Google sta approfittando del coronavirus per inserirsi nel mondo della scuola offrendo prodotti gratuiti e catturando dati personali. È necessario liberarsi dell’onnipresenza delle multinazionali del digitale. Ma qual è il modo migliore di farlo?
Condividi su print
Condividi su email
Condividi su whatsapp
Condividi su facebook
Approfittando della chiusura delle scuole, causa coronavirus, Google sta promuovendo i suoi prodotti per la formazione e le lezioni a distanza. Non è la sola azienda a farlo. Questa pagina ufficiale del governo italiano elenca una lunghissima serie di imprese che offrono “solidarietà” in un momento difficile.
Sono numerose le multinazionali come Amazon che si limitano a ritoccare leggermente la durata di promozioni già in essere, in pratica i “periodi di prova”. È un caso di privatizzazione soft, come ben spiegato in questo articolo. Lo stesso testo pone il problema ormai noto della privacy: la multinazionale di Mountain View ricava i suoi profitti esclusivamente dalla rivendita di dati.
Dobbiamo evitare la cessione gratuita delle nostre informazioni personali. A maggior ragione in un settore delicato come la scuola. E dovremmo abbandonare Google a favore di software alternativi.
Viene in mente una prima considerazione. La sospensione delle lezioni ha messo in evidenza la necessità, per gli istituti, di una piattaforma per svolgere didattica a distanza. Numerosi fornitori privati, da piccole aziende a grandi multinazionali, si sono fatti avanti. Tra questi, l’offerta di Google è la più accattivante: gratuita, dotata di un’interfaccia familiare, semplice da usare.
Una infrastruttura digitale è oggi importante quanto quella fisica. Per questo è grave la mancanza di piattaforme pubbliche
Il problema, però, sta molto più a monte. Se lo Stato, anziché costruire edifici destinati alle scuole, lasciasse che ogni istituto affittasse un immobile, senza un criterio, tutti diremmo che si tratta di una scelta folle. Oggi un’infrastruttura digitale è altrettanto importante di quella fisica. Non avere ancora una piattaforma digitale pubblica è una mancanza in cui per forza di cose multinazionali ben strutturate si inseriscono.
L’articolo già citato pone, tra tantissimi aspetti condivisibili, quattro punti cruciali. Dobbiamo favorire il codice aperto; continuare a produrre codice gratuitamente e farlo circolare senza barriere; temere azioni repressive dalla nostra cessione di dati a piattaforme private come Google; infine abbandonare i software proprietari a favore delle alternative “libere”.
Questi punti meritano un approfondimento.
1) La consueta contrapposizione tra codice aperto e chiuso
Per anni Microsoft è stato il bersaglio preferito del movimento per il software libero. Il motivo è semplice: la scelta di “nascondere” il codice dei suoi programmi. Google, invece, ha sempre favorito la scelta opposta: codice aperto.
Evidentemente non è bastato, così come non è stata sufficiente l’enorme diffusione di Linux. Oggi la maggior parte dei server è equipaggiato con sistemi operativi “open source”, ma questo non li rende migliori.
2) Il lavoro gratuito
Linux così come infiniti altri progetti open source sono stati realizzati e migliorati col lavoro collettivo – e gratuito – di un’enorme comunità di volontari sorretti dall’entusiasmo e dalla speranza di contribuire a un mondo migliore.
Non è andata così. Le multinazionali hanno “catturato” il loro lavoro. Continuano a farlo e ne estraggono valore che non distribuiscono. Microsoft ha acquisito GitHub, la più grande comunità al mondo di sviluppatori che per anni hanno ceduto gratuitamente il loro lavoro e oggi si trovano sotto il cappello di un’altra multinazionale.
Linux è oggi usato sulla maggior parte dei server delle aziende. Ma questo non le rende migliori
Gli attivisti hanno sostenuto la necessità di produrre gratis il codice, farlo circolare senza barriere e cancellare il copyright. Non solo per i software, ma per qualunque prodotto culturale. La domanda rimane: “ma come sopravviverà chi lavora in questo modo?” La risposta è solitamente: “vendendo servizi collaterali”. Il presupposto è squisitamente liberista. Avrebbe senso se fossimo tutti uguali. Ma lo sviluppatore a partita Iva può permettersi di sostenersi con “servizi collaterali”? Può cedere il suo lavoro sapendo che lo utilizzerà anche e soprattutto la multinazionale che ha i mezzi per moltiplicarne il valore?
È tempo di chiedersi: perché continuare a favorire il lavoro gratuito?
3) La dittatura
Infine, si dice che non dobbiamo cedere i nostri dati a Google in nome di un pericolo potenziale. Potrebbero essere usati a fini repressivi. È possibile. Ma l’idea che il “capitalismo della sorveglianza” ci porterà a situazioni di tipo “cinese” o favorirà poteri dittatoriali non è scontata.
Google nasce nella cultura anarco-capitalista di San Francisco e, per il momento, ottiene extraprofitti mai visti. Oggi a Mountain View va benissimo un mondo “libero” che permette di fare soldi come mai prima.
Non è quindi detto che i dati saranno usati per arrestarci in piena notte (cosa che comunque possono fare già oggi). Meglio usarli per convincerci a comprare qualunque cosa. Il marketing diventa psicometria ed è già controllo sociale. Insomma, più Marx che Foucault.
Il problema di Google non è quello che potenzialmente potrebbe fare, ma quello che fa già
Tuttavia, le generazioni che si sono formate leggendo “1984” e che hanno vissuto il nazi-fascismo, hanno giustamente paura del ritorno di un regime che limita la libertà, censura le opinioni scomode, istituisce nuove proibizioni.
È esattamente il contrario di quello che stanno facendo i “Tech Giants” californiani. Se tornerà il fascismo, non sarà a causa loro. Facebook preferisce la diffusione di notizie false su scala mondiale all’istituzione di un filtro efficace. Google ha bisogno di informazioni e quindi di cittadini – consumatori che si spostano e agiscono senza limitazioni. Le barriere sono un ostacolo ai loro profitti.
Il problema è dunque nel modello economico. Queste aziende assumono pochissimi lavoratori, delocalizzano dove conviene, non pagano tasse e distruggono economie locali. Sono desertificatori. Basta e avanza per desiderarne la fine.
4) La via d’uscita
La soluzione indicata, in generale, è quella di passare ai software alternativi. È un po’ come pensare di sconfiggere i supermercati convincendo tutti a fondare un Gruppo di acquisto solidale. Non funziona. Ci proviamo da anni ma i numeri sono sempre troppo bassi. È un tentativo che può essere complementare ma non può sostituire la politica. Altrimenti si rimane dentro un paradigma individualista (si cambia il mondo con i nostri piccoli gesti etc. etc).
Oggi Google e Facebook possono ricavare i nostri dati anche se non usiamo i loro servizi
A questo si aggiunge l’enorme fiducia che i giganti del web sono riusciti a conquistare. La prova arrivata qualche mese, in occasione della protesta contro quella che è stata definita password di Stato. In realtà era soltanto la proposta di usare Spid, un sistema di autenticazione crittografato e sicuro usato in alcuni servizi pubblici, anche per qualche sito privato.
La protesta di massa ha causato rapidamente il ritiro dell’idea. Gli utenti non hanno nulla in contrario a usare il “Facebook login”, che scambia la comodità di una password memorizzata con la cessione all’estero e la probabile rivendita dei nostri dati personali. Invece non si fidano assolutamente di un sistema statale e sicuro, che presumibilmente non cederà dati a terzi.
Come riconosciuto nell’articolo citato all’inizio, a Google (o anche a Facebook) non importa nulla se decidiamo di usare sistemi alternativi. Perché possono ottenere i nostri dati dai nostri amici. Perché possono costruire un profilo analogo al nostro attingendo dall’infinità di segmenti che hanno acquisito.
Allora meglio soluzioni “old style” come ad esempio:
smembrare Google in nome dell’antitrust (proposta di alcuni politici Usa);
nazionalizzare i dati;
chiedere trasparenza e accesso ai loro server;
imporre il pagamento delle tasse locali;
infine, sviluppare codice pubblico in maniera strutturale e organizzata.
A questo proposito, in Italia esiste solo Agid, un’agenzia che per anni è andata avanti con rinnovi di contratti precari!
Ricominciano le presentazioni del libro! Resta aggiornato per conoscere le prossime date
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito, acconsenti all’uso dei cookieOkNoLeggi di più
Degooglizziamoci! Sì, ma come?
Approfittando della chiusura delle scuole, causa coronavirus, Google sta promuovendo i suoi prodotti per la formazione e le lezioni a distanza. Non è la sola azienda a farlo. Questa pagina ufficiale del governo italiano elenca una lunghissima serie di imprese che offrono “solidarietà” in un momento difficile.
Sono numerose le multinazionali come Amazon che si limitano a ritoccare leggermente la durata di promozioni già in essere, in pratica i “periodi di prova”. È un caso di privatizzazione soft, come ben spiegato in questo articolo. Lo stesso testo pone il problema ormai noto della privacy: la multinazionale di Mountain View ricava i suoi profitti esclusivamente dalla rivendita di dati.
Dobbiamo evitare la cessione gratuita delle nostre informazioni personali. A maggior ragione in un settore delicato come la scuola. E dovremmo abbandonare Google a favore di software alternativi.
Viene in mente una prima considerazione. La sospensione delle lezioni ha messo in evidenza la necessità, per gli istituti, di una piattaforma per svolgere didattica a distanza. Numerosi fornitori privati, da piccole aziende a grandi multinazionali, si sono fatti avanti. Tra questi, l’offerta di Google è la più accattivante: gratuita, dotata di un’interfaccia familiare, semplice da usare.
Il problema, però, sta molto più a monte. Se lo Stato, anziché costruire edifici destinati alle scuole, lasciasse che ogni istituto affittasse un immobile, senza un criterio, tutti diremmo che si tratta di una scelta folle. Oggi un’infrastruttura digitale è altrettanto importante di quella fisica. Non avere ancora una piattaforma digitale pubblica è una mancanza in cui per forza di cose multinazionali ben strutturate si inseriscono.
L’articolo già citato pone, tra tantissimi aspetti condivisibili, quattro punti cruciali. Dobbiamo favorire il codice aperto; continuare a produrre codice gratuitamente e farlo circolare senza barriere; temere azioni repressive dalla nostra cessione di dati a piattaforme private come Google; infine abbandonare i software proprietari a favore delle alternative “libere”.
Questi punti meritano un approfondimento.
1) La consueta contrapposizione tra codice aperto e chiuso
Per anni Microsoft è stato il bersaglio preferito del movimento per il software libero. Il motivo è semplice: la scelta di “nascondere” il codice dei suoi programmi. Google, invece, ha sempre favorito la scelta opposta: codice aperto.
Evidentemente non è bastato, così come non è stata sufficiente l’enorme diffusione di Linux. Oggi la maggior parte dei server è equipaggiato con sistemi operativi “open source”, ma questo non li rende migliori.
2) Il lavoro gratuito
Linux così come infiniti altri progetti open source sono stati realizzati e migliorati col lavoro collettivo – e gratuito – di un’enorme comunità di volontari sorretti dall’entusiasmo e dalla speranza di contribuire a un mondo migliore.
Non è andata così. Le multinazionali hanno “catturato” il loro lavoro. Continuano a farlo e ne estraggono valore che non distribuiscono. Microsoft ha acquisito GitHub, la più grande comunità al mondo di sviluppatori che per anni hanno ceduto gratuitamente il loro lavoro e oggi si trovano sotto il cappello di un’altra multinazionale.
Gli attivisti hanno sostenuto la necessità di produrre gratis il codice, farlo circolare senza barriere e cancellare il copyright. Non solo per i software, ma per qualunque prodotto culturale. La domanda rimane: “ma come sopravviverà chi lavora in questo modo?” La risposta è solitamente: “vendendo servizi collaterali”. Il presupposto è squisitamente liberista. Avrebbe senso se fossimo tutti uguali. Ma lo sviluppatore a partita Iva può permettersi di sostenersi con “servizi collaterali”? Può cedere il suo lavoro sapendo che lo utilizzerà anche e soprattutto la multinazionale che ha i mezzi per moltiplicarne il valore?
È tempo di chiedersi: perché continuare a favorire il lavoro gratuito?
3) La dittatura
Infine, si dice che non dobbiamo cedere i nostri dati a Google in nome di un pericolo potenziale. Potrebbero essere usati a fini repressivi. È possibile. Ma l’idea che il “capitalismo della sorveglianza” ci porterà a situazioni di tipo “cinese” o favorirà poteri dittatoriali non è scontata.
Google nasce nella cultura anarco-capitalista di San Francisco e, per il momento, ottiene extraprofitti mai visti. Oggi a Mountain View va benissimo un mondo “libero” che permette di fare soldi come mai prima.
Non è quindi detto che i dati saranno usati per arrestarci in piena notte (cosa che comunque possono fare già oggi). Meglio usarli per convincerci a comprare qualunque cosa. Il marketing diventa psicometria ed è già controllo sociale. Insomma, più Marx che Foucault.
Tuttavia, le generazioni che si sono formate leggendo “1984” e che hanno vissuto il nazi-fascismo, hanno giustamente paura del ritorno di un regime che limita la libertà, censura le opinioni scomode, istituisce nuove proibizioni.
È esattamente il contrario di quello che stanno facendo i “Tech Giants” californiani. Se tornerà il fascismo, non sarà a causa loro. Facebook preferisce la diffusione di notizie false su scala mondiale all’istituzione di un filtro efficace. Google ha bisogno di informazioni e quindi di cittadini – consumatori che si spostano e agiscono senza limitazioni. Le barriere sono un ostacolo ai loro profitti.
Il problema è dunque nel modello economico. Queste aziende assumono pochissimi lavoratori, delocalizzano dove conviene, non pagano tasse e distruggono economie locali. Sono desertificatori. Basta e avanza per desiderarne la fine.
4) La via d’uscita
La soluzione indicata, in generale, è quella di passare ai software alternativi. È un po’ come pensare di sconfiggere i supermercati convincendo tutti a fondare un Gruppo di acquisto solidale. Non funziona. Ci proviamo da anni ma i numeri sono sempre troppo bassi. È un tentativo che può essere complementare ma non può sostituire la politica. Altrimenti si rimane dentro un paradigma individualista (si cambia il mondo con i nostri piccoli gesti etc. etc).
A questo si aggiunge l’enorme fiducia che i giganti del web sono riusciti a conquistare. La prova arrivata qualche mese, in occasione della protesta contro quella che è stata definita password di Stato. In realtà era soltanto la proposta di usare Spid, un sistema di autenticazione crittografato e sicuro usato in alcuni servizi pubblici, anche per qualche sito privato.
La protesta di massa ha causato rapidamente il ritiro dell’idea. Gli utenti non hanno nulla in contrario a usare il “Facebook login”, che scambia la comodità di una password memorizzata con la cessione all’estero e la probabile rivendita dei nostri dati personali. Invece non si fidano assolutamente di un sistema statale e sicuro, che presumibilmente non cederà dati a terzi.
Come riconosciuto nell’articolo citato all’inizio, a Google (o anche a Facebook) non importa nulla se decidiamo di usare sistemi alternativi. Perché possono ottenere i nostri dati dai nostri amici. Perché possono costruire un profilo analogo al nostro attingendo dall’infinità di segmenti che hanno acquisito.
Allora meglio soluzioni “old style” come ad esempio:
A questo proposito, in Italia esiste solo Agid, un’agenzia che per anni è andata avanti con rinnovi di contratti precari!
Questa storia è stata letta 3150 volte
Suggeriti per te:
La crociata italiana contro l’innovazione
Dallo schiavismo nei campi alla nostra tavola. Dove fare la spesa per non essere complici
Progetto Maven. L’algoritmo di Google lavora per i droni Usa