Ecco perché Facebook dovrebbe pagarci

© Renata Fraga
  Un ricercatore italiano che lavora a Parigi vuole convincere i francesi che Facebook deve pagarli per il lavoro invisibile. Una signora del Massachusetts accusa Google di farla lavorare gratis. Un attivista austriaco trascina Zuckerberg nei tribunali di mezza Europa. C’è un movimento che cresce ovunque (tranne in Italia), dalle aule universitarie a quelle dei tribunali. L'oggetto della contesa sono i dati, “il petrolio del ventunesimo secolo”
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Mettere un like sulla foto di un gattino è lavoro gratuito? Sì. E dovrebbe essere riconosciuto. “Sto cercando di convincere i francesi che Facebook dovrebbe pagarli”, scherza Antonio Casilli, docente al Paris Institute of Technology. Poi passa alla spiegazione: “La piattaforma cattura valore dalla produzione dei contenuti degli utenti. Ma foto e post sono soltanto un pretesto: quello che conta sono i metadati”.

Come è possibile fatturare 18 miliardi con 20mila dipendenti?

Per esempio, una foto fornisce luogo e ora del caricamento e dello scatto, oltre che la marca dello smartphone. Una miniera di dati che Facebook – come agenzia pubblicitaria – rivende ai suoi clienti inserzionisti. “Se carico la foto del mio gatto, visualizzerò con ogni probabilità inserzioni di cibo per animali. Ma se carico la foto alle 4 del mattino, potrei essere inserito nel segmento dei nottambuli e ricevere pubblicità di prodotti contro l’insonnia”, spiega Casilli.

Nel quarto trimestre del 2016, l’azienda di Mark Zuckerberg ha guadagnato 4,83 dollari per utente. Nel 2015 ha fatturato 17,93 milioni di dollari l’anno con circa 20mila dipendenti fissi. Come è possibile? Grazie a 1,86 miliardi di lavoratori invisibili, cioè tutti noi che ogni giorno carichiamo contenuti consapevolmente e creiamo metriche pubblicitarie senza rendercene conto.

Voraci di dati

“Le piattaforme sono voraci di dati”, sostiene Nick Srnicek, esperto di Digital Economy al King’s College di Londra. “Google non è soltanto un motore di ricerca. È attivo nell’automazione della casa, sviluppa auto a guida autonoma e produce visori per la realtà virtuale”, scrive. “Perché? Ogni servizio diventa una ricca fonte di dati per l’azienda”.

Ogni volta che chiederemo a un veicolo di portarci alla stazione oppure ordineremo al forno di accendersi alle otto del mattino, trasferiremo dati ai server di Google. Queste informazioni saranno incrociate con le ricerche sul web, le mail inviate, i percorsi delle mappe. Anche in questo caso abbiamo di fronte una grande agenzia pubblicitaria che rivende dati sempre più profilati e segmentati, quindi efficaci.

Le aziende tradizionali usavano i dati per produrre merci, oggi Google fa il contrario. “I dati stanno rapidamente diventando il petrolio del ventunesimo secolo, una risorsa essenziale per l’intera economia globale e il fulcro di un’intensa lotta”, scrive Srnicek. Perché? “Le piattaforme non producono, come le aziende tradizionali, ma mettono in connessione: Facebook utenti e inserzionisti; Uber autisti e clienti; Amazon compratori e venditori”. In breve, l’unica cosa che fanno è incrociare dati.

Le aziende moderne non producono: mettono in connessione

“In passato monopoli naturali come le ferrovie che vivono di enormi economie di scala e servono il bene comune sono stati i primi candidati alla proprietà pubblica”, sostiene lo studioso inglese. Occorre fare lo stesso con le piattaforme. Ma le azioni contro Google e Facebook sono uscite dalle aule universitarie per entrare in quelle dei tribunali. Dal Massachusetts all’Austria.

Azioni di classe

Gabriela Rojas-Lozano è la donna che ha denunciato Google per averla fatta lavorare gratis. Si tratta del caso noto come ReCaptcha. Qualche anno fa, annota la corte del Massachusetts, la società di Mountain View aveva sviluppato un sistema di sicurezza contro gli accessi non autorizzati. Strani caratteri sghembi da trascrivere. Si trattava di due parole. La prima effettivamente serviva a tenere lontani sistemi automatizzati che forzavano le password.

Il lavoro invisibile pone una domanda: per chi sto lavorando?

Ma la seconda aveva un fine completamente diverso: migliorare alcuni software come quello di riconoscimento caratteri usato in Google Books e che lo stesso New York Times aveva acquistato per digitalizzare il suo archivio secolare. La corte ha rigettato la class action, ma Google – per evitare noie – ha trasformato il suo capcha testuale con il riconoscimento di foto: cartelli stradali e automobili. Ma anche elicotteri militari, rivela Casilli. “Se clicco su un elicottero, sto forse lavorando per l’industria militare? Sto addestrando un sistema di armamenti a riconoscere un veicolo in volo? Google dovrebbe essere più trasparente”.

Uno studente

Se c’è una parola che da anni rimbalza dalla California al resto del pianeta è disrupting. Indica la fede millenarista nelle azioni da cataclisma delle grandi piattaforme. Soggetti globali che distruggono vecchi mercati e si muovono senza badare ai confini. E, finora, non si sono preoccupati neppure delle tasse o delle leggi locali.

Max Schrems è uno studente di legge di Vienna che praticamente da solo ha tirato su una piccola associazione – Europe vs Facebook – dopo aver studiato gestione dei dati personali. “In pochi anni è riuscito a fare più cause vincenti contro Facebook che grosse associazioni nazionali. La class action contro è stata condotta da lui in collaborazione con uno studio legale tedesco. Dopo un paio di anni a rimbalzare fra l’Irlanda e Strasburgo, è approdata alla Corte di Giustizia Europea”, racconta Casilli.

Recentemente l’EU court adviser ha espresso un parere negativo – puramente consultivo – sul suo caso ma anche se molti lo danno per spacciato ha ancora tutte le carte per vincere. Il social network rischia di dover riconoscere 500 euro a ogni utente. Non è la cifra a preoccupare Zuckerberg, ma il precedente.

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