Un racconto sui rapporti tra Nord e Sud

Fulgido esempio

  Un omicidio in pieno centro. Alle dieci di mattina. Nessuno ha visto, tutti scappano. Tranne Tito, che ha le stampelle e non può muoversi. La stampa lo trasforma in un eroe antimafia contro la sua volontà. Fino al trafico epilogo
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Gli spararono due colpi al macellaio Filippo, due colpi e cadde. Una strada brutta, larga, triste. Era appena uscito in strada sulla vetrina del suo negozio ad appendere il capretto scuoiato e la testa di vitello, con le corna e gli occhi stravolti dal dolore e dalla morte. E non sapeva il macellaio che la stessa espressione stava per dipingersi nei suoi occhi.

Con due colpi secchi gli hanno detto che era finita. Ha appena avuto il tempo di capire. La via principale del paese; le dieci di mattina; pieno di gente. Appena sentiti gli spari e visto il macellaio che si afflosciava e il grembiule bianco che diventava rosso, tutti hanno capito cosa era accaduto; defluivano annoiati, scocciati dal contrattempo e nervosi soprattutto per il copione che si ripete sempre allo stesso modo, monotono, antipatico.

«Cammina, vieni via», dissero gli avventori del bar “Novecento” – di fronte alla macelleria Filippo – all’unica anomalia di una scena già girata mille e mille volte. L’unica anomalia, cioè l’unico che era rimasto al suo posto e contemplava il cadavere, anziché fuggir via, era tale non per volontà sua ma per colpa di un trattore Fiat malfunzionante che una volta gli aveva sbriciolato una gamba e che ora gli impediva di evitare di diventare l’unico testimone di un delitto atroce.

«Vieni, vieni, via!», dicevano gli amici avventori all’anomalia, che si chiamava Tito e aveva più di sessant’anni. E lui a gesti e balbettando indicava che non si poteva alzare dal tavolino, che almeno gli cercassero il bastone che nella confusione era andato smarrito. Gli amici di Tito si vedevano ogni mattina al bar “Novecento” da quarant’anni almeno, e davvero pareva a tutti una carognata lasciarlo lì; e poi sapevano bene che il ricordo degli occhi imploranti dell’amico se lo sarebbero trascinato per sette notti almeno. Forse sei.

Ma di tempo non ce n’era, e già si sentiva il suono della sirena, il quale – da solo – servì a scacciare sensi di colpa e a fornire ali alle gambe di ciascuno. I poliziotti si trovarono davanti la scena surreale del corso principale del paese del tutto deserto alle dieci del mattino, con l’eccezione di un cadavere sotto una vetrina di macelleria e dell’unico avventore di un bar, immobile al tavolino, di fronte la macelleria, dall’altro lato della strada. Il poliziotto – senza fantasia – andò dal testimone ignorando il cadavere e chiese se aveva visto. «No», disse Tito, e anche lui dimostrò scarsa inventiva.

Già nel pomeriggio l’Ansa comunicò al mondo che nel paese di G. c’era stato un morto ammazzato sulla via principale, che tutti erano fuggiti; e che un eroico invalido era rimasto fermo ad attendere la polizia col fine – pareva – di denunciare i colpevoli e «interrompere così la spirale di violenza che insanguina una terra gloriosa e ricca di antiche civiltà».

Nell’articolo che riprendeva la notizia il “pareva” fu disintegrato e sparì definitivamente dalla scena. Il direttore del Grande Quotidiano Nazionale lesse l’Ansa, chiamò l’Inviato Speciale, spiegò che quello sarebbe stato il più grande scoop della storia del giornalismo, che bisognava costruire una storia sensazionale e infine gli raccomandò di non gonfiare la fattura del rimborso spese.

L’Inviato Speciale maledisse la missione, che presentava notevoli insidie e difficoltà, a partire dal fatto che nel raggio di cinquecento chilometri dal luogo della missione non era presente un Hilton e che – perdipiù – in quella terra barbara erano praticamente sconosciuti gli idromassaggi e i ristoranti cinesi. Ciononostante partì e giunse a G. Dopo non poca fatica trovò la casa di Tito, e vide la moglie morta dallo spavento e il figlio con lo sguardo torvo.

Tito disse: «Senta, gli amici suoi hanno fatto confusione, io non ho detto niente, niente, non ho parlato, niente ho detto». L’Inviato Speciale, con l’aria seccata, infastidito da tanta testardaggine, spiegò che lui aveva il preciso compito di raccontare la storia dell’eroico invalido Tito che denuncia la mafia di G. e quella del capoluogo; che rappresenta una occasione di riscatto per una terra dalle antiche civiltà; che è un fulgido esempio soprattutto per le nuove generazioni. «Di tutto il resto», osservò l’Inviato Speciale con noncuranza «me ne strafotto».

 

Il figlio di Tito minacciò di sparargli, ma l’Inviato rispose con uno sguardo di sovrana indifferenza. Allora provò a ragionare e chiese: «E allora che è venuto a fare qua?». «A fare una bella fotografia all’eroico testimone fulgido esempio di coraggio civile, naturalmente» spiegò l’Inviato; e con gesto fulmineo prese un cellulare e chiamò il Fotografo che, prudentemente, era rimasto in macchina.

Fotografarono tutto il fotografabile, fecero mettere Tito in posa da generale, gli fecero mimare il momento in cui rimase ad attendere la polizia seduto al tavolino del bar Novecento, infine lo immortalarono accanto alla famiglia. Quindi uscirono in fretta salutando appena. Tito era rimasto muto, davvero non sapeva cosa dire; la moglie tremava di paura; il figlio profetizzava sciagure e disgrazie apocalittiche.

Il giorno dopo il Grande Quotidiano Nazionale pubblicò una pagina intera dedicata «all’intrepido invalido, che riscattava col suo gesto una terra figlia della Magna Grecia». «Un gesto nato spontaneamente, un gesto splendido e puro. Non è vero signor Tito?»

– Non ho esitato neppure un attimo. Basta col sangue che scorre nelle strade. Basta con i politici inefficienti. Basta. È ora di voltar pagina.

Al bar Novecento non credevano ai loro occhi, non credevano cioè di aver preso il caffé per quarant’anni, circa 480 mesi, con una infame spia.

Il giorno che Tito si presentò al bar aveva gli occhi bassi e il volto in fiamme, ma gli amici non lo riconoscevano e si voltavano dal lato opposto. Il commissario era una belva, voleva sbranare questi sciacalli. Telefonò fremente d’indignazione direttamente al Direttore Generale del Grande Quotidiano Nazionale, ma atteggiò la voce a calda e cortese familiarità quando apprese che sul suo conto corrente era stato depositato un omaggio di cinquanta milioni circa.

Il Grande Quotidiano Nazionale apparteneva al Miliardario Liberale, il quale possedeva anche il Settimanale Nazionale e la Televisione Nazionale.

Sul Settimanale furono pubblicate le foto di Tito sotto il titolo «Rimango fermo e seduto al tavolino – Io la mafia la guardo dritta negli occhi». Per la tv era più problematico, non restò che ricorrere al doppiaggio. Si mise una troupe a casa di Tito e gli chiedevano di muovere le labbra, di non preoccuparsi, da quel giorno tutte le preoccupazioni sarebbero finite, tutta la sua famiglia avrebbe navigato nell’oro; e nessuno – neanche suo figlio – avrebbe più avuto bisogno di lavorare.

Il Miliardario Liberale e il Grande Direttore si trovarono a cenare, in centro, a Milano, in un ristorante esclusivo (che nelle loro vite tutto era ed è esclusivo; pare che l’esclusione sia l’unico fine delle loro esistenze).

«Complimenti, carissimo, complimenti davvero per quest’ultimo scoop. Una storia commovente, la concorrenza è rimasta con un palmo di naso…». «Grazie commendatore, grazie. Come vede, non si è certo pentito di avermi assunto…». «Assolutamente. Assolutamente. Però, vede, da una storia, così, avrei voluto, non dico ripianare i debiti che sarebbe troppo, ma, ecco, diciamo… contribuire… a… impennare le vendite, l’audience, insomma, incrementare gli utili: quando capita una occasione di queste, e quando la si sa costruire bisogna saperla far fruttare fino in fondo. Il resto è solo balle».

«Un vuoto incolmabile, una tragedia senza precedenti, l’ennesima sconfitta per una terra maledetta martoriata dal dolore e violentata dal crimine». L’Inviato Speciale dava il meglio di sé mentre scriveva il pezzo più importante della sua vita, che tra poche ore sarebbe stato collocato sotto un titolo gigantesco, e cioè «Assassinato Tito, Sicilia in ginocchio».

Il Fotografo, nel frattempo, vendeva a peso d’oro le fotografie di Tito, mettendole all’asta: la foto di Tito in posizione da generale aveva raggiunto la quotazione di tremila dollari.

L’inviato della Televisione Nazionale era quasi venuto alle mani con quelli del Quotidiano, che gli avevano impedito di riprendere l’agguato in diretta (e troppi sospetti sarebbero nati con le riprese in diretta dell’agguato e dell’efferato omicidio) ma si era consolato con la riprese in esclusiva del cadavere e della moglie straziata dal dolore.

Il Settimanale raddoppiò le vendite, la Televisione registrò un impennata nel prime time, quando iniziò il collegamento diretto da G.; gli sponsor fecero a gara per accaparrarsi gli spazi migliori, e il prosciutto Maggiori fece produrre in fretta e furia uno spot nuovo di zecca (“Maggiori – il prosciutto dell’impegno civile – anche a casa di Tito si faceva colazione con Maggiori”). Le tipografie dell’Editore Nazionale, di proprietà del Miliardario Liberale, avevano già iniziato a stampare le prime copie di “Tito – Memorie di un testimone intrepido vittima di una terra barbara”, di cui si prevedeva una tiratura di 10 milioni di copie.

Il commissario disse “basta”; ricordava che il Miliardario Liberale, per costruire dighe di pastafrolla da queste parti, si era fatto spianare la strada da gente antipatica, quella gente che i rotocalchi chiamano “poco raccomandabile” e “chiacchierata”. Pensava che la rabbia che provava stavolta nessun conto in banca la poteva soffocare. Ma quando gli telefonò il Miliardario Liberale e gli offrì di diventare il responsabile della sua vigilanza privata accettò con entusiasmo. Pensò: «Se quel Tito non era un cretino zoppo e analfabeta, questa fine non la faceva».

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