
Un’inchiesta di The Australian racconta della produzione italiana di pomodoro. E di come distrugge il mercato locale. Un punto di vista opposto a quello consueto. Ma estremamente istruttivo.
L’oro rosso italiano, il caporalato e il lavoro da schiavi dei migranti
I pomodori a basso costo sono il prodotto di terribili condizioni
Paola Totaro – The Weekend Australian
Baah viene dal Ghana. È un uomo dalle spalle larghe. È seduto nel retro della nostra macchina, la sua faccia è lo specchio della delusione. Fuori, un vento gelido crea increspature nei campi di grano mentre la luce del giorno sta morendo.
La campagna pugliese, la regione che si estende nel sudest della penisola italiana, è conosciuta per i vasti campi di antichi alberi di ulivi, fichi d’india e vigneti circondati da muretti a secco da cartolina.
D’estate, le spiagge turchesi dell’Adriatico sono una calamita per i vacanzieri del Nord Europa, mentre i trulli – le tradizionali abitazioni di pietra a forma di cono – sono la sistemazione preferita per le vacanze della classe media inglese.
Più all’interno, sulle pianure remote ai piedi delle colline del Gargano, c’è un mondo orribile, segreto e spesso violento. Quello di centinaia di migliaia di migranti come Baah. Qualcosa che non avreste mai immaginato nell’Europa moderna.
“Dicevano che c’è lavoro in Italia. Sono venuto per lavorare, per fare una vita migliore. Ma in Italia le persone soffrono, lavorano e lavorano e non vengono pagate”, dice Baah.
Tra il capoluogo di provincia, Bari, la città di Foggia e le colline, grandi ghetti macchiano il paesaggio come tumori. Sono posti così orribili, così tristi, così sporchi che – se visti nel contesto della bucolica campagna pugliese – è difficile non pensarli come un incubo da cui risvegliarsi.
Le persone che vivono in questi ghetti sono richiedenti asilo, per lo più giovani provenienti da Ghana, Nigeria e da una miriade di paesi sub-sahariani. Ma un numero crescente viene da Iraq e Siria.
Ai sensi del regolamento europeo chiamato “Dublino”, il paese di primo approdo del migrante è incaricato di prendere le impronte digitali e di registrare la domanda d’asilo. Gli italiani chiudono un occhio ai tanti che rifiutano la registrazione in modo che possano andare nell’Europa del Nord. Ma una significativa maggioranza resta in Italia per aspettare che il “lento ghiacciaio” della burocrazia elabori i documenti.
La migrazione illegale è un crimine che comporta pene detentive. Il welfare dello Stato italiano per i profughi è a breve termine. I migranti si trovano così in un limbo e non hanno altra scelta che affidarsi a enti di beneficenza locali per sopravvivere o per trovare lavoro illegale, che li rende profondamente vulnerabili allo sfruttamento.
Qualcosa che non avreste mai immaginato nell’Europa moderna
Il più grande dei ghetti, Rignano Garganico, si raggiunge solo guidando a lungo su una rete di strade piene di buche. Si tratta di una baraccopoli tentacolare di cartone e legno, capanne tenute insieme da un mosaico di miseria e di plastica che sbatte sotto i colpi del vento.
I confini del ghetto sono delineati da una falange di furgoni arrugginiti utilizzati dai boss del caporalato come minibus. I finistrini sono dipinti per proteggere il loro carico umano da occhi indiscreti. Tra le ombre, cani rognosi grattano nella sporcizia.
Durante l’estate, nella stagione di raccolta del pomodoro, quando le temperature arrivano a 40 gradi, migliaia di uomini convergono qui per vivere e dormire, senza acqua corrente, senza servizi igienici e senza speranza.
Ma una significativa maggioranza resta in Italia per aspettare che il “lento ghiacciaio” della burocrazia elabori i documenti
Gli estranei non sono solo scoraggiati ma cacciati via dai boss che gestiscono il lavoro, conosciuti come caporali: le minacce sono esplicite e la nostra visita porta a un inseguimento che termina solo rientrando in autostrada e in una zona più popolata.
Si stima che ci sono almeno mezzo milione di stranieri coinvolti nell’agricoltura stagionale in Italia.
Ogni anno fino a 100.000 dei più vulnerabili – spesso immigrati che sono arrivati attraverso la Sicilia e la piccola isola di Lampedusa – sono cooptati in questo sistema schiavistico e brutale, supervisionato da organizzazioni mafiose italiane meridionali, come camorra e ‘ndrangheta.
Senza acqua corrente, senza servizi igienici. E senza speranza
L’agricoltura è il settore economico italiano più segnato dalla criminalità organizzata, che controlla la filiera dai campi fino al supermercato. Localmente conosciuto come caporalato, il sistema funziona come una catena del ventunesimo secolo che fornisce migliaia di lavoratori necessari a raccogliere frutta e verdura, per conto di un gran numero di imprese agricole su e giù per il paese.
I pomodori trasformati sono una delle principali esportazioni agroalimentari italiane, con cinque milioni di tonnellate, del valore di oltre € 1,5 miliardi ($ 2,3 miliardi) venduti all’estero lo scorso anno.
In Australia, si stima che otto su dieci lattine di derivati del pomodoro provengono dall’Italia, preferiti sia per la provenienza che per il prezzo. Le varietà locali possono costare fino $ 1,80 per lattina, confrontati con gli 80 centesimi del prodotto italiano.
In Australia, i prezzi sono stati determinati dalle imprevedibili condizioni meteo, dalle esigenze di irrigazione e dal costo del lavoro non competitivo. Il prodotto italiano ha posto l’assedio al prodotto locale da anni. Nonostante viaggi per quasi 18 mila chilometri, le economie di scala del mercato italiano (terzo nel mondo dopo Stati Uniti e Cina), il lavoro migrante a basso costo e gli enormi sussidi UE agli agricoltori hanno un solo effetto: coltivatori e conservifici australiani semplicemente non possono competere.
Il fatto che il pomodoro in Italia è soprannominato oro rosso – e i lavoratori migranti che raccolgono le colture sono chiamati “i dannati dell’oro rosso” – rappresenta sicuramente una preoccupazione per gli australiani.
Yvan Sagnet è un giovane camerunese che ha guidato una rivolta dei lavoratori migranti nel 2011. “I caporali sono in grado di fare migliaia di euro al giorno mentre i loro ‘schiavi’ ricevono solo 20 euro prima che vengano detratti i costi. Infatti, i caporali non consentono ai lavoratori di portare con sé cibo o acqua. Li costringono a pagare 5 euro per il trasporto dai campi ai ghetti, dove tornano per dormire la notte. Vendono anche cibo: panini al prezzo di 3,50 euro e bottiglie di acqua al prezzo di 1,50 euro. Spesso prendono i documenti dei lavoratori, se li hanno. Così impediscono loro di fuggire e li rendono schiavi. Come se non bastasse, fanno pagare l’affitto nei ghetti. Arrivano persino a vendere vecchi pneumatici da bruciare per riscaldarsi in inverno”.
Sagnet è arrivato in Italia come studente, con una borsa di studio di ingegneria a Torino. Ha conosciuto di prima mano gli orrori del caporalato. Quando ha mancato un esame, aveva bisogno di sostegno finanziario. Nel disperato tentativo di guadagnare soldi e tornare ai suoi studi, ha viaggiato a sud nel 2011 per lavorare nei campi di pomodori di Nardò, nei pressi di Lecce.
La nostra visita porta a un inseguimento che termina solo rientrando in autostrada
Le condizioni di lavoro che ha trovato erano inimmaginabili e, dice, restano invariate: la paga è di 3,50 € per un cassone da 75 kg di pomodori che potrebbe richiedere ore prima di essere riempito. L’orario di lavoro può arrivare dalle 3 del mattino alle 6 del pomeriggio a temperature di oltre 40 grandi, senza ombra o tregua. Cinquecento uomini erano costretti a dormire in meno di 200 tende da un posto. Persino le cure mediche erano scoraggiate: un viaggio in ospedale significava dover pagare il caporale per il trasporto.
Mentre Sagnet stava lavorando, i proprietari dei campi decisero all’improvviso di cambiare la modalità di pagamento, rendendo il lavoro più difficile, ma senza offrire denaro in più.
Così il giovane camerunense ha guidato una rivolta e la forza lavoro è entrata in sciopero. Il coraggio degli uomini era un riflettore pubblico sul nefasto sistema del caporalato. Sagnet diventava autore di due libri e un sindacalista presso la CGIL. Tuttavia, vive con la costante minaccia di ritorsioni della mafia come il suo mentore, l’attivista anti-corruzione e autore Roberto Saviano.
Le varietà locali possono costare fino $ 1,80 per lattina, confrontati con gli 80 centesimi del prodotto italiano
Il “Ghetto-Ghana”, dove vive il ventiquattrenne Baah, è un mosaico di capannoni abbandonati e vecchie case di agricoltori sparsi in un vasto territorio nella zona di Cerignola. Qui, un tranquillo capo ghanese, che dice di chiamarsi Alexander, permette la nostra visita e ci segnala la situazione del suo popolo.
Sagnet guida The Weekend Australian nei ghetti in un raggio di 400 km in Puglia. Dice che i ghanesi soffrono terribilmente, ma sono culturalmente più preparati a collaborare nella lotta contro la mafia.
“Ho lasciato il Ghana per lavorare in Libia. La vita era molto dura a casa; non c’era lavoro”. Baah ci dice, guardando oltre i campi: “In Libia c’era da lavorare, ma si dice sempre che l’Italia è meglio. Sono venuto in Sicilia dalla Libia su una barca e sto qui da tre anni. Non c’è acqua, non c’è un angolo pulito, non ci sono servizi igienici. L’Italia non è un paradiso. Se potessi tornare indietro in Libia lo farei oggi. In Libia, quando c’è il lavoro, almeno pagano”.
In uno dei vecchi capannoni nel ghetto, Daniel, 40 anni ma con la faccia rugosa e stanca di un settantenne, senza parlare ci mostra i suoi piedi bendati e infettati. La clinica di una Ong italiana gli ha rilasciato un documento spaventoso. Senza una cura quotidiana a base di antibiotici, dicono, rischia l’amputazione.
Terrorizzato della prospettiva, ha trasformato una vecchia auto nella sua casa. Ora è senza un soldo e non è più in grado di lavorare. The Weekend Australian ha sentito il medico che lo aveva visitato. Daniel è solo uno dei tanti da contare, dicono. “La situazione è disperata. Se avessero acqua e servizi igienici, questo genere di cose non accadrebbe”.
Se potessi tornare indietro in Libia lo farei oggi. In Libia, quando c’è il lavoro, almeno pagano
Pochi chilometri lungo la strada, su una collina ventosa, troviamo altri due vecchi capannoni. Un fuoco è stato acceso in una vecchia pentola annerita e un giovane con una felpa verde si scalda le mani.
Antoine, un immigrato dalla Costa d’Avorio, ci accoglie in una derelitta, scura baracca. Con un grande sorriso, dice con orgoglio: “Io sono l’unico africano che ama il freddo”. Parlando nella sua nativa Francia, racconta una vita itinerante, cercando impieghi di raccolta stagionale in tutta Italia.
Le tre camere non hanno elettricità né acqua corrente. Un foro di terra funziona da toilette, esposto alle intemperie. Una serie di vecchi materassi macchiati sono sul pavimento. Altri, ammassati contro le pareti, testimoniano i mesi estivi, quando almeno 20 uomini dormono insieme in ogni piccola stanza.
Antoine ha 24 anni, è in forma e forte. Dice di essere uno dei pochi che rifiuta di lavorare con il caporalato: “Io non voglio morire sul posto di lavoro. La gente muore qui perché cercano di riempire i cassoni per fare abbastanza soldi per sfamare sé stessi e le loro famiglie”, dice. “Ma io sono venuto in Italia per vivere e lavorare, non per morire”.
Nelle vicinanze, in un’altra baracca abbandonata, un vecchio uomo e una donna seduti in silenzio davanti al fuoco. Una terza donna più giovane ci dice che lei è nigeriana. Parla in un inglese difettoso. È chiaro che è malata, ha gli occhi lucidi di febbre. “Dio provvederà a tutto”, dice con un sorriso folle. Indica una scatolina con una manciata di piccole patate. Poi una collezione di fotografie sbiadite. “Ho una figlia di nome Gift, ‘regalo’. Amo la musica, amo cantare, amo ballare”, ripete con voce cantilenante. Poi, altrettanto improvvisamente, si ferma e aggrotta le sopracciglia: “Soffriamo ma cosa dobbiamo fare? Ammazzarci?”. Mentre stiamo per andiamo, apre le braccia. Il suo abbraccio e il calore del suo viso, nel freddo inverno, rimarrà con me.
Nel periodo estivo, dice una Ong italiana, quando la forza lavoro è al suo apice, le donne migranti si muovono verso i ghetti per cucinare e fornire il sesso per il pagamento. Costano tra i 5 e i 10 euro.
Sagnet dice che bisogna combattere il pregiudizio secondo cui i giovani africani sono abituati a una vita disumana, ad alloggi sporchi e antigienici. Secondo questo luogo comune, essendo abituati così in Africa, sarebbero in grado di tollerare le stesse condizioni in Italia. “La dignità umana deve essere sacra. I campi di lavoro italiani e il sistema delle squadre di lavoro spogliano i lavoratori delle ultime tracce di umanità”, dice.
Ma io sono venuto in Italia per vivere e lavorare, non per morire
Sagnet ci guida verso Ginosa sulla pianura punteggiata da alberi radi. Qui troviamo un altro ghetto, questo popolato solo da lavoratori rumeni e bulgari. Immediatamente, l’aria di miseria e disperazione sembra essere sostituita da una rabbia grossolana.
Una manciata di bambini sporchi giocano tra i rifiuti e la sporcizia. Il nostro tentativo di parlare con alcuni giovani lavoratori viene bruscamente interrotto quando un caporale viene fuori. Grida che dobbiamo andare via. In pochi minuti, la vettura è circondati da uomini armati di pezzi di legno. Diventa chiaro che, se non ci ritiriamo, ci aspetta un pestaggio o peggio.
Non troppo lontano lungo la strada, un altro ghetto – un viale di container arrugginiti – appare lungo l’orizzonte. Recintato con filo spinato, è una pista di atterraggio militare abbandonata. Un deserto di cemento, ma almeno dotato di bagni chimici e di un rubinetto.
La vettura è circondati da uomini armati di pezzi di legno
Per Sagnet, la battaglia per riformare il sistema produttivo italiano è ancora all’inizio. Cambiamenti culturali e strutturali sono urgenti: dal rilascio più efficiente di documenti per i migranti a una nuova politica per il prezzo del pomodoro fino a un sistema di trasporti monitorati dallo Stato e case per i lavoratori stagionali.
“Tutto questo deve essere fatto in Italia. Ma se le nazioni come l’Australia che importano pomodori italiani cominciano a chiedere la prova che sono stati raccolti da persone trattate con dignità e pagate correttamente, anche questo è estremamente importante. E salverà vite umane”, dice Sagnet.
Traduzione di Antonello Mangano