Il primo dicembre del 2016 il Guardian pubblicava una lunga e approfondita ricostruzione del rapporto tra Juventus, ultras e mafia, dal titolo Inside Italy’s ultras: the dangerous fans who control the game. Lo abbiamo tradotto e adattato perché racconta come funziona un pezzo della nostra società. Le indagini sono ancora in corso e nessun dipendente della Juventus è accusato di aver commesso reati.
Dentro gli ultras italiani. I tifosi pericolosi che controllano il gioco
Quando un potente ultras della Juventus si è suicidato, è diventato chiaro che la mafia stava entrando nel gioco
Il 7 luglio il corpo di Raffaello Bucci fu trovato in fondo al cosiddetto “viadotto dei suicidi”. Solo un giorno prima, era stato interrogato dagli investigatori sui collegamenti tra calcio e criminalità organizzata. Il viadotto è una impressionante struttura sulla strada che collega Torino a Cuneo, una città a cento chilometri a sud, in direzione della Francia. Gli archi che passano sul fiume Stura di Demonte sono alti 45 metri. Nello stesso luogo Edoardo, figlio di Gianni Agnelli (ultimo padrone di Fiat e Juventus) si suicidò nel 2000.
Tutti lo definivano un adorabile mascalzone
La vita di Bucci, così come la sua morte, è legata agli Agnelli. Era cresciuto a San Severo, cioè a 850 km a sud di Torino. Ma, come molti meridionali, era un accanito tifoso juventino, cresciuto con i grandi della “vecchia signora”: Platini, Baggio, Ravanelli, Vialli, Del Piero. Come dice uno dei suoi vecchi amici, la Juventus era “un’ossessione”.
All’anagrafe era Raffaello, ma tutti lo conoscevano come Ciccio. Di umili origini, il padre guardiano, la madre casalinga. Una famiglia cattolica e – secondo gli amici – molto tollerante. Secondo tutti era un adorabile mascalzone: allegro, divertente. Ma anche un trascinatore, un capo carismatico.
Studiò ragioneria, si fece un largo seguito di amici – fu eletto rappresentante – e adorava giocare a calcio balilla al bar con gli insegnanti.
I luoghi di questa storia
Dopo la scuola si trasferì a Torino. Era la metà degli anni ’90. Finalmente era nella città della sua amata Juventus. Una città perfetta: strade parallele circondate dal fiume e dalle Alpi. Ma anche una città della “bella vita”, rinomata per i vini, per la cioccolata e per gli aperitivi (Campari, Martini and Cinzano sono nati qui).
Bucci non trovò lavoro come ragioniere ma era pieno di energia e fantasia. Presto entrò nel ricco mondo della vendita dei biglietti delle partite. Iniziò a vendere biglietti prima agli amici. Poi agli amici degli amici. Divenne un buon punto di riferimento per i suoi compagni, anche loro fanatici juventini. Nelle fotografie di quegli anni ha il look da duro di molti bagarini: faccia sottile, sorriso sfacciato e onnipresenti occhiali da sole.
La malattia
I tifosi italiani sono noti per una passione che somiglia alla malattia. La parola stessa (“tifo”) indica anche un morbo. Bucci fu coinvolto nel giro degli “ultras”, più caldi dei normali tifosi. Un giro di fanatici che non sostiene soltanto la squadra ma promuove il proprio marchio. E spesso anche il proprio business.
Gli ultras nascono alla fine degli anni ’60, quando i supporter di Milan, Inter, Sampdoria, Torino e Verona crearono rumorose e talvolta violente gang. I primi gruppi erano spesso politicizzati: di estrema destra oppure influenzati dalla guerriglia di sinistra o dalla insorgenza partigiana (“Brigate,”, “Fedayn” o “Commando” sono nomi usuali). Quando prevalse la retorica hooligan, i nomi degli ultrà diventarono “Fighters”, “Old Lions”, “Boys”. Oppure “Folli” e “Teste matte”.
[piena src=”https://c1.staticflickr.com/5/4029/4640638330_0a3620951f_o.jpg” alt=”Tifosi in Piazza Duomo a Milano”]
Negli anni ’70 tutti i principali club italiani avevano il proprio gruppo ultrà. Dieci anni dopo, erano decine. Negli anni successivi si sono divisi, riaggregati, hanno cambiato nome e identità. Si sono reinventati. La curva, il settore dietro la porta, diventa il luogo dello stadio dove si raggruppano i tifosi più poveri e più caldi. Per i gruppi ultrà è decisivo prendere possesso della curva. Che però diventa anche un luogo di spaccio, di scontri violenti, accoltellamenti. A volte, anche un posto per stabilire alleanze e accordi d’affari.
Ci sono circa 382 gruppi ultrà in Italia. Alcuni politicizzati: 40 di estrema destra, 20 di estrema sinistra. I tifosi della Juventus vengono da ogni angolo del Paese, per cui la tifoseria è più eclettica di quella delle altre squadre.
Ci sono quasi 400 gruppi ultrà in Italia
Bucci entra nel gruppo dei “Drughi”. Il nome deriva da Arancia meccanica: sono giovani noti per il bastone con cui vanno in giro e per la violenza senza freni. Il logo dei Drugi è ovunque: bandiere, striscioni, distintivi, sciarpe e cappelli. Mostra quattro silhouettes con bastoni e bombette, bianchi su fondo tricolore. Un poster di Mussolini campeggia nel loro club privato a Mirafiori, a tre fermate di autobus dal capolinea della metro torinese.
In uno sport segnato dall’antisportività di giocatori e presidenti, gli ultrà si rappresentano come l’unico elemento “di fede”. In un mondo senza più radici, offrono un senso di appartenenza. Bucci fu attratto da questo.
Ma anche gli ultras hanno un lato oscuro. Negli ultimi 50 anni sono stati al centro di gravi fatti di violenza. E sono coinvolti in business illeciti, dal bagarinaggio al merchandising contraffatto. Fino allo spaccio di droga. A metà anni ’90 erano così potenti che potevano bloccare la vendita di un calciatore minacciando un boicottaggio.
[piena src=”http://www.terrelibere.org/wp-content/uploads/2017/03/10730752874_ce154b37b4_k.jpg” alt=”Lo Juventus Stadium”]
Ciccio Bucci non vide il lato oscuro. Faceva una bella vita, accumulava soldi e nuovi amici vivendo ai margini della Serie A. Vedeva nella vendita di biglietti un modo per realizzare i suoi sogni e un giorno lavorare per un grande club. Come spesso accade in Italia, le relazioni tra Juventus e ultras non erano il frutto di un confronto aperto ma di compromessi segreti. In cambio di uno stadio sicuro e caldo, la Juve aiutò i tifosi a fare milioni di euro a stagione con il bagarinaggio. Michele Galasso è un avvocato che ha difeso sia la società che i tifosi. “Il compromesso tra Juventus e ultras è stato semplicemente il compromesso tra le regole e la realtà”, dice.
In Italia i rapporti tra società e ultras sono spesso il frutto di compromessi segreti
Gli ultrà somigliano ai vecchi hooligan inglesi. Ma ormai sono organizzati con metodo miliare. Organizzano agguati per catturare gli striscioni dei rivali, come fossero la bandiera dei nemici. Annunciano la loro presenza allo stadio con canti, saluti, fiammate, fumogeni, rulli di tamburi e battiti di mani ritmati. Ogni gruppo ha la sua “uniforme” e un luogo di ritrovo – spesso un bar o un locale – pieno di loghi, stemmi, slogan e oggetti ricordo memorabili. Prima di un “big match”, questi club sembrano il retro di una banca. Fasci di biglietti e banconote circondano uomini di mezza età, con calcolatrici e occhiali a mezzaluna penzolanti dal naso.
Soldi, ferite, razzismo
Quando Ciccio si trasferì a Torino, essere un ultrà lo fece sentire più potente. Potevano bloccare l’acquisto di un giocatore sgradito, come accadde all’Udinese quando una fazione antisemita impedì l’arrivo dell’attaccante israeliano Ronnie Rosenthal. Potevano impedire una vendita, come accadde a quella di Beppe Signori dalla Lazio al Parma. I tifosi laziali minacciarono un intero stadio vuoto, che avrebbe comportato perdite per milioni di euro.
Con la crescita di influenza degli ultrà, aumentava anche il numero di feriti dentro e fuori gli stadi: dai 400 nella stagione 1995-96 ai 1.200 del 1999-2000.
I nomi dei “martiri” della violenza ultrà appaiono spesso sui muri delle città italiane. I tributi provengono sia da ultrà che normali tifosi: Claudio Spagnolo, accoltellato mentre andava alla partita; Vincenzo Paparelli, ucciso da un razzo lanciato dalla curva opposta; Antonio De Falchi, tifoso della Roma assassinato fuori dallo stadio; Antonio Currò, ucciso da una bomba-carta lanciata da gruppo di tifosi del Catania contro i messinesi; Sergio Ercolano, precipitato da una tribuna nel 2003.
Talvolta l’etichetta “ultrà” non è stato altro che una foglia di fico per neofascismo. Quando il giocatore olandese Aron Winter – padre musulmano e madre ebrea – firmò per la Lazio nel 1992, nel centro di allenamento apparvero le scritte “Winter Raus”: un eco di “Juden Raus” dell’era nazista.
A volte nel mondo ultras ci sono criminali che vogliono semplicemente fare soldi. In una telefonata intercettata dalla polizia, un ultras chiedeva a un amico se domenica sarebbe andato allo stadio. “Se facciamo soldi, sì. Che cazzo mi frega del resto?”. Ci sono anche storie occasionali di ultras che cambiano squadra, comportandosi non come tifosi ma come “investitori”.
Ma nessuno può accusare Bucci se non di lealtà alla Juventus e ai Drughi. Era bravo a vendere biglietti. E ogni domenica era allo stadio a lanciare i cori col megafono.
– Andare allo stadio? Sì, se c’è da fare soldi
Nel 2004 incontra Gabriella, una donna di Cuneo. Si sposano, hanno un bambino, vivono a Beneitte, appena fuori Cuneo. È una strana combinazione di campagna e residui industriali: le mucche pascolano tra le case, in lontananza si vede la maestosa sagoma delle Alpi. Ma di fronte alla casa dei Bucci, c’è un deposito recintato da una rete metallica e ci sono piazzole con prostitute in minigonna.
Bucci fa il pendolare tra Beinette e Torino, dove affitta un piccolo appartamento sopra un bar vicino allo Juventus Stadium. È sempre al telefono. La moglia dirà che aveva il terrore di perderlo. Suonava ad ogni ora del giorno e della notte. Era gente che implorava per i biglietti.
Bucci era un uomo importante, ma non era l’uomo dei biglietti. Quel ruolo era di Dino Mocciola, leader dei Drughi, vent’anni di prigione per rapina a mano armata e omicidio di un poliziotto. Poche persone gli stavano vicino. Nel febbraio 2005 uscì dal carcere ma fu bandito dalle partite. Non ci sono sue immagini, se non la foto segnaletica del 1989. Non ha usato un telefono per anni. Neanche i suoi avvocati sanno come raggiungerlo. Ma era comunque famoso. Al suo ritorno, gli ultras della Roma esposero uno striscione allo stadium: “Ciao Dino. Bentornato”.
L’uomo dei biglietti
I Drughi erano ai margini della curva mentre Mocciola era in prigione. Dominare la curva significa ricchezza, essere intermediari del club, biglietti gratis, favori e facilitazioni nelle trasferte.
Tra il 2005 e il 2006 scontri con accoltellamenti tra diversi gruppi juventini ristabilirono gli equilibri in curva. I Fighters si divisero in altri gruppi lasciando l’egemonia ai Drughi. Mocciola era di nuovo il re della curva. Tuttavia rimaneva bandito dalle partite, per cui aveva bisogno di un suo uomo ai tornelli, sugli spalti e nella relazioni col club. Bucci sembrava l’uomo giusto, in particolare aveva testa per i numeri, era vicino allo staff della Juventus e a volte dormiva nell’appartamento di Stefano Merulla, capo della divisione vendita biglietti. Era il candidato perfetto. Così realizzava il suo sogno: era vicino al suo amato club, aveva un reddito e una famiglia.
La prima a spezzarsi fu proprio la famiglia. Stanca della vita disordinata del marito (notti a Torino, vendite frenetiche dei biglietti, mai a casa), Gabriella decise di separarsi del 2011.
Bucci rimaneva l’uomo di mezzo tra il mondo legale e quello criminale. Ma nel 2007, a Catania, un giovane poliziotto fu ucciso allo stadio. Le cose cambiavano, finalmente la politica aveva compreso quanto erano pericolosi gli ultras. Le partite furono sospese per una settimana. Alla ripresa, furono introdotte severe misure contro il tifo, tra cui telecamere in tutti gli stadi.
Il compromesso tra Juve e ultras era quello tra le regole e la realtà
La Juventus aveva una ragione in più per fermare la violenza: il progetto di uno stadio di proprietà da 41mila posti. Così sarebbe stata una delle pochissime società italiane a godere dei benefici di un proprio stadio, a partire dai grandi incassi. Il problema era la sicurezza. In base al comportamento degli ultrà si può essere pesantemente multati.
Le alte sfere della società avevano bisogno di un compromesso con le frange più estreme. Esattamente quel compromesso è l’oggetto delle indagini. Merulla ammise che il club fornì ai tifosi centinaia di biglietti per la singola partita tramite l’agenzia Akena, come compenso della loro buona condotta. Così la società violava le regole per cui non più di quattro biglietti possono essere venduti a un singolo. La Juventus nega strenuamente ogni addebito. In una dichiarazione al Guardian, dice: “Nessun manager o impiegato della Juventus è indagato, solo testimone. Come emerge dalle indagini, abbiamo collaborato pienamente con gli investigatori”.
Ma il vero affare erano gli abbonamenti. All’inizio di ogni stagione, un soldatino degli ultras gira tutta la città prendendo carte di identità da duplicare. Servono a comprare abbonamenti in massa. Se il titolare non ha interesse a vedere le partite, l’abbonamento è rimesso in vendita, partita per partita, al migliore offerente. Ovviamente l’addetto ai tornelli non deve notare la discrepanza tra il nome dell’abbonato e la persona che entra. Non la notava. Anche grazie alla pressione di furgoni pieni di ultras posizionati di fronte allo stadio, secondo la ricostruzione del Guardian.
[piena src=”https://c2.staticflickr.com/4/3622/3326189894_613dd1709d_o.jpg”]
In una prima dichiarazione alla polizia, Merulla disse che gli ultras stavano facendo affari con i biglietti. Era un buon compromesso per tutti. La Juve aveva uno stadio vibrante e caldo ma sicuro. Dal 2011 ha vinto scudetti in serie. A Torino, gli Agnelli continuavano a essere riveriti come una famiglia reale. Mentre gli ultras facevano importanti profitti senza pagare tasse.
L’occhio della mafia
Con 300 biglietti per ogni partita, con 300 abbonamenti a stagione, vendendo ogni tagliando mediamente a 50 euro (con un guadagno medio di 30 euro), ogni gruppo ultras riusciva a fare quasi un milione l’anno.
Grandi guadagni senza rischi: il bagarinaggio in Italia è solo un illecito amministrativo. Ecco perché la mafia ci ha messo gli occhi sopra.
Abbiamo le spalle coperte, abbiamo la gente che conta. Che vuoi di più?
Nel 2013, due calabresi erano sotto l’occhio dell’antimafia. Saverio Dominello e suo figlio Rocco, sospettati di far parte dei clan di Rosarno e di essere coinvolti in estorsioni in piccole città tra Torino e Milano, oltre che nel giro della droga e dei night club. Il padre era un tipo tradizionale, scontroso. Il figlio era descritto come garbato.
Dalle intercettazioni si apprende che i Dominello puntavano a entrare nell’affare dei biglietti. Formano il loro gruppo ultras, i “Gobbi”, ma sanno che devono prima ottenere l’approvazione degli altri gruppi. “Se il piatto è tondo” dicono, “sarà diviso in cinque parti”.
“Abbiamo le spalle coperte, abbiamo la gente che conta. Che cazzo volete di più”?, si sente in una telefonata intercettata dagli investigatori. Il 20 aprile 2013 il capo dei Drughi Dino Mocciola incontra con i Dominello. I calabresi ostentano umiltà arrivando con una Fiat 500, il capo ultras scende da una Bmw Serie 1. Vanno in un caffè nel villaggio di Montanaro per un incontro di due ore. Registrato dalla polizia. “Tu hai l’onore di sederti a un tavolo con Dino, nessuno può toccarti. Sei il numero uno”. La domenica successiva, nel corso della partita contro il Milan, il gruppo si presenta con un grande striscione in curva: Gobbi.
[piena src=”http://www.terrelibere.org/wp-content/uploads/2017/03/ultras.jpg”]
Rocco Dominello divenne sempre più influente. Sarebbe stato presentato a Merulla e D’Angelo, manager della sicurezza juventina. Avrebbero ottenuto la riduzione dei biglietti ceduti ai rivali Vikings.
Nel gennaio 2014 uno svizzero lamenta di aver pagato 620 euro per un biglietto che ne valeva 140. Verifiche interne mostravano che si trattava di un biglietto finito a Dominello. Merulla inizia a sospettare del calabrese: “So che lavoro fa, quanta influenza ha. È misteriosamente potente”. Nonostante le paure, D’Angelo dice a Dominello che bisognerà fargli avere i biglietti usando un codice differente.
Tanti soldi e nessun rischio. La mafia mise gli occhi sull’affare dei biglietti
Una fonte nella squadra mobile di Torino dice al Guardian che “ci fu un errore di giudizio da parte del management juventino. Erano convinti di poter gestire la situazione”. Un giudice più tardi scrisse che quella di D’Angelo appariva una sorta di sottomissione nei confronti di Dominello. Parte del problema, come sempre in Italia, è un sistema nepotista che promuove amici invece di professionisti. Il padre di D’Angelo era autista di Umberto Agnelli e amico d’infanzia di Andrea Agnelli, ora presidente juventino.
L’uomo di mezzo
L’influenza di Bucci è in declino. D’Angelo chiama Dominello: “Voglio che state calmi, e noi saremo calmi. Così viaggeremo insieme”.
Il 25 novembre 2014 Andrea Puntorno, leader del gruppo ultras “Bravi Ragazzi”, legato alla mafia, è arrestato per import di stupefacenti tra Albania, Sicilia e Piemonte. Con un reddito di 2.600 euro l’anno, possedeva una casa, una moto e un’auto. Il 19 dicembre 2011, i “Bravi Ragazzi” avevano organizzato il pogrom anti-rom a Continassa, nei pressi dello Stadium, incendiando il campo e cacciando 20 famiglie.
Erano convinti di poter gestire la situazione. Ma ormai i lupi erano entrati nell’ovile
Dopo l’arresto, la moglie di Puntorno subì le minacce dei colleghi del marito e decise di diventare un testimone d’accusa. Raccontò che il marito riusciva a guadagnare 30mila euro da un match della Juventus, spesso distribuiti tra i parenti degli affiliati in carcere.
Il resto era investito nell’acquisto di droga all’ingrosso. Era un affare che andava avanti da anni, gli abbonamenti erano dati a Puntorno all’inizio di ogni stagione. Il margine per ogni biglietto andava da 30 a 100 euro. I “Bravi Ragazzi” avevano anche il monopolio del merchandising contraffatto: magliette, portachiavi e così via.
Bucci doveva soddisfare la Juve, i tifosi, gli ultras e la polizia
Intanto voci insistenti lo indicano come informatore della polizia. C’è chi dice che vende biglietti online per conto suo. Messo da parte, teme per la sua vita, perde otto chili e confessa a Gabriella: “C’è gente che sta provando a farmi fuori”.
Da San Severo, Ciccio prova a organizzare il ritorno. Chiama D’Angelo nel novembre 2014 e allude a Dominello. Solo allora la Juventus sembra consapevole di aver fatto entrare i lupi nell’ovile. E che molti altri stanno provando a entrare. Il club è sotto pressione per i lavori del nuovo stadio, il racket vuole imporre una sua ditta. In cambio offre la fine degli atti di vandalismo e delle intimidazioni ai lavoratori.
[piena src=”http://www.terrelibere.org/wp-content/uploads/2017/03/10295-e1489129821499.jpg” alt=’Ciccio Bucci’]
Bucci è ancora benvoluto nel club, che pensa di affidargli un ruolo ufficiale. Durante una telefonata, dice a D’Angelo: “Non era mia intenzione affondare la nave, ma in po’ d’acqua doveva entrare”. Intendeva che meno biglietti dovevano andare agli ultras? Non è chiaro. Ma all’inizio della stagione 2015 torna a Torino e realizza il sogno di lavorare per la Juventus. L’ultima volta che il legale del club lo vide, in occasione del derby col Torino, ricorda un abbraccio entusiasta: “Sono una figura ufficiale!”, gli dice sorridendo.
Se stiamo tutti calmi, viaggeremo insieme
Il problema è che Bucci aveva – parole sue – il piede in due scarpe. E anche più di due. Deve soddisfare il suo datore di lavoro, i tifosi ordinari, vari gruppi ultras e persino la polizia. “Mi chiamano ogni giorno per confermare le soffiate”, si lamenta. Come faceva a scuola, cerca di essere amico di tutti. Ma i tifosi non accettano la riduzione della quota di biglietti e per i Drughi diventa un traditore. Il lavoro alla Juve non è bello come immaginava. Nella primavera del 2016, la madre muore. Nonostante le telefonate incessanti, è un uomo solo.
Mancanza di rispetto
A luglio Puntorno è sotto processo per droga. Anche i Dominello sono arrestati per vari reati di mafia. Negano ogni accusa. Bucci è chiamato come testimone. Sembra sereno e dice quello che gli investigatori sanno già: “Non nego di aver ricevuto biglietti. Ne chiedevamo fino a 300. Li compravamo a credito e li pagavamo dopo averli venduti”.
Quella notte, tuttavia, telefonò all’ex moglie scusandosi per ogni “mancanza di rispetto”. Era convinto che sarebbe stato arrestato e quindi licenziato dalla Juventus. La richiama il mattino dopo: “Sto andando al lavoro”. Dopo un’ora e mezza, vola dal famoso viadotto. Due operai osservano la sua caduta e assicurano che si tratta di suicidio.