Fuggite dall’Iran, incarcerate in Italia. L’odissea kafkiana di due rifugiate

  Marjan Jamali e Maysoon Majidi, fuggite dal regime iraniano in cerca di libertà, sono da mesi in carcere in Italia. Accusate senza prove concrete di essere scafiste, hanno vissuto mesi di detenzione, separazioni e incomprensioni giudiziarie. Le loro storie mettono in luce la superficialità delle indagini e la fretta di trovare un capro espiatorio
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Lei si chiama Marjan Jamali, 29 anni. Quando ha deciso di scappare dal regime degli ayatollah,  non poteva immaginare che in Italia sarebbe stata chiusa in carcere e in manicomio, le avrebbero tolto il figlio e avrebbe tentato di ammazzarsi due volte.

Meno di un anno fa, era piena di speranze. Ha lasciato l’Iran per la Turchia, insieme al figlio Faraz, 8 anni. Quindi è salita su una barca a vela in direzione Europa. Costo del viaggio: 14mila dollari a persona. Iraniani, iracheni. Centosei uomini e donne. A bordo ci sono tensioni e litigi, il cibo sta per finire, l’acqua è già terminata. Jamali subisce anche un tentativo di violenza da tre iracheni, un connazionale la difende ed evita il peggio.

L’incubo è appena iniziato

Un viaggio terrificante, ma l’incubo è appena all’inizio. All’arrivo nel porto di Roccella, costa jonica calabrese, dopo uno sbarco con onde altissime, la polizia rivolge la solita domanda: chi sono gli scafisti?

“Lei”, rispondono i tre molestatori puntando il dito.

È l’ottobre del 2023. Ora, non è che sia tutto così lineare. Gli iraniani parlano farsi, gli interpreti no, i documenti sono tutti in arabo. Jamali non ha sicuramente capito perché l’hanno messa in carcere, le hanno tolto il figlio, l’hanno accusata di “favoreggiamento della immigrazione clandestina”. Un reato che può comportare fino a 20 anni.

Per due volte, in carcere, ha tentato di ingoiare psicofarmaci.

L’hanno quindi deportata in Sicilia, al reparto psichiatrico del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, un ex manicomio criminale. Per un mese di osservazione psichiatrica. Intanto il figlio stava in Calabria, presso una famiglia afgana a Camini, a due passi da Riace.

Il presupposto di tutto questo? Appena la dichiarazione dei tre iracheni  allo sbarco. Nessuna verifica, nessun incidente probatorio. Del resto i tre, come spesso accade in questi casi, sono rapidamente spariti dall’Italia. La superficialità delle indagini è provata anche dal cognome sbagliato. Negli atti la chiamano Qaderi, ma basterebbe leggere il passaporto per scoprire che si chiama Jamali.

I magistrati, comunemente, hanno fretta di trovare un colpevole, specie da quando la politica ha individuato negli “scafisti” la causa del problema immigrazione.

Soltanto alla fine di maggio 2024, Jamali lascia il carcere di Reggio Calabria dopo ben sette mesi di detenzione. Potrà seguire il processo agli arresti domiciliari, ma almeno vicino al figlio.

In carcere perché manteneva la calma

Una vicenda simile è quella di Maysoon Majidi, 27 anni, detenuta a Castrovillari.

È un’attivista curda per i diritti delle donne, regista, fuggita per salvarsi la vita dal regime iraniano dopo le manifestazioni per Mahsa Amini.

In Italia è accusata di essere una scafista sulla base di due testimonianze. Uno dice che l’ha vista parlare con il capitano, un altro che distribuiva acqua e che “manteneva la calma”. Gli altri 73 passeggeri non sono stati sentiti.

Accuse fragili che però significano la detenzione da dicembre 2023, un periodo in cui è significativamente deperita: 14 chili in pochi mesi. Nel frattempo gli accusatori hanno raggiunto l’Inghilterra e la Germania.

I luoghi di questa storia

Anche in questo caso il processo sembra un mix tra fretta di trovare un colpevole, errori di traduzione e incomprensioni con chi ha rilasciato le dichiarazioni.

Le prove a discolpa di Majidi sono importanti, a partire dalla ricevuta del pagamento del viaggio. Poi il colpo di scena: uno degli accusatori, dalla Germania, ritratta e dice che si trattava di una semplice passeggera.

Da qualche giorno, Majidi ha iniziato uno sciopero della fame con queste parole: «È quasi peggio che in Iran, lì almeno conoscevo il mio nemico».

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