Tutto era forte e facile, allora. Io credevo in qualcosa. Per quello vivevo. La mia piccola fede. Misera luce. Ciò che ti fa andare avanti nella vita di tutti i giorni. Un giorno triste, un momento funesto, un attimo disgraziato giunge all’improvviso. E scopri che la tua fede è fasulla, la tua credenza marcia.
Sei stato una pedina in mano a sacerdoti e truffatori che ti hanno utilizzato per i loro scopi mercantili e hanno riso rumorosamente alle tue spalle. Altri schiavi vivono ancora con gli occhi chiusi. E non basteranno le parole che vengono dritte dal tuo cuore ferito a far vedere loro la luce.
Negheranno, servi e devoti della divinità. Alcuni rinunceranno ad avere una famiglia o perderanno quella che avevano. Altri finiranno all’ospedale, altri ancora all’obitorio. Li vedrai in fila alle entrate, alle transenne, ai cancelli; li osserverai scortati dai celerini mentre gridano offese feroci, leggerai con amarezza i ritagli di cronaca che parlano dei feriti degli ultimi scontri.
In quell’attimo, l’unico di sollievo, pensi: io ne sono venuto fuori. E non parli di una fede religiosa o di una ideologia politica. La cosa grave e buffa è che parli del gioco del pallone.
***
Tutto era bello e facile, allora. Le bandiere, i viaggi in treno o in pullman, tutti insieme. Usavamo parole importanti, la fede, l’onore, la maglia. E non c’era la scuola, spariva. Non c’erano le preoccupazioni, via. Non c’era altro, né famiglie o problemi. Tutto si annientava dietro quella grande bandiera che sventolavamo con orgoglio. Anzi, con onore. Perché per noi l’onore era tutto. L’onore, la fede.
Cominciai a scuola. Avevo più o meno sedici anni. Ci insultavamo tra noi, per giocare. Mi dissero: figlio di puttana. Risposi: figlio di zoccola. Un altro: figlio di Sangiorgese.
– Cosa? Cosa vuoi dire?, chiesi
Iniziarono a spiegarmi: San Giorgio era la nostra rivale, perché noi eravamo tutti tifosi della Sangiuseppese, la squadra della nostra città e vivevamo per i suoi colori.
Gli abitanti di San Giorgio erano tutti cornuti, le abitanti immancabilmente zoccole.
Io non capivo bene, ero stato alcune volte in quella città…
Insomma – mi chiesero – tu non odi i sangiorgesi?
– No, risposi io, perché dovrei?
– Non li odi. Allora sei un coniglio.
Anche questa era nuova. In breve mi fu rivelato un mondo che si reggeva su alcuni solidi e semplici principi.
- Noi odiamo loro
- Loro odiano noi
- È la guerra!
- Chi non la pensa così è un coniglio
Va da sé che – nella loro scala darwiniana – il coniglio occupava l’ultimissimo posto, più giù del cercopiteco scemo o del bisnonno dell’uomo di Cro-Magnon. La domenica successiva ero allo stadio. Con sciarpa (eravamo a maggio, faceva un caldo pazzesco, ma non potevo toglierla), bandiera e un coltello che Totò mi mise in tasca appena entrati, non si sa mai, disse.
Non ero davvero entusiasta, ma dopo quella discussione Totò mi disse:
– se tutti pensano che sei un coniglio sei fottuto; ti sfotteranno giorno e notte; non potrai più vivere
– ma io…
– i conigli devono sparire, i conigli devono morire; morte ai sangiorgiesi; San Giorgio in fiamme, San Giorgio merda…
E ormai cantava, in preda all’esaltazione. E domenica, dopo i primi minuti di sbandamento cantavo pure io: San Giorgio merda, San Giorgio colera…
E nemmeno capivo, e neanche ascoltavo. Alcuni dicono: lì ci sono tanti bravi ragazzi, e qualche delinquente.
Non è così. Lì c’è una sola persona. Perché diventiamo da mille uno solo. E diciamo quello che vuole il capo e facciamo come marionette quello che vuole lui. Io nemmeno ricordo cosa cantavo, le parole. Tante volte non guardavo neanche lo striscione che reggevo dall’altro lato. Potevano essere inni al nazismo o spiritosaggini innocenti, non ci ponevamo il problema. Altri li scrivevano, compravano il materiale, iniziavano fin dal venerdì…
“Facciamo tanti sacrifici”, dicevamo, e tanto ci bastava.
Tante volte non guardavamo neanche la partita e il risultato lo sapevamo chiedendolo arrivando a casa. C’era la droga certo. Ma credetemi: io nemmeno lo sapevo che roba era. Pesante, leggera. So solo che dopo un poco tutto girava e si iniziava a gridare. La prima volta non pensavo fosse vero. Alla fine, mi ero comunque illuso che tutto si fermasse a gridare cose orribili ma tutto sommato innocue.
E invece, quella volta ci aspettavano. Il motivo me lo dissero poi, era qualcosa che risaliva all’anno precedente. Avevano mazze, coltelli. Mi ricordo un ciccione con la mazza da baseball. Volevo scappare, scappare mille volte, ma chi scappa è un coniglio. Siccome non eravamo conigli, ma uomini veri, restammo a picchiarci finché non arrivò un reparto di polizia antisommossa a dividerci. A quel punto, il codice permetteva la fuga, e scappammo tutti lanciando insulti ai nemici e alla polizia.
Nei resoconti che dal lunedì mattina pubblicavamo sul forum di un sito internet, ci si accusava reciprocamente di essere stati i primi a scappare. Di aver tirato fuori lame affilate. Di aver iniziato lo scorso anno rubando una bandiera, un’offesa gravissima e immotivata da lavare col sangue.
Tutte infrazioni gravissime di un fantomatico codice d’onore che tutti invocavamo ma le cui regole finivano per essere sempre troppo elastiche e indefinite. Alla fine, più che riflettere su sottigliezze giuridiche, concludevamo ogni scontro verbale intonando “tua mamma succhia la banana” e simili. Era tutto semplice e in qualche misura ferocemente allegro. Come uno spericolato pilota che corre sull’orlo del burrone e – nella somma incoscienza – è felice.
***
Libero di correre. Finalmente ero libero di correre, senza che nelle orecchie mi rimbombassero accuse, coniglio, vigliacco. Avevo il labbro spaccato e un dolore al fianco: e correvo, correvo. Il peggio era passato, non ero morto, non avevo ferite da ospedale. Adesso era il tempo della gloria. Il lunedì del trionfo.
Io, Totò e un paio dell’altra classe eravamo gli eroi. Iniziammo alle 8, già prima di entrare. La battaglia, i mille episodi di eroismo, tutti inventati: ma che importava? Quando vidi gli occhi di Claudia fermi su di me – era la prima volta – arrivai a sproloquiare della fuga vigliacca dei Sangiorgesi, tutti conigli, tutti finocchi e vigliacchi.
Li inseguimmo saltando sulle macchine, scavalcando di tutto. Io spezzai un coltello con le mani, Totò aveva rubato venti sciarpe ai nemici direttamente sfilandogliele dal collo. Nulla fermava la nostra fantasia nell’inventare particolari che il giorno dopo, finita l’euforia, sarebbero apparsi frutto di una mente malata in preda a deliri di grandezza.
Agenzio Rosini, il primo della classe, figlio di ottima famiglia e idolo dei professori, interrompeva talvolta le nostre esaltazioni cercando di far prevalere la cultura e il sapere sui pugni e sulle ginocchiate.
– La violenza non porta da nessuna parte, finirete male – sentenziava con aria vagamente menagrama.
Gli occhi di Elena Maria e Claudia erano incaricati di giudicare della ragione e del torto nell’ambito di queste contese; e immancabilmente si fissavano su di noi estatici, lasciando Agenzio ad arrossire di rabbia dietro i suoi occhiali spessi come fondi di bottiglia. Il coraggio senza macchia di moderni cavalieri prevaleva sulla pedanteria del figlio di papà e le ragazze accettavano il nostro invito per il sabato pomeriggio, al cinema a vedere un film di supereroi. Totò mi guardò, per un attimo, perplesso.
– Tranquillo, giochiamo in casa, gli feci io appena fummo soli.
***
Ma non era finita. In classe il professore mi chiese del labbro gonfio. Diedi la stessa spiegazione che si era bevuta la mia famiglia.
– Sono caduto dalle scale.
Il professore non era scemo, e poi era impossibile che non avesse captato qualcosa delle nostre discussioni.
– Vergogna, disse. Vergogna, fare i teppisti, picchiarsi senza motivo. Rischiare la pelle. E perché? Aggredire ed insultare altri ragazzi. Ragazzi come voi. E per quale motivo? Far stare in ansia le famiglie! Ma da dove vi viene questa mania?
Sopportai la predica, trattenendo a stento dei sorrisi che avrebbero peggiorato di molto la situazione. Alla fine, io e Totò mormorammo a bassa voce:
– È un vero coniglio.
***
Io e Totò facevamo parte del gruppo Warriors. Un giorno scoprimmo che gli altri due gruppi erano in realtà avvantaggiati rispetto a noi. Avevano biglietti gratuiti, o comunque sconti, si mormorava tra noi. Abbonamenti gratis. A loro i viaggi, in un modo o nell’altro, costavano sempre meno dei nostri.
Durante una riunione, si scontarono tre posizioni: alcuni dicevano di andare dal presidente e rivendicare i privilegi anche noi, magari minacciando qualche ritorsione in maniera non troppo esplicita; del resto eravamo un gruppo numeroso come gli altri e i tagliandi gratis spettavano anche a noi.
Altri affermavano che era meglio andare tutti a dialogare con gli altri tifosi, e cercare un accordo. Infine venne fuori un tizio che conoscevo poco e disse:
– Ma scusate, perché non ci sciogliamo e ci uniamo ai Vikinghi?
La sua proposta suscitò insulti, offese sanguinose a tutte le donne della sua famiglia e qualche schiaffo.
Ma, appena due settimane dopo, fu esattamente ciò che accadde.
***
I Vikinghi erano un gruppo fascista, il più malfamato, il peggiore. Tutti li temevano, e questo tutto sommato era a nostro vantaggio. Odiavano qualunque regola e si autodefinivano balordi.
Spesso, entrando allo stadio ostentavano stendardi fascisti, aquile, svastiche ed affermavano, con semplicità, di odiare tutto il mondo. Io e Totò eravamo l’ultima ruota del carro nel gruppo precedente, ma coi Vikinghi eravamo nulla, una minuscola rotella di un ingranaggio troppo più grande di noi.
Capivamo veramente poco di ciò che facevamo e dicevamo. Ma una cosa fu subito chiara. Il gruppo otteneva biglietti e sconti ricattando il presidente, a differenza dei “Ragazzi della curva” che avevano scelto la strada dell’amicizia.
In mancanza di favori e provvidenze, ogni stendardo con la croce celtica e riferimenti ai forni per gli ebrei equivaleva – più o meno – a 10mila euro di multa che la società doveva sborsare in contanti. Erano le nuove leggi sulla violenza negli stadi.
Per il resto, tutto era poco chiaro. Cominciammo a tralasciare gli eterni rivali della Sangiorgese per indirizzare tutto il nostro odio contro negri ed ebrei. Sinceramente, in paese non ne avevamo mai visto uno, né dell’uno né dell’altro. A scuola non ne avevano ancora parlato e mi chiedevo – in silenzio – come si potesse riconoscere un ebreo o uno zingaro.
Comunque cantavo anch’io e i nostri avversari appartenevano sempre ad una di queste razze inferiori. Curiosamente, anche dall’altra parte rispondevano allo stesso modo. Più di una volta ci chiamarono “negri”, contro ogni evidenza.
***
Un pomeriggio mi chiamò Totò. – Urgentissimo, disse trafelato. Riunione urgentissima stasera alle 8.
Cenai in fretta.
– Dobbiamo preparare uno striscione speciale, dissi a mia madre come scusa.
Il grande capo iniziò a parlare, rivelando il mistero.
– Vogliono prendere un mediano negro, disse.
L’orrore si diffuse tra i presenti, unito a dichiarazioni fermissime. Lo impediremo a tutti i costi, questo non accadrà mai, che schifo.
Paradossalmente, fui quasi contento che alla fine questo fantasma si materializzasse, dando un senso a tanti insulti e striscioni. Ma ulteriori grida mi riportarono alla riunione.
Si fecero varie ipotesi. Chi proponeva di rapirlo e impiccarlo alla traversa dei campi di allenamento, chi semplicemente di bruciare qualche auto della dirigenza per dare “un chiaro messaggio”, così dissero. L’ala moderata propose semplicemente di riempire i muri della città di scritte del tipo “sporco negro, i forni sono caldi”.
Ci capivo sempre meno. Io e Totò eravamo zitti, e pensavamo che domani c’erano tre ore di matematica, interrogazione certa come la morte. Il capo tirò fuori l’idea che certamente aveva maturato da tempo.
– No. Andiamo in delegazione e chiediamo di incontrare il presidente. Lo convinceremo a non farci questo affronto. Altrimenti…
Tutti approvammo l’idea, che ci rendeva sempre più importanti e addirittura capaci di influire sulle scelte della società. Però iniziammo subito a litigare sul numero e sui componenti della delegazione. Decidemmo per dieci persone. Il capo, i suoi tre vice. Il resto da tirare a sorte. La fortuna mi fu amica e fui tra i prescelti. Quella notte non riuscii a dormire.
***
Il primo errore fu quello di presentarsi senza appuntamento.
– Presentarsi così e voler parlare subito col presidente? Ma siete fuori?, diceva la segretaria che ostentava un accento milanese, che per lei era un segno di evidente professionalità. E rimaneva a bocca aperta di fronte a quella piccola tribù abbigliata – nonostante il giorno feriale – con stracci multicolori.
Venne un dirigente. Si arrabbiò parecchio.
– Qual è quest’argomento urgente? Cosa significa venire così? Che sono questi modi?
In effetti alcuni erano stati abbastanza irruenti, quasi minacciosi. Io guardavo, tacevo, e capivo poco. Si arrivò ad un accordo. Avremmo parlato col dirigente, nel suo ufficio. Ciccio Nero, il nostro capo, spiegò che la nostra era una squadra di pura tradizione ariana, che mai era stata macchiata di sangue non puro.
Il dirigente lo guardava come un matto appena fuggito dal manicomio.
– Forse non le è chiaro che ci riferiamo al prossimo acquisto di un centrocampista africano, disse uno di noi per farla breve.
Il dirigente sembrò sollevato. Spiegò con garbo estremo, e come se parlasse a dei bambini un po’ tonti, che in realtà c’era solo l’ipotesi di tesserare un certo Alì Mohamed, che comunque era italiano, cioè nato in Italia anche se figlio di tunisini immigrati molto tempo addietro. Aveva diciassette anni e sembrava un campione.
‘Potrebbe essere un ottimo acquisto per la nostra squadra, il primo di una serie che potrebbe portarci in C2’, concluse, e sperava con questo di chiudere la discussione.
No, dicemmo noi, niente negri. Altrimenti tutti ci avrebbero presi in giro. Magari era anche ebreo, o zingaro e frocio, insomma queste cose sporche. Su questo eravamo irremovibili. Altrimenti…
Ciccio Nero troncò qui il discorso, si alzò in piedi, uscì senza salutare. E noi dietro di lui.
***
Filippo De Rossi riteneva di essere un uomo coi coglioni. E quando gli dissero delle minacce velate si fece una risata. Non solo aveva intenzione di prendere Mohamed, che del resto era italiano, ma anche un giovane brasiliano nero come l’ebano.
– E poi, dico io, ma non la vedono la televisione? Quale squadra ha ormai giocatori solo bianchi?
La domenica successiva un lungo striscione recitava “mai negri nella nostra tradizione ariana”. Proseguimmo più che mai ad esporre svastiche, a mostrare braccia tese, a cantare “Faccetta nera” e “Giovinezza”. Cominciammo a fare cori di cui capivo sempre meno.
Ogni lunedì la società pagava migliaia di euro di multa.
Si disse che Ciccio Nero aveva telefonato a De Rossi, più volte, proponendogli di far sparire tutto in cambio di una squadra solo bianca. Si disse anche che De Rossi aveva risposto qualcosa del tipo: egregio signore, chi è che paga le multe? Di chi sono i soldi? Ed allora sono fatti miei!
Ma De Rossi si era stancato una volta per tutte di quella storia.
***
Calò Lo Re pesava novanta chili e nonostante l’assoluta allergia a palestre, campi d’allenamento o piste da corsa e la fama da abitudinario delle migliori trattorie, era il redattore capo dello sport dell’“Eco di San Giuseppe”, il giornale locale, ma intendeva il suo ruolo come quello di dirigente aggiunto, consigliere influente e – nei mesi della calura estiva – presidente de facto.
Quando la squadra perdeva una partita, immancabile era il suo editoriale sulla campagna acquisti fallimentare, l’insipienza e la faciloneria della dirigenza, la tirchieria del presidente. I giocatori erano tutti brocchi, scarti da quarta serie. Il portiere, un sacco di patate venuto a rubare lo stipendio.
Bastava una vittoria, magari su rigore inventato e dopo una prestazione oscena, e solo pochi giorni dopo la dirigenza diventava lungimirante, il presidente un vero condottiero, la squadra una corazzata invincibile e il portiere un cobra dai riflessi felini.
Il giornalismo schizofrenico di Calò Lo Re divenne delirio di onnipotenza all’apertura di TeleSanGiuseppe (TSG), dove la rubrica del lunedì sera “Curva Sud” gli fu affidata con un’investitura ufficiale e una cerimonia a base di paste del giorno prima e una bottiglia di spumante residuo del capodanno precedente.
Partì con una serie di campagne mediatiche strutturate con semplicità invidiabile: ogni lunedì sera ripeteva indefessamente la stessa cantilena finché non veniva accontentato oppure una nuova fissazione scacciava quella precedente.
La prima delle sue campagne fu anche la più lunga. Si era fissato che Bernocchi, un onesto centravanti di uno e novanta scartato da molte squadre, fosse ormai finito e che al suo posto dovesse giocare Pereira Dos Santos, un negro spacciato per brasiliano ma sul cui conto nessuno poteva giurare, né sull’età né sull’effettiva provenienza. Burocraticamente, aveva un permesso di soggiorno “per motivi religiosi” che scadeva esattamente al novantesimo dell’ultima partita della stagione.
Per Lo Re, era un diciottenne di San Paolo, una giovane promessa miracolosamente sfuggita agli osservatori del Real Madrid appostati domenicalmente in tribuna. Nelle sue lunghe perorazioni, frequenti erano le metafore zoologiche: un vero serpente, agile come un leopardo, furbo come una volpe.
Dos Santos giocava pochissimo e ufficialmente non faceva parte dei titolari. Se Dos Santos non giocava e la squadra perdeva, la trasmissione iniziava con un primo piano di Lo Re con un paio di occhiali da sole e l’abito da beccamorto, lo studio con le luci semispente.
“E che vi devo dire? E come ve lo devo dire? In arabo?” – e iniziava a urlare fino alla prima telefonata del primo tifoso. Il delirio proseguiva con gli esponenti delle due fazioni, chi considerava Dos Santos un nuovo Pelè, chi giurava di vederlo durante la settimana vendere fazzoletti ai semafori.
Ciccio Nero telefonava sempre e sbraitava su quel nero figlio di puttana che doveva tornare in Africa, a mangiare banane sugli alberi. Mario Megafono, capo del gruppo “Ragazzi della Curva”, telefonava e sosteneva il nuovo Pelè, una vera scommessa per il futuro.
Si passava facilmente agli insulti, e non erano rare le promesse di un chiarimento tra tifosi di opposte opinioni, cioè duelli rusticani coi coltelli che avrebbero definitivamente deciso del torto e della ragione.
Calò Lo Re si teneva prudentemente fuori da tutto ciò che prendeva una piega violenta, ma aveva certamente la capacità di creare fazioni agguerrite al fine di incrementare gli ascolti.
Il lunedì sera tutto il paese seguiva la trasmissione, compresi quelli che non amavano il calcio ma non volevano perdersi un gustoso spettacolo di cabaret, oppure divertirsi a riconoscere i personaggi del paese che si accapigliavano in viva voce a suon di parole forbite da avvocato di provincia o insulti da camionista senza vergogna.
Un lunedì lo scontro fu più aspro del solito e terminò in una promessa di “chiarimento” che martedì sera lasciò sull’asfalto tre feriti da arma da fuoco.
La direzione di Tele San Giuseppe convocò Lo Re, intimandogli di lasciare Dos Santos al suo destino e di cambiare disco. Lo Re, che per indole si stufava presto delle battaglie perse, cambiò effettivamente disco evitando di personalizzare la sua campagna. Da circa tre mesi, la trasmissione si concludeva immancabilmente con uno zoom sul sorriso a trentadue denti del conduttore che ripeteva: “Tre punte, tre punte, tre punte. È Vangelo!”
Ad un certo punto, il vangelo divenne una vera fissazione, per tutti noi del gruppo: la squadra doveva giocare a tre punte. Il vangelo che veniva dalla televisione ci aveva coinvolti.
Cominciò dopo una sconfitta, 3 a 0 in casa. La sera, alla tv locale, una telefonata in diretta alla “Curva Sud” chiese, anzi urlò, che con quello schieramento di cacasotto saremmo retrocessi. Ci volevano le 3 punte.
Era ospite Totò Ruvolo, l’allenatore, un quarantacinquenne che nella vita aveva fatto di tutto, dallo scassinatore all’assicuratore al lavavetri, ma alla fine era un buon diavolo e per un pugno di banconote aveva accettato il ruolo, forte di un campionato miracoloso condotto con lo Sporting Maranese che gli era valso una piccola fama nell’ambiente.
Totò aspirava solo al quieto vivere e ad evitare un esonero che gli avrebbe stroncato la carriera e lo avrebbe ridotto alla fame da un giorno all’altro. Dava ragione a chiunque, rispondeva alle domande con una serie di però forse ma dipende.
La tempesta delle tre punte lo colse subito e decise di affrontarla sostenendo che in realtà la squadra già giocava in quel modo. Come al solito, dopo una lunghissima serie di litigi e discussioni feroci sulla versione di Ruvolo, Lo Re si stancò e passò a un nuovo argomento: il portiere era un sacco di patate e andava sostituito col secondo, una giovane promessa che aveva dimostrato nelle partitelle di allenamento di essere “reattivo come un puma”.
Quella volta Lo Re se la vide davvero brutta. Il portiere era parente di certi tizi, diciamo poco raccomandabili, che già alla fine della puntata lo aspettarono sotto la sede del palazzo sgangherato della televisione e gli spararono a bruciapelo un colpo che sfiorò la caviglia. “Chi deve giocare in porta non sono cazzi tuoi”.
Lo Re era davvero terrorizzato, perché non aveva previsto che si potesse arrivare a questo. In accordo col direttore della televisione, decise di non divulgare nulla dell’incidente, che del resto si chiuse dopo qualche giorno in ospedale. Da allora cambiò per sempre l’espressione dei loro occhi e una parola cominciò ad affiorare spesso nei discorsi a due: protezione.
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La volontà di mantenere il segreto, in un centro abbastanza piccolo come il nostro, ebbe l’effetto di moltiplicare le ipotesi e le voci. La versione ufficiale, una banale caduta, non convinse nessuno a causa del repentino cambiamento in tv sulla questione del portiere, che per tre settimane fu accantonata con un sospetto ritorno alla litania delle tre punte.
Si disse di tutto, e tra le tante voci una divenne predominante: Calò Lo Re, dopo un lungo giro e grazie a pochi decisivi intermediari, era andato a trovare il latitante Totonno Patané, condannato a tre ergastoli per una sfilza di reati che comprendevano parte notevole del Codice Penale e che era latitante in un discreto e signorile condominio delle periferie, nonostante le ricerche decennali di tutte le forze di polizia.
Patané avrebbe garantito ogni protezione, avendo cura di far girare la voce dai suoi affiliati. Durante una trasmissione pirotecnica, un Lo Re realmente incattivito e non solo per la sconfitta 0-1 con l’Atletico Solbiatese, esordì dicendo: il portiere è un sacco di patate. Quel gol non lo prendeva nemmeno mia nonna.
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Ciccio Nero aveva preso molto male l’affronto del presidente, e si discuteva di prendere iniziative clamorose, come ad esempio andare all’allenamento e impiccare i due negroidi. Ci vedevamo ogni giovedì in un grande ex garage a dipingere gli striscioni, l’odore di vernice a volte mi sembrava insopportabile.
Carletto ebbe un’idea demenziale, esporre un manichino nero e impiccarlo tra il primo ed il secondo tempo. Nessuno striscione, nessun coro. Un macabro rito andò in scena sui gradoni di cemento in un silenzio surreale. Un magazziniere a molti anni di distanza mi disse che Ali Mohamed aveva le lacrime agli occhi.
De Rossi dichiarò ai giornali che si trattava di disturbati mentali, le cui gesta non andavano assolutamente pubblicizzate. Disse anche che aveva denunciato i ricatti subiti, per cui non avrebbe più pagato alcuna multa. I responsabili degli atti erano stati denunciati per apologia di fascismo.
Era una dichiarazione di guerra in piena regola.
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Calò – rigenerato dall’invincibile scudo protettivo – aveva ricominciato ad offendere i giocatori, insultare la dirigenza, pretendere sostituzioni e, velatamente, chiedere l’esonero dell’allenatore. Ma la questione degli striscioni e dell’impiccagione era troppo grossa, ed irruppe in trasmissione con la voce furibonda di Ciccio Nero.
– Sono agli arresti domiciliari grazie alla spiata di quell’infame.
La questione politica non aveva mai appassionato nessuno, e molti giudicavano la nostra lotta contro i non-ariani come una fissazione adolescenziale che presto sarebbe svanita. Ma la questione della delazione creò subito un partito contro De Rossi, e in molti telefonarono giudicando assurda e controproducente la guerra tra tifosi e società.
Sorprendendo tutti, Lo Re si schierò contro De Rossi. Un infame, un pentito, disse. Un irresponsabile. Questi ragazzi fanno tanti sacrifici, fanno le trasferte, fanno tanti chilometri e questo è il ringraziamento.
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Il maremoto che travolse De Rossi venne a violentissime ondate. La prima tempesta la scatenò Calò, poi i tifosi cominciarono a presidiare gli allenamenti e tutti i giorni i giocatori uscivano scortati sotto un diluvio di uova marce ed arance.
Le scritte “De Rossi pentito” erano su tutti i muri del paese. La Mercedes di De Rossi andò a fuoco in una notte d’aprile e il verbale dei carabinieri parlò di autocombustione.
De Rossi era un commercialista con uno studio ben avviato e clienti importanti, molti dei quali in quei giorni di fuoco accamparono scuse e gli voltarono le spalle. I giocatori, fiutata l’aria, iniziarono a perdere volontariamente una partita dietro l’altra gettando benzina sul fuoco di una contestazione di massa.
Dimissioni era la parola d’ordine, dimissioni recitava uno striscione enorme appeso allo stadio, dimissioni era scritto sul cartello che si trovava dietro le spalle di Lo Re durante tutta la trasmissione. De Rossi tenne duro cinquanta lunghi giorni, finché si svegliò alle quattro di mattina in un bagno di sudore e disse alla moglie: “Eva, ma chi cazzo me lo fa fare?”
La squadra era ormai ultima, mancavano tre partite alla fine, la retrocessione era quasi certa e De Rossi in un secco comunicato annunciava le proprie dimissioni, ormai solo. Lo Re aprì la trasmissione con un sorriso diabolico: ‘Facile abbandonare la nave che affonda…’.
***
Turi Censurato era un impiegato postale. Lasciò l’impiego qualche anno fa per divenire titolare di una misteriosa società di import-export sulle cui attività nessuno aveva un gran voglia di condurre approfondimenti.
Si racconta che i primi soldi li ottenne truffando quattro giovani volenterosi che avevano impiantato una pizzeria in un angolo di montagna a molti chilometri da qui, dimenticato da Dio e da quasi tutti gli uomini e frequentato solo da qualche volenterosa capra d’alta quota.
L’Enel rispose con prontezza alla richiesta di allacciamento dell’energia elettrica, guardandosi bene peró da ogni atto concreto. I dirigenti locali fecero il calcolo costi-benefici un paio di volte e il risultato era inequivocabile, nonostante l’obbligo a contrarre dell’ente monopolista.
La vicenda si protrasse per quattro anni. Censurato, saputa per caso la storia, si presentò ai quattro giovani, ormai quasi quarantenni e invecchiati nell’attesa dell’allaccio e dei clienti, e promise il proprio intervento risolutivo, millantando agganci fino in Vaticano.
Ai giovani si prospettavano due strade: affidarsi a Totò Rubizzo, unico avvocato del borgo, ormai ottantenne e con una lucidità estremamente limitata, che li avrebbe condotti in un sentiero senza termine di diffide, appelli, ricorsi e termini in latino che nessuno capiva.
L’altra appariva una rapida scorciatoia, e così affidarono dieci milioni raccolti miracolosamente alle mani avide di Censurato, che ovviamente sparì lasciandoli al rumore monotono del generatore a nafta che forniva energia appena sufficiente per qualche ora e costava un patrimonio.
Dopo questa altre piccole e grandi truffe seguirono, e paradossalmente Censurato rimaneva sempre nei paraggi, nel diametro della voglia di vendetta dei truffati che però alla fine non riuscivano a racimolare il coraggio sufficiente per offendere un uomo che tutti dicevano protetto, e protetto bene.
La SOGEZ, società di import export di Censurato aveva un oggetto sociale chilometrico, nessun dipendente ufficiale e un bilancio miracolosamente in pareggio di anno in anno. Censurato sembrava avere disponibilità economiche infinite oltre al necessaire del tamarro arricchito, ovvero Mercedes cromata, due grossi anelli con diamanti e doppia catena da dobermann in oro massiccio intorno al collo.
Fu semplicemente con un piega amara della bocca e nessun commento che De Rossi apprese dal notiziario serale di Tele San Giuseppe che il sindaco dottor Tano Affossa – in una cerimonia pubblica – aveva stretto la mano al “nuovo proprietario della Sangiuseppese Footbal Club, il dottor ragionier Censurato noto imprenditore orgoglio della nostra terra in attesa di riscatto, pronto a farci salire in C2 dopo una fallimentare gestazione (disse così) precedente, che non si dovrebbe ripetere più nel futuro (parole sue), ma qui finalmente un uomo sano di sani valori per il riscatto dello sport e per i giovani”.
Il discorso del primo cittadino in fascia tricolore fu concluso da un rumoroso applauso, mentre Censurato sorrideva soddisfatto. San Giuseppe – che solo qualche anno fa gli sbraitava contro lamentele e offese dietro lo spesso vetro dell’ufficio delle poste – finalmente era ai suoi piedi.
***
Alla riunione dei Vikinghi si discusse con animazione del rapporto da tenere con la nuova dirigenza. Finora l’unico obiettivo era quello di cacciare il pentito De Rossi, l’infame, ed avevamo seguito da spettatori il passaggio di consegne che per motivi difficili da capire era stato gestito dal sindaco.
Gianni, uno di quelli più duri, disse che noi dovevamo mantenere la nostra identità, e quindi per prima cosa ottenere la cacciata di Mohamed e Dos Santos. Sulla questione dei biglietti omaggio, Ciccio Nero disse che avrebbe incontrato di persona Censurato, e questa era una brutta novità per molti, perché finora avevamo sempre formato una delegazione.
Alla riunione successiva, Ciccio Nero annunciò che aveva ottenuto l’abbonamento a metà prezzo per tutti gli iscritti, viaggi scontati con una compagnia di pullman appena fondata dal presidente, e soprattutto la possibilità di stampare magliette originali della squadra e gestire addirittura il servizio di biglietteria allo stadio.
Eravamo disorientati e stupiti per quelle novità, ma nessuno fu contrario perché in molti cominciavano ad avere una certa età e la fame di soldi e lavoro già li consumava vivi.
Ed io? Avevo finito la scuola superiore e non sapevo cosa fare. Col diploma avevo poche prospettive, ma anche l’università mi spaventava.
Nelle lunghe sere estive, nel paesaggio lunare della periferia del paese, seduti su un inutile muretto parlavamo a lungo con Totò del futuro, del nostro lavoro, delle ragazze che ci piacevano, delle sprangate date e ricevute la scorsa stagione e di qualcosa che avevamo in gola ma che nessuno finora era riuscito a tirare fuori.
Era una sensazione amara, forse eravamo noi che stavamo cambiando forse non ci andava più di essere soltanto le pedine di un gioco le cui regole non capivamo più.
Una sera trovai finalmente le parole giuste: “Totò, il gioco sta diventando sporco?”
***
Pippo Russo era il gestore storico della biglietteria dello stadio Aruenzo De Magistris, intitolato al primo presidente della società che secondo alcuni non era mai esistito per altri era invece il fondatore di una società di ginnastica del ’20 che si trasformò ben presto in una squadraccia di camice nere.
Di tutto nella sua vita Pippo Russo si era preoccupato tranne che della verità sulla questione. Per lui il lavoro era andare al De Magistris durante la settimana e vendere i biglietti, senza alcuna licenza e senza neanche una ditta individuale di copertura.
Era il bigliettaio dello stadio e basta. Purtroppo per lui, non fu sufficientemente aperto alle nuove teorie che vedevano con favore la riconversione dell’attività lavorativa anche dopo i cinquant’anni, e per questa sua ostinazione fu trovato cadavere proprio di fronte al De Magistris, crivellato di piombo proprio nel momento in cui stava aprendo la sua solita e familiare gabbietta.
Per l’assegnazione del nuovo appalto il comune presentò un regolarissimo bando, che indiceva una regolarissima gara, ma le macchie di sangue sul terreno di fronte allo stadio furono un freno notevole al libero dispiegarsi delle forze del mercato, tanto che solo la “Ciccio Nero ditta individuale” si presentò per l’appalto.
Macabramente, era stata costituita proprio il giorno dell’omicidio e con fondi che non potevano appartenere né al titolare nullafacente né al padre alcolizzato e disoccupato storico.
In sede festeggiammo. Eravamo diventatati imprenditori, protagonisti, non più solo scimmiette saltellanti e sfondo dello spettacolo principale. Non dovevamo più mendicare qualche biglietto omaggio, ma eravamo noi stessi gli arbitri della questione. Uscendo, ci annunciarono che presto avremmo inaugurato il capannone per la stampa delle magliette.
Totò aveva una faccia bianchissima. Non capivo che avesse. Che hai? “Pippo Russo è stato ammazzato. E noi qui festeggiamo”. Non capivo che volesse dire, e adesso, a distanza di tempo e con un po’ di serenità, posso dire che non avevo nessuna voglia di capire. Era lunedì, erano le nove di sera. Accendemmo il televisore e c’era Calò Lo Re a braccetto di Censurato, amiconi, pacche sulle spalle e risate grasse.
Quando uno spettatore chiamò e chiese con ingenuità forse finta se avevano notizie sull’omicidio Russo, che gettava un’ombra funesta sul mondo dello sport sangiuseppese, cadde il silenzio e i sorrisi sparirono.
Iniziò un coro a più voci che si trovavano in perfetto accordo.
Macché ombre e ombre. Frutto di menti bacate che inventavano storie. Per gettare fango. Pagati dal presidente precedente, il pentito. Voci messe in giro ad arte. Per rovinare la favola di un’ascesa in C2 ormai sicura. Russo era un tipo strano, non era sposato. Era noto che andava in giro, dava fastidio a donne sposate. Nessun uomo – che sia uomo – sopporta queste cose. Altro che ombre. Qui è tutto chiaro come la luce del sole.
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La prima iniziativa della nuova dirigenza fu il progetto “Etica per i giovani” che prevedeva un collegamento tra il mondo della scuola e i ragazzi del vivaio. Solo chi aveva almeno 6 in pagella poteva giocare in prima squadra.
L’iniziativa fu sponsorizzata dal comune e pubblicizzata sull’“Eco di San Giuseppe” e in tv con entusiastiche dichiarazioni del provveditore agli studi, di alcuni insegnanti e dell’allenatore della squadra giovanile, Rocco Rizzo. “Male a scuola? In panchina!” era il titolo che campeggiava sul giornale.
Il primo effetto della campagna fu che i genitori di alcuni ragazzi ottennero una sensibile ottimizzazione di tempi e risorse, perché minacciando di tagliare le gomme all’automobile dell’insegnante di italiano non solo ottenevano la promozione del figlio ma anche che giocasse centravanti titolare.
Con la nuova dirigenza il centro giovanile divenne filiale di una importante squadra del nord, di serie A, e i genitori portavano i bambini anche dai paesi vicini, nella speranza di correggerne il destino da bracciante o ladro di appartamenti a calciatore miliardario con Ferrari e modella olandese al fianco.
Rocco Rizzo si occupava di rassicurare tutti: in qualche bambino vedeva il sinistro di Maradona, in un altro il guizzo di Paolo Rossi. Ogni genitore era convinto di aver generato il nuovo Rivera, sicuramente un grande campione.
Molti disoccupati cronici, forestali in malattia e falsi invalidi seguivano l’allenamento dei figli ogni pomeriggio, con un tifo infernale e incitamenti feroci a disossare l’avversario di turno, oppure a lanciargli manciate di terra negli occhi o a strizzargli le palle di nascosto.
Le sostituzioni dei bambini oppure la formazione delle panchine e dei titolari erano motivo di accese discussione dalla tribunetta; e qualche volta sfociavano in vere colluttazioni. La diatriba partiva con la classica accusa di “non capire niente di pallone” e dopo un crescendo di offese reciproche e riferimenti a mamme, sorelle e mogli si giungeva infine a quelle che i verbali dei carabinieri chiamavano vie di fatto.
Un giorno arrivarono i rumeni. Erano dodici, 13 anni circa, bianchissimi e spaesati. Era la prima operazione internazione di Rocco Rizzo, che giurava di aver portato in paese la prossima nazionale rumena al completo, più pure due riserve.
In quella piccola e provinciale fabbrica di illusioni lo sguardo dei bambini cambiava in fretta e diventava cattivo sotto gli incitamenti di Rizzo e dei genitori, alcuni dei quali non si accorgevano di adoperare lo stesso lessico che usavano per aizzare i cani da combattimento durante le lotte clandestine organizzate nelle campagne dei dintorni.
Nonostante le chiacchiere, tutti sapevano che uno su un milione sarebbe diventato ricco e famoso. I calciatori di serie A erano circa 200, mentre infinitamente di più erano quelli che giocavano al calcio a vari livelli. Pochi arrivavano anche solo al professionismo, che in provincia significava meno di uno stipendio da banconista al supermarket e solo fino ai 30 anni, escludendo infortuni gravi che non andavi a curarti in Olanda a spese delle società ma all’ospedale del capoluogo con la mutua, dopo una via crucis di pareri contrastanti ed interventi affidati a macellai.
A 30 anni, quando la vita lavorativa degli altri è appena cominciata, per il calciatore semi-professionista è giunta alla fine. C’è chi prova a “rimanere nell’ambiente”, mendicando un posto da dirigente o da allenatore, con stipendi da fame e la spada di Damocle dell’esonero che le piccole società amano praticare scimmiottando le grandi squadre della serie A e gettando una persona nella disperazione senza futuro.
C’è chi prova a riconvertirsi con un lavoro diverso, finché qualcuno non ti spiattella in faccia che sei un analfabeta buono a nulla, forse in campo ti sentivi Dio, ma fuori non sai fare niente. Hai lasciato la scuola a dodici anni, non hai mai fatto altro che correre e correre e inseguire l’attaccante minacciando di spaccargli il femore.
Evitare il limbo del semi-professionismo, ecco l’obiettivo. O tutto o niente, riuscire o fallire.
Dopo l’accordo con la società di serie A del Nord, un quotidiano della provincia – Il Monitore di Rocca S.Elena – lanciò una campagna contro i bambini che lasciavano la scuola inseguendo il sogno del calciatore miliardario e si ritrovavano analfabeti e disoccupati.
La campagna “Etica per i giovani” fu la pronta risposta della società, che però fu presto investita da una nuova ondata, questa volta ad opera di un quotidiano nazionale che la citò nell’ambito di una ampia inchiesta delle Procure su un traffico di bambini rumeni, letteralmente venduti dalle famiglie per un destino da pronunciare a bassa voce.
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In sede nessuno ci credeva ancora, ma la notizia era vera. Rocco Rizzo era stato arrestato in Colombia, dove ufficialmente era andato per trattare un mediano promettente. Secondo l’Interpol, c’era anche un secondo e più importante obiettivo, e cioè la definizione del prezzo di una mezza tonnellata di cocaina che doveva essere nascosta dentro un carico di lastre di marmo importate dalla società di Censurato.
In televisione, nei bar, nelle piazze del paese tutti difendevano la Sangiuseppese. Non a caso, si diceva, vengono fuori queste storie, adesso che siamo in testa alla classifica. È un attacco delle società del nord, che hanno provato ad affossarci con gli arbitri e adesso tentano con le azioni dei giudici comunisti.
Il cuore della vicenda – e cioe’ l’innocenza o meno degli imputati – era lontana da tutti i discorsi, e ci fu anche chi sostenne a bassa voce che comunque da quella quantità di droga si poteva ricavare tanto denaro da metter su una squadra da scudetto.
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Una prima decisione l’avevo presa. Niente università. Mio padre me lo chiese tante e tali volte, ma te la senti, ma riuscirai, ma potrai farcela che alla fine il dubbio divenne certezza.
L’impegno economico da sostenere era eccessivo, e nel paese si preferiva avviare il figlio a un mestiere da pochi soldi, ma “perche’ non è portato per gli studi”, anziché ammettere di non avere denaro costringendolo ad andare al capoluogo a studiare e lavorare insieme.
Insomma, avevo iniziato a cercare lavoro, abbassando le pretese di settimana in settimana. Un amico mi disse che c’era una mezza possibilità di entrare alla Sogez, che per noi tifosi storici della squadra aveva una porta sempre aperta.
E infatti la porta era aperta, entrai a lavorare subito scaricando casse otto – nove ore al giorno, ma i portafogli erano ben chiusi e nessuno parlava di stipendio o di contratto.
Dopo qualche tempo affrontai l’argomento con un collega operaio, e mi disse che lui aveva ricevuto lo stipendio – un quarto del minimo sindacale – dopo quattro mesi di lavoro, ed era ancora in nero. Era uno dei più fortunati.
Dissi ingenuamente: ma io lo denuncio al Tribunale del lavoro, e mi fu raccontata la terrificante storia di Domenica Domizzi che aveva solo contattato un avvocato, ed era stata convinta a schiaffi e calci dai familiari a ritrattare, ora stava chiusa in casa e non usciva mai.
Nel capannone si parlava della prossima partita, impegno ostico ma non proibitivo, nonostante l’infortunio della punta centrale; ogni occasione era buona per inveire contro arbitri e giudici che volevano fermare la nostra ascesa in C2.
Una sera, con la schiena a pezzi dopo aver scaricato una montagna di casse, e la rabbia per il primo stipendio che non arrivava mai, dissi:
– E quale complotto, ma se trafficava droga?! Lo sapete quanta gente muore con tutta quella droga?
Cadde un silenzio di gelo.
– Quello su Scannagatti era rigore, si è visto bene alla moviola di Calò Lo Re, fece all’improvviso uno, e continuarono ignorandomi del tutto.
Un giorno venne Don Totó Turturro, inviato speciale del vescovo, a benedire la fabbrica, aspergendo di acqua santa una serie di casse che avrebbero potuto contenere di tutto.
Era un uomo dolcissimo, invocò col volto angelico e un tono basso della voce la protezione della Semprevergine Addolorata sul gregge di pecorelle lavoratrici, cioè noi operai, e sui bravi imprenditori che danno lavoro ai paesani e lustro al paese.
– Addolorata e’ solo la mia schiena, feci io, ormai nella totale incoscienza.
E anche stavolta sembrò che non avesse parlato nessuno.
– Preghiamo fratelli, affinché la modestia e la continenza siano la retta via di tutti noi, che nell’adempimento del dovere troviamo il modo di avvicinarci al Cristo – concluse Don Turturro, con voce effeminata di cherubino.
Il mattino dopo Turi Tre Dita – così lo chiamavono – mi fermò all’ingresso del cancello.
– Lei non e’ desiderato.
Come? Non dissi niente, ma era la mia faccia ad esprimere sorpresa.
– La proprietà non è soddisfatta di come lavori.
Qualche secondo a riflettere, poi girai le spalle e mi incamminai.
– E ti è andata pure bene – concluse Turi.
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Esattamente tre giorni dopo la polizia aveva messo i sigilli al capannone, la Sogez era stata posta sotto sequestro per l’inchiesta sulla Colombia.
Totò mi disse che due voci giravano in paese. La prima era che Don Turturro – certamente senza saperlo – aveva benedetto mille dosi della migliore cocaina sudamericana, e su incarico diretto del vescovo.
La seconda, meno diffusa, era che io avevo fatto una spiata per vendicarmi del licenziamento.
– Qua dobbiamo stare attenti, disse Totò. Ti do’ un consiglio: cerchiamoci un lavoro da lunedì al sabato, la domenica facciamo il tifo per la squadra, una donna per le notti. E la vita è tutta qua.
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Era nata l’associazione per legalità, scandalizzata dall’inchiesta giudiziaria su Censurato. Calò Lo Re disse subito in televisione che ora cominciavano ad agire gli sciacalli, coloro che volevano comprarsi la società per un tozzo di pane approfittando delle disgrazie altrui. Decisi di andare ad una riunione della nuova associazione, e tutti esprimevano delusione per la scelta dell’ex presidente Filippo De Rossi a cui era stata offerta una tessera onoraria, ma che aveva deciso di ritirarsi definitivamente a vita privata.
Andai il giorno dopo alla riunione dei tifosi, bisognava preparare lo striscione “Celerini conigli” per la prossima trasferta, ma c’era un clima strano e tranne Totò nessuno mi rivolse la parola.
Mentre tutti se ne andavano Ciccio Nero mi chiese di restare un attimo.
– La tua presenza non è gradita. Non venire più.
Questa volta mi arrabbiai veramente.
– Perché? Dopo tanti anni, tanti sacrifici, tanti rischi corsi esattamente come tutti gli altri e più di tanti, adesso avevo diritto a qualche spiegazione.
– Tu non hai diritto a niente, rispose freddamente. È già tanto che respiri ancora.
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Oggi faccio il meccanico a San Giorgio e vivo in mezzo a quelli che da ragazzo immaginavo come nemici mortali.
Ogni tanto qualcuno dei miei nuovi amici scherza sulla mia nascita, sul fatto che sono di San Giuseppe, ma sempre in maniera simpatica e tutto finisce qui.
Il calcio lo considero una brutta parentesi della mia vita, che però mi è servita per capire tante cose, ad esempio tenere gli occhi aperti e non accettare i sonniferi e le camomille che autentici criminali ci propinano, magari facendoci rischiare la pelle senza motivo.
Censurato fu assolto quasi subito, avendo deciso di sacrificare Rocco Rizzo che si beccò l’ergastolo ma decise di non parlare e non collaborare, salvando così il suo capo dalla galera.
La fabbrica fu riaperta, con stipendi elastici e turni da negrieri. La Sangiuseppese, che poteva contare su fondi infiniti, acquistò molti giocatori – tra cui tre colombiani – e dopo una cavalcata trionfale arrivò in C2, generando tre mesi di festa nel paese, e striscioni e festoni e musiche e Calò Lo Re era diventato più popolare e importante del sindaco, e combinava matrimoni e dirimeva controversie e soprattutto si scagliava senza pietà contro chiunque non parlasse più che bene del super-presidente, cosa che non accadeva praticamente mai.
L’associazione per la legalità si sciolse per mancanza di iscritti, e il suo presidente ostentava a tutti la sua nuova tessera di abbonato VIP, che gli dava diritto ad una poltrona in tribuna d’onore per tutte le partite della stagione, che – dicevano su TeleSanGiuseppe – si annuncia come una nuova esaltante cavalcata verso la C1. I tifosi già sognano.