Adesso il ghetto è una “istituzione” della Repubblica. Ad agosto il governo ha nominato per decreto tre commissari straordinari per le zone di Rosarno-San Ferdinando, Foggia-Manfredonia e Castel Volturno.
L’obiettivo? “Superare le situazioni di particolare degrado” in territori “caratterizzati da una massiva concentrazione di cittadini stranieri”. Nelle ultime settimane sono state formalizzate le nomine tra ex prefetti. Al momento ci sono due certezze: ai commissari non spettano compensi e non avranno risorse. Le attività? “Adottare un piano di interventi per il risanamento”.
Gli italiani scoprirono i ghetti poco meno di trent’anni fa, quando a Villa Literno fu assassinato un rifugiato sudafricano di nome Jerry Masslo. Da allora ci sono stati innumerevoli tentativi di “superamento”: campi container, tendopoli, bollini di qualità, leggi contro il caporalato, sgomberi di massa e zone videosorvegliate. Niente. I ghetti crescono e si moltiplicano. Ormai sono un arcipelago. Ma perché i migranti si concentrano proprio in quei luoghi?
Ingabbiati
A. si fa strada nel fango della baraccopoli di Rosarno, tra rifiuti e casette di cartone. Accanto a lui un gruppo di gambiani costruisce nuove abitazioni martellando su travi di legno. Un’anima di pallet, uno strato di cartone e una protezione di plastica per impermeabilizzare. Ecco pronta un’altra baracca. Nigeriani inventano negozietti: vendono burro di arachidi, bustine di Oki e doppio concentrato di pomodoro.
La Protezione Civile ha messo su tende per 500 posti, recintati e videosorvegliati. È il terzo tentativo. Ogni volta i campi dello Stato sono stati circondati da baracche e rifiuti, lasciati nell’abbandono e quindi ricostruiti un po’ più in là.
Anche questa volta, intorno all’insediamento statale, è cresciuta una città informale. Oggi conta duemila abitanti che vivono in baracche affollate e gelide: è il ghetto più grande d’Italia.
“Lavorano a cottimo o a giornata, senza contratto né busta paga, con una retribuzione ben inferiore a quella sindacale”, denuncia l’organizzazione umanitaria Medu.
“Dappertutto servizi igienici assenti o fatiscenti. Non c’è luce e l’acqua si prende dai bagni maleodoranti o da una fontana vicina. Non è potabile ma qualcuno la usa anche per bere. Senza energia elettrica, sono le bombole a gas e qualche generatore a benzina a garantire un po’ di acqua calda e la preparazione dei pasti. Tutt’attorno l’odore nauseabondo della plastica e dei rifiuti bruciati”.
L’acqua si prende dai bagni maleodoranti. Tutto intorno l’odore dei rifiuti bruciati
A. prende una serie di fogli e racconta la sua storia. Tre anni fa è sbarcato a Pozzallo. Lo hanno trasferito in un Cas nei pressi di Magenta. Alla commissione asilo ha raccontato di una lite con fratello, del padre ucciso, dei rischi che corre in patria. Non gli hanno creduto. L’unica speranza di avere i documenti è il Tribunale.
Uno degli avvocati che bazzicano il centro ha chiesto 1200 euro per il ricorso che ha perso. A. ha contrattato 500 euro subito e il resto a fine procedimento. Quando lo chiamano a giornata racimola 25 euro, se va bene. La prossima udienza è prevista a febbraio.
“In Mali facevo l’autista, 600 km a viaggio partendo da Bamako”, racconta. “Ma so anche montare i pannelli solari”. Invece pota alberi e raccoglie kiwi. Né il diploma né la patente sono valide in Italia. Per convertila, a Mantova, gli hanno chiesto 1200 euro. “Forse al Sud costa meno”, spera.
Va a Napoli e trova lavoro presso un parrucchiere africano. Conosce lo sfruttamento tra connazionali: prende 180 euro, ne spende 100 per un posto letto (solo notturno, di giorno non può entrare in casa). Mentre fa la barba a un cliente, sente la parola che gli cambierà la vita: Rosarno. Gli dicono che lì si trovano lavoro e documenti. Invece rimane bloccato in una baraccopoli.
Nouredine, Lamine, Soleiman, Ahmed e gli altri abitanti del ghetto sono le macerie del sistema di accoglienza. “L’80 per cento è in Italia da meno di tre anni”, spiega Medu. Sono “diniegati” dalle commissioni asilo e incastrati nella lunga agonia dei ricorsi. Quasi tutti vorrebbero andare via dall’Italia. Molti sono costretti a tornarci. Passano l’anno cercando lavoro nelle raccolte delle arance e dei pomodori. Data la condizione di estrema precarietà, sono vittime dei caporali e quasi sempre lavorano in nero. Un girone senza uscita.
Paradossalmente, lo Stato che cerca un rimedio al fenomeno è lo stesso che ne ha aggravato le condizioni. Non solo ha negato i documenti senza pensare a un’alternativa, ma ha reso complicati i rinnovi anche per chi ha ottenuto un permesso umanitario.
L’Italia è una prigione
N. ci spiega la situazione degli ingabbiati. Per loro l’Italia è una grande prigione. Anche lui sbarca a Pozzallo e viene smistato al Cara di Roma. È uno dei fortunati: ottiene un permesso umanitario. Nella lunga attesa ha voglia di lavorare. Va a Huelva, in Spagna, a raccogliere arance. È semplicemente entusiasta: gli danno anche 50 euro al giorno, mai visto in Italia. Però il permesso dura solo due anni: deve rinnovarlo alla Questura di Roma.
Qui gli chiedono il certificato di residenza, per fortuna è tornato in Italia con un ampio margine (cinque mesi) per cercare una casa e un contratto di affitto. Ma, da quando ha rimesso piede a Roma, gli hanno proposto solo tirocini ed è dura avere un reddito normale, figurarsi una casa stabile.
C’è chi è incatenato all’Italia dal documento, ma c’è chi sta peggio: chi non ha il documento. Tra Rignano Garganico e Borgo Mezzanone, si espande l’arcipelago dei ghetti. La “pista” è il più surreale. Una ex base Nato divisa tra il Cara – un centro di accoglienza statale – e una massa di casette, tende e baracche. Suleyman è un signore somalo che vive tra reticoli di cavi elettrici e negozietti.
Cerca qualcuno per interpretare una serie di fogli della Commissione asilo di Gorizia. C’è un’incongruenza sull’età e per questo ha ricevuto un diniego che lo ha sbattuto all’altro estremo della penisola.
C’è chi è incatenato all’Italia dal documento, ma c’è chi sta peggio: chi non ha il documento.
Accanto a lui ci sono migranti in attesa di ricorso a Crotone, c’è chi attende notizie dalle questure di mezza Italia e chi ha già ricevuto un rifiuto. A questa gente senza prospettive, che si rifugia dove trova un’abitazione a costo zero, cibo quasi gratis e la solidarietà dei connazionali, lo Stato chiede una bella casa e un lavoro fisso.
Altrimenti niente rinnovo dei documenti temporanei. Hanno quindi due speranze: il certificato di residenza e il contratto di lavoro. Basta un rapido giro per capire che entrambi si devono comprare. Un finto contratto di affitto (250 euro), un contratto di lavoro a tempo determinato come bracciante (300 euro).
Carburante
Negli ultimi anni in Italia sono arrivati circa 500mila migranti. Il 60 per cento ha ricevuto un diniego, il che significa 200mila potenziali irregolari. Un circolo vizioso: i respinti finiscono nei ghetti.
Nel 2017 sono sbarcate meno persone (meno della metà del 2016) ma il problema rimane identico. Ci sono state comunque 130mila richieste.
Con la politica dei dinieghi, l’anno prossimo altre 50mila persone andranno a popolare i ghetti
Le hanno presentate soprattutto nigeriani, bangladesi, pakistani, gambiani e ivoriani. Gente con poca probabilità di accedere all’asilo. La percentuale di dinieghi è rimasta costante (60 per cento), quindi altre 50mila persone sono pronte per popolare i ghetti e finire in mano ai caporali. Carburante infinito per lo schiavismo dei prossimi anni.