“Non devono arrestare Lucano, ma gli ‘ndranghetisti, quelli che ci bruciano le macchine, ci minacciano”. Michele Conia, sindaco di Cinquefrondi, riporta tutti alla realtà del territorio. Se a Milano o a Roma l’arresto del sindaco di Riace sembra un attacco a un modello ideale, qui, tra il fango delle strade della locride, è un gesto surreale.
Siamo in una terra di omicidi impuniti, sequestri di persona, strade interrotte per appalti mai conclusi, clan violenti e territorio devastato. D’estate, spiagge bellissime rimangono deserte. D’inverno, i torrenti si gonfiano e trascinano via tutto.
Ci sono nomi e cognomi precisi, responsabilità semplici da individuare. C’è una linea precisa di demarcazione tra chi si arricchisce con i crimini e chi lascia la terra dove è nato. Oggi come sessanta anni fa.
Lucano ha rotto l’isolamento, per prima cosa. Ha trasformato l’idea di accoglienza negli anni in cui prevaleva l’idea della reclusione, del grande centro con grandi numeri, del controllo e della catena di montaggio.

“Sono un frutto del modello Riace, con il fuoco nell’anima, Mimmo mi ha dato la pace nel cuore”, dice un ragazzo africano riassumendo in poche parole quello che è accaduto. Ma Riace non è un’isola felice o una città utopica, perché ovviamente risente delle contraddizioni del territorio e di quelle della nazione. Ed è positivo che sia così.
Sul merito della accuse, le risposte non mancano. La Procura contesta a Lucano di aver affidato il servizio dei rifiuti a cooperative non iscritte all’albo regionale, ma “quell’albo non era operativo”, risponde il sindaco. Gli contestano matrimoni fittizi, ma ne ha celebrato solo uno, reale. E tutto nasce dopo la morte di Becky Moses, passata dalla cessazione dell’accoglienza a Riace alla morte bruciata viva nella baraccopoli di Rosarno (“Avevo l’incubo di Becky”, spiega).
Con il fuoco nell’anima, Mimmo mi ha dato pace nel cuore
Peppino Lavorato, 80 anni, ex sindaco di Rosarno, tiene vivo il filo rosso della memoria: “Questa giornata mi ricorda il 22 ottobre 1972, quando gli operai del nord scesero a Reggio Calabria per una imponente manifestazione. Fu l’inizio della fine per i fascisti del ‘boia chi molla’”.
Era la manifestazione cantata da Giovanna Marini ne “I treni per Reggio Calabria”, quando il convoglio fu rallentato dagli allarmi di bombe fasciste sui binari. Oggi non c’è nulla di simile, ma arrivare non è ancora facile tra l’alluvione di Lamezia (una madre e due bambini morti) e le tante strade interrotte.

In tanti condividono la sensazione di Lavorato. L’onda nera ha raggiunto il suo punto di non ritorno con l’arresto del sindaco. Chi partecipa alla manifestazione sente che si tratta di una giornata storica, l’inizio della fine per un razzismo che si è fatto istituzione. Sbaglieranno? Meglio un errore che vivere di rassegnazione.
Alla partenza dei pullman, una signora di Reggio Calabria dice: “Fate bene a manifestare, i calabresi non sono razzisti come dicono”. È la sindrome da accerchiamento che ancora condiziona la città. Lo spirito internazionale di Riace non ha contagiato tutti. Nel messaggio letto dal palco, Lucano dice: “Vorrei dire a tutto il mondo che non ho niente di cui vergognarmi”. Tutto il mondo lo sa già. Ora serve il timbro delle istituzioni.