- Ottant’anni di colonie. E quel senso di superiorità che non scompare
- Sciara Sciat. Le deportazioni di Giolitti
- Quando Gheddafi voleva annettere le Tremiti
Le isole Tremiti fanno parte della fascia di sicurezza della Libia e saranno annesse come risarcimento dei danni coloniali.
Era il 29 ottobre 1987. Con questa dichiarazione Muhammar Gheddafi rivendicava l’arcipelago italiano. I politici italiani rimasero di stucco. Era una provocazione o una minaccia? Ma soprattutto, cosa intendeva il colonnello con quel riferimento al passato coloniale?
Un sasso bianco
L’isola di San Nicola appare come un enorme sasso bianco sormontato da un convento – fortezza benedettino, con mura a strapiombo sul mare turchese che lo circonda da ogni parte.
Superata l’abbazia, dopo un paio di chilometri, tra scale scoscese e sentieri battuti dal vento, arrivo al mausoleo. L’ingresso è un arco in stile arabo in ferro battuto, sormontato da una mezzaluna rivolta verso la Mecca.
Su una serie di lastre di ferro, ormai arrugginite dalla salsedine, sono incisi i nomi dei 400 libici sepolti sotto quel terreno. Praticamente introvabile, è una delle poche tracce di uno dei maggiori crimini del colonialismo italiano.
Tutto iniziò dopo Sciara Sciat, quando Giolitti decise la deportazione dei “rivoltosi arrestati” nelle piccole isole italiane: Ustica, Pontine, Tremiti. Sembrò un provvedimento eccezionale, invece durerà fino al la caduta del fascismo.
La deportazione nelle isole divenne una colonna portante del colonialismo italiano
In una delle “Lettere dal carcere”, infatti, Antonio Gramsci raccontò di Haussiet, compagno di confino libico a Ustica. I due prigionieri scambiavano regali e impressioni, uno trovava comode le babbucce, un altro amava guardare le fotografie del figlio del politico sardo. Era il 1929. Entrambi si trovavano nell’isola al largo di Palermo, dove ancora erano presenti numerosi “beduini” deportati dalla Libia.
Le deportazioni di arabi e berberi dureranno quindi fino al 1943: una colonna portante del sistema repressivo coloniale italiano.
Dai porti del Nord Africa partivano regolarmente navi destinati alle isole penali italiane. In alcuni casi, si trattava di deportazioni di massa seguite a disfatte militari o ribellioni. In altri, trasferimenti di singoli ritenuti pericolosi o, più raramente, di detenuti nelle prigioni coloniali.
Spesso le vittime erano semplici “sospettati”, non persone sottoposte a regolare processo. Le autorità militari le consideravano potenzialmente pericolose per la colonia e ne disponevano il trasferimento.
Il numero esatto è incerto, ma stimato in seimila deportati
Il numero esatto rimane incerto. Il Libyan Studies Centre stima il totale in circa 6000 libici, molti dei quali deceduti durante le traversate. Altri ancora sarebbero morti nelle isole. Alle Tremiti, un’epidemia di tifo e colera sterminò circa metà del migliaio di detenuti arrivati nel 1911.
In risposta a Sciara Sciat e alla grande rivolta araba, i rastrellamenti furono indiscriminati. Venne catturato chiunque, purché arabo, senza riguardo ad anziani, donne e bambini. Dopo la prima guerra mondiale, invece, prevarrà la deportazione individuale per indebolire il movimento di resistenza, analogamente con quanto farà il fascismo internamente con i confinati politici come Gramsci.
Peppino l’africano
Un test del DNA su trenta abitanti delle isole. Questo l’accordo tra l’ambasciatore libico e Giuseppe Calabrese, sindaco dell’epoca, detto “Peppino l’Africano” per i suoi amichevoli rapporti con la Libia. Amicizia culminata nel 2007, quando andrà a trovare Gheddafi nella sua celebre tenda in mezzo al deserto.
L’obiettivo del colonnello era dimostrare che la popolazione locale discendeva dai nordafricani. Nel 2008, però, le analisi diedero esito negativo e fermarono la richiesta di annessione, a cui il sindaco aveva dato – forse per provocazione – un parere favorevole.
Con l’analisi del DNA, Gheddafi voleva dimostrare che gli abitanti delle isole discendevano dai libici prigionieri
Si conclusero così dieci anni di vicende surreali e drammatiche, culminate persino con un attentato terroristico. Infatti, appena una settimana dopo la richiesta di annessione, una fortissima esplosione scosse la tranquillità delle isole, distruggendo il faro situato in una zona Punta del Diavolo. Era la notte del 7 novembre 1987.
«La mattina dell’esplosione mi recai al faro – racconta alla RAI l’allora guardiano – insieme al sindaco dell’epoca. Non riuscivamo davvero a capire cosa fosse successo, qualcuno pensava all’esplosione di una bombola di gas, ma io lo esclusi sin da subito. L’ispezione al piano terra dove rimaneva la cucina confermò la mia ipotesi. Poi il sindaco si arrampicò al primo piano salendo dalla finestra, lo rivedemmo dopo pochi istanti con il viso terreo. Aveva trovato il cadavere di un uomo orribilmente sfigurato, le mani maciullate, non si poteva riconoscerlo in alcun modo. Così immediatamente lanciammo l’allarme tra gli isolani, chi mancava all’appello? C’eravamo tutti, capirà qui non è difficile, siamo qualche centinaio di anime. Doveva trattarsi di uno straniero. Ricordai allora di aver visto due uomini sul traghetto da Termoli il giorno precedente. Poi ne fui certo. Riconobbi l’uomo più alto: era il cadavere che avevo davanti agli occhi».
Gli uomini del traghetto
I due uomini del traghetto, uno dei quali morto nell’attentato, risultarono essere due svizzeri noti per truffe e rapine. Molte tracce portavano ai servizi libici, ma nessuna prova definitiva. Lo svizzero superstite fu infine condannato per «introduzione clandestina di un ordigno esplosivo in Italia e distruzione di installazioni militari, per finalità di eversione dell’ordine democratico». Ma riuscì a far perdere le sue tracce e sparire nel nulla.
Alla fine di queste vicende convulse, rimasero soltanto due tracce tangibili. Il primo è il mausoleo all’aria aperta, costruito nel 2004, di cui abbiamo già parlato.
Il secondo è un piccolo film terminato nel 2008. Anche questo, tanto per cambiare, fu il frutto di una storia tormentata.
«Gheddafi vuole insegnare la storia agli italiani», commentò La Stampa con una punta di acidità, quando apprese la notizia per cui il capo di Tripoli voleva una mega produzione per raccontare i crimini dell’Italia nella sua terra. Il risultato sarà molto più modesto, ovvero un cortometraggio intitolato Dhulm: Years of Torment («Ingiustizia: anni di tormento»).
Il canto delle diomedee
Le diomedee sono piccoli albatri che prediligono gli isolotti per la cova. Il loro canto ricorda il pianto dei neonati, ma anche un commovente lamento polifonico.
Per questo sono nate infinite leggende su questi uccelli bianchi. Una delle più antiche risale a Diomede, eroe dell’Iliade, che avrebbe creato le Tremiti gettando dei ciottoli in mare. Qui si ritirò trovando la morte con i suoi compagni. Venere lì trasformò in piccoli gabbiani per tenere compagnia al loro re e piangerne la morte con un canto struggente.
Gli uccelli bianchi piangono i re Diomede sepolto nelle Tremiti
Ed è facile la suggestione che porta al mausoleo a picco sul mare, dove quattrocento libici strappati alla loro terra trovarono la morte. Le diomedee piangono anche loro. Da più di cento anni.
I luoghi di questa storia: dal porto di Tripoli alle isole italiane