Nei numerosi accampamenti informali della Piana di Gioia Tauro, il decreto del Presidente del Consiglio del 9 marzo è arrivato come un paradosso. Come rispettare il distanziamento, quando si vive ammassati? Come lavarsi se in molti ruderi di campagna manca l’acqua? Come tornare a casa, per chi non ha una residenza? E, soprattutto, come rimanere fermi se la stagione è finita e il lavoro di raccolta è già iniziato in un’altra regione?
I ghetti sono insediamenti informali con una storia travagliata: sgomberati, sostituiti e puntualmente ricostruiti. Il rischio coronavirus si aggiunge a una quotidianità cadenzata da incidenti mortali. L’ultimo risale al 4 febbraio. A Borgo Mezzanone, Foggia, una donna africana è morta dopo lo scoppio di una bombola di gas.
Parallelamente alle storie che arrivano dal Meridione, si alzano le voci delle associazioni dei produttori. Specialmente dal Veneto e dalla Lombardia. Secondo Coldiretti, “con il blocco delle frontiere alla circolazione delle persone è a rischio più di un quarto del Made in Italy, che ogni anno viene portato sulle tavole degli italiani grazie a 370mila lavoratori regolari che arrivano ogni anno dall’estero”. Confagricolura chiede “corridoi“ che permettano ai lavoratori stagionali di attraversare l’Europa e arrivare nei campi italiani.
Piccoli e grandi padroni desiderano dunque di poter disporre della manodopera che abitualmente utilizzano per le raccolte stagionali. Non dicono nulla, però, sulla provenienza e sui vissuti di questi lavoratori e queste lavoratrici.
Quattro strade
Le storie dei ghetti del Sud e quelle dei produttori settentrionali non sono connesse. I circuiti con cui i migranti arrivano in Italia e finiscono per lavorare nei campi sono almeno quattro. E sono rigidamente separati:
- braccianti stagionali comunitari dell’Est Europa;
- lavoratori non comunitari che arrivano con i flussi stagionali;
- migranti subsahariani che sono passati dalla richiesta d’asilo;
- lavoratori asiatici arrivati con un contratto di lavoro.
Est Europa
Il primo caso è dunque quello dell’Est Europa. In grandissima parte si tratta di braccianti bulgari e romeni, con una componente femminile molto forte. Partono con auto, furgoncini o con i pullman di linea. A volte intere famiglie. Restano il tempo necessario per la raccolta e tornano ai paesi d’origine. Sono attratti soprattutto dalla differenza di valore delle monete: per esempio, un leu rumeno equivale a 0,21 centesimi di euro.
Tra i rumeni che arrivano in Italia ci sono enormi differenze. Ma tra i casi estremi, abbiamo persone in condizioni di estrema fragilità: analfabeti delle zone al confine con la Moldavia; persone di origine Rom emarginate già in patria; donne con situazioni familiari difficili; famiglie in condizioni di estrema povertà che viaggiano dalla provincia di Botosani. Apparentemente sono liberi di andare e venire. Ma proprio l’estrema fragilità della loro condizione li rende ricattabili.
Flussi
Il secondo caso è quello dei flussi stagionali. Riguardano i lavoratori non comunitari e sostanzialmente sono stati ridotti, se non bloccati, negli ultimi anni. I flussi erano un canale importante di reclutamento in alcune zone del Nord Italia, nel resto del Paese non hanno mai funzionato. In teoria, comunque, ogni anno il governo emana un decreto sia per i flussi permanenti che per quelli stagionali. Ormai chiusi i primi, fortemente limitati i secondi, per accedere a un permesso di lavoro temporaneo occorre cliccare per primi sul portale del Ministero dell’Interno e sperare nella sorte.
“A fronte di una richiesta di circa diecimila stagionali, il sistema dei flussi fornisce quest’anno solo 1200 lavoratori”, dichiarava il sindaco di Saluzzo Mauro Calderoni nel 2019. Già nel marzo di quell’anno Coldiretti chiedeva al governo con urgenza un nuovo decreto. Ma sia il presidente Conte che il ministro Salvini erano impegnati a bloccare i porti e a sostenere la blindatura delle frontiere italiane.
Da almeno un anno i produttori lamentano mancanza di manodopera agricola
Si creava così il paradosso, già un anno fa, di una manodopera insufficiente in vaste aree come l’Emilia e il Veneto. A Saluzzo, nel centro del distretto agricolo di Cuneo, si creava invece di una concentrazione di migranti con documenti precari, solitamente richiedenti asilo in attesa di un permesso, che si accampava nel grande spazio del Foro Boario.
Mentre il lavoro era gestito da reti di caporali nati per l’occasione, nei pressi i manifesti di un’agenzia interinale annunciavano: «Ti piacerebbe lavorare nel settore agricolo?». Con un linguaggio che nel contesto sembrava beffardo, l’annuncio spiegava che «le risorse si occuperanno di raccolta frutta, posizionamento nelle cassette, controllo qualità dei prodotti. Il candidato ideale si presenta con i seguenti requisiti: buona manualità; predisposizione al lavoro fisico e all’aperto». In pratica, una rappresentazione plastica del fallimento del collocamento privato, nella sua duplice forma legale (somministrazione di manodopera) che illegale (caporalato). La richiesta di collocamento pubblico nelle campagne è una delle prime presentate da sindacati e attivisti.
Richiedenti asilo
Il terzo canale, quello maggiormente visibile, riguarda lavoratori generalmente subsahariani, sbarcati nel Sud Italia, ai quali è riservata la lunga trafila burocratica della richiesta asilo, di un diniego molto probabile, di una serie di ricorsi e attese. Un limbo che dura fino a quattro anni e che inevitabilmente trascina in un ghetto. I ghetti sono pieni, da tempo, di migranti respinti dal rifiuto alla richiesta d’asilo. Solo nel 2017, 55mila dinieghi hanno letteralmente creato un serbatoio di manodopera fortemente ricattabile da reperire nei Centri d’accoglienza o negli insediamenti informali.
Una categoria a parte è costituita dagli asiatici: indiani punjabi e bangladesi. Arrivano in genere con un contratto di lavoro in tasca, spesso fittizio. Per ripagare il “favore” di essere arrivati in aereo, sono spesso costretti a restituire il denaro pagato con anni di lavoro schiavile. Questo canale, incredibilmente, si inserisce da molti anni nel meccanismo della Bossi-Fini. Una vera trappola che prevede un contratto firmato a distanza intercontinentale, ma che alla fine sfocia nello sfruttamento più duro.
Ma ci saranno scaffali vuoti?
“Cose dell’altro mondo” è un film del 2011. Un padroncino del Nord Est sfoga la sua xenofobia alla tv locale. Il giorno dopo tutti i migranti spariscono, lasciando il paese nella disperazione.
Già alla fine di febbraio Romania e Bulgaria imponevano restrizioni ai connazionali provenienti da Lombardia e Veneto. Rischiando di non poter tornare in patria, molti hanno deciso giù allora di non partire.
Ma davvero si rischia un effetto del genere? Scaffali vuoti, migranti assenti e infine razzisti che si pentono amaramente delle loro avventate parole?
Se prendiamo per buoni i dati di Coldiretti, un bracciante su quattro è straniero. Quindi tre su quattro non lo sono. Questo vuol dire che comunque il 75% dei braccianti sono italiani oppure che il lavoro è meccanizzato. Parliamo ovviamente di una parte del lavoro agricolo, quella stagionale.
Ma il nodo non è questo. Il nodo è se dobbiamo a tutti i costi ripristinare lo status sconvolto dal virus. Anche se somiglia a un incubo.
“Come si crea e si distribuisce il valore nella filiera estesa del food” è un rapporto dell’istituto di ricerca “The European House – Ambrosetti”. Mostra che la filiera agricola (supermercati compresi) va il 5,1% del valore. Il resto va a tutto il resto, in particolare packaging, logistica e trasporto. Pur rischiando una semplificazione, potremmo dire che una filiera corta potrebbe redistribuire 95 euro su 100 che al momento servono a spostare merci, renderle appetibili al consumatore, muoverli dai centri di produzione agli hub logistici e quindi ai punti vendita territoriali.

L’agroalimentare italiano ha un fatturato che un fatturato che eguaglia la somma del Pil di Norvegia e Danimarca. Esistono già canali alternativi ai supermercati, come i mercati generali e quelli rionali, che nel tempo sono stati abbandonati dalla politica in favore della Grande Distribuzione.
In altre parole, un modello che schiaccia il costo della manodopera, in nome di una competizione al ribasso, non è un dato naturale. È una scelta.
Troppo bene
“Da noi sono abituati troppo bene e a lavorare nei campi non vengono” , sostiene tale Andrea Fasoli, imprenditore agricolo di Giaron, in provincia di Verona. La frase è tratta da un articolo di Repubblica che fa parte di un genere ormai collaudato: interviste a caso a imprenditori che faticano a trovare manodopera, accusano gli italiani di pigrizia. I giornalisti assecondano la voce degli imprenditori e non si preoccupano senza indagare minimamente le condizioni offerte.
A questo punto occorre distingue due fenomeni. Quello dei lavoratori che vorrebbero venire ma non possono. Quelli che possono ma non vogliono.
I primi subiscono una sorta di riduzione in schiavitù dettata dalla mancanza di alternative, secondo la più recente definizione della giurisprudenza.
Donne separate con figli a carico. Africani con un documento in scadenza. Persone ricattabili, che non possono rifiutare un lavoro
Sono donne che vengono dalle province rumene più povere, costrette a mantenere da sole i figli. Sono richiedenti asilo che, arrivati in Europa, devono mandare i soldi a casa e ripagare i prestiti della propria rete familiare. Sono ancora titolari di permesso umanitario che non possono rifiutare nessun lavoro, sia perché hanno un documento in scadenza, sia perché un magistrato potrebbe considerare “come una prova di integrazione” il loro impegno lavorativo.
Chi può, invece, evita il lavoro in campagne. Sono i famosi “lavori che gli italiani non fanno più”. Ma perché? Sono conosciute le condizioni del lavoro in Puglia, Calabria, Basilicata, Campania e Sicilia. Però in tutta Italia emergono racconti drammatici. Dal 2016, cioè da quando è in vigore la norma contro lo sfruttamento lavorativo conosciuta come legge anticaporalato, le procure del Nord sfornano in continuazione indagini contro sfruttatori di ogni tipo.
Dalle vendemmie in Piemonte alle raccolte in Veneto, dall’Emilia alla Lombardia non ci sono zone immuni al grave sfruttamento lavorativo.
Accanto a forme di sfruttamento generate dalla filiera (tipicamente il sottocosto), ci sono forme di schiavitù che nascono dalla fame di profitto delle aziende. Sono loro a scegliere forniture a basso costo di manodopera. È sempre più diffusa la pratica di esternalizzare a ”cooperative senza terra” oppure ad agenzie di somministrazione.
In molti casi, specie al Nord, lo sfruttamento serve al profitto delle aziende. Non è una necessità indotta dalla filiera
Spesso si affida la vendemmia, anche di vini pregiati, a personaggi ambigui, veri e propri caporali mascherati da imprenditori di aziende apparentemente legali. Zone come il Chianti e l’astigiano sono piene di queste storie. Persino i titolari di aziende storiche, che esportano in mezzo mondo, non si sono posti nessuna domanda vedendo lavoratori senza scarpe nei propri campi.
E chi avrebbe dovuto controllare, non ha fatto nulla vendendo centinaia di lavoratori prelevati dai Centri di accoglienza in tutta Italia e portati a lavorare in condizioni drammatiche. Con vitto e alloggio a carico dello Stato, si poteva pagarli a fine giornata con una manciata di monete.
Ma l’agricoltura è solo un pezzo del processo. La diminuzione generale dei migranti in Italia è in atto da tempo ed è il prodotto di diversi fattori: l’alto costo della vita; i salari da fame; le campagne di odio; la marginalizzazione dei non italiani, sancita da slogan carichi di odio; la burocrazia ostile e infine l’impossibilità non solo di ascesa sociale, ma anche di una cittadinanza piena persino per i figli a cui è stato negato anche lo “ius soli”.
In tutti i settori si fatica a trovare lavoratori. In tanti si sono stancati di accettare condizioni impossibili
Se è difficile trovare italiani che vogliano fare i braccianti (attenzione: non un lavoro stabile in agricoltura, ma un “lavoretto” a giornata del tutto saltuario), il motivo va cercato in queste dinamiche.
Non c’è settore che non faccia fatica a reclutare lavoratori.”L’Italia si conferma anche quest’anno tra i Paesi con il più elevato talent shortage al mondo – dichiara Riccardo Barberis, ad per l’Italia di Manpower – il 47% delle aziende non riesce a reclutare talenti con le giuste competenze, un dato che raggiunge l’84% nelle organizzazioni con più di 250 occupati”.
Talent shortage è un modo elegante per dire che non si trovano operai specializzati, autisti, informatici, contabili, edili e un’infinità di altre professioni. Ma la colpa, secondo Manpower, una delle maggiori agenzie interinali, non è di stipendi miserabili, condizioni di lavoro pessime e di una generale tendenza allo sfruttamento. È delle carenze della formazione regionale.
Il reddito di sudditanza
“Chiedo a chi prende il reddito di cittadinanza di fare qualche ora di servizio civile, ad esempio nella filiera della distribuzione”, dice la ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova. Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, propone l’uso di “cassaintegrati, studenti e pensionati italiani”. Giorgio Mercuri, presidente di Alleanza cooperative agroalimentari, che comprende anche le “coop rosse”, propone “impiegare in campagna, nella congiuntura di emergenza, i cittadini idonei ai quali viene attualmente erogato il reddito di cittadinanza”.
Per prima cosa si conferma che il reddito di cittadinanza si chiama così impropriamente. È stato concepito come una misura di workfare, cioè come un diritto condizionato: “continuo a erogarti la somma se…”.
In questo modo i lavoratori italiani sperimentano le logiche di ricatto che da sempre subiscono i migranti.
Dai piccoli produttori alle cooperative, fino al governo, tutti hanno chiesto di sostituire i migranti con lavoratori italiani ricattabili
In secondo luogo, si vogliono riprodurre con le fasce povere della popolazione italiana le stesse dinamiche riservate ai braccianti di origine straniera. E quindi mantenere gli stessi margini di profitto e competere in un gioco al massacro della globalizzazione alimentare. Lo stesso meccanismo che mette l’uno contro l’altro i contadini di continenti diversi.
La soluzione è un’altra. Garantire il reddito dei produttori rinforzando canali alternativi di distribuzione, ma chiedendo il rispetto dei diritti dei lavoratori. La soluzione è alzare il pavimento dei diritti, per esempio regolarizzando chi si trova a subire il ricatto dei documenti. Non è certo abbassare quello degli italiani inventando forme di nuovo ricatto.
Peccato per la competizione. I fanatici di questa religione possono praticarla in un altro settore. Il cibo è troppo importante per affidarlo ai giochi del mercato.