioni. Nell’ottobre 1993 l’uccisione, nel Burundi, a opera di militari tutsi, di Melchio Ndadaye, un presidente hutu legittimamente eletto, contribuì ad acuire le tensioni nel Ruanda” (Colette Braeckman, Ruanda, la volontaria cecità della comunità internazionale, Le Monde diplomatique – Marzo 2004).
Nel gennaio 1994, i sospetti diventarono certezze quando un informatore confermò alla Minuar che i tutsi erano stati tutti debitamente registrati.
Egli descrisse l’allenamento degli Interhahawe (coloro che combattono/uccidono assieme), la creazione di depositi d’armi e di munizioni e fornì le prove di quanto asseriva guidando i Caschi blu in un seminterrato, nella sede del partito presidenziale, trasformato in nascondiglio di armi. Inoltre ricordò le minacce che pesavano sui Caschi blu belgi.
Ma il telegramma in codice che il generale Dallaire – militare dell’Onu, testimone diretto ed autore di un diario sui giorni del genocidio – inviò a New York il 15 gennaio, chiedendo il permesso di smantellare i nascondigli di armi, non ebbe la risposta che si aspettava: il dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace, diretto a quel tempo da Kofi Annan, vietò ogni intervento (Romeo Dallaire, J’ai serré la main du Diable, la faillite de l’humanité au Ruanda, La Libre Expression, Montréal, 2003).
Gli ambasciatori occidentali si accontentarono di parlarne al presidente Juvénal Habyarimana il quale, pur negando la realtà dei fatti… fece distribuire armi in ogni comune del paese.
Nonostante gli avvertimenti espressi in febbraio a Kigali dal ministro belga degli esteri Willy Claes, nonostante l’uccisione di Félicien Gatabazi, ministro dei lavori pubblici e dirigente del partito social-democratico, nonostante le lettere inviate al generale Dallaire da diversi ufficiali superiori che denunciavano un “piano machiavellico”, nonostante il moltiplicarsi di attentati e l’aumento quasi percettibile della violenza, nulla cambiò.
Il mandato della Minuar non fu modificato e il Consiglio di sicurezza si limitò, il 17 febbraio, a esprimere le sue “preoccupazioni”.
Il 6 aprile 1994, l’attentato contro l’aereo del presidente Habyarimana (i cui autori e committenti non sono mai stati identificati…) segnò l’inizio del genocidio.
Una campagna di uccisioni che prendevano a bersaglio personalità hutu moderate e semplici cittadini tutsi – un’operazione pianificata da mesi e rigorosamente portata a termine – fu presentata come “l’espressione dell’ira popolare” in seguito alla morte del capo di stato.
In quel momento, le forze Onu erano sparpagliate nel paese, senza munizioni né uomini e nella mattinata del 7 aprile, quando il generale Dallaire e il suo vice Luc Marchal seppero che dieci caschi blu belgi incaricati di proteggere il primo ministro erano in difficoltà a Kigali, non si parlò nemmeno di venire loro in aiuto. Mentre i cadaveri si ammucchiavano nei camion della nettezza urbana, e mentre le squadre di killer invadevano la città e il generale Dallaire chiedeva rinforzi, ci si preoccupò soprattutto di evacuare gli espatriati.
I francesi mandarono 450 uomini, i belgi 450 paracadutisti e altri 500 in Kenya, e 80 italiani si unirono a questa operazione, mentre 250 rangers americani si trovavano in Burundi.
Se si fossero unite alle forze della Minuar, è probabile che queste truppe occidentali sarebbero state in grado di arginare i massacri a Kigali, di mettere a tacere la radio estremista e di imporre un cessate-il-fuoco.
Ma, su ordine dei loro governi, queste forze si limitarono a compiere una missione di evacuazione dei cittadini stranieri, abbandonando i civili tutsi, comprese le coppie miste, il personale delle ambasciate, tra cui quello del centro culturale francese, e decine di tutsi che si erano messi sotto la protezione Onu.
Quanto ai Caschi blu, furono anch’essi abbandonati alla loro impotenza. Su ordine del presidente Mitterrand, i francesi si preoccuparono tuttavia di far evacuare la vedova del presidente Habyarimana, che apparteneva al clan dei “duri”, e a mettere al riparo alcune personalità del regime.
Il 12 aprile, il ministro Willy Claes, traumatizzato dall’uccisione dei dieci caschi blu, annunciò al segretario generale dell’Onu Boutros Boutros-Ghali, che il contingente belga della Minuar sarebbe stato ritirato e avviò un’azione diplomatica per tentare di persuadere gli altri paesi di fare altrettanto.
Nello stesso momento, il rappresentante del Ruanda, legato agli estremisti, sedeva al Consiglio di sicurezza come membro non permanente; alcuni rappresentanti del suo governo venivano ufficialmente ricevuti a Parigi e la Francia, via Goma nel Nord Kivu, continuava a consegnare armi.
In quanto agli americani e ai britannici, essi si opposero costantemente al rinforzo delle forze della Minuar, come se l’unica urgenza fosse di non far nulla. Del resto, la segretaria di stato americana, Madeleine Albright, ebbe cura di vietare l’uso del termine “genocidio”, che implica l’obbligo d’intervento e, alla fine di aprile, Boutros-Ghali parlava ancora di “guerra civile”.
Il 21 aprile, la risoluzione 912 del Consiglio di sicurezza optò per una riduzione della forza Onu in Ruanda, portandola a meno di 500 Caschi blu. Senza cibo, senza munizioni né veicoli, e persino senza acqua potabile, questi erano nell’impossibilità di soccorrere i civili che reclamavano protezione o assistenza, anche se riuscirono a condurre con coraggio numerose operazioni di evacuazione.
Quando la stampa prese a interessarsi al Ruanda, fu per filmare, dall’Uganda, i corpi che andavano alla deriva sul lago Victoria o per seguire l’esodo massiccio di hutu che, compiuti i loro crimini, fuggivano verso la Tanzania per sottrarsi alle rappresaglie.
L’Operazione Turchese
Molto prima, Philippe Gaillard, a nome del Comitato internazionale della Croce Rossa, e Médecins sans frontières il cui personale era stato massacrato a Butare insieme ai ricoverati, infine lo stesso generale Dallaire, avevano moltiplicato le testimonianze sconvolgenti e le richieste di aiuto.
Si dovette aspettare l’11 e il 12 maggio perché il Commissario Onu ai diritti umani, José Ayala Lasso, giunto sul posto, pronunciasse finalmente la parola “genocidio”.
In quel momento, quasi tutta la stampa parlava ancora di “massacri interetnici” e di “lotte tribali”. Mentre i massacri erano ordinati e organizzati dal governo interinale insediato alla morte di Habyarimana, il Ruanda veniva descritto come uno “stato fallimentare”, in preda a una specie di barbara anomia. Quasi si dovesse a tutti costi trasporre lo stereotipo somaliano in questo paese molto gerarchizzato, in cui i cittadini sono abituati a ubbidire agli ordini dall’alto…
Solo in giugno la tragedia riesce a commuovere l’opinione pubblica.
Nonostante l’opposizione americana, il Consiglio di sicurezza vota per una Minuar 2 rafforzata, ma l’Onu non trova né uomini né danaro per mettere in piedi questa missione. Gli Stati uniti, richiesti di fornire veicoli e blindati, esigevano pagamenti anticipati…
In quanto all’Fpr, esso proseguiva lentamente ma con sicurezza in direzione di Kigali, accerchiando a tenaglia i suoi avversari e le loro vittime, e riteneva ormai inutile un intervento straniero.
Non solo perché la maggior parte dei tutsi erano ormai morti ma soprattutto perché non intendeva lasciarsi rubare la vittoria. A quel punto fu la Francia a prendere l’iniziativa: il 22 giugno ottenne dal Consiglio di sicurezza l’autorizzazione a lanciare una operazione a norma del capitolo 7, che autorizza il ricorso alla forza.
Anche se era troppo tardi per salvare le centinaia di migliaia di civili scomparsi durante le prime settimane del genocidio, e se soltanto da 10.000 a 15.000 persone poterono essere raggruppate nei campi di Nyarushishi e di Bisesero, si poteva ancora tentare di salvare la faccia del governo interinale.
Quest’ultimo accolse i francesi con entusiasmo, nella speranza che l’operazione “Turquoise” bloccasse i progressi dell’Fpr e imponesse un negoziato sulla base di una suddivisione del territorio.
Ma la rapida avanzata delle truppe dell’Fpr e, alla fine, l’emozione dell’opinione pubblica riuscirono a dividere il governo francese. Contro i militari che volevano “rompere la schiena dell’Fpr” e non nascondevano la loro solidarietà con i loro ex-fratelli d’arma hutu, “francofoni” da loro stessi formati e attrezzati, il primo ministro Balladur decise di arginare le ambizioni dei militari dell’operazione “Turquoise”.
Questi, costretti a contattare l’Fpr, dovettero accontentarsi di istituire nell’ovest del paese una “zona umanitaria sicura” verso la quale conversero tutti i gruppi estremisti nonché il governo interinale, raccogliendo così milioni di civili hutu.
In questa zona i francesi non riuscirono a impedire numerosi massacri, ma si rifiutarono di disarmare militari e miliziani, si guardarono dall’arrestare i responsabili del genocidio che in seguito si sarebbero rifugiati nello Zaire, e non vietarono le trasmissioni cariche di odio della radio delle Mille Colline.
I francesi che avevano portato elicotteri da combattimento, aerei Jaguar e Mirage, un centinaio di blindati e di mortai, ma un numero insufficiente di automezzi e medicine, si ritrovarono impotenti di fronte all’epidemia di colera che si scatenò a Goma e uccise oltre 40.000 profughi hutu.
Fu allora che, richiamata sul posto dalla presenza francese e dalle comunicazioni rese più facili, finalmente sensibilizzata alla tragedia ruandese, arrivò la stampa e arrivarono le forze umanitarie. Il nuovo potere si insediò in un vero e proprio deserto: i quadri dello stato erano in fuga, portando con sé documenti ufficiali, veicoli e conti bancari. Trecentomila orfani girovagavano nel paese. Ma la comunità internazionale non volle intervenire né aiutare l’Fpr. Alcuni denunciavano il “duplice genocidio” altri esigevano dal regime che desse “garanzie di riconciliazione”, mentre i cadaveri giacevano ancora nei fossi.
In realtà, nonostante le sue buone relazioni con gli Stati uniti e il Regno unito, l’Fpr scontava il fatto di aver conquistato il potere in un paese francofono, senza aver avuto il consenso delle ex-potenze coloniali.
La presenza nei campi del Kivu di oltre due milioni di profughi hutu, inquadrati dagli autori del genocidio e nutriti con gli aiuti umanitari, avrebbe destabilizzato la regione a lungo. Nell’ottobre 1996, dopo aver inutilmente chiesto all’Alto commissariato per i profughi (Hcr) e alle altre agenzie Onu di allontanare dal confine del suo paese la minaccia rappresentata dai campi, Paul Kagame, il futuro dirigente del Ruanda, che era alla testa del Fpr, lanciava una offensiva volta a costringere i profughi ruandesi al rientro e a disperdere gli altri nell’immenso Zaire (che sarebbe poi diventato Repubblica democratica del Congo).
Impotente nel prevenire un genocidio pianificato e annunciato, la comunità internazionale assisteva a un nuovo episodio della tragedia: dopo sette mesi, il maresciallo Josef Désiré Mobutu, sostenuto fino in fondo dai francesi, veniva rovesciato da Laurent Désiré Kabila e dai suoi alleati ruandesi e ugandesi. Fino a quando, nel 1998, scoppiò una nuova guerra, mentre i ruandesi erano ancora alla ricerca degli Interhahamwe in fuga, e saccheggiavano, assieme con i loro alleati ugandesi, le risorse del Congo. Al milione di morti del genocidio sarebbero seguiti oltre tre milioni di vittime congolesi, anch’esse dimenticate, prese nella trappola della guerra, del saccheggio delle risorse naturali e di una lotta d’influenza sorda tra francofoni e anglofoni per il controllo del cuore dell’Africa.
La guerra delle commemorazioni
Il 7 di aprile di ogni anno, il Ruanda commemora il genocidio di circa un milione di tutsi e di hutu dell’opposizione, compiuto da aprile a luglio 1994.
Eppure, prima di diventare oggetto di memoria, questo genocidio è stato contestato.
Un diniego volto a mettere in causa la legittimità del nuovo potere ruandese: una coalizione di membri del Fronte patriotico ruandese e di esponenti dei partiti che si erano opposti alla “soluzione finale”.
Un anno dopo gli avvenimenti, si parlava ancora di “duplice genocidio”. In questo contesto di incomprensione, il primo anniversario è stato ricordato in un clima confuso, al punto che la scelta della data ha dato luogo a un dibattito burrascoso: il 6 aprile, data di inizio dei crimini, ma anche della morte del presidente Juvénal Habyarimana, oppure il 4 luglio, data ufficiale della fine del genocidio grazie all’intervento armato dell’Fpr?
Dietro questo dibattito, la posta in gioco era in realtà della massima importanza: si dovevano o meno associare le vittime tutsi e hutu nello stesso ricordo? La scelta del 7 aprile includeva il ricordo di queste ultime.
In seguito, le dissonanze semantiche hanno svelato un vero conflitto di memoria. Parlando del genocidio, il capo dello Stato usava di preferenza due termini: ishyano (o, al plurale, amahano) e itsembatsemba.
Il primo allude soltanto a una vaghissima idea di disgrazia, mentre il secondo non è altro che una onomatopea a partire dal verbo gutsemba, che significa sterminare, sradicare.
Nei suoi discorsi egli evocava quindi lo sterminio, ma senza precisare l’oggetto del genocidio, tranne che in lunghe perifrasi. C’è voluta la prima conferenza internazionale sul genocidio, nel novembre 1995 a Kigali, per dissipare gli equivoci e per mostrare ai ruandesi che il mondo intero riconosceva infine la tragedia subita.
Una vera e propria “politica” del ricordo si è delineata a partire dal 1996. Questa seconda commemorazione si è svolta a Muhororo, nella regione nativa del nuovo capo dello Stato, roccaforte dell’estremismo hutu, dove si sono avuti massacri spietati.
Il presidente Bizimungu ha tenuto un discorso di circostanza, richiamando le cause della tragedia: si è trattato infatti di una interpretazione ufficiale della storia, che metteva l’accento sulle responsabilità della comunità internazionale (la colonizzazione, il sostegno dato al regime responsabile del genocidio, l’evacuazione della forza di interposizione delle Nazioni unite nel corso dei massacri).
Rivolgendosi a un piccolo raggruppamento di contadini che da lontano seguivano la cerimonia, senza capirne granché, egli ha fustigato in blocco gli hutu: “Con le vostre azioni, con la vostra crudeltà, avete dimostrato che noi tutti, hutu, siamo degli animali!”
Il 7 aprile 1997, per la terza commemorazione, si è scelto il sito di Murambi, sede di un immenso ossario. Il comune si trova nella prefettura di Gikongoro, nella ex area che ha accolto l’operazione “Turquoise”, nel sud del paese, dove l’esercito francese si era “interposto” tra i responsabili del genocidio e le loro vittime.
Il presidente Bizimungo (noto per la sua totale mancanza di sfumature) racconta la storia di un elefante che se la prende con una formica, contando soltanto sul suo peso per schiacciare la bestiolina. Ma la conclusione della battaglia è ben diversa: “Dove si trova oggi l’elefante? La formica è ancora qui!”, conclude il capo dello stato.
L’elefante in questione era la Francia e la formica il Ruanda.
Il testimone accusò formalmente i militari francesi di aver coperto i massacri e di avere poi cercato di dissimulare il carnaio di Murambi costruendovi un campo di pallavolo.
Il secondo momento forte della cerimonia è stata la requisitoria del presidente Bizimungu, alla presenza dell’interessato, contro il vescovo di Gikongoro, Monsignor Augustin Misago, accusato di genocidio e di essere fuggito con l’esercito francese.
Alcuni, in Francia soprattutto, interpretano il fatto di mettere in causa gli interventi stranieri semplicemente come un ricatto nei confronti della comunità internazionale e una manipolazione politica destinata a rafforzare il gruppo al potere.
Nel 1996, le parole del presidente Bizimungu si iscrivono nel contesto molto complesso dell’immediato dopo-genocidio. Il dolore dei sopravvissuti, le paure e i rancori sono ancora molto vivi, al punto che nessuno osa avventurarsi nelle campagne ruandesi.
E, fuori dal paese, in particolare nei campi di profughi della parte orientale dell’attuale Repubblica democratica del Congo (all’epoca lo Zaire), le ex forze armate ruandesi e le milizie ricostituite minacciano di riconquistare il potere e di “portare a termine il lavoro”.
Il “cattivo governo”
È probabile che il discorso minaccioso del capo dello stato fosse un avvertimento contro ogni tentazione di alleanza con le reti estremiste sospettate di avere ramificazioni nel paese.
Il linguaggio “energico” del 1997 si iscrive invece in un contesto di tensioni piuttosto forti tra il Ruanda e la Francia.
I ruandesi sospettano Parigi di continuare ad aiutare gli estremisti del vecchio regime rifugiati nello Zaire, e cominciano a preparare l’opinione internazionale all’invasione del gigante dei Grandi Laghi (Colette Braeckman, Le Soir, 7 e 9 aprile 1997).
D’altra parte, man mano che si precisa la rimessa in causa della Chiesa cattolica – complicità con il vecchio regime, partecipazione di alcuni dei suoi membri al genocidio – le relazioni tra il governo ruandese e il Vaticano si deteriorano.
Sebbene l’attuale capo di stato ruandese, Kagame, si discosti notevolmente dai suoi predecessori per la personalità e lo stile, il discorso si rivolge ancora sia alla comunità internazionale che all’opinione pubblica interna, in un tono certo pacato ma sempre fermo.
Ad esempio, in occasione della cerimonia commemorativa dell’aprile 2003, il presidente ironizzò sul “mai più tutto questo” ostentato dalla comunità internazionale dopo la Shoah, per ricordare che il popolo ruandese era stato abbandonato nel 1994 (Philippe Leymarie, “La fine delle ‘riserve di caccia’ francesi”, Le Monde diplomatique, dicembre 1998).
Alla fine di agosto, Kagame è stato riconfermato alla presidenza come previsto, con il 95% dei voti dopo che il suo principale avversario era stato eliminato per propaganda etnica.
Per quanto riguarda il genocidio, complessivamente i superstiti e il governo ruandese sentono che l’opinione pubblica internazionale ha riconosciuto questa tragedia.
Il perdono chiesto dal primo ministro belga Guy Verhofstadt durante la commemorazione dell’anno 2000 è stato clamoroso. Tra i paesi coinvolti nella storia del genocidio, soltanto la Francia esprime un certo riserbo.
Il ricordare con forza le responsabilità internazionali sembra abbia per finalità ultima quella di affermare la sovranità nazionale. Come a voler dire: “Dopo quanto è successo, e visto il modo in cui vi siete comportati, non avete lezioni di morale da darci” (José Kagabo, L’impegno a ricordare, la volontà di capire, Le Monde diplomatique – Marzo 2004).
Le donne del Ruanda
Carole, una giovane attrice, racconta che, sei mesi dopo i massacri, la popolazione si è messa a ricostruire freneticamente: “La gente lavorava sedici ore al giorno. Occorreva rimettere in piedi le amministrazioni, pulire le strade, curare i sopravvissuti”. Una impressionante energia vitale si sprigiona da questo paese in cui, ancora oggi, si scoprono fosse comuni, per caso o quando uno dei 120.000 prigionieri segnala i luoghi alle autorità.
Questo attivismo cerca probabilmente di mascherare il baratro ancora spalancato della sofferenza, del non detto e del risentimento.
Le associazioni si sono ricostituite in tutti i settori. Ci sono naturalmente le associazioni delle vittime, in particolare quelle delle vedove. Sono sorti moltissimi raggruppamenti: associazioni per i diritti della donna, per la tutela dell’infanzia o dell’ambiente, per lo sviluppo agro-pastorale; cooperative di credito e di risparmio, di reciproco aiuto, per la salute, per lo sport. Si preoccupano anzitutto di sopravvivere trovando dei fondi.
I gruppi di donne sono particolarmente dinamici: donne che hanno sofferto come madri, costrette ad assistere alla tortura dei loro figli, come spose, i cui mariti sono stati massacrati, come esseri umani violentati.
Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Tpir), insediato ad Arusha (Tanzania) è del resto la prima giurisdizione al mondo ad aver preso in considerazione lo stupro come atto di genocidio.
I militari stupravano nell’intento di distruggere i tutsi. Certi agivano pur sapendo di esser portatori del virus dell’Aids. Talvolta stupravano fino alla morte. Le donne sopravvissute si sono raggruppate: si aiutano a vicenda, organizzano ristoranti associativi, imparano a costruire da sé le loro case perché spesso sono sole.
Presidente dell’associazione Ibuka (“Ricordati”), Frédéric Mutagwera parla della “assoluta necessità di ricordare”. Il suo obiettivo è di aiutare le vittime, evitare che si riproduca una tragedia simile e lottare contro quanti, nella diaspora, negano il genocidio. Questo avvocato sulla quarantina ricorda la “tentazione psicologica”, che può colpire le menti meglio intenzionate, di cancellare un avvenimento tanto più insopportabile in quanto è stato pianificato e organizzato.
Egli denuncia anche la “tentazione politica” di una riconciliazione apparente attraverso il silenzio.
La popolazione ruandese conta numerosi rimpatriati venuti dall’Uganda con il Fronte patriottico nel 1994 o tornati poco dopo, provenienti da ogni parte. Le associazioni di sopravvissuti esercitano una pressione costante per ricordare il dramma, anche nei confronti di una comunità internazionale cui rimproverano di averle abbandonate.
L’immagine della Missione delle Nazioni unite per il Ruanda (Unmir) che abbandona gli edifici della scuola tecnica di Kigali consegnando così ai nemici 2.000 persone poste sotto la sua protezione, resta impressa nella memoria (Françopis-Xavier Vershave, “Connivences françaises au Ruanda”, Le Monde diplomatique, marzo 1995, e Monique Bernier, La Honte, ed. Les Éperonniers, Bruxelles, 2000.).
Il Comitato dei siti del genocidio ha per incarico di preservare i luoghi più rappresentativi: la chiesa di Nyamata, a un’ora di strada da Kigali, è rimasta tale e quale: muri crivellati di pallottole, macchie di sangue sul pavimento, vetri infranti. Oggi la messa si celebra all’aria aperta e canti e danze risuonano vicino al santuario ogni domenica pomeriggio.
Due ossari sono stati scavati nel cortile della chiesa. I luoghi in cui sistemare gli ossari preoccupano i ruandesi, che esitano fra la necessità del ricordo e quella di rispettare i morti dando loro sepoltura. La sepoltura infatti è necessaria al lutto (Véronique Tadjo, L’Ombre d’Imana. Voyage jusqu’au bout du Rwanda, Actes Sud, Arles, 2000.).
“Quanto durerà tutto ciò?” chiede un visitatore congolese.
“Per l’eternità” risponde Louis Kanimugire, responsabile dei siti, all’uomo sbalordito.
Vicino a Butare, nel sud-ovest del paese, il sito di Murambi è il più terrificante (Boubacar Boris Diop, Murambi, le livre des ossements, Stock, Parigi, 2000).
Quarantacinquemila persone, uomini, donne e bambini si erano rifugiate in questa scuola in costruzione. Le milizie Interahamwe circondarono l’edificio, poi tagliarono l’acqua e cominciarono ad affamare gli occupanti.
Quando questi erano ormai ridotti allo stremo, diedero l’assalto con mitragliette e machete. Sulla collina battuta dal vento, non tutte le fosse comuni sono state finora ritrovate.
Ma una di esse, riesumata nel 1998, ha conservato nel suolo argilloso i corpi delle vittime. I responsabili del sito hanno deciso di esporre i cadaveri “affinché il mondo sappia che tutto ciò è davvero accaduto e che abbiamo sofferto”. Depositati su tavole di legno, nelle aule prive di finestre, i corpi continuano a decomporsi, sprigionando un odore insopportabile.
Questa esposizione, quasi barbara, si può capire soltanto nel contesto della violenza sfrenata del 1994 e, in qualche modo, fa parte del genocidio.
“Un giorno, li seppelliremo, ma non è ancora giunto il momento” dice Louis Kanimugire.
Con la sua brutalità, il suo carattere fratricida e massiccio, il genocidio ha disintegrato la società ruandese e spazzato via il sentimento nazionale. Che fare, in queste condizioni, perché non uccida anche chi è sopravvissuto? Come intervenire affinché la vita riprenda senza nulla cancellare?
Come far convivere vittime e aguzzini, quando questi sono dei vicini, dei parenti, che hanno dato prova di incredibile ingegnosità nel perpetrare le atrocità? Sfida impossibile da accettare?
“Eppure, se non ci si parla, con chi parleremo?” si chiede con tristezza Alphonse, la cui famiglia è stata decimata.
Una delle specificità del genocidio dei tutsi e del massacro degli hutu moderati è che si tratta di un genocidio di prossimità.
Dice Yolande Mukagasana, sopravvissuta: “Qui non c’è differenza fra l’aguzzino e la vittima, come in Sudafrica. Noi vivevamo insieme. Eravamo amici” (Yolande Mukagasana, La mort ne veut pas de moi, Fixot, Parigi, 1998 e N’aie pas peur de savoir, Robert Laffont, Parigi, 2000).
È la ragione per cui Servilien Sebasoni, docente di storia all’università nazionale del Ruanda (Unr) ritiene che “non abbiamo altra scelta che vivere insieme”.
Le altre vie sono dei vicoli chiusi: lo sterminio è fallito e la separazione è impossibile perché significherebbe di nuovo l’esilio.
Occorre ricostruire l’unità della nazione ruandese che la colonizzazione e l’ideologia etnicista dei Padri bianchi hanno infranto” (Jean-Marie Vianney Rurangwa, Le Génocide des Tutsis expliqué à un étranger, ed. Le Figuier, Bamako e Fest’Africa édition, Lille, 2000).
Durante le preghiere domenicali, si tenta una “azione di asepsi collettiva” degli avvenimenti attraverso la comunicazione. Il dialogo è l’unico strumento che consenta di tessere di nuovo il legame sociale, di ricostruire il “voler vivere” insieme.
Simon Gasiberege, professore di psicologia all’Unr, organizza sulle colline incontri fra aguzzini e vittime per permettere a ciascuno di esprimere la propria sofferenza.
Un’impresa di lungo respiro. Gli hutu sono stigmatizzati sebbene quelli che difendevano un Ruanda unito siano stati fra le prime vittime.
Dal tempo della guerra, sono i soldati del Fronte patriottico ruandese a vigilare sulla popolazione. È in via di formazione una nuova polizia, nella quale convergeranno le vecchie strutture della gendarmeria. Nel frattempo, la gente si raggruppa per sorvegliare gli isolati. Ma la giustizia rimane il problema più importante: 120.000 detenuti aspettano di essere giudicati. Le condizioni di detenzione sono disastrose: 761 uomini sono morti nel 1999, secondo le cifre ufficiali. Vestiti di camicie rosa, i detenuti partecipano a lavori d’interesse generale.
Il genocidio ha decimato le classi dirigenti della nazione. I giudici sono stati formati in sei mesi, con un certo dilettantismo. Per accelerare le cose, si fanno processi collettivi per gruppi da 10 a 60 persone.
Le organizzazioni di tutela dei diritti umani hanno alla fine accettato questa situazione come una necessità, a condizione che siano rispettati i diritti della difesa. Ma le vittime protestano. All’inizio non capivano perché i carnefici dovessero avere degli avvocati.
Oggi, hanno l’impressione che la comunità internazionale e le Ong aiutino più gli aguzzini che le vittime. La delusione è grande, inoltre, quando un tribunale condanna un criminale a somme ingenti che non vengono mai pagate. Tuttavia il governo ha avviato, nel 1999, un fondo di assistenza ai sopravvissuti cui dedica il 5% del bilancio.
Ma il suo funzionamento è oggetto di critiche e praticamente paralizzato. Nessuna sanzione potrà mai essere proporzionata al crimine. Si dovrà inevitabilmente perdonare.
Un gesto che ripugna a molte vittime: “Perché perdonare, quando il mio carnefice non mi ha chiesto perdono?”.
Capita che un imputato liberato sia assassinato. Il governo prevede di riattivare le forme tradizionali di giustizia, le gacaca, per i crimini di categoria 2 e 3, vale a dire quelli per cui l’imputato rischia al massimo quindici anni di reclusione.
Nei comuni, il confronto si svolgeva in presenza della collettività. Il colpevole ammetteva il suo crimine e la vittima gli concedeva il perdono. Il tutto si concludeva con una riunione durante la quale il colpevole offriva un regalo a titolo di compenso. Questa procedura modernizzata lascia scettici numerosi ruandesi.
Tanto più che i criminali rischiano di sdoganarsi facilmente denunciando persone morte o fuggite. Forse “la gacaca costituisce la soluzione politica di un problema di giustizia. Se le si toglie questa dimensione, perde la sua credibilità. La posta in gioco è di ricostituire una comunità ruandese” (Colette Braeckman, “Autopsia di un genocidio pianificato in Ruanda”, Le Monde diplomatique, 1995).
Definizione di genocidio
Gli studiosi che lavorano sul genocidio mettono in guardia contro la banalizzazione del termine e tentano di trovare caratteristiche comuni a questa forma di guerra contro i civili.
Da quando, il 9 dicembre 1948, le Nazioni unite adottarono la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, quest’espressione è divenuta parte del linguaggio corrente, a significare il male assoluto, l’orrore estremo delle stragi di popolazioni civili inermi.
Coniato nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin, il termine è sempre più largamente usato sul piano internazionale.
Si è parlato di “genocidio” in quasi tutti i conflitti della seconda metà del XX secolo, costati un gran numero di vittime civili: dalla Cambogia alla Cecenia, passando per il Burundi, il Ruanda, il Guatemala, la Colombia, l’Iraq, la Bosnia, il Sudan, ecc.
Questa nozione è stata utilizzata anche retroattivamente, ad esempio per la strage della popolazione di Melos perpetrata dai greci nel V secolo a.C., o per i massacri dei vandeani nel 1793, degli indiani del Nordamerica, degli armeni nel 1915, senza dimenticare le carestia in Ucraina, la serie delle deportazioni di massa nell’Unione Sovietica di Stalin, e ovviamente lo sterminio degli ebrei europei e degli zingari – ma anche i bombardamenti atomici americani di Hiroshima e Nagasaki.
E certo l’elenco non è completo…
L’applicazione della nozione di “genocidio” a queste situazioni storiche molto eterogenee suscita numerose obiezioni e dibattiti appassionati.
I suoi molteplici usi esprimono il bisogno di ricorrere a un termine di portata universale per designare il fenomeno dell’annientamento di popolazioni civili, che nel XX secolo ha assunto proporzioni massicce.
Sono stati coniati anche altri vocaboli, quali “politicidio” (1988) o “democidio” (1994), ma “genocidio” continua a essere il termine più usato.
Il primo dei problemi posti dal termine “genocidio” riguarda dunque i modi in cui viene usato, visto che è entrato a far parte di ogni sorta di retoriche identitarie, umanitarie o politiche. È questo un argomento di ricerca a sé, che pone in luce le rivendicazioni legate al suo uso. In primo luogo, rivendicazioni sul piano della memoria, per far riconoscere agli occhi di tutti il genocidio che un popolo afferma di aver subìto in passato. In questo campo, la lotta più emblematica è quella della comunità armena.
C’è poi la rivendicazione specificamente umanitaria, quando organizzazioni non governative (Ong) dichiarano che un popolo è a rischio di “genocidio”.
Con l’uso di questo termine si vuole scuotere l’opinione pubblica, aprendo così la strada all’intervento internazionale.
E infine, ovviamente, le rivendicazioni giudiziarie, quando ormai il male è stato commesso e si tratta di perseguire questo o quel responsabile per “crimini di genocidio” davanti ai tribunali internazionali.
A volte questa nozione diventa il pezzo forte di una retorica particolarmente aggressiva contro un avversario politico. Ad esempio, fin dalla metà degli anni 1980 i serbi del Kosovo si sono dichiarati vittime di genocidio da parte degli albanesi.
Nel 2001 alcuni delegati alla Conferenza di Durban hanno accusato Israele di perpetrare un vero e proprio genocidio del popolo palestinese.
Conclusione evidente: il termine può servire sia come scudo simbolico, per far valere la propria identità di popolo vittimizzato, sia come spada puntata contro un nemico mortale.
Si può sperare in qualche contributo chiarificatore da parte del ricercatori? La gamma delle definizioni è vasta: a un estremo troviamo la posizione dello psicologo Israel Charny, che vede un genocidio in ogni massacro (compreso l’incidente nucleare di Cernobyl); dall’altro la tesi dello storico Stephan Katz, per il quale l’unico genocidio perpetrato nella Storia sarebbe quello degli ebrei (Jacques Semelin, Studiando il genocidio, Le Monde diplomatique – Aprile 2004).
I pareri sono divisi anche sulla questione del posto da assegnare alla definizione dell’Onu. In genere si accetta la Convenzione del 1948 come base di lavoro, per cui diventa centrale l’“intenzione di distruggere un gruppo in quanto tale”.
Burundi, i massacri dimenticati
Le commemorazioni ed i “mai piu'” sul Ruanda appaioni sempre meno credibili, se si pensa che la guerra continua, nel tempo e nello spazio.
Tutta la regione e’ coinvolta dagli scontri interetnici, tutti i giochi di potere, la formazione dei governi, le relazioni internazionali sono determinati dalle fazioni in lotta.
Se quella del Ruanda e’ una tragedia dimenticata, come definire cio’ che accade ancora in Burundi?
Il 13 agosto 2004, centosessanta rifugiati tutsi congolesi sono stati massacrati nel campo di Gatumba, nell’est del Burundi. È un crimine che esaspera le tensioni interetniche ricorrenti in questo piccolo paese confinante con il Ruanda.
Le Nazioni unite e l’Unione africana hanno patrocinato gli accordi di pace che dovrebbero portare all’adozione di una Costituzione per cui hutu e tutsi condividano il potere, e poi alle elezioni politiche.
“Il Burundi di oggi è il Ruanda del 1994”. È praticamente, con le stesse parole, il timore che hanno espresso due uomini molto diversi tra loro: Paul Nkunzimana, rettore della facoltà di psicologia dell’università di Bujumbura, e Joseph Ndayizeye, vice presidente della Lega Iteka (“dignità” in lingua kirundi), un’associazione per la protezione dei diritti umani. Il massacro di 160 rifugiati tutsi congolesi (banyamulengue), il 13 agosto 2004 nel campo di Gatumba, nei pressi della frontiera con la Repubblica democratica del Congo (Rdc), viene a rafforzare ulteriormente questo timore ricorrente.
Lontano dalla ribalta dei media perché eclissato dal dramma ruandese, il Burundi è costantemente teatro di violenze etniche terrificanti: nei dieci giorni successivi all’assassinio del presidente Melchior Ndadaye, il 21 ottobre 1993, per mano di ufficiali tutsi, sono stati massacrati secondo l’Onu “decine di migliaia” di tutsi e hutu moderati.
Quel primo capo di stato hutu era stato eletto quattro mesi prima al termine delle prime elezioni democratiche mai svolte nel paese.
Su questo stato confinante con il Ruanda aleggia lo spettro del genocidio.
Gli accordi di pace di Arusha (Tanzania), siglati nell’agosto 2000 tra il governo e diciassette partiti politici, sono contestati sia dai tutsi dell’associazione Potenza di autodifesa (Pa) che dagli hutu delle Forze nazionali di liberazione (Fnl).
Sostenuti dai movimenti millenaristi e dalle chiese avventiste locali, i circa 3.000 ribelli delle Fnl sono animati da un odio tenace nei confronti dei tutsi, che accusano di fomentare il genocidio degli hutu. Hanno anche rivendicato la responsabilità del massacro di Gatumba.
Le manovre della potenza coloniale belga, proseguite fino ai primi anni dell’indipendenza nel 1962, avevano spezzato l’antico equilibrio tra le etnie tutsi, hutu e ganwa (Jean-Claude Willame, “Aux sources de l’hécatombe rwandaise”, Cahiers africains n°14, Bruxelles, 1995).
Successivamente i tutsi, pur minoritari (circa il 20% della popolazione) hanno dominato le istituzioni, in particolare la giustizia, l’esercito e il partito unico dell’Unione per il progresso nazionale (Uprona), alimentando risentimenti e sospetti (Colette Braeckman, “L’interminabile discesa agli inferi del Burundi”, Le Monde diplomatique, luglio 1995).
Stando alla tesi ufficiale, i massacri del 1993 erano semplicemente l’espressione della “collera popolare” di fronte al rifiuto dei tutsi di accettare il verdetto delle urne.
Due elementi consentono di porre in dubbio questa presunta “spontaneità”.
In primo luogo, i tutsi sono stati radunati con vari pretesti nelle scuole, nelle chiese e negli uffici comunali, prima di esservi massacrati.
Tanto che, nel 1996, una commissione d’inchiesta delle Nazioni unite definirà tali massacri “atti di genocidio”.
E in una risoluzione del 5 marzo dello stesso anno, il Consiglio di sicurezza si dirà “profondamente preoccupato per tutti gli atti di violenza che si commettono nel Burundi e per gli incitamenti all’odio etnico e alla violenza che continuano a diffondere alcune stazioni radio, come pure il moltiplicarsi degli appelli all’esclusione e al genocidio”.
Al ricordo di quei crimini si aggiunge un ulteriore motivo di inquietudine: la estrema permeabilità delle frontiere nell’Africa dei Grandi Laghi e la dimensione regionale del conflitto hutu/tutsi, di cui è recente esempio la strage di Gatumba.
Nel Burundi, la ribellione armata hutu è collegata alle milizie ruandesi interahamwe, responsabili del genocidio del 1994, che operano nel Congo.
Fondate dai seguaci del presidente assassinato Ndadaye, le Forze per la difesa della democrazia (Fdd), principale gruppo ribelle con oltre 10.000 uomini, hanno firmato un cessate il fuoco nel dicembre 2002.
Un accordo di spartizione del potere tra tutsi e hutu è stato concluso il 6 agosto 2004 a Pretoria, al termine di quattro anni di trattative, ma senza la firma né dell’Uprona né dell’Fnl.
Tale accordo prevede il 40% degli incarichi ai tutsi e il 60% agli hutu. Inoltre, la bozza di Costituzione approvato dagli hutu è bocciato dai partiti tutsi.
In questo contesto preoccupante, aggravato dall’insabbiamento del processo di pace nella Rdc e dall’irrigidimento del regime di Kigali, la comunità burundese tutsi teme una “soluzione finale” in stile ruandese.
Certamente, dopo dieci anni di una guerra civile che avrebbe fatto non meno di 300.000 morti, sulla maggior parte del territorio è tornata la calma.
I combattimenti, ormai sporadici, si concentrano su una striscia di terra attorno alla capitale, il Bujumbura rurale, feudo delle Fnl. Ma, per i tutsi, il pericolo è sempre presente.
Inoltre, il ritorno graduale dei rifugiati dalla Tanzania rafforzerà la supremazia demografica degli hutu, a poche settimane dalle elezioni.
L’emigrazione hutu risale alla repressione sanguinosa di un tentativo di colpo di stato, nel 1972, durante il quale l’esercito, dominato dai tutsi, avrebbe massacrato da 100.000 a 200.000 hutu.
In questo paese agricolo al 90%, il ritorno dei rifugiati e degli sfollati renderà ancora più acuto il problema della terra: la densità demografica arriva a 250 abitanti/kmq e la superficie media della fattoria a conduzione familiare non supera il mezzo ettaro.
Le terre abbandonate nel 1972 e nel 1993 adesso sono state occupate, in quanto le ondate di massacri offrivano buone occasioni per liberarsi di vicini di cui si bramava la proprietà. Per limitare il carico del contenzioso il governo ha deciso che i rifugiati del 1972 non potranno più rivendicare le loro proprietà, a differenza di quelli del 1993.
Ma l’instaurarsi di un potere hutu forte nel Bujumbura potrebbe provocare un ritorno delle milizie interahamwe dalla Rdc e una reazione del Ruanda del presidente Paul Kagame.
Ma l’accordo di principio del 6 agosto scorso non fuga i timori: per Venant Bambaneyeho, presidente dell’associazione Ac Génocide, che peraltro non vede nessuna alternativa, le quote sono una “maledizione”: “Perché non indicare l’etnia sulla carta d’identità?”, esclama. ”È questo che ha portato il Ruanda alla catastrofe.
Per smistare le persone si chiedeva la carta d’identità”.
“I ruandesi hanno identificato il male, ma da noi non è così. La giustizia perfetta non esiste, ma almeno da loro c’è stata una giustizia simbolica. Il dovere di ricordare, la sorte dei sopravvissuti sono presi sul serio”, sottolinea Bamboneyeho. Le organizzazioni tutsi continuano quindi a chiedere il riconoscimento del “genocidio” del 1993 e a lottare contro questa “forma di revisionismo” che consiste nel parlare “al plurale”.
Queste rivendicazioni si scontrano con un’ulteriore grave difficoltà: come definire una “intenzione” o un “tentativo” di genocidio? E che dire degli avvenimenti del 1972?
E così riemerge tutta la difficoltà del problema etnico nel Burundi: “Ognuno parla del suo genocidio”, sintetizza Esdras Ndikumana, corrispondente di Radio France internationale a Bujumbura.
Adrien Sindayigaya, direttore aggiunto di Ijambo (“parola” in lingua kirundi), una radio che si batte per la riconciliazione, parla invece di un “duplice genocidio”: quello del 1972 e quello del 1993. Si crea così un circolo vizioso di vendetta: fra i massacratori del 1993 si trovano gli orfani del 1972, e fra i primi assassinati, gli uccisori del passato (Barbara Vignaux,Il Burundi di fronte allo spettro del genocidio – Le Monde diplomatique – Ottobre 2004).
La Franciafrica
L’area dei grandi Laghi, il Togo, la Costa d’Avorio, la repubblica Centrafricana e lo stesso Senegal vengono spesso definiti “Franciafrica”, una porzione di continente che ha mantenuto legami culturali politici ed economici fortissimi con l’ex potenza coloniale.
Spesso esistono accordi militari bilaterali che consentono ai francesi di intervenire con le proprie forze armate in numerose eventualita’.
La Francia e’ l’unica potenza coloniale del secolo scorso che ha mantenuto simili prerogative, ed e’ impressionante il confronto con le smobilitazioni operate – ad esempio – da Gran Bretagna, Belgio, Portogallo.
Negli ultimi anni gli interventi francesi in Africa si sono moltiplicati, ed hanno rappresentato un ulteriore elemento di instabilita’ in aree dell’Africa dove la guerra e’ quasi endemica.
Lo scarso interesse dei media verso l’Africa e la buona immagine della Francia ‘pacifista’ hanno impedito le mobilitazioni che hanno visto come obiettivo – ad esempio – gli Stati Uniti.
Eppure, dopo il Ruanda, e’ cresciuta in Africa l’insofferenza antifrancese.
Una crisi politica è scoppiata in Togo al momento del colpo di stato che, in spregio alla costituzione, ha portato al potere, il 5 febbraio 2005, Faure Gnassingbé: un’altra, in Africa dell’Est, che va ad aggiungersi a quella della Costa d’Avorio in cui Parigi è implicata e accusata per via dei comportamenti tenuti di recente dai militari francesi durante l’operazione “Liocorno”.
Dal 1960 in poi, grazie a contratti leonini, le società francesi trattano (come intermediari) e rimpatriano il 75 per cento della ricchezza prodotta. Nel 1994, il presidente Henri Konan Bédié tenta di correggere queste anomalie con la retrocessione dei contratti di esportazione di caffè e cacao a grandi corporations americane e una licenza di prospezione del petrolio off-shore alla compagnia americana Vanco: sarà destituito con un colpo di stato alla fine del dicembre del 1999.
Oggi in Costa d’ Avorio Saur, Edf, Orange e Bouygues controllano trasporti, acqua, elettricità e le vie di comunicazione, mentre la Société générale, la Bnp e il Crédit Iyonnais dominano il settore bancario.
Dopo 40 anni di amichevole intesa post-coloniale, è la prima volta che la vita dei cittadini francesi in Africa è minacciata su così larga scala.
Ci si era per così dire rassegnati a vedere gli africani ammazzarsi fra di loro. I soldati francesi hanno ucciso civili ivoriani nel loro stesso paese; e un presidente straniero – nella fattispecie Jacques Chirac – ha dato l’ordine di distruggere la flotta aerea di uno stato sovrano, per rassicurare 15.000 suoi compatrioti e vendicare la morte di nove soldati.
La Francia era abituata ad agire dietro le quinte: gli eventi di Abijan l’hanno costretta ad agire a viso aperto.
Già nel gennaio 2003, il Forum sociale africano di Addis-Abeba aveva dato un avvertimento: “Se insiste nella sua logica imperiale attuale, la Francia rischia di moltiplicare gli interventi militari sul continente, nel corso dei prossimi anni (…) Alla luce del genocidio ruandese del 1994, della guerra civile del Congo del 1997 e dei conflitti in atto in Africa centrale e in Costa d’Avorio, è urgente che gli stati africani francofoni rivalutino le loro relazioni con l’ex potenza coloniale”.
I governi francesi, di sinistra come di destra, hanno sempre avuto mano libera nell’ex impero coloniale. Nascono così gli assassini politici mirati, il saccheggio sistematico delle risorse economiche di numerosi stati, e l’appoggio a dittature sanguinarie. Finora, tutto ciò si faceva nell’ombra. La sparatoria del novembre 2004, invece, si è verificata in pieno giorno (Boubacar Boris Diop – Francia in Africa: l’avvertimento ivoriano – Le Monde diplomatique – Marzo 2005)
La buona Europa senza memoria
A tanti anni di distanza dalla tragedia, nella memoria di molti – specie in Italia – è rimasto il ricordo sbiadito di “una delle tante guerre” del continente nero. Come spesso accade, è stato un film a rinverdire la memoria.
“Hotel Rwanda” e’ una produzione che non nasce con l’obiettivo di essere esauriente sull’intera vicenda ma con quello apparentemente meno ambizioso di raccontare un episodio paradigmatico ed emozionante.
La scelta del direttore dell’Hotel delle Mille Colline – il più importante a Kigali, appartenente ad una catena internazionale – di accogliere centinaia di rifugiati assediati dai miliziani hutu assetati di sangue.
Una scelta difficile per Paul, hutu ma sposato con una tutsi, orgogliosamente africano ma in rapporti cordiali e quotidiani con europei e bianchi in genere, tormentato dalle paure e dagli egoismi iniziali normali in chi è portato solo dal destino e da null’altro a scegliere tra l’eroismo e la complicità.
Grazie allo status di Hotel internazionale, alla protezione blanda ma alla fine efficace delle Nazioni unite, a qualche espediente ed a un po’ di buona sorte, alla fine riesce a salvare sé stesso, la famiglia e circa mille profughi destinati al machete.
Sullo sfondo, mentre l’ultimo volo utile dell’Onu si alza dal suolo, risuona la voce gracchiante della radio razzista che incita allo sterminio degli “scarafaggi”, il nome spregiativo con cui sono indicati i tutsi (nelle tragedie razziste, nei genocidi, nelle più semplici vicende del razzismo quotidiano c’è sempre un nomignolo che viene affibbiato agli “inferiori”).
La tragedia non sarà fermata, anche a causa dell’indifferenza del “mondo civile” per quella che tanti – alcuni in malafede – giudicavano una guerra di periferia con cui non sporcarsi le mani.
***
Oggi molto è cambiato rispetto al 1994, ed alcune recenti tragedie ci hanno portato a vedere le cose con sguardo diverso.
La vicenda irachena, per la gravità e l’assurdità di una guerra dichiarata senza un valido movente – anzi, con una immensa menzogna come causa scatenante – ma dalla violenza incontrollata, ha assunto un significato paradigmatico della guerra in generale e – per forza di cose – ha cancellato la memoria del passato recente, facendo in breve tempo dimenticare le tante guerre degli anni ’90, la Somalia, il Ruanda, la Jugoslavia.
Dalle torture di Abu Ghraib alla guerra preventiva, dall’imbroglio delle fantomatiche armi del dittatore alle risposte violente talvolta cieche degli stessi iracheni fino ai soliti traffici italiani travestiti da missione umanitaria, abbiamo visto tante e tali nefandezze da riempire di disgusto non solo accaniti pacifisti ma chiunque abbia fatto un qualche passo avanti dall’età della pietra in poi.
Nel buio, le deboli fiammelle dei “no” alla guerra in Iraq di Francia, Germania e poi Spagna hanno assunto la luminosità dei raggi solari. La forte voce di Papa Giovanni Paolo II era diventata un punto di riferimento mondiale, ed ha fatto guadagnare alla Chiesa un ruolo morale planetario anche per tanti non credenti, in precedenza delusi da una gerarchia ecclesiale troppo impegnata solo a dettare regole di comportamento sessuale e impastoiata nei mille intrallazzi delle chiese nazionali coi potentati locali.
Molti hanno chiesto a gran voce un ruolo di contrapposizione agli Stati Uniti da parte dell’Unione Europea, come voce democratica e rispettosa dei diritti dei popoli e della pace. La Chiesa è stata indicata – specie negli ultimi tempi e con preoccupante unanimismo – come il punto di riferimento morale di tutti.
La tragedia del Ruanda va ricordata di per sé.
Per il dovere della memoria nei confronti del terzo genocidio del Novecento (dopo armeni ed ebrei). Per rifiutare – ogni qual volta ne sentiamo di simili, anche in Europa – le voci razziste propagate dai microfoni delle tante “Radio delle mille colline”. Per diffidare di quei politici e capipopolo che contrappongono un’etnia ad un’altra, spesso creando artificialmente contrapposizioni, differenze, presunte superiorità.
Ma la tragedia del Ruanda ci ricorda anche le pesantissime responsabilità che appena qualche anno fa hanno visto la Francia neocolonialista e la Chiesa cattolica come complici e corresponsabili del genocidio.
Questi fatti sono stati completamente rimossi dalla memoria collettiva, ed oggi quelli che sognano un’Europa illuminata guida politica del mondo ed una Chiesa suo faro morale dovrebbero riflettere sui tanti lati oscuri, sui profondi legami delle vicende coloniali, sulle politiche di potenza e sui molti giochi sulla pelle dei popoli che ancora vengono fatti, e che spesso sfociano in tragedie.
Causate anche da europei, e da europei cattolici. Non solo da rozzi cowboys nordamericani protestanti.
Il genocidio del Darfur
Dice Bush: “Il mondo è testimone delle terribili sofferenze e dei crimini nel Darfur, crimini che il mio governo definisce come genocidio”.
Annan: “Siamo stati lenti, esitanti, poco convinti e non abbiamo imparato nulla dal Ruanda”.
Proprio mentre si commemora il decimo anniversario della tragedia del Ruanda, arrivano le prima notizie da Khartoum.
Nell’estate del 2003, l’Onu riceve i rapporti che annunciano migliaia di rifugiati in movimento.
Già qualche mese prima le tribù occidentali africane avevano iniziato la ribellione contro il regime arabo, accusato di opprimerli. Lo stato rispondeva inviando l’esercito ed una milizia tribale, la famigerata Janjawid, che per due anni ha seminato il terrore tra la popolazione.
Senza alcuna pietà. Villaggi incendiati, gente uccisa a sangue freddo, bambini schiacciati con il calcio del fucile.
Il regime islamico del generale Omar Al Bashir già in passato si era distinto per la repressione crudele di ogni dissenso, in particolare nei confronti dei cristiani del sud perseguitati per venti e più anni da una guerra “a bassa intensità” che però è costata circa due milioni di morti.
I cristiani sudanesi e la loro battaglia contro il volto feroce dell’Islam hanno suscitato molto interesse presso la lobby statunitense dei religiosi conservatori, molto vicini a Bush, e più volte si è immaginato un intervento Usa in Africa, fino a che il ginepraio iracheno ha consigliato anche ai falchi maggiore prudenza rispetto alle avventure senza ritorno.
Nell’autunno del 2003 si arriva ad una vera campagna di pulizia etnica nell’intera regione, finanziata dai proventi del petrolio, metà del quale è venduto dal regime alla Cina. La prospettiva di un embargo spaventa i cinesi ed il loro boom economico senza ostacoli, e così il consiglio di sicurezza si spacca.
Il rappresentante cinese all’Onu vota contro ogni intervento. Le Nazioni Unite sono ancora una volta paralizzate, e non possono far altro che redigere agghiaccianti rapporti, conclusi come sempre da due sole parole: “Mai più” [Never Again, programme transcript, 3 July 2005, 22:15 on BBC One].
Analisi sulle guerre nella regione dei Grandi laghi
1. Le cause
Il genocidio in Ruanda è stato definito come la più grande tragedia del Novecento dopo l’Olocausto. Oggi, ad oltre dieci anni di distanza, abbiamo innanzitutto il dovere di ricordare, specie in un mondo dove l’informazione segue i principi dell’“usa e getta”.
La tragedia dell’area dei Grandi laghi, i profughi e le continue guerre possono essere un segno d’allarme. Occorre eliminare le cause potenziali di questa continua violenza. Occorre indagarne le ragioni storiche e quelle attuali. Bisogna capire le responsabilità interne e quelle internazionali. Forse, con una politica mondiale improntata alla solidarietà, non avremmo più guerre. Certamente ne avremmo di meno. Ma è sicuro che con la tradizionale mentalità occidentale della politica di potenza ci attendono nuovi conflitti e nuovi orrori. In Africa e in tutto il mondo.
“Etnismo senza etnie”?
I primi abitanti del Ruanda furono i Pigmei, dai quali discendono gli attuali abitanti Batwa (l’1% circa della popolazione). I Bahutu (84%) e i Batutsi (15%) arrivarono nella regione in epoche successive ma le loro esatte origini non sono ancora state accertate.
Secondo alcuni studiosi gli hutu, popolo bantù, si sarebbero installati in Ruanda prima dei tutsi, popolo, quest’ultimo di origine nilotica, proveniente dagli altopiani dell’Etiopia.
Hutu e tutsi parlano la stessa lingua, il kinyaruanda, praticano la stessa religione, condividono la medesima struttura politico-sociale.
Molti storici ed etnografi concordano, pertanto, nel ritenere che hutu e tutsi non possono essere considerati come due distinti gruppi etnici. Come si vede c’è un’enorme differenza tra l’idea occidentale di etnia (un gruppo accomunato da una comune lingua e da tradizioni analoghe) e la situazione di hutu e tutsi.
Secondo lo storico francese Jean Paul Chrétien, si assiste in Ruanda ad un fenomeno di “etnismo senza etnie”.
Nella storia pre-coloniale del Ruanda la reale differenza fra hutu e tutsi era piuttosto di natura sociale ed economica essendo gli hutu contadini edi tutsi pastori e guerrieri. Le fittizie frontiere stabilite dalla colonizzazione ebbero poi effetti nefasti anche perché i coloni belgi utilizzarono i tutsi, casta egemone territorialmente ed economicamente, per rafforzare il proprio potere, esasperando così le tensioni etniche nell’area.
Le teorie pseudo-scientifiche e pseudo-antropologiche, d’impostazione positivistica, erano molto diffuse nell’Europa della seconda metà del XIX secolo.
Per gli studiosi dell’Africa centrale la dottrina chiave era la cosiddetta “ipotesi camitica” diffusa dall’esploratore John Hanning Speke.
Secondo tale teoria tutte le forme di cultura e di civiltà nella regione erano state introdotte da tribù provenienti dall’Etiopia e appartenenti ad una razza superiore a quella dei nativi “negroidi”.
Proprio invocando tale ipotesi dell’origine etiope dei tutsi, Musegera, noto estremista hutu sostenitore del presidente Habyarimana, poteva affermare, in un suo celebre discorso del 1992, che tutti i tutsi dovevano essere rispediti in Etiopia attraverso il fiume Nyabarogongo che sfocia poi per il Nilo.
Il suo odioso messaggio razzista fu ben compreso. Appena due anni dopo, fra l’aprile e il giugno del 1994, migliaia e migliaia di cadaveri di tutsi martoriati a colpi di machete galleggiavano nei fiumi insanguinati del Ruanda.
Così incoraggiati dall’ammirazione del colonizzatore belga ed influenzati da un amalgama di mito e pseudo-antropologia, i capi tutsi passarono gradatamente da quella che era una forma tradizionale di “elitismo” giustificata dall’appartenenza ad una casta sociale ed economica privilegiata ad una vera e propria forma di razzismo nei confronti della maggioranza hutu.
Ciò doveva generare, inevitabilmente, altrettanto estremismo hutu nei confronti della minoranza tutsi.
L’ideologia razzista ed il conseguente odio etnico furono alimentanti anche dalla Chiesa cattolica le cui responsabilità nella tragedia del Ruanda, bastione del cattolicesimo in Africa, andrebbero più apertamente denunciate.
Allineandosi sulle scelte della potenza coloniale, anche la Chiesa cattolica poté rafforzare inizialmente il proprio potere temporale attraverso l’appoggio ai capi egemoni tutsi (l’insegnamento era a quell’epoca interamente controllato dalla Chiesa cattolica).
Il cardinale Lavingerie, dell’ordine dei Péres Blancs installatisi in Ruanda nel 1898 per evangelizzare la regione, affermava: guadagnando un solo caco (tutsi) alla nostra causa faremo molto di più per il consolidamento della nostra missione che cercando di guadagnare, isolatamente, centinaia di poveri neri (hutu).
Non mancheremo di far osservare ai capi (tutsi) che la dottrina cristiana è favorevole al loro potere perché essa insegna che essi sono i veri rappresentanti di Dio sulla terra dal punto di vista temporale”.
Solo alla fine degli anni ’50, di fronte alle velleità indipendentiste e terzomondiste dei tutsi la Chiesa scelse, come il Belgio, di cambiare campo. A partire da quel momento, i tutsi saranno denunciati, con evidente cinismo e opportunismo, come classe “privilegiata e aristocratica” sfruttatrice della maggioranza hutu, “massa contadina e laboriosa”.
Si è scritto che la “rivoluzione sociale” hutu del 1959 sia una rivoluzione “nata in sagrestia”.
Monsignor Perrodin, vicario apostolico in Ruanda nel 1959, fu il padre spirituale del presidente Kaybanda, ex-seminarista, nonché ideologo e ispiratore del partito presidenziale, il Parmehutu, il partito nell’ambito del quale verrà pianificato il progetto di genocidio.
Non mancarono neanche gli appoggi internazionali: l’internazionale democratico-cristiana, a forte componente anticomunista, la stessa che dieci anni più tardi contribuirà a rovesciare il governo Allende in Cile, fu una grande sostenitrice della “rivoluzione sociale” hutu e del futuro regime.
Nel dicembre 1996, in presenza del nuovo ambasciatore ruandese in Vaticano, il Papa riconosceva apertamente le responsabilità di alcuni membri del clero nei massacri del 1994.
“La Chiesa”, affermava il Papa, “non può essere ritenuta responsabile per colpa di quei suoi membri che hanno agito contro la legge evangelica — e anche contro quella dello Stato — essi saranno chiamati a rendere conto delle loro azioni”.
Ma denunciare solo responsabilità individuali non è sufficiente. Come scrisse Pietro Veronese (“la Repubblica”, 13 dicembre 1996), “la Chiesa deve ancora pronunciare il mea culpa e non solo per la tragedia in Ruanda ma anche per tutte le commistioni con il potere che essa ha avuto, e forse ancora ha, in altre regioni del mondo”.
La Francia, potenza coloniale
Negli anni della guerra fredda, l’Africa era divisa tra il blocco orientale e quello occidentale: alcuni paesi si affidavano a ricchi protettori, con in testa la Francia, sperando nello “sviluppo”. Altri, si schieravano con il blocco orientale in nome della “liberazione”. Negli anni ’60, la “scelta socialista” era per questi ultimi quasi un corollario dell’anticolonialismo. C’è stata una coincidenza storica tra il colonialismo e il capitalismo; per conseguenza, la lotta contro il colonialismo doveva presupporre l’abbandono del liberalismo e l’adozione del modello socialista.
Affermano, in tal senso, gli storici Lavroff e Mabileau in un saggio sui caratteri del socialismo africano: “la lotta dei popoli coloniali contro il capitalismo, che del colonialismo è la prima radice, li ha fatti approdare alle rive del socialismo, che del capitalismo è l’avversario storico”.
In genere, i risultati sono stati regimi corrotti ed autoritari. Dopo la guerra fredda, le antiche potenze coloniali e neo-coloniali hanno dovuto riaffermare la propria presenza, ma si sono anche ritrovate con nuovi grandi spazi da conquistare. Gli Stati Uniti, da sempre presenti in America Latina e in Asia, hanno avuto la possibilità di entrare nella spartizione del continente africano, che significa controllo su immense risorse e manodopera a costo zero.
In questo scenario si inserisce il confronto con i francesi, che, dal canto loro, sono stati impegnati a ribadire il controllo sulla loro area, cioè le ex-colonie: Ciad, Camerun, Gabon e Congo sembravano tranquilli, mentre il dominio sugli altri paesi era in forte discussione: dall’Algeria (sostegno al regime Zeroual) al Niger (un colpo di Stato ha messo in crisi la situazione), dallo Zaire al Ruanda, perso dopo la disfatta del regime hutu, difeso fino all’ultimo con l’Operazione Turchese (v. più avanti Dossier nero sulla politica francese).
La Repubblica Centrafricana, in particolare, è considerata dall’Eliseo come una provincia francese.
All’inizio del gennaio ’97, due ufficiali francesi sono stati uccisi dalla folla in rivolta contro il presidente Fatasse. Ventiquattrore dopo è scattata la vendetta: 2.000 soldati francesi hanno attaccato un quartiere di Bangui tenuto dai ribelli. Elicotteri e blindati hanno massacrato dieci soldati centrafricani, secondo le stesse ammissioni di Parigi. La Croce Rossa locale, invece, ha affermato che morti e feriti sono stati molti di più.
Un portavoce della Difesa francese affermava: “[…) nessuno uccide dei soldati francesi e se la cava”(The Economist 11 gennaio 1997).
Mobutu, assassino e servitore
Dopo aver perso il Ruanda, la Francia puntava allo Zaire, sostenendo ancora Mobutu. Il nome dello Zaire ricorrerà spesso nelle pagine seguenti. Per comprendere a fondo il ruolo di questo paese nel sistema neocoloniale è necessario risalire al 1960.
All’inizio della sua carriera Jospeh Mobutu Sese Koko era un telescriventista della France Press, oltre che un informatore della polizia coloniale belga. La Cia lo scelse come referente per l’operazione che doveva impedire la trasformazione del Congo belga in una “Cuba africana”.
Il paese, all’inizio, non si limitò a cambiare il nome in Zaire e a proclamare un’indipendenza formale. Il 30 giugno 1960 ci fu l’affrancamento dalla potenza coloniale belga e furono indette libere elezioni. Fu eletto il poeta Patrice Lumumba, alla testa di un’ampia coalizione progressista e multietnica.
Il programma radicale del nuovo governo (nazionalizzazione delle ricchezze del paese) terrorizzò le potenze occidentali. I paracadutisti belgi furono inviati nel Katanga (la regione mineraria del Sud), occuparono l’area e favorirono la nascita di un governo-fantoccio secessionista.
Contemporaneamente si attivarono i servizi segreti francesi e la Cia: “Abbiamo deciso che l’eliminazione di Lumumba è un obiettivo urgente e principale”, scrive Allen Dulles, capo dei servizi statunitensi. E’ il 26 agosto ’60. Un mese più tardi i soldati capeggiati da Mobutu impediscono a Lumumba l’accesso al Parlamento e lo costringono a rifugiarsi presso i caschi blu dell’Onu, che da settimane osserva immobile lo svolgersi degli eventi.
Il primo dicembre viene catturato dagli uomini di Mobutu: morirà il 3 febbraio dopo numerose torture. La secessione del Katanga rientra, il ruolo del Belgio va declinando mentre negli anni successivi crescerà il peso dei francesi.
Dopo 37 anni di dittatura, Mobutu è giunto al capolinea. Tra le potenze europee e gli Stati Uniti rischia di riaprirsi la partita per il controllo delle immense ricchezze del paese. Ancora una volta, sulla pelle degli africani.
Ancora strategie imperiali?
I documenti che seguono mettono in evidenza il peso della vendita internazionale delle armi. Fabbriche e governi di tutto il mondo sono implicati nella vendita di armamenti ai gruppi in guerra.
Occorre ribadire che le lobbies delle armi ed i complessi militari-industriali sono direttamente responsabili delle guerre: stimolano i conflitti, sostengono ora l’una ora l’altra parte, provocano ondate di morte e di dolore: hanno come unico obiettivo il profitto.
Fornitori internazionali hanno venduto le armi ai responsabili del genocidio. L’inchiesta dell’Onu mostra l’incredibile omertà dei governi sul traffico di armi. Tra l’altro, si parla anche delle mine italiane.
Nella tragedia dei grandi laghi sono certamente presenti le responsabilità africane. Si è già detto più volte; i media, poi, hanno riproposto lo stereotipo dell’Africa “selvaggia” che si scanna per l’ennesima volta. Questa immagine è ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo, fino a divenire un vero e proprio luogo comune razzista.
Per questo le vicende africane vanno interpretate in maniera approfondita e soprattutto occorre inserirle in un contesto internazionale, in cui appare chiaro il ruolo delle politiche di potenza neocoloniali.
Abbiamo già parlato del ruolo della Francia. Gli Stati Uniti cercano di assumere un ruolo dominante nel continente, grazie agli alleati Uganda, Eritrea ed Etiopia: col sostegno ai tutsi nello scacchiere ruandese (consiglieri militari, appoggio diplomatico); con lo scontro nei confronti delle isole antiamericane del continente (gli Usa condannano duramente il governo islamico del Sudan, anche se poi sono i migliori alleati dell’Arabia Saudita, regime oscurantista e finanziatore dei terroristi islamici, a partire dagli algerini).
La prima e la seconda guerra mondiale sono state precedute da una strategia imperiale delle potenze, basata su una conquista militare di aree da dominare direttamente e da una strategia economica per la creazione di aree protette da cui ottenere materie prime e manodopera a basso costo e in cui rivendere il prodotto finito (mercati protetti).
Ovviamente, la strategia militare e quella economica si sono spesso sviluppate parallelamente. Le politiche imperialiste hanno portato ad una continua tensione tra le potenze occidentali, che da molti secoli considerano “la guerra come la continuazione della politica(imperiale) con altri mezzi”.
Dopo la fine della guerra fredda si immaginava un mondo pacificato. La rapida fine di questa illusione ha portato al vagheggiamento di un “nuovo ordine mondiale” basato su una sola super-potenza: gli Usa.
Anche questa “orwelliana” visione sembra destinata al fallimento, perché già si intravede un mondo tripolare, con un contrasto tra Europa ed Usa e le potenze dell’Asia (basti pensare alla forza economica del Giappone ed alla crescita della Cina). Il sistema delle aree protette (Nafta, Europa di Maastricht), liberiste al loro interno e sostanzialmente chiuse all’esterno, viene riproposto in forma estrema dall’economia globalizzata.
I conflitti nei Balcani ed in Africa hanno fatto intravedere i primi conflitti tra Usa e paesi europei.
Un secolo, tre genocidi (armeni, ebrei e rom, ruandesi), due guerre mondiali. Possibile che non sia cambiato nulla nei rapporti tra i popoli?
2. Le armi del genocidio
Belgio, Bulgaria, Camerun, Cipro, Repubblica Ceca, Francia, Egitto, Italia, Seychelles, Zaire, Zambia. Tra l’inizio e la fine del 1996 una Commissione d’inchiesta nominata dalle Nazioni Unite si rivolge ai governi di questi paesi per ottenere informazioni sulle violazioni all’embargo sulle armi destinate al Ruanda.
Il blocco degli armamenti era stato decretato nel 1994 dal Consiglio di sicurezza, ma da più parti si segnalavano violazioni.
La stessa realtà del conflitto mostrava un’ampia disponibilità di armi per le parti in lotta. Di qui la decisione di creare una Commissione d’inchiesta, formata da Mahmoud Kassem (Egitto), Mujahid Alam (Pakistan), Gilbert Barthe (Svizzera), Mei Holt (Stati Uniti).
L’omertà dei governi e le mine italiane
Nel corso del 1996, i funzionari dell’Onu visitano i vari paesi africani, leggono rapporti di diverse Ong, inviano richieste a vari governi: molti non rispondono, altri lo fanno in ritardo, altri ancora forniscono risposte evasive.
Ecco, tanto per fare un esempio, il brano che descrive il comportamento del governo italiano:
“Un ex ministro degli Esteri di un paese dell’Europa orientale ha pubblicamente ammesso l’autorizzazione per forniture di armi all’ex FAR(Forze armate ruandesi). Poiché l’uomo vive attualmente in Italia, la Commissione scrive (20 agosto 1996) alle autorità di Roma chiedendo ulteriori informazioni. Nessuna risposta”.
Il 17 settembre, un membro della Commissione visita la parte ruandese del lago Kivu. Le ispezioni effettuate permettono il ritrovamento di mine TS-50, fabbricate in Italia meridionale e certamente vendute prima dell’embargo. Nove giorni dopo la scoperta, la Commissione chiede alle autorità italiane informazioni sulla fabbrica delle mine, i Paesi fornitori, la data della fornitura, le parti coinvolte nella transazione e i certificati di destinazione delle armi, oltre ai dettagli sui pagamenti. Il Governo italiano ignora anche questa inchiesta”(cfr. Terzo rapporto Onu, 1996).
L’ipotesi della Commissione è confermata dalla rivista “Oscar Report”, in un servizio dal titolo “Le mine terrestri nelle zone di conflitto 1992-1994”. Le mine italiane disseminate sul territorio ruandese sarebbero diverse migliaia: nelle relazioni governative sulle vendite di armi non vi è traccia di questi trasferimenti, per cui è ipotizzabile che le mine siano state prodotte su licenza italiana in Egitto o in Sudafrica e quindi “triangolate” tramite lo Zaire, che è stato un buon cliente delle aziende bresciane (cfr. Oscar Report, n.6).
Nel 1992, l’Italia ha esportato verso il Ruanda varie componenti per la fabbricazione di mine: 25 tonnellate di esplosivi, tre tonnellate di micce di sicurezza ed una tonnellata di detonatori per un totale di 214 milioni di lire (OCSE – Foreign Trade statistics 1992).
Ovviamente, le armi sono state esportate anche in direzione di altri paesi della regione dei Grandi laghi: tra l’altro, circa 2 milioni di munizioni destinate al Burundi (cfr. “Il Messaggero”, 9 maggio 1994).
L’export di morte e la ragnatela dei trafficanti
Fonti altamente attendibili in Belgio, Kenya, Ruanda, Sudafrica, Tanzania e Regno Unito sono concordi nel descrivere una fitta ragnatela di vendite di armamenti diretti al Ruanda, provenienti dal Sudafrica e dall’Europa, in particolare dall’Europa orientale.
La Commissione Onu raccoglie una serie di testimonianze da fonti governative e non governative, in particolare da Amnesty International.
Queste sono le sue conclusioni:
“Le persone coinvolte sono uomini di affari con alle spalle un passato nel mondo militare o nei servizi segreti. Le motivazioni, più che politiche, sono di puro profitto. Vengono utilizzati sia grandi aerei che piccoli velivoli privati capaci di atterrare su piste di fortuna.
Mediante falsi certificati di destinazione si superano le leggi e l’embargo, i controlli di frontiera degli aeroporti sono evitati con atterraggi notturni clandestini e falsi piani di volo”(cfr. Terzo rapporto Onu, 1996).
La vendita di armi alle ex-FAR, principali responsabili del genocidio, è una tessera di un mosaico più ampio, che comprende i traffici di droga, diamanti e oro. Parte delle armi passate per il confine orientale zairese erano destinate ai ribelli del Burundi ed alle truppe dello Zaire.
Ma la maggior parte sono finite all’esercito ruandese. Se fino al 1995 le armi atterravano negli aeroporti di Gema e Bukavu, relativamente grandi, successivamente sono state utilizzate piccole piste di atterraggio come Bunia, nei pressi del lago Alberto.
Alla fine del 1996, le FAR sono ancora dotate di anni di nuova fabbricazione tra cui kalashnikov e mine anti-uomo, sicuramente giunte dopo l’embargo.
I mercanti e i loro protettori
Il Sudafrica è tra i paesi che hanno istituito una commissione governativa sul traffico d’armi nella regione dei Grandi laghi.
Secondo Laurie Nathan, membro della commissione, “dal Sudafrica sono usciti illegalmente grandi quantitativi di armi”, trasportate da piloti di compagnie private ed equipaggi di aerei cargo, imbarcate negli aeroporti sudafricani con destinazione Goma, la cittadina dello Zaire nord-orientale diventata il quartier generale per i movimenti armati hutu che progettavano la riconquista del Ruanda e del Burundi.
Un’altra via delle armi è quella che passa dallo Zambia fino al lago Tanganica, dove il carico è trasportato su battelli che risalgono fino al confine con il Burundi. Qui le armi arrivano direttamente nelle mani dei miliziani hutu.
Fino al 1993, il Sudafrica dell’apartheid è stato il maggiore fornitore d’armi del regime hutu ruandese, per un giro d’affari di 15 miliardi di lire l’anno. Nel 1994, in coincidenza col genocidio, le forniture sono state ufficialmente sospese, ma fonti unanimi hanno affermato che il flusso di armi non si era assolutamente interrotto. Tra l’altro, le testimonianze della commissione governativa sudafricana coincidono con le affermazioni della commissione Onu.
Infatti, nonostante le assicurazioni governative sull’azione di controllo statale, la Commissione verificava che le industrie private coinvolte nel traffico d’armi e le stesse forze armate dell’era dell’apartheid erano ancora attive. Dal 1996, il governo sudafricano ha tentato di porre un freno al traffico, revocando le licenze di esportazione destinate ai paesi in guerra o deve si violano i diritti umani.
La commissione sudafricana ha però informato il presidente Mandela che le misure adottate non avevano avuto effetto. L’appello per misure più incisive è però caduto nel vuoto.
Nel 1996, un pilota di una compagnia commerciale ha dichiarato al “Sunday Times”:
“I doganieri esaminano in media solo il 50% del carico, ma il disco verde vale anche per l’altra metà”.
L’inchiesta del quotidiano inglese ha dimostrato che il lassismo dei doganieri — che permette il transito per tonnellate di armi — è pagato a peso d’oro dai trafficanti, in genere ex militari ed ex agenti dei servizi del regime di Botha.
Nel suo rapporto, la Commissione Onu ipotizza una grave violazione dell’embargo sulle armi da parte di un cittadino sudafricano, Willem Ehiers, direttore della “Delta Aero”.
Le accuse riguardano la fornitura di armamenti e l’addestramento delle forze governative ruandesi. La Commissione interrogava direttamente Mr. Ehiers, che si difendeva in questo modo: “mi avevano assicurato che le armi erano per lo Zaire. Sono rimasto sconvolto quando successivamente ho letto che erano invece destinate alle forze governative ruandesi”.
Le informazioni raccolte in seguito — unite alla testimonianza di Ehiers — dimostravano che la fornitura era stata definita a Pretoria nel maggio 1994, in un incontro tra lo stesso Ehiers e due ufficiali zairesi. In un secondo momento, i militari chiesero un incontro alle Seychelles con un “esperto tecnico, identificato dalla Commissione in Théoneste Bagosora, figura di rilievo dell’ex FAR, attualmente in detenzione in Camerun per il genocidio dell’aprile 1994.
Ehiers ha infine affermato che l’accordo fu perfezionato per un prezzo finale di 300mila dollari. Come era facile prevedere, la Commissione scopre (con la collaborazione dell’Ufficio federale per gli affari esteri di Berna) che il pagamento delle armi dalle Seychelles allo Zaire (destinazione Ruanda) è stato effettuato attraverso due trasferimenti di denaro dalla “Union Bank Privée” di Ginevra alla “Federal Reserve Bank” di New York.
Fonte: Terzo rapporto della Commissione internazionale di inchiesta delle Nazioni Unite, istituita con risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1053 (1996) del 23 aprile 1996.
3. Dossier nero sulla politica africana in Francia
Per dissuadere il futuro presidente dal continuare l’attuale politica franco-africana
Dopo il 6 aprile 1994 la Francia sceglie il campo del genocidio
Contrariamente a quanto affermato in dichiarazioni ufficiali, è certo che i più alti livelli della gerarchia militare francese hanno offerto un enorme sostegno alle Forze armate governative del regime di Habyarimana, almeno fino alla loro sconfitta, all’inizio del luglio 1994.
Secondo il colonnello Lue Marchai, ex capo aggiunto della MINUAR (la missione Onu in Ruanda) a Kigali, uno degli aeroplani francesi, destinati 1’8 aprile 1994 all’evacuazione degli europei, trasportava parecchie munizioni per le FAR.
Il 25 maggio 1994, il secondo segretario dell’ambasciata del Ruanda al Cairo indirizzava al governo ruandese di transizione un messaggio nel quale si annunciava, fra l’altro, una consegna di 35 tonnellate di armi (munizioni e granate) per un ammontare di 765mila dollari.
Il documento fa esplicito riferimento ad alcuni “certificati di destinazione finale fatti a Kinshasa” ed una transazione fatta a Parigi. Questi certificati sono i documenti che abitualmente le autorità francesi esigono prima dell’acquisto: si tratta, quindi, di esportazioni quasi ufficiali, celatamente destinate allo Zaire, attraverso Goma.
Numerosi inviati speciali hanno descritto questi approvvigionamenti in armi e munizioni via Goma: una vasta serie di forniture trasportate su Boeing 707 “anonimi”(Libération, 4 giugno 1994). Secondo Stephen Smith “tutte le fonti ribadiscono che queste consegne d’armi sono state finanziate dalla Francia”.
L’addetto alla difesa di un’ambasciata francese respinge l’ipotesi di un aiuto ufficiale della Francia alle FAR e aggiunge: “un aiuto sottomano da circuiti paralleli è sempre possibile. Voi sapete delle fabbriche d’armi a Parigi, ve ne potrei parlare…”.
Questo modo di fare è tipico della cooperazione militare franco-africana, che abbonda di consiglieri ufficiali, di istruttori privati, di mercenari addestrati alla DGSE (i servizi segreti di Parigi): anche il circuito parallelo delle consegne d’armi riflette le divisioni tra i decisori civili e i militari francesi.
Coloro che erano contrari alla fornitura di armi al governo del genocidio non hanno potuto, forse, ostacolare i sostenitori dell’approvvigionamento alle FAR.
Al termine del maggio 1994, queste supposizioni venivano confermate da un rapporto d’inchiesta dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch (HRW) dal titolo “Ruanda/Zaire: riarmo nell’impunità”.
Per ciò che riguarda il sostegno internazionale ai promotori del genocidio ruandese, HRW ha appreso, dal personale dell’aeroporto di Goma e dagli uomini d’affari locali, che tra maggio e giugno arrivarono almeno cinque carichi di armi. Ciò avveniva dopo il 17 maggio, data del voto dell’Onu sull’embargo di armi, a più di sei settimane dall’inizio del genocidio.
Questi carichi contenevano artiglieria, mitragliatrici, fucili d’assalto e munizioni fornite dal Governo francese. Le armi sono state trasferite oltre frontiera dai militari dello Zaire e consegnate alle FAR a Gisenyi.
Jean-Claude Urbano, allora consigliere della Francia a Goma, ha giustificato questi cinque carichi spiegando che erano il risultato dei negoziati con il Governo ruandese prima che venisse deciso l’embargo.
Nel periodo dell’Operation Turquoise, le FAR hanno continuato a ricevere armi all’interno della zona sotto il controllo francese, attraverso l’aeroporto di Goma.
Alcuni soldati zairesi, impiegati a Goma, hanno contribuito al trasferimento di quelle armi oltre la frontiera.
Diverse compagnie di carghi aerei hanno trasportato la maggior parte delle armi fornite “segretamente” con l’accordo di ufficiali del Governo zairese e di esponenti di alto rango delle FAZ (Forze armate zairesi), tradizionali alleati del presidente Mobutu.
Le armi provenivano da più punti dell’Europa e dell’Africa… I piloti avevano falsi piani di volo e falsi manifesti (i documenti descrivono il contenuto del cargo aereo). In due casi almeno, verificati da HRW, in maggio e giugno (1994), alcuni aerei hanno consegnato, alternativamente, viveri e armi nell’aeroporto di Goma.
Dopo la disfatta (luglio 1994), le truppe francesi hanno “disarmato” le forze ruandesi che attraversavano la frontiera verso lo Zaire, consegnando poi le loro armi alle autorità zairesi. Poiché la Francia era a conoscenza del sostegno zairese alle forze militari responsabili del genocidio, “la decisione non era davvero appropriata”.
Sempre secondo le testimonianze di Human Rights Watch, alcuni militari e miliziani hanno continuato a ricevere un vero e proprio addestramento militare in una base francese nel Centrafrica, dopo la disfatta delle Forze armate governative.
Amnesty International ha confermato da allora il perseguimento delle consegne d’armi al potere Hutu, via Goma, “una volta alla settimana, il martedì alle 23 ora locale… fino alla metà di maggio 1995”.
Per molteplici ragioni, sarebbe stato impossibile organizzare un cosí massiccio traffico d’armi a Goma senza le complicità francesi. I legami franco-zairesi, mai interrotti, vennero considerevolmente rinforzati dopo l’Opération Turquoise.
L’ipocrisia della Francia in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. I dirigenti francesi tentano di accreditare la tesi del “doppio genocidio”
A fine aprile 1994, il rappresentante della Francia si opponeva, in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazione Unite, all’uso del Termine “genocidio” per qualificare i massacri perpetrati contro i tutsi in Ruanda. Solo il 18 maggio, il Ministro degli Affari Esteri Alain Juppè parla di genocidio all’Assemblea Nazionale. Ma a quel punto la macchina della morte aveva già fatto il grosso del lavoro: la Francia riconobbe la gravità dei fatti quando ormai non c’era quasi più niente da fare.
Nella versione scritta del suo discorso dell’8 novembre 1994 al Summit franco-africano di Biamiz, Mitterand parla di “genocidi” avvenuti in Ruanda nell’evidente tentativo di “minimizzare” le pesanti responsabilità del regime di Habyarimana nell’organizzare dei massacri contro i tutsi e gli hutu moderati del Ruanda e, al tempo stesso, di screditare, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, il nuovo governo di Kigali.
Di fronte, poi, alle continue richieste di assistenza finanziaria da parte del nuovo governo – principalmente per la riorganizzazione del sistema giudiziario, del tutto paralizzato –
— la Francia blocca, sino al novembre del 1994, qualsiasi decisione d’aiuto finanziario, tanto della Banca mondiale quanto dell’Unione europea.
La Francia ha ricevuto, ospitato o protetto i maggiori responsabili del genocidio
Malgrado i suoi indiscussi legami con i responsabili del genocidio e le sue dichiarazioni incendiarie, M.me Agathe Habyarimana, accolta con estremo garbo dal presidente della Repubblica, ha potuto soggiornare serenamente in Francia per alcuni mesi, con l’aiuto finanziario del Ministero della Cooperazione.
Ma la Francia non si è accontentata d’intrattenere questi espatriati: non ha rinunciato ad accogliere sul proprio territorio personaggi chiave del vecchio regime e della Hutu power, nonché esponenti del governo ruandese di transizione autoproclamatosi dopo l’abbattimento dell’aereo presidenziale e l’inizio dei massacri.
Durante l’Opération Turquoise (fine giugno -15 agosto 1994), la Francia ha reso possibile la ritirata dei responsabili del genocidio: redigendo lei stessa il mandato che le sarà accordato dall’Onu, l’operazione non prevedeva, infatti, l’arresto dei responsabili del genocidio.
A metà luglio, l’Onu chiede alla Francia di intervenire per il disarmo delle forze armate governative rifugiatesi nella zona umanitaria sotto controllo francese. La Francia risponde di non averne i mezzi. Oltre ai miliziani, anche alcune unità delle FAR e numerosi membri del governo ad interim poterono così transitare liberamente nella zona umanitaria francese, trovandovi rifugio.
Anche i militanti della radio del genocidio, quella “delle Mille Colline”, riuscirono così ad accodarsi allo stato maggiore delle FAR nelle sue ritirate successive.
I “giornalisti-animatori” che, in tenuta da combattimento circolavano, fino a giugno, a Kigali, si ritiravano in luglio a Gisenyi, poi a Cyangugu, nella zona “umanitaria” sotto controllo francese. Un portavoce del governo di transizione e delle FAR (in ritirata) ordinava alle popolazioni di prendere la strada dello Zaire, minacciando rappresaglie contro chiunque si fosse opposto alla strada dell’esilio. Il 18 luglio, si annunciava: “Il Fronte Patriottico Ruandese ci ha messo quattro anni per rientrare in Ruanda con 200mila persone. A noi basterà un mese per ritornarci con cinque milioni”.
Il luogotenente colonnello Jacques Hogard, comandante della parte Sud della zona di protezione francese, reagisce “fermamente”. Chiede al presidente ed ai ministri del governo ad interim di abbandonare Cyangugu e insiste affinché la Radio delle Mille Colline parta anche.
L’appello è subito ascoltato: i responsabili del genocidio attraversano, impunemente, la frontiera zairese per rifugiarsi a Bukavu. Secondo alcuni ufficiali dell’Onu, i militari francesi avrebbero trasportato in aereo alcuni capi militari di primo piano, tra cui il colonnello Théoneste Bagosora e il capo delle milizie Jean-Baptiste Gatete, come anche le truppe d’élite delle FAR e le milizie: tra luglio e settembre 1994, con una serie di voli in partenza da Coma, molti responsabili del genocidio sono stati spediti verso destinazioni non identificate.
La Francia ha tentato per un periodo di bloccare l’aiuto internazionale al nuovo Governo di Kigali, ritardando cosi la ricostruzione di un Paese devastato dagli effetti del genocidio
I responsabili della Banca mondiale e dell’Unione europea non lo nascondono: fino al novembre 1994, la Francia ha usato tutta la sua influenza per impedire la concessione di aiuti d’urgenza al nuovo regime di Kigali. Si legga, al riguardo, la seguente dichiarazione di un parlamentare francese poco sospetto di terzomondismo, il senatore Guy Penne, ex consigliere del presidente Mitterand per gli affari africani: “La Francia ha opposto il suo veto ad un progetto dell’Unione europea di assistenza finanziaria al nuovo governo di Kigali (…) le chancesdi successo di questo processo di transizione guidato dal Fronte patriottico ruandese sono molto fragili. Ma tale governo di unità nazionale risponde in fondo allo spirito di Arusha. Ci si aspetta, per tanto, che la Francia lo appoggi”. Un alto funzionario europeo precisa: “E’ un segreto di pulcinella, tutti sanno che la Francia sta cercando di ritardare il più possibile l’assistenza europea al nuovo governo di Kigali”.
Le organizzazioni non governative “Medici senza frontiere” e “Oxfam” dichiarano il 25 novembre 1994 che la Francia, sostenuta in questo dal Belgio, aveva imposto condizioni del tutto irrealiste al governo ruandese per sbloccare gli aiuti europei.
Il primo gennaio 1995, la Francia acquisiva la presidenza dell’Unione europea. Sotto le pressioni degli altri paesi membri, la Francia non poteva più difendere in Ruanda, in nome dell’Europa, una politica indifendibile. Il governo francese decideva, pertanto, di riprendere la cooperazione con il Ruanda.
La Francia, come altri paesi, non può, non deve sottrarsi all’esame delle proprie responsabilità nella tragedia del Ruanda. Si è visto come la Francia abbia sostenuto militarmente il regime di Habyarimana, armandolo e schierandosi dal suo lato. Essa ha contribuito all’addestramento militare delle forze principalmente responsabili del genocidio: la guardia presidenziale, elementi delle forze armate governative, le milizie di “autodifesa”: ha favorito la divisione dell’opposizione democratica contribuendo in tal modo al fallimento degli accordi di Arusha.
La Francia ha continuato ad appoggiare durante il genocidio i principali responsabili di quei massacri, costituitisi in governo provvisorio, sostenendoli diplomaticamente e facilitando la consegna di armi; ha riconosciuto troppo tardivamente il genocidio impedendo, pertanto, una rapida risposta della comunità internazionale.
Più di 30 anni di pratica di “dominio riservato” hanno tagliato fuori l’Eliseo da qualsiasi possibilità di dibattito democratico trasformando le relazioni franco-africane in nefasti rapporti personali fra capi di Stato e rispettive famiglie e confondendo la stabilità delle istituzioni con il mantenimento, attraverso la forza, di regimi corrotti e antidemocratici capaci di garantire privilegi economici e supremazie politiche.
Al tempo stesso l’esecutivo continua ad essere fortemente condizionato da potenti lobbies utilizzate, tollerate o anche solo lasciate prosperare: solo nello scacchiere africano si “agitano” più di una decina di reti politico-affaristiche le cui strategie e i cui interessi si sovrappongono con effetti, lo si è visto più volte, nefasti per i popoli africani.
Il 16 luglio 1995, in occasione del 53° anniversario della “retata del Vél d’Hiv” il presidente della Repubblica francese, Jaques Chirac, affermava:
“Sì, la follia criminale dell’occupante nazista è stata assecondata dai francesi, dalla Francia (…) Trasmettere la memoria del popolo ebreo, delle sofferenze e dei campi di sterminio. Testimoniare ancora e ancora. Riconoscere le colpe del passato e le responsabilità dello Stato. Non occultare niente delle pagine oscure della nostra storia significa semplicemente difendere un’idea di uomo, di libertà e di giustizia”.
Bisognerà attendere ancora 50 anni prima di ascoltare simili ammissioni sul sostegno criminale della Francia ai responsabili del genocidio ruandese?
Fonti: Traduzione e sintesi del Dossier preparato dalla “Coalizione per riportare alla ragione democratica la politica africana della Francia” (Agir Ici, Cedetim, Collettivo di Parigi contro la pulizia etnica, Comitato per la difesa dei diritti dell’uomo e la democrazia in Ruanda, Cozi,…)
Verschave F., Complicité de Génocide? La Politique de la France en Ruanda, Paris, 1994.
Lettera dal Ruanda. Storie del male e di speranza
Isabella Castrogiovanni
“Io ho sempre avuto paura di perdere
la memoria. La memoria è vulnerabile,
lo so. La memoria si sbriciola, va in
polvere. Ci sono cose che ho
dimenticato? Ci sono visi che non sono
più nei miei occhi? Ci sono gesti che
non ricordo più? Allora, che fare?
Come si può dire tutto, dire tutto
quello che va detto?”
“La verità — e questo, se vuoi, è
l’aspetto desolante della storia — la
verità è che questa storia rimarrà
sconosciuta”
Elie Wiesel, Dialogo sull’olocausto, 1996
Catania, Aprile 1997
Raccontare il Ruanda
Il silenzio, spesso opprimente, di quelle bellissime e verdi colline. Le montagne di ossa ancora ammassate nell’orrendo disordine delle tante fosse comuni. Le centinaia di teschi allineati, con macabro ordine geometrico, su di una traballante impalcatura di legno all’esterno della chiesa di Ntarama. I centomila “dannati” nelle prigioni in attesa, ormai da anni, di una improbabile giustizia. Le successive maree di rifugiati ammassati, con i loro miseri sacchi sulla testa, alle frontiere con lo Zaire e la Tanzania. E poi i tanti centri di transito per le migliaia di bambini non accompagnati smarritisi fra la folla nei giorni drammatici del grande rientro in massa dei profughi dai campi dello Zaire orientale. Lo sguardo smarrito delle migliaia di bambini orfani, spettatori forzati di una guerra spietata. La solitudine e la miseria delle tante vedove, sopravvissute, quasi per caso a quegli orribili massacri. Anche loro, tutti, in attesa di giustizia.
Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale il mondo si era trincerato dietro il risonante plus jamais ça. Eppure, nell’estate del 1994, mentre in Francia si celebrava il cinquantenario dello sbarco degli Alleati in Normandia, si stava compiendo in Ruanda l’ennesimo genocidio della storia moderna. Questa volta, però, i massacri si andavano consumando in un angolo sperduto del pianeta e vittime e carnefici appartenevano ad un popolo del quale con ogni probabilita’ solo pochi, nel nostro civilizzato mondo occidentale, avevano sentito parlare.
E quell’angolo di mondo apparteneva, poi, a un continente disperato, l’Africa. Un mondo “altro”, per secoli e secoli sfruttato e tenuto in ginocchio.
Il Ruanda, dunque. Gli Hutu ed i Tutsi. Cosa stava succedendo? E perche’?
In quella estate del 1994, di fronte a quelle terribili immagini di morte e sofferenza, la nostra colpevole ipocrisia ci portava a dire che quello che stava avvenendo in Ruanda era solo l’ennesima guerra tribale. Una guerra di poveri e tra poveri. Eppure su quella guerra lontana pesava, come un macigno, l’ombra dell’Occidente. I fiumi e i laghi ruandesi si riempivano di cadaveri martoriati a colpi di machete, ma quella continuava ad essere, nel silenzio assordante del mondo, una delle tante sporche e selvagge guerre africane.
Si stima che un milione di persone, fra cui almeno 300.000 bambini, siano state massacrate in Ruanda in poco più di tre mesi. In Africa, mi diceva un amico giornalista ruandese, si fa presto a dimenticare che mille, duemila morti sono una vita, più un’altra, più un’altra ancora. Che diritto abbiamo, proprio noi di questa “magnifica razza bianca”, che per troppi secoli ha reso schiavo questo continente, di dimenticarlo? Di dimenticare che la vita non può avere un valore diverso a latitudini diverse?
E oggi, la sensazione più amara è proprio che quel genocidio non avrà neppure un posto nella storia. Non se ne parlerà. Non si cercherà di capire. Non ci si sforzerà di fare giustizia.
Raccontare il Ruanda, dicevo. Mi chiedo in che modo io, europea, possa raccontare il Ruanda. Forse, ripercorrendo la tormentata storia di questo piccolo Paese africano. A partire dalle pesanti responsabilità del Belgio — potenza coloniale in Ruanda dalla fine della prima guerra mondiale al 1959, anno della indipendenza — nell’esasperare le condizioni del conflitto etnico fra Hutu e Tutsi. E, ancora, il ruolo giocato dalla Chiesa cattolica, il suo appoggio alla monarchia Tutsi e poi l’incondizionato sostegno al regime Hutu di Habyarimana. L’intrecciarsi degli interessi economici, strategici e militari di alcune potenze occidentali nella regione dei Grandi Laghi con i popoli africani usati cinicamente come pedine nel gioco universale del potere. La sporca vendita delle armi. L’intervento tardivo e ambiguo delle Nazioni Unite. Le tante ipocrisie della cooperazione internazionale e di certe agenzie “umanitarie”.
Si potrebbe parlare di tutto questo e servirebbe, forse, a capire le cause complesse di questa guerra. Ma vorrei provare, pittosto, a raccontare il Ruanda seguendo il filo della mia memoria. Una scelta, minimalista. Raccontare piccole storie di gente comune. Storie con la “s” minuscola. Storie individuali, di persone con cui ho lavorato, di bambini incontrati nelle carceri, di sopravvissuti al genocidio. Il Ruanda che io ho vissuto nei miei quasi due anni di lavoro li, fra Kigali e Gitarama. Ritornare su quelle storie forse anche per dare un significato compiuto a quel periodo. Per capire il senso della mia presenza in quel luogo di dolore.
La storia di Emmanuel
La storia di Emmanuel, ad esempio. Un bambino accusato di avere partecipato ai massacri del 1994. E’ una storia anonima, in Ruanda, perché proprio come la sua se ne potrebbero raccontare centinaia di altre. Emmanuel ha oggi 12 anni. Vive, dal novembre del 1995, in un centro di “rieducazione” utilizzato dal nuovo governo di Kigali per l’internamento dei bambini, penalmente non responsabili, accusati di aver preso parte al genocidio.
Emmanuel fu arrestato nell’aprile del 1995, un anno dopo il genocidio, in un piccolo comune nella Prefettura di Butare, nel sud-ovest del paese. Per mesi è stato incarcerato in un cachot, un piccolo centro di detenzione comunale, a circa 50 chilometri dalla capitale Kigali in una regione in cui i massacri sono stati particolarmente efferati: 30.000 morti, migliaia dei quali riesumati, un anno fa, da un’unica, immensa fossa comune. Uno squarcio profondo decine di metri, a pochi passi da una scuola elementare, nel mezzo di una verdissima collina. Emmanuel era detenuto in una cella di pochi metri quadrati, illuminata solo da una piccolissima grata ritagliata sul punto più alto di un lurido muro.
Ha diviso per mesi quello spazio fetido con un’altra trentina di detenuti adulti.
Tutti accusati di genocidio. Dai cachots — gli osservatori dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ne hanno recensiti almeno 180 in tutto il paese — si esce solo una o due volte al giorno per lavarsi o per raggiungere le latrine, sempre scortati dai militari armati dell’esercito patriottico ruandese.
Il resto della giornata trascorre nelle celle, dove il caldo è soffocante e gli odori insopportabili, senza alcuna attività, a volte nella totale impossibilità di muoversi a causa della sovrappopolazione carceraria. Un anno fa, nella Prefettura di Kibuye, sul lago Kivu, decine di detenuti morirono nel cachot comunale per soffocamento. Sono piccole, orribili, prigioni nelle quali, secondo il codice penale ruandese, si può essere detenuti per un periodo massimo di 72 ore. I ruandesi, quelli accusati di genocidio, ci rimangono, oggi, parecchi mesi con l’unica, desolante prospettiva, per chi non è rilasciato, di un trasferimento nelle infernali prigioni centrali.
E’ agghiacciante scoprire che anche i bambini non sfuggono a questo orrore. Emmanuel, interrogato da un agente della polizia giudiziaria pochi giorni dopo il suo arresto, ammise di essere stato costretto, dai miliziani hutu Interhamwe (“quelli che combattono insieme”, in kinyaruanda) ad uccidere con un grosso bastone due bambini più piccoli di lui. Nell’aprile 1994 Emmanuel aveva solo 9 anni.
Non so in quali condizioni questo bambino sia stato interrogato dalla polizia giudiziaria. So solo che, ancora oggi, nel centro di Gitagata continua a dire di avere avuto paura. Paura per essere stato costretto a uccidere quei bambini durante la guerra. Non capiva allora cosa stesse succedendo e continua a non capire oggi perché lo costringano a rimanere in quel centro, lontano decine e decine di chilometri dal suo villaggio dove aveva sempre vissuto, facendo il guardiano di vacche, prima dello scoppio della guerra e dell’inizio dei massacri.
Il giorno del trasferimento a Gitagata fu spiegato a Emmanuel, con l’aiuto di una interprete ruandese, che quel pulmino bianco dell’UNICEF parcheggiato a pochi metri dal cachot lo avrebbe portato in un posto pieno di bambini, un posto lontano da quella prigione, dove avrebbe potuto giocare e andare a scuola. Emmanuel continuava ad avere paura. A non fidarsi. Fu comunque trasferito e su quel pulmino salirono anche 2 militari armati di kalashnikov. “Per la sua sicurezza”, ci spiegarono.
Emmanuel rimase in silenzio durante l’intero viaggio verso Gitagata, più di 2 ore. Non volle mangiare nulla, appena 2 banane. Con il suo smagrito viso nerissimo appoggiato al finestrino.
Chiuso in un silenzio impenetrabile. Ricordo che sorrise solo una volta, quando incrociammo un grosso camion: prima della guerra Emmanuel non era mai uscito dal suo villaggio e la visione di quel grande veicolo, che in marcia sulla corsia opposta sembrava quasi venirci addosso, lo sorprese a tal punto da farlo sorridere. Ma fu solo un attimo.
La storia di Habyarimana
E poi ricordo lo sguardo terribilmente adulto del piccolo Habyarimana. Lui di anni ne ha soltanto 9. Distribuiti su un corpo piccolo ed esile. Nel febbraio del 1997 era ancora detenuto nella nuova prigione di Kabuga, un ex magazzino, appena alla periferia di Kigali, ristrutturato con i fondi della comunità internazionale: 5.000 detenuti, tutti uomini, quasi tutti accusati di genocidio.
Ex detenuti della “1930” la vecchia prigione centrale di Kigali, trasferiti su dei grossi camion a Kabuga a causa della sovrappopolazione carceraria: quasi 9.000 detenuti ammassati in una decrepita struttura, a poche centinaia di metri dal mercato centrale, che potrebbe accoglierne al massimo 2.000. Si calcola che nelle prigioni del Ruanda ci siano almeno 3-4 detenuti per metro quadrato. Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, invece, lo standard minimo per considerare accettabili le condizioni di detenzione e’, di almeno 3-4 metri quadrati per detenuto…
Ricordo bene, nei dettagli, il giorno di quel trasferimento dalla prigione “1930”. Quei vecchi camion in fila per le strade affollate di Kigali, scortati da due mezzi dell’esercito patriottico ruandese. C’erano anche un’équipe della Croce rossa e un gruppo di osservatori delle Nazioni Unite a seguire quel desolante corteo. Camion stracarichi di uomini. I più fortunati aggrappati ai finestrini, quasi con l’ansia di respirare un po’ di libertà. Molti cantavano. Mi ha sempre sorpreso, nelle carceri del Ruanda, luoghi disumanizzanti, l’assenza di disperazione nello sguardo della maggior parte dei detenuti. Non ho mai capito quali potessero essere le ragioni della speranza per quella gente.
Anche Habyarimana, come Emmanuel, è accusato di avere ucciso durante quell’agghiacciante primavera del 1994. Lui, però, al centro di Gitagata non è voluto andarci. Con i suoi soli 9 anni, diceva di non esser un bambino. Diceva di avere, anche lui, ucciso. E, poi, piangendo, diceva che altri uomini della sua famiglia erano in quella stessa prigione e che quello era, dunque, il posto in cui lui voleva stare. Quei singhiozzi, carichi di paura e di sofferenza, furono l’unica “cosa da bambino” che riuscii a scorgere, con sgomento, nel volto del piccolo Habyarimana.
Agli inizi del 1997, quando andai via dal Ruanda, c’erano ancora più di 2.000 minori nelle carceri: il 90% dei quali accusati di aver partecipato ai massacri del 1994. Secondo dati dell’UNICEF, di questi 2.000 bambini almeno 400 avevano, nel ’94, meno di 14 anni quindi, come previsto dal codice penale, non possono essere considerati penalmente responsabili. Nel giugno del 1996, il governo ruandese annunciò, in coincidenza con l’apertura della tavola rotonda sul Ruanda a Ginevra — in occasione della quale si sarebbe decisa la quantità di dollari da investire per la ricostruzione del Paese — che tutti i bambini che rientravano in quella fascia di età e che erano ancora detenuti con l’accusa di partecipazione al genocidio, sarebbero stati rilasciati e trasferiti al centro di Gitagata per un periodo di rieducazione. Al tempo stesso, venne annunciato che di quei piccoli génocidaires, come molti li chiamano in Ruanda, non più considerati come detenuti, si sarebbe ormai occupato un Ministero sociale al posto di quello della Giustizia. Un passo avanti carico di promesse e di speranze.
Ma mi è stato detto che, sino ad oggi, solo una piccolissima parte di quei 400 bambini è stata trasferita al centro di Gitagata. Gli altri aspettano, ancora, in quelle luride carceri.
Nelle prigioni i bambini non sono solo vittime di ogni sorta di abuso fisico e psicologico. Finiscono anche, inevitabilmente, con lo sviluppare dei comportamenti che non fanno che aumentare il rischio della devianza e, quindi, di una futura marginalizzazione sociale.
La prigione può così diventare una vera e propria “scuola del crimine”. Secondo uno studio condotto dall’UNICEF e dall’organizzazione non governativa Defense da
Enfants Internationale sulla situazione dei minori nelle carceri in tutto il mondo, il tasso di recidiva fra i minori che sono stati condannati ad una pena di privazione di libertà può raggiungere l’allarmante percentuale dell’80%.
In Ruanda la situazione dei bambini nelle carceri è ancora più grave se si considerano le orribili condizioni di detenzione e il fatto che quei bambini sono stati incarcerati con l’accusa di aver partecipato ad un genocidio, crimine contro l’umanità.
Certo, la maggior parte di quei bambini sarà stata costretta ad uccidere. Come è successo al piccolo Emmanuel. Ma dopo anni trascorsi in una prigione del Ruanda, a contatto con migliaia e migliaia di detenuti adulti accusati dello stesso orrendo crimine, riusciranno quei bambini, privati con violenza della loro infanzia, a reinserirsi nella “normalità” della vita?
Nel settembre del 1996, l’Assemblea nazionale di transizione del Ruanda approvava una legge organica sulla repressione del crimine di genocidio e dei crimini contro l’umanità commessi nel paese. Sulla base di quella legge, i minori fra i 14 e i 18 anni, accusati di genocidio, se giudicati colpevoli, potrebbero essere passibili di una pena che va da un minimo di 3 anni ad un massimo di 15 anni. E’ scoraggiante pensare che centinaia e centinaia di questi bambini saranno giudicati da tribunali composti da magistrati non giuristi, ruandesi con un livello di istruzione superiore chiamati ad esercitare la professione di giudici dopo una formazione giuridica di 4 mesi. Ed e’ inevitabile chiedersi, ancora una volta: come si fa ad amministrare la giustizia dopo un genocidio? E quale giustizia?
I processi e la trappola per topi
Dopo la guerra non c’erano più magistrati in Ruanda, alcuni erano stati uccisi, altri erano nei campi profughi, altri ancora nelle prigioni. Pochissimi gli avvocati, appena una ventina, nessuno dei quali disposto, comunque, a difendere le centinaia di migliaia di detenuti hutu accusati di genocidio. Pochissimi, anche, i procuratori e gli agenti della polizia giudiziaria.
Ridotti a zero i mezzi materiali: tribunali distrutti, ministeri saccheggiati, procure fatiscenti. Ancora nel corso del 1996, la Procura più importante del paese, quella di Kigali, offriva uno spettacolo avvilente: suddivisa in piccole sale, dai muri impregnati di sporcizia e di fuliggine; spazi invasi da montagne di polverosi fascicoli, disposti disordinatamente in ogni angolo, su traballanti tavoli, su vecchie librerie, su sedie sgangherate.
Nell’angusta sala del sostituto procuratore incaricato dei circa 350 mila minori detenuti nella prigione centrale, c’era anche una piccola trappola per topi in un angolo buio della stanza.
La vedevi appena, dietro la toga polverosa del sostituto Procuratore. Tristemente appesa ad un grosso chiodo arrugginito: squallida metafora di un sistema giudiziario caotico e paralizzato dall’impossibilità di affrontare adeguatamente quell’enorme mole di lavoro.
Ricordo perfettamente l’espressione smarrita dei magistrati del Tribunale di prima istanza della capitale Kigali all’apertura del primo processo per crimine di genocidio.
Era il 30 dicembre 1996: i fatiscenti locali del tribunale più importante del paese, con i vetri delle finestre ancora frantumati, strapieni di giornalisti e fotografi della stampa internazionale, rappresentanti di agenzie delle Nazioni Unite, giornalisti locali, decine e decine di ruandesi ansiosi di giustizia. C’erano anche tanti bambini. Non riuscii a capire per quale ragione fossero lì.
Gli accusati arrivarono poco dopo il nostro ingresso nella sala dell’udienza; due uomini sui 40 anni: Silas Munyiagishali ex procuratore presso la Procura di Kigali e Théodomire Ruzirawaba un funzionario dell’amministrazione comunale, responsabile di settore nell’area rurale della Prefettura di Kigali.
Entrambi accusati di complicità nel genocidio. Entrambi detenuti della “1930”. Entrarono nella sala scortati dai militari, con indosso le tipiche divise rosa confetto usate in tutte le prigioni del paese. I capelli rasati a zero, lo sguardo vuoto. Il processo del primo imputato fu subito sospeso perché, avendo lo stesso esercitato le funzioni di procuratore aggiunto a Kigali, la competenza a giudicare spettava al tribunale del distretto più vicino alla capitale. Anche il processo a carico del secondo imputato fu sospeso in seguito alla richiesta di indagini supplementari.
Circa 90.000 detenuti marciscono nelle prigioni del Ruanda. Sino al mese di febbraio 1997, una decina di sentenze di condanna, a morte, erano state pronunciate dai tribunali ruandesi contro persone accusate di genocidio. I processi dei minori, invece, non erano ancora iniziati.
Bambini strumenti di un genocidio?
In quel terribile clima di follia collettiva, di “smarrimento della ragione”, in cui le responsabilità individuali quasi si annullano nella responsabilità del gruppo, anche i bambini del Ruanda hanno ucciso.
Il progetto criminale dei principali responsabili e pianificatori del genocidio prevedeva, d’altra parte, anche questo. Trasformare l’intera comunità hutu in un branco di assassini. Rafforzare il sentimento di appartenenza etnica attraverso la partecipazione a quell’orrendo crimine collettivo.
Per i civili uccidere un tutsi diventava quasi un rito di iniziazione per affermare la propria identità, per imporre il proprio diritto esclusivo all’esistenza. Il nuovo Ruanda doveva essere un paese fatto solo di hutu, legati dalla partecipazione collettiva ad un crimine mostruoso.
Migliaia di uomini e di donne, centinaia di adolescenti e di bambini per tre lunghi, lunghissimi mesi, hanno ucciso altri uomini, donne, bambini. A colpi di machete e di bastone. Corpi lacerati gettati i fiumi, nelle latrine, nelle tante fosse comuni. Corpi accatastati nelle chiese, nelle scuole, negli ospedali.
“A story on the evil”
“I am writing a story on the evil”, mi disse un giorno una giovane giornalista inglese che accompagnavo al centro di rieducazione di Gitagata. Lei, il “male”, aveva scelto di cercarlo nello sguardo spento di quei 100 bambini accusati di genocidio.
In Ruanda ho provato a capire il genocidio. A misurarne l’efferatezza. Ho ascoltato storie di sopravvissuti, decine e decine di racconti che avevano il sapore angosciante della morte, del dolore, della paura, della sofferenza, della solitudine. Partecipare alle cerimonie di riesumazione dei cadaveri dalle fosse comuni credevo, allora, fosse un altro modo per “capire” il genocidio, per rispettare il dolore di quella gente e la memoria collettiva di quel popolo.
Riempire le nostre grandi macchine di centinaia di quei teloni blu di plastica chiesti all’Alto Commissariato per i rifugiati o racimolati nei depositi di Médecins sans Frontières che sarebbero serviti per raccogliere ciò che restava di migliaia di vite stroncate a colpi di machete e per dare loro una sepoltura dignitosa, era un altro tentativo, umile, per dimostrare solidarietà, rispetto.
Il 6 aprile del 1996, anniversario del genocidio in Ruanda, invitarono me e alcuni amici e colleghi ad assistere ad una commemorazione nella Prefettura di Gitarama.
Ricordo solo il disagio di essere lì. La paura di scoprire, ancora e ancora, quelle orribili e nauseabonde sacche di morte, fra le colline del Ruanda. Il senso di impotenza. Una giovane donna, con il volto contratto, di fronte ad una di quelle fosse in cui erano stati gettati anche i suoi bambini, mi disse che io, noi, i miei amici, non avremmo dovuto essere lì. Non trovai nulla da dirle. Ricordo che provai solo una grande vergogna.
Ragioni storiche e politiche, motivazioni di ordine economico e sociale aiutano, certo, a capire le “ragioni”, se di ragioni si può parlare, di quella mattanza.
Ma non basta. Penso ad un essere umano che per mesi impugna un rozzo machete e uccide. E poi rientra nel suo villaggio, consuma la sua porzione di manioca e la sua birra di banana. Si addormenta nella sua stuoia. Forse parla con la sua famiglia, con i suoi vicini. Poi si sveglia. E torna ad uccidere. Per tre interminabili mesi. Quando pensi a questi gesti di quotidiana follia, come fai a capire? A spiegare?
La Radio libre des milles collines dice che le fosse non sono ancora piene. Che non ci si deve fermare: i cafards (le blatte, così erano chiamati i tutsi) vanno sterminati. Tutti.
Quando immagino un essere umano che arriva a disumanizzarsi a tal punto, mi sembra che tutte le ragioni storiche, economiche, politiche non bastino più per capire. Di fronte alle tante tragedie della storia mi chiedo, allora, se non esista un negativo dell’uomo, come elemento imponderabile del suo essere, refrattario a qualsiasi Legge.
Ma, la pesantezza di tale dubbio, mi fa optare, ancora una volta per l’“ottimismo della volontà”.
Sono rientrata dal Ruanda nel febbraio del 1997. E’ passato parecchio tempo e mi sembra di avere ancora lo stesso gusto amaro in bocca.
Eppure il Ruanda non è solo un paese di morte. Per esempio, non dimenticherò mai il volto sempre sorridente di Espérance, una coraggiosissima donna tutsi che ha visto uccidere suo marito e che ha visto morire fra le sue braccia il suo bimbo neonato stroncato da una febbre malarica incurabile in tempi di guerra.
Storia di Espérance
Espérance vive oggi a Gitarama con i suoi tre figli e con altri tre bambini orfani che ha accolto nella sua modestissima casa.
Espérance è una intellettuale, lavora per il Ministero della famiglia e continua, malgrado il carico di dolore che ha dentro, a lottare per l’emancipazione delle donne ruandesi.
Organizza seminari, incontri con le cooperative di donne, prepara progetti di formazione. Lei è una delle tante vittime “anonime” di quel genocidio. Ma continua a credere alla vita.
Nella possibilità della riconciliazione nazionale. In un futuro di pace per il suo paese.
E poi ricordo le riflessioni appassionate dì Jean de Dieu, giovanissimo funzionario del Ministero della gioventù che ama insegnare storia nel suo tempo libero in una scuola di Gitarama.
E le parole, pacate, di Albert, psicologo ruandese: “… in Ruanda il degrado umano ha toccato il fondo. E arrivato il momento di risollevarsi, non abbiamo altra alternativa che l’ottimismo”.
Il figlio maggiore di Albert ricorda che i suoi genitori, ed alcuni dei suoi fratelli, sono stati uccisi durante la guerra. Albert lavorava in Belgio e ha deciso di rientrare in Ruanda dopo il genocidio.
Adesso lavora come consulente dell’UNICEF a Kigali, in un progetto di assistenza ai bambini che hanno subito gravi traumi durante la guerra. Ripenso, anche, alla determinazione di quelle giovani donne contadine che percorrevano chilometri a piedi, con i loro piccoli avvolti in coloratissimi panni e legati sulla schiena, solo per partecipare ad una breve formazione sui diritti della donna e del bambino.
E allo sguardo dolce di Jean de Dieu, direttore nazionale della polizia giudiziaria del Ruanda, sopravvissuto solo perché ebbe la fortuna di raggiungere l’hotel Milles Collines, sotto controllo dei militari delle Nazioni Unite, prima che le strade di Kigali si riempissero di posti di blocco sorvegliati dalle milizie interahamwe e dai militari delle forze armate governative.
Mi mostrò, un giorno, con orgoglio, l’album di fotografie della sua grande famiglia. “Quella è mia madre, con le mie sorelle e i nipotini… quelli sono i miei fratelli, i cognati, le cugine… adesso non c’è più nessuno, sono morti. Tutti”. Tutti vittime di quei massacri.
Anche il suo cuore è gonfio di dolore e di lutto. Ma anche lui, come Espérance, ha scelto di lottare per il diritto alla vita.
Ho fra le mani il libro che un caro amico ruandese ha recentemente pubblicato in Canada. Francois Bugingo ha solo 23 anni. E quel suo voluminoso “Africa Mea” è una dolorosa testimonianza di un giovane intellettuale africano che non vuole, neanche lui, rinunciare alla speranza.
“La vita in Africa è là, permanente, ostinata, malgrado l’indifferenza dei mass media che alle immagini di vita preferiscono il sangue della disperazione. Essa è veramente forte a condizione che le si conceda la chance che essa merita. Un giorno, forse, dopo avere cessato di perdersi lucidamente, l’Africa raggiungerà quella vita che, per il momento, sembra ad essa negarsi”.
Non è una inevitabile fatalità ma tutta una lunghissima serie di errori tollerati ad avere creato questo desolante spettacolo di sofferenza e di miseria che incarna oggi il continente africano. Continuare a girare il coltello nella piaga purulenta di vecchi e nuovi colonialismi non basta.
Troppo grosse anche le responsabilità e le complicità di tante classi dirigenti africane nell’avere soffocato la speranza dei loro popoli in una storia diversa, garante di quella dignità alla quale ogni essere umano ha il sacrosanto diritto di aspirare.
“L’Afrique n’est pas encore toute morte”, scrive Francois. Il suo libro è il messaggio appassionato di un giovane africano in esilio a quell’altra gioventù africana rimasta sul continente affinché essa comprenda che ha il “diritto alla felicità, che deve esigerlo, che deve rifiutare il suicidio”.
Questa sarebbe, finalmente, la “loro” Storia.
Schede di approfondimento
Scheda 1 – Il Ruanda dopo la guerra
- Popolazione. 7,5 milioni (1994).
- PNL pro capite: 80 dollari l’anno (stime FMI 1995).
- Persone uccise durante la guerra: 1 milione (stima).
- Profughi e sfollati: 13% circa della popolazione totale.
- Mortalità 0-5 anni: 222 bambini su mille nati.
- Bambini orfani in affidamento familiare: 200.000 (settembre 1996).
- Bambini non accompagnati ospitati in orfanotrofi o centri di accoglienza: 6.600 (ottobre 1996).
- Bambini soli (abbandonati, presunti orfani o dispersi) per i quali sono in corso ricerche dei familiari: 54.700 in Ruanda e diverse migliaia nei campi profughi ai confini (settembre 1996).
- Bambini dispersi reinseriti nella famiglia (genitori o parenti stretti): 20.000 (settembre 1996).
- Bambini in prigione: 2.500 (stima), la maggior parte dei quali con l’accusa di genocidio.
- Bambini ex-soldato: oltre 5.000, 2.600 già inseriti in programmi di smobilitazione e recupero.
- Tasso di scolarizzazione: 70%.
- Spesa UNICEF per i programmi 1996: 32 milioni di dollari.
Fonte: UNICEF, Italia, febbraio 1997
Scheda 2 – Cronologia essenziale
- 1884. Conferenza di Berlino. Le potenze coloniali si accordano per la spartizione dell’Africa.
- 1900. IPères Blancsfondano la loro prima missione in Ruanda.
- 1926. Alla fine della Prima guerra mondiale la Società delle Nazioni affida al Belgio un mandato di tutela sul Ruanda. L’amministrazione tradizionale è sostituita da un sistema di autorità territoriali affidate a capi esclusivamente tutsi.
- 1933. I belgi introducono le carte d’identità con menzione etnica.
- 1957. Pubblicazione del manifesto dei Bahutus in cui si reclama la remissione del potere alla maggioranza. Uno dei principali firmatari è Gregoire Kayibanda, ex seminarista, sostenuto da Monsignor André Perraudin, vicario apostolico in Ruanda.
- 1961. Proclamazione della repubblica: Kayibanda viene incaricato di formare il governo. Una prima ondata di violenze costringe all’esodo massiccio migliaia di tutsi. Il partito di Kayibanda, il Parmehutu, vince le prime elezioni amministrative.
- 1962. Il Ruanda accede all’indipendenza, Kayibanda diventa presidente della Repubblica.
1962-66. Persecuzione contro i tutsi.
- 1973. Colpo di Stato: il generale Juvenal Habyarimana conquista il potere.
- 1979. Creazione negli ambienti di esiliati tutsi, in Uganda, dell’Unione nazionale ruandese, futuro Fronte Patriottico Ruandese.
- 1990. L’FPR lancia la prima offensiva a partire dall’Uganda. Questo provoca rappresaglie contro i tutsi in Ruanda. Circa 8.000 tutsi (uomini e donne) vengono arbitrariamente arrestati a Kigali. Il giornale estremista “Kangura”, notoriamente sostenuto dalla moglie del presidente Habyarimana e dall’ala dura del regime (Hutu Power),pubblica i 10 comandamenti dei Bahutu.
- 1991. L’FPR apre un nuovo fronte a Byumba, nel nord del Paese. Le milizie dell’esercito governativo massacrano la comunità tutsi della regione. La Costituzione è modificata: introduzione del multipartitismo e della libertà di stampa.
- 1992. Nascita di un partito apertamente razzista, Coalizione per la difesa della repubblica (CDR). La gioventù del partito presidenziale (MRND) si organizza in milizie.
Massacro dei tutsi nella regione di Bugesera. Pogrom di tutsi e oppositori hutu a Gisenyi, regione di origine del Presidente. Cessate il fuoco tra l’FPR e il governo.
- 1993. Aprile – Missione del relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extra-giudiziarie: vengono apertamente denunciate le sistematiche violazioni dei diritti umani commesse dalle forze armate governative e dalle milizie.
Il 4 agosto vengono firmati, ad Arusha, gli accordi di pace. E’ prevista una divisione del potere tra il regime, i partiti di opposizione e l’FPR.
Inizio delle emissioni razziste della Radio Televisione Libera delle Mille Colline (RTLMC) diretta, principalmente, dal cognato del presidente Habyarimana.
E’ costituita la missione delle Nazioni Unite per l’assistenza al Ruanda (MINUAR) con il mandato per l’applicazione degli accordi di pace.
1994 – Gennaio – Blocco degli accordi di Arusha.
La fazione presidenziale rifiuta di creare il governo di transizione allargato all’FPR.
6 aprile – Abbattimento dell’aereo presidenziale. Muoiono i presidenti del Ruanda e del Burundi. Inizio dei massacri. La Francia ed il Belgio inviano truppe per evacuare i propri connazionali. Un governo ad interim si autoproclama a Kigali.
21 aprile – Dopo l’uccisione di 10 para’ belgi della MINUAR, il Consiglio di Sicurezza riduce gli effettivi della MINUAR da 2700 a 450 soldati e osservatori militari.
Negli Stati Uniti viene approvata una direttiva che limita l’impegno americano in operazioni di peacekeeping.
17 maggio- Di fronte alla gravita’ dei massacri il Consiglio di sicurezza vota lo spiegamento di 5500 caschi blu in Ruanda ed impone un embargo delle armi.
22 giugno – Il Consiglio di Sicurezza autorizza la Francia ad intervenire militarmente in Ruanda (Opération Turquoise): la risoluzione non prevede, nel mandato, il perseguimento dei responsabili del genocidio.
Luglio – Avanzata del Fronte patriottico, che proclama (il 17 luglio) la fine della guerra. Inizia l’esodo di massa verso lo Zaire.
19 luglio – Bizimungu (FPR) è nominato presidente di un governo di unità nazionale. Scoppia un’epidemia di colera nei campi profughi dello Zaire: solo fra il 19 ed il 25 luglio, muoiono fra 13.000 e 14.000 persone. La comunità internazionale stanzia circa 1,2 miliardi di dollari per aiuti di emergenza.
Settembre – Conformemente ad una risoluzione della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, si organizza un’operazione sul campo per il monitoraggio dei diritti umani in Ruanda.
8 novembre – Il Consiglio di sicurezza decide la creazione di un Tribunale penale internazionale per i crimini commessi in Ruanda.
- Aprile– Massacro nel campo di sfollati di Kibeho, in seguito all’intervento dell’FPR.
Agosto – II Consiglio di sicurezza sospende l’embargo sulle armi destinate al Ruanda.
Lo Zaire espelle più di 10.000 rifugiati ruandesi e minaccia di espellerli tutti entro la fine dell’anno.
- Settembre – ottobre– Inizio della rivolta Banyamulenge nella regione del Kivu (Zaire orientale). Viene promulgata in Ruanda la nuova legge organica per il perseguimento dei crimini di genocidio e contro l’umanità commessi in Ruanda a partire dal 1 ottobre 1990.
Novembre – Estensione del conflitto in Zaire: le truppe ribelli guidate dal Kabila e con l’appoggio dell’FPR acquisiscono il controllo dell’intera regione orientale dello Zaire.
I violenti scontri fra i ribelli, l’esercito zairese, le ex Forze armate governative ruandesi e le milizie presenti nei campi profughi costringono centinaia di migliaia di rifugiati rwandesi a rientrare massicciamente in Ruanda.
Dicembre – Iniziano a Kigali i processi per crimini di genocidio e contro l’umanità.
- Maggio– L’esercito di Kabila arriva a Kinshasa.Deposizione di Mobutu.
Fonte: Maria Malagardis, Pierre-Laurent Sanner, Rwanda, Le Jour d’Après, Médecins du Monde, Paris, 1995.
Scheda 3 – Gli effetti della guerra sui bambini ruandesi
- Il 96% dei bambini ha assistito ad atti di violenza durante la guerra
- L’87% ha perso membri della propria famiglia
- Piu’ del 50% ha assistito a massacri di massa
- Il 30% ha visto compiere atti di violenza sessuale
- L’80% dei bambini ha dovuto nascondersi per sopravvivere durante la guerra e piu’ della meta’ (un quarto dei quali in totale solitudine) e’ rimasto nascosto per 4-6 settimane
- Il 16% ha raccontato di essersi nascosto fra i cadaveri per sfuggire ai massacri
- La maggioranza dei bambini ha visto le proprie case distrutte o messe a soqquadro
- Quasi tutti i bambini intervistati hanno creduto che stavano per essere uccisi e due terzi di essi ha ancora paura.
Fonte: UNICEF, Ruanda 1996, Inchiesta sulle conseguenze della guerra sui bambini condotta dal programma dell’UNICEF Ruanda per il recupero dei bambini traumatizzati nel periodo di tempo che va dal maggio al dicembre 1995 nelle 11 prefetture in cui e’ diviso il paese.
Scheda 4 – ‘Never Again’. Voices from Rwanda Forum
Pubblichiamo alcuni appunti tratti dal Rwanda Forum tenuto a Londra il 27 Marzo del 2004, a 10 anni da genocidio. Le abbiamo lasciate in lingua originale e nell’ordine originale degli interventi, nella speranza che restituiscano la tensione ancora viva in molti dei testimoni e dei protagonisti di quei fatti.
“The Rwandan genocide is a clear
reminder of the hypocrisy of our society”
“We need to understand the past,
not to forget it, for reconciliation to happen”
“There are some evils
that are too big for the law”
Ibrahima Fall (UN Special Rep. for the Great Lakes Region)
The genocide in Rwanda should have never happened. But it did.
The international community failed Rwanda. It could have stopped the killings. It chose not to do so. There was no political will to intervene.
We all knew that the genocide was happening.
Ten years later we are still trying to pick up the pieces of a completely shattered country.
The UN is now doing what it can to help Rwandans rebuilding a new society.
Fundamental questions raised by the genocide:
- The role of the UN and in particular of the SC
- The roots of violence
- The responsibility of the international community to protect people in danger
- The responsibility of the UN and individual states to prevent and punish genocide under the Genocide Convention
The UN GA has declared April 7th as the official day to commemorate the Rwandan genocide: at 12.00 on that day, there will be a minute of silence all over the world as a sign of respect for victims and survivors of the genocide.
Let us join this silence, let us send a message of remorse for the past and of determination that this will not happen again in the future.
Commissioner Mazimhaka (Deputy Commissioner of African Union)
It is difficult to write and to speak about the Rwandan genocide only ten years after; we still lack emotional distance from the events..
Problem of “ethnization” of Rwandan society: why did Belgium, as the country mandated by the Society of Nations to assist Rwanda in the de-colonization process, fail so badly? The tandem between the Belgian administration and the Catholic Church in Rwanda enormously facilitated the ethnic divide between Tutsi and Hutu.
The genocide was very well planned; the crash of the presidential plane is almost irrelevant.
Need to distinguish between “personal memory” and “collective memory” or “historical memory”.
Rwandans are asking themselves “who are we?” “who were we before ethnic hatred started”?
The responsibility of other African country: why did they watch Rwanda going on fire, without intervening?
Genocide does not happen by accident: it is a planned, prepared and organized criminal enterprise.
I pray for “never again” in the African continent.
Emmanuel Uwurukundo (genocide survivor)
Testimony of a tutsi survivor during the fall of Kigali.
The delicate relationship between historians’ accounts and survivors’ accounts/memories: tension between individual memory and collective memory/history
Amahoro Foundation: support for victims and survivors.
Amahoro, in kinyarwanda, means more than peace, it means internal tranquillity.
Allison Des Forges (HRW)
How to understand how the genocide came about?
The complex factors of the genocide: power, economics, ethnicity, state control, media.
The genocide was well planned by a small group of Hutu extremists, both military officials and civilians. It was not planned by the whole government: in fact, after Arusha, there was a coalition government and not everyone was supporting the plans of the extremist Hutu’s power ideology.
Major channels to carry down the genocidal plan:
- Military and civilian elites (hard liners)
- Administrative structures down to cellule level
- Media inciting to ethnic hate
At the beginning the Hutu extremist elite did not get support from the whole hutu population: some governmental officials refused to support the killings in their prefecture. They were eventually forced to do that to survive.
The role of the UN
15/04/1994: 1st mtg. of the UN SC to discuss the situation in Rwanda. By an accident of history, Rwanda was one of the 15 non permanent members of the SC at that time. Despite the information received from the field, no state in the SC questioned the presence of the Rwandan representative in the SC! While the genocide was carried out, he was received in France and Egypt!
Any lessons learned?
- The SC has recently announced that all future PKOs will have to have as part of their mandate the protection of civilians.
- Appointment of a special rapporteur on genocide
- Establishment of a special committee to monitor and facilitate implementation of the Genocide Convention
So, we have moved forward after the Rwanda’s catastrophe: the question is, have we moved far enough?
Linda Melvern (British investigative journalist)
Genocide is NOT an abnormal event, is NOT an aberration.
It is a rational decision to destroy a special group of people.
It is a deliberate state policy.
If genocide can be predicted because it does have rational motivations, surely it can be prevented too.
International indifference and inaction: the most shocking international scandal after WWII.
Some people in a position of power knew far too well what was happening in Rwanda.
France sat silent in the UN SC.
A serial of betrayals for the Rwandan people:
- betrayal for not stopping the massacres
- betrayal for not commemorating it
- betrayal for not providing now adequate support to the survivors (lack of reparations).
People in Rwanda are still dying because of the genocide: 80% of Rwandan women survivors were gang raped and are dying of HIV-AIDS.
Albert Nzamukwereka (student activist)
History was a factor of division not of unity in Rwanda before the genocide.
“Schools were the first place that thought me the differences between Hutu and Tutsi” (a Rwandan’s child testimony)
What history is written in Rwanda books after 1994?
No history: new books are being prepared
Emmanuel Ruhara (genocide survivor)
The consequences of the genocide are unaccountable.
How to overcome the legacy of the genocide?
Is reconciliation happening in Rwanda? Is it possible at all?
We strongly believe that forgiveness is essential for a lasting peace in Rwanda.
Forgiveness is not “giving up” memories. Memory is a necessary pre-requisite for justice and reconciliation.
Forgiveness has to go hand in hand with apology
General Dallaire (UNAMIR Force commander during the genocide)
The Rwandan genocide was brutal and we must be equally brutally frank now in discussing it. What happened in Rwanda concerns us all.
The original concept of “never again” proved to be an empty statement in the case of Rwanda.
We had anticipated that there would have been massacres in Rwanda. Yet, nothing was done to prevent this from happening. Why?
Rwanda did not count, as simple as that.
The UN was fully knowledgeable of what was happening on the ground few weeks after the first massacres started.
We could not convince and shame the international community that life has the same value in Rwanda as it does in the Balkans. All humans are humans and none is less important than others.
The day we rescued a 3 years old child from a site where a massacre had occurred, I looked at him and I saw the eyes of my own child. Just one innocent child.
Rwanda was not worthy of casualties, was not worthy another UN failure (the “Mogadishu’s factor, October 1993). Rwanda was not worthy the life of UN soldiers.
Humanity was abandoned in Rwanda. And we too have lost our humanity there.
I am still left with the terrible feeling that there would have been more reaction if the Rwandan mountain gorillas would have been massacred.
There will be one day when we will stop killing each other. It may take 100, 200 or 300 years, but it will happen. We must preserve humanity.
I believe the future of humanity is in the hands of NGOs.
Don’t ever let the UN have an army!
General Henry Anyidoho (UNAMIR deputy force commander)
On 09/04/1994, Belgium, France and Italy started evacuating their nationals from Kigali. Even a dog was evacuated, while Rwandans employees and their families were left behind to a certain death!
The clear answer to stop the carnage was reinforcing UNAMIR, not withdrawing.
21/04/1994: UNSC decides to reduce UNMAIR from 5000 troops to 270.
We abandoned Rwandese in the greatest moment of need.
UN SC Res. 929 (June 1994): Operation Turquoise (under Chapter VII, while UNAMIR was all the time under Chapter VI).
Ambassador Karel Kovanda (Permanent representative of the Czech Republic in the UN SC in 1994-1995)
I was President of the UNSC in January 1994 when for the first time we heard from an RPA official about the risks of failure of the peace agreement in Rwanda.
This was the time when General Dallaire sent his first fax to NYHQ alerting DPKO of the risks massacres. This information was not passed to the UN SC!
Why the SC did not act?
- The UN Secretariat and the SC relations were not transparent; the SC was terribly frustrated at the lack of information from the SG
- The composition of the SC was such to contribute to the lack of genuine understanding of what was happening in Rwanda
- Confusion between civil war, breach of Arusha peace agreement and genocide.
- UN people were simply unable to grasp what was happening.
- Political problems: Rwanda an internal matter, the situation was not threatening international peace and security and so there was no ground for SC intervention. Humanitarian intervention was still a tabu in the early 90s. So, some countries were extremely reluctant to support interference in internal affairs.
- Individual states’ responsibility: France was casting doubts all the time about what was happing in Rwanda
- The SC was concerned primarily with the security of UNAMIR troops (Somalia’s factor)
- The word “genocide” is used for the first time in the SC on 05/05/1994, almost one month after the massacres had started by the representative of the Check government. At the beginning the massacres were described as “ethnic cleansing” or “mass killings”. UNAMIR personnel was prohibited from using the word genocide.
Dr. Lillian Wong (Political analyst)
Retrospective analysis brings some clarity.
Today, ten years after, we are able to better understand the facts.
Why did UK policy failed as well?
- Lack of interest: Rwanda was recognized as being in the French area of interest
- Lack of information: UK diplomat reports and files produced in 1994 didn’t contain any mention about the risks of ethnic violence, let alone the preparation of the genocide. One diplomat’s report from a mission to Rwanda in February 1994, only describes Kigali as a “tense city”. What does this mean? There was no clarity at that time
- Excess of caution among policy makers and diplomats
- UK over reliance on what other countries were doing
Professor Schabas (Director of Irish centre for human rights, National Univ. of Ireland)
Analysis of Genocide Convention of 1948: two obligations on state parties:
- duty to prevent
- duty to punish
But the content of both obligations remains unclear.
The broader the definition of the crime of genocide, the more difficult is to define the exact content of the two obligations above. Tendency to overuse the word “genocide”. With broad definition of genocide is more likely that the duty to act will not be implemented.
The duty to act: debate around the concept of humanitarian interventions.
But, this is presented as a right of states to intervene for humanitarian reasons, when in reality the Genocide Convention poses an obligation to intervene not a right.
Recent steps taken by UN to develop the content of these positive obligations to prevent and punish the crime of genocide (see also above)
- Appointment of special rapporteur on genocide and
- Setting up of a special committee to monitor implementation of the Genocide Convention
Ambassador Adama Dieng (Ass. SG and Registrar ICTR)
Contribution of international justice: significant impact in eradicating the culture of impunity.
But, the equation between emergence of international criminal justice and prevention of human rights atrocities is far from being established.
The deterrent effect of international justice is questionable.
For international justice to fully play a deterrent role a basic precondition needs to be met: durable and sustainable development.
Also, both victims and survivors must recognize the value of international justice, must be convinced that justice is being done.
Law standards of justice and persistent denial of accountability bring revenge and more cycles of violence.
International justice could be perceived as “alien” justice (ref. to Akayesu’s judgement).
In conclusion: international justice is well equipped to fights against impunity and to prevent future violations. But real political commitment is necessary.
Susan Moeller (Prof. of media and international affairs at University of Maryland, Washington DC)
NY Times, March 2004: article on “mass killings in Southern Sudan”.
The most vicious ethnic cleansing, similar to Rwanda’s genocide.
If we turn our back again because these people happen to be in a small region in Africa, then shame on us!
Reports from Rwanda back April 1994 were initially triggered by the killing of the 10 Belgian soldiers and by the evacuation of international personnel.
May 1994: shift in focus and interest of international media. The story is now the humanitarian crisis in the refugee camps in former Zaire. It’s easier to cover, it’s easier to understand.
It was Goma, not the genocide that triggered the huge American humanitarian response.
J.B. Kayigamba (journalist)
We, Rwandans, have been deprived of our history because of political games.
Historians can fail to tell the real story of victims and survivors.
The genocide survivors have no other desire than that of being understood.
Dr. Gregory Stanton (Prof. of Human Rights at Mary Washington College, Pres. of Genocide Watch)
Early warnings alone do not prevent a genocide. Governments must be compelled to act.
Early warnings of new massive human rights atrocities for instance in DRC and Sudan are today loud and clear: early warnings or late alarms?
Genocide is not a conflict, is a one-side mass murders enterprise. Conflict resolution, therefore, is not a way to prevent genocide.
How can the international community overcome the repeated paralysis that has prevented it to stop the genocide?
Issues of impartiality of the international community and the extend to which is desirable to see the UN taking side to stop a genocide: “when there is a genocide, only the stars in the sky can be neutral”.
What is needed is political will: we must create political movement at national level to generate political will; we will never be bystanders again.
Robert Cooper (DG External and Politico-Military Affairs, General Secretariat of the Council of the EU)
EU commitment to Africa, main issues:
- contribution to peace keeping in Africa: being discussed with African Union (no development without security)
- “battle groups’ concept”: creation of small units for rapid deployment to conflict areas (1 nation or multiple nations’ troops)
- deployment of forces to DRC last summer (it took only two weeks to get them there): this happened primarily with Rwanda in mind…multinational deployment is always healthier than unilateral intervention (issues of impartiality).
With Yugoslavia, the EU realized that to maintain peace and stability the use of military force may be necessary.
Main questions/issues raised by the audience
- Possibility of privatization of PKOs?
- The Rwandan government released last year around 20,000 prisoners (primarily young people and elders); this year an additional 40,000 have come out of prisons and returned to their communities (the majority of them will be tried by gacaca courts): is this a failure of justice or a sign of reconciliation?
- Lack of victims and witnesses’ protection schemes inside Rwanda: incidences of witnesses killed
- Does the war on terror reduce our capacity to respond to human rights atrocities around the world?
Prof. Stanton
“Genocide is caused by human will and can be prevented by human will. Never again will we excuse the international community for witnessing a genocide. Never again.”
Scheda 5 – Suggerimenti bibliografici
- African Rights, Ruanda: Death, Despair and Defiance, 1995.
- Braeckman C., Ruanda, Histoire d’un Génocide, Paris, 1994.
- Bugingo F., Africa Mea. Le Ruanda et le Drame Africain, 1997.
- Chrétien J.P., La Crise Politique Rwandaise, Genève-Afrique, vol. XXX, 1992.
- Chrétien J.P., “Le défi de l’intégrisme etnique dans l’historiographie africaniste. Le cas du Rwanda et du Burundi”, Politique Africaine, n. 46, June 1992.
- D’HertefeIt M., Les Clans du Ruanda Ancien. Eléments d’Ethno-sociologie et d’Ethnohistoire, Tervuren, 1971.
- Kagame A., Un Abrégé de l’Ethno-histoire du Rwanda, 1972.
- Prunier G., The Rwanda Crisis: History of a Genocide, New York, Columbia University Press, 1995.
- Temon Y., Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo, 1996.
- Verdier, Decaux. Chrétien. Rwanda un Génocide du XX^ Siecle. Paris, L’Harmattan, 1995.
- Vidal CI., “Colonisation et Décolonisation du Ruanda: la Question Tutsi-Hutu”. Revue Francaise d’Etudes Politiques Africaines. n. 91, 1973.
Per il decennale:
- Gil Courtemanche, Una domenica in piscina a Kigali, Feltrinelli, Milano 2004.
- Romeo Dallaire, J’ai serré la main du Diable, la faillite de l’humanité au Ruanda, La Libre Expression, Montréal, 2003
- Boubacar Boris Diop, Murambi, il libro delle ossa, e/o, 2004.
- Terry George, Hotel Rwanda, Usa 2004 (film).