Roma, Quartiere di Tor Pignattara – Un giovane pakistano in strada. Un uomo che dal balcone urla: «Ammazzalo!». Un diciassettenne che esegue il compito a mani nude. Così Khan Muhammad Shahzad è morto a 28 anni e senza uno straccio di motivo. Lasciando un figlio di pochi mesi.
I due sono, su piani differenti, vittime della crisi. Il giovane pakistano non era un homeless o uno sbandato. Perfettamente regolare, lavorava in un ristorante vicino, chiuso perché non riusciva a sostenersi. Daniel, l’omicida, è figlio di un barista, uno dei tanti commercianti della zona. Amici e parenti del ragazzo hanno solidarizzato con lui. «Ci manchi», recitava uno striscione. In tutto il quartiere i negozianti italiani lamentano di essere a un passo dalla chiusura. Alcuni protestano contro fruttaroli dalla pelle scura e moschee “che proliferano”.
I primi migranti venivano da Frascati e avevano percorso pochi chilometri. Quelli di oggi hanno cambiato continente
Italiani e asiatici non sapranno mai quanto hanno in comune. Non dialogano e forse non lo faranno mai. Eppure sono figli della stessa storia. Che ha esattamente cento anni. I primi migranti venivano da Frascati e avevano percorso pochi chilometri. Quelli di oggi arrivano da Dacca e hanno cambiato continente. Ma lo spaesamento è uguale. E non molto differente il modo con cui vengono accolti.
Il permesso di soggiorno del ‘39
Chi non ha un lavoro deve lasciare il territorio. Si chiama “legge contro l’urbanesimo”, fu approvata nel 1939 e abrogata solo nel 1961. Il principio è lo stesso della Bossi – Fini: soggiorno legato al lavoro. Il fascismo voleva tenere sotto controllo le migrazioni interne. Così le periferie diventano il “cuscinetto” in cui nascondersi dalle retate della polizia. Molto probabilmente, coloro che invocano la cacciata degli stranieri sono figli di immigrati “espulsi”.
Tutto è stato rimosso. Le deportazioni di intere famiglie. Le baracche costruite sotto l’antico acquedotto alessandrino. Le casupole pasoliniane. Il ricordo del vecchio tram e del suo percorso ad anello. Sono oggi deboli tracce sostituite dalle opere di Street art e dalle stratificazioni architettoniche.
Identità fluide
«Non voglio che i miei figli frequentino i torpigna», dice uno dei protagonisti del cinepanettone “Vacanze di Natale” del 1983. Stefania Ficacci è la storica che ci fa da guida tra il razzismo di ieri e quello di oggi. Racconta che i romani del centro non avevano ancora digerito che la metro e il miglioramento dei trasporti avessero portato nelle loro zone i “coatti” delle periferie. Gente da sempre immigrata. Negli anni ’10 dai Castelli Romani, quindi nei decenni successivi da Marche, Abbruzzo, Puglia.
“Arrivano i Torpigna”. Identità fluide. Sempre e comunque migranti
Identità fluide, con un comune denominatore: sempre e comunque migranti. I cosiddetti extracomunitari sono solo gli ultimi. E arrivano molto tardi, negli anni ’90. Un po’ di diffidenza, ma alla fine nel quartiere si convive. Poi arriva il 2014. L’anno del furore.
Sono tra noi?
«Non sai quanti ragazzini mi dicono: picchiali, picchiali. Dove andremo a finire di questo passo?». Nei giardini di Piazza Vittorio un vigilante dialoga con un carabiniere. «Il razzismo cresce. Gli italiani si sentono defraudati. Ma da cosa?».
A poca distanza un’edicola mostra l’ultima copertina di Panorama. Un islamico dal volto coperto e il titolo che gioca sulla paura: «Sono già tra di noi?» Esquilino e Tor Pignattara sono i quartieri più multiculturali di Roma. Negozi cinesi, mercati con spezie e colori del mondo, abiti di ogni foggia e moschee. Per alcuni un tocco internazionale in una metropoli troppo provinciale, per altri ghetti da cui gli italiani sono stati espulsi.
C’è chi chiede sicurezza e legalità. Controlli nei negozi degli stranieri. La fine dell’affitto “a materasso”, «perché loro sono abituati così nel loro paese». «Negli anni i proprietari di case di qui hanno affittato agli stranieri, senza badare ad altro. Poi hanno preso casa in centro», spiega Stefania Ficacci. Oggi il “bangla” è il capro espiatorio. «Le televisioni ci stanno rovinando», dice uno di loro, proprietario di una frutteria. «Se alla crisi si aggiunge la pubblicità negativa chiudiamo tutti. Non è facile caricare e scaricare cassette per tante ore al giorno».
Un triste ritorno
Ma cosa ha scatenato riunioni settimanali, assemblee permanenti, raccolte di firme e convocazioni della giunta? Gli abitanti lamentano sporcizia, degrado, droga e criminalità. Per alcuni la colpa è degli stranieri. «La droga è un triste ritorno, la sporcizia c’è anche in altri quartieri. Al liceo non potevamo entrare, c’erano gli spacciatori fuori, tutto fu risolto con l’arrivo del commissariato», racconta Ficacci.
La periferia sud era zona del boss della Marranella, proprio nel posto dove è stato ucciso il ragazzo pakistano. Le vecchiette che oggi si scandalizzano per un ubriaco che parla a voce alta negli anni hanno visto la distribuzione meticolosa dell’eroina. Un clan di quartiere che stringeva accordi con la banda della Magliana e coi boss della Camorra. Le propaggini del conflitto tra cutoliani e vecchia camorra con seguito di omicidi. Proprio qualche giorno fa sono stati condannati due camorristi per l’omicidio del vecchio boss Carlino. Fu assassinato nel 2001 a Torvaianica in risposta all’uccisione di un capo del clan Senese.
Rimosso anche questo. Dimenticato e sostituito con i “bangla” che vendono le mele. Le donne velate. I campi nomadi. Persino i materassi dove centinaia di ragazzi sfruttati a sangue nelle cucine dei locali trendy del Pigneto si buttano per qualche ora di riposo.
L’identità costruita sulla negazione
«Se salta questo quartiere muore una opportunità di convivenza» dice Giusy D’Alconzo, esperta di immigrazione e diritti umani, abitante del quartiere. «È uno dei luoghi più multietnici d’Italia».
Andando verso la periferia estrema la situazione è ancora più tesa. «La nostra accoglienza non può essere ricambiata in questo modo», rispondono i comitati che hanno raccolto oltre mille firme “per sicurezza e decoro”. […] «Il municipio VI non vuole morire di accoglienza» ha scritto un consigliere tappezzando i muri del centro con l’immancabile immagine del barcone strapieno. Manifesto abusivo, purtroppo. Un fotogramma dell’Italia che chiede legalità ma non rispetta le regole. Accoglienza poi è un termine curioso. Nessuno ha regalato niente. Gli stranieri hanno assicurato affitti e pagamenti puntuali e braccia a costo zero.
«Per gli italiani i “confini della mente” sono più rilevanti dei confini materiali», spiega il direttore di Limes Lucio Caracciolo durante il convegno “Art of Borders” tenuto al Maxxi di Roma. Oggi si può andare a Londra o Parigi senza essere fermati. Ma attraversare la strada “dove ci sono loro” è molto più difficile.
Oltrepassiamo una strada buia. Nel freddo e nel silenzio c’è un fiore giallo. Sorrisi e un invito. Si aprono le porte del tempio indù. Colori e ospitalità gratis. Abbiamo percorso pochi metri ma superato una barriera altissima.
«Negando il mio territorio agli altri costruisco la mia identità. Per questo siamo animali territoriali. Il grado di chiusura dei nostri confini aumenta la legittimità del nostro Stato», dice Caracciolo. Vale per le nazioni, vale per le comunità.