Da trent’anni nelle cronache leggiamo di caporalato e sfruttamento nelle campagne italiane. Ma esistono alternative per non appoggiare tutto questo. Un estratto del libro inchiesta "Lo sfruttamento nel piatto. Quello che tutti dovremmo sapere per un consumo consapevole"
In realtà, la questione risale ad almeno trent’anni fa: nel 1990 fu ucciso a Villa Literno il rifugiato sudafricano Jerry Masslo, che passò dalla negazione dei documenti alla raccolta dei pomodori. Anche se a fatica, oggi cominciano a emergere le cause. I passaggi dal campo al bancone del supermercato sono numerosi e poco tracciati; non esiste una etichetta trasparente; gli strumenti di contrasto adottati dalle aziende (ispezioni, liberatorie, certificazioni) appaiono insufficienti. La “Grande Distribuzione Organizzata” non è l’unica responsabile, ma appare poco intenzionata a prendere provvedimenti risolutivi.
Quindi cosa possono fare i consumatori per evitare di essere complici di un sistema che non vuole auto-riformarsi? In sintesi, dove facciamo la spesa?
Esistono diverse opzioni per non essere complici. Ma soprattutto dobbiamo superare il consumerismo…
Trovare un’alternativa non è difficile. È possibile acquistare prodotti etici e di qualità superiore, senza necessariamente spendere di più. Per fortuna l’Italia, nonostante l’attacco della globalizzazione, è ancora un paese ricco di diversità. Esistono diverse opzioni: evitare il cibo “a rischio” trovando produttori alternativi; sostituire tutta la spesa associandosi con altri consumatori oppure incontrando i contadini in un mercato rionale; ma, soprattutto, occorre superare l’ideologia trentennale del “consumerismo”.
Sostituire i prodotti a rischio
Può essere impegnativo sostituire tutta la spesa. Ma non è detto che lo sia per i prodotti più “critici”. Chi non ha la possibilità di un consumo radicalmente alternativo, per ragioni economiche o di tempo, può comunque iniziare un boicottaggio intelligente di alcuni prodotti. In Italia esistono situazioni estreme e le peggiori riguardano la produzione di arance e pomodori. Quindi, un primo passo per non essere complici può essere sostituire questi due prodotti cercando aziende che offrano garanzie sull’etica.
Ecco due esempi. In seguito alla rivolta del 2010, alcuni attivisti calabresi insieme ai migranti, decisero di fare qualcosa di concreto. Nacque “Sos Rosarno”. «Tutti i produttori sono piccoli proprietari, singoli o associati in cooperative, assumono regolarmente la manodopera impiegata nella raccolta, per oltre il 50% immigrata, e sono interni al circuito della solidarietà con gli africani di Rosarno, che nell’assoluta insufficienza delle politiche istituzionali d’accoglienza possono sopperire ai bisogni più elementari solo grazie al sostegno delle realtà associative della società civile», si legge nel sito ufficiale. Da allora l’unione di alcuni produttori della Piana di Gioia Tauro permette la produzione di arance, in particolare clementine; poi olio, grano, formaggi e insaccati. I prodotti sono acquistabili dai “Gruppi di Acquisto Solidali” (Gas) in Italia e all’estero, ma anche nei punti di distribuzione della rete “Fuori Mercato”.
Un primo passo può essere il boicottaggio intelligente di alcuni prodotti
L’altro prodotto critico è sicuramente il pomodoro. Per alcuni è il simbolo della dieta mediterranea, per altri è sinonimo di caporalato. Negli ultimi anni, tuttavia, sono nate diverse esperienze per proporre un’alternativa al consumatore. “Funky Tomato” è probabilmente la più conosciuta. È nata tra Puglia, Basilicata e Campania, nel 2005, dopo la morte della bracciante Paola Clemente. A partire da Taranto, un gruppo di agricoltori, attivisti e ricercatori ha deciso di costruire una filiera partecipata e di creare un’alternativa al caporalato del pomodoro. Come comprare i pelati e le passate di Funky Tomato? Il modello è quello del pre-acquisto sul sito, a cui si affianca la distribuzione in alcuni ristoranti e punti vendita. Conoscendo in anticipo l’ammontare degli acquisti, la filiera può essere organizzata fin dalla piantumazione. Agricoltori, braccianti e trasformatori sanno di poter contare su un reddito certo e non vivono in balia delle fluttuazioni del mercato. Il barattolo di Funky Tomato vuole essere la passata realmente conservata in cantina per l’inverno, come nella tradizione italiana, e non un consumo d’elite. Un cibo “coltivato localmente e artigianalmente”.
I gruppi di acquisto solidale
All’inizio degli anni ’90 le ideologie novecentesche arretrano e la fuga nel privato prende il sopravvento. In tanti non vogliono rinunciare all’impegno politico e lo spostano nella quotidianità. Si diffondono idee come “si vota anche facendo la spesa”, “piccolo è bello” e “i grandi cambiamenti sono la somma di piccole scelte individuali”. In tutta la penisola nascono le botteghe del “commercio equo e solidale” che vogliono connettere consumatori del Nord del mondo e produttori del Sud, assicurando a questi ultimi un compenso giusto e sottraendoli allo sfruttamento delle multinazionali. Un modello che inizialmente riguarda contadini africani e latinoamericani, ma che oggi può essere tranquillamente applicato anche gli agricoltori italiani.
Negli anni ’90, con la crisi delle ideologie, si diffondono luoghi comuni come “si vota anche facendo la spesa”
Nel 1994, a Fidenza, in provincia di Parma, nasce il primo “Gruppo di Acquisto Solidale”. Nel 1997, i Gas si uniscono in rete per scambiarsi informazioni sui produttori. Ma come funziona un gruppo? Il Gas può essere un’associazione costituita a norma di legge oppure un gruppo informale. Durante le assemblee, si prendono le decisioni fondamentali: i criteri di scelta dei prodotti, la lista dei fornitori, la gestione degli ordini, lo scarico delle merci e infine il ritiro. I Gas verificano il rispetto di tutti i criteri attraverso un legame diretto col produttore: visite periodiche nei campi e rapporti consolidati nel tempo. Si crea spesso una rete fiduciaria che genera una specie di “certificazione partecipata”. Si tratta di una galassia molto articolata. Il sito “Eventhia” traccia oggi oltre 500 gruppi, la maggior parte dei quali si trova nel Centro Nord. Grandi aree sono ancora scoperte, paradossalmente nelle zone rurali del Mezzogiorno; ma nelle città medio grandi c’è in genere almeno un Gas.
L’alternativa impolverata
I mercati rionali sono centri della cultura e della vita popolare delle città italiane. Soltanto a Roma ce ne sono 127, per un totale di oltre cinquemila esercenti. Il caso della capitale è esemplare: sarebbero un migliaio i “posteggi” chiusi, cioè spazi non assegnati. A oggi, resistono circa 120 contadini “storici” dietro i banchi dei mercati rionali romani. Gli altri sono venditori che di solito all’alba acquistano all’ingrosso al Car (Centro Agro Alimentare) di Guidonia. Sono alcuni tra i dati contenuti in un rapporto dell’associazione “Terra!”.
L’agro romano, il territorio agricolo collegato all’area metropolitana, potrebbe rifornire quasi completamente i mercati nella capitale ma non esiste una politica efficace che connetta gli agricoltori del circondario ai banconi dei mercati rionali. Un’altra criticità è il ricambio generazionale, sia nelle vendite che nei consumi. Nella maggior parte dei mercati si aggirano pensionati per cui è normale un’apertura solo mattutina e venditori che si tramandano da generazioni il bancone della frutta, senza una prospettiva per il futuro. La prima questione è appunto quella degli orari: è difficile essere concorrenziali coi supermercati se è possibile acquistare soltanto da lunedì a sabato dalle 8 alle alle 14,30. I mercati hanno grandi potenzialità (stagionalità dei prodotti, qualità, prezzo conveniente perché senza intermediazioni) ma al momento molte carenze: orari, servizi, luoghi fatiscenti, parcheggi. E su etichette e trasparenza sono persino più indietro dei supermercati.
Inserire l’origine in etichetta, pratica oggi trascurata all’interno dei mercati, sarebbe un primo passo verso la fidelizzazione dei clienti. Il paradosso è che i mercati di quartiere non comunicano qualcosa che è molto richiesto dai consumatori. Anche passando per il Car, l’ortofrutta del territorio romano e laziale non impiega più di 24 ore a raggiungere i banchi del mercato. Ma questo enorme punto di vantaggio non viene comunicato: c’è ma non si vede. Possiamo trovare nello stesso bancone zucchine raccolte appena il giorno prima e pomodori che hanno viaggiato dalle serre siciliane.
I mercati rionali hanno un’importante funzione sociale. Ma la politica ha deciso di abbandonarli
Come si vede, i mercati non hanno soltanto bisogno di una boccata d’ossigeno: è necessario ripensarne globalmente la funzione sociale. I mercati romani sono spesso posizionati in centro, in siti storici che potrebbero diventare luoghi di incontro, di educazione alimentare, oltre che aperti alla ristorazione con prodotti freschissimi. Ma al momento i meccanismi di autorizzazione, mappatura, rotazione dei banconisti non più attivi sono iper-burocratizzati e lenti. A volte sembra che ci sia un vero abbandono da parte della politica.
Come se i mercati dovessero funzionare da sé fino alla naturale estinzione dei suoi protagonisti, dal vecchio fruttarolo che ha ereditato il bancone dal padre al pensionato che non rinuncia alle sue abitudini. Oggi nessuno ha il polso dei mercati rionali, nessuno sa con esattezza quante postazioni siano attive e quante no. L’ultimo censimento è stato effettuato ormai tre anni fa, nel marzo del 2015. Il Comune, dal canto suo, non favorisce la ripresa del settore: ha lanciato l’ultimo bando nel 2013, finendo di assegnare le postazioni nell’autunno 2017. Per quanto la situazione romana sia unica, la tradizione del mercato in strada è diffusa in tutta Italia. Dalle “Piazze delle Erbe” in gran parte delle città medievali del Nord fino ai “suk” di origine araba della Sicilia, come la celebre Vucciria immortalata da Guttuso. Anche queste realtà in crisi che meriterebbero un intervento: sono un concentrato di storia e cultura così come infrastrutture di distribuzione già esistenti. Con poco, potrebbero diventare un valido sbocco per un’agricoltura diversa.
Superare il consumerismo
Ci sono tante alternative per i consumatori, ma le due più “consistenti” appaiono i Gas e i mercati rionali. Sono esperienze con una storia alle spalle (breve i primi, pluridecennale i secondi). Entrambi hanno bisogno di essere rafforzati oppure rivitalizzati. Ma sono diffusi sul territorio e coinvolgono una rete ampia di consumatori, rivenditori e produttori. Nei casi migliori, i passaggi dal produttore al consumatore sono rapidi e diretti. L’etica non è garantita solo da etichette e certificazioni, ma da un rapporto immediato e quotidiano. Per rendere queste esperienze molto più forti e sfondare la quota del 30% (la percentuale di consumi alimentari sottratta ai supermercati) è fondamentale non abbandonare la sfera pubblica e dare meno rilevanza al punto di vista del consumatore.
Fare la spesa è sempre un “gesto sociale” e – solo in seconda battuta – una scelta individuale
In altre parole, fare la spesa è un atto collettivo mascherato da scelta individuale. Negli ultimi anni, le scelte politiche sono state decisive: dalla liberalizzazione delle licenze e degli orari dei negozi alle aperture dei festivi, fino al sostegno ai grandi centri commerciali. Parallelamente, le politiche del lavoro hanno creato consumatori con poco tempo a disposizione, senza alcuna educazione alimentare, bombardati dalla pubblicità e dal marketing del sottocosto. Certo, comprare una cosa anziché un’altra è una scelta che in ultima istanza compete all’individuo. Ma l’individuo è inserito in un contesto, indirizzato e guidato. Alla fine la sua scelta è sempre un gesto “sociale”. Il consumatore deve risolvere il paradosso della scissione con sé stesso (“sono contento di trovare un prezzo basso anche se danneggio un altro lavoratore”) e vedersi anche come produttore. Confrontarsi con le istituzioni e con le aziende, attraverso boicottaggi mirati. Chiedere tempo, diritti, potere di acquisto, dignità sul posto di lavoro e non solo cibo sano sul bancone.
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Scheda libro Antonello Mangano Lo sfruttamento nel piatto. Quello che tutti dovremmo sapere per un consumo consapevole ISBN: 9788858139929 Pagine: 182 Editore: Laterza Anno: 2020
Otto eroi, italiani e no, uomini e donne. Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti. Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.
Ricominciano le presentazioni del libro! Resta aggiornato per conoscere le prossime date
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Dallo schiavismo nei campi alla nostra tavola. Dove fare la spesa per non essere complici
Pubblicato su l’Espresso
Dalle campagne italiane arrivano cronache drammatiche: incidenti in cui muoiono centinaia di lavoratori; ghetti che bruciano ; donne sfruttate sessualmente tra le serre che assicurano ortaggi fuori stagione; braccianti ridotti in schiavitù dal Piemonte alla Sicilia.
In realtà, la questione risale ad almeno trent’anni fa: nel 1990 fu ucciso a Villa Literno il rifugiato sudafricano Jerry Masslo, che passò dalla negazione dei documenti alla raccolta dei pomodori. Anche se a fatica, oggi cominciano a emergere le cause. I passaggi dal campo al bancone del supermercato sono numerosi e poco tracciati; non esiste una etichetta trasparente; gli strumenti di contrasto adottati dalle aziende (ispezioni, liberatorie, certificazioni) appaiono insufficienti. La “Grande Distribuzione Organizzata” non è l’unica responsabile, ma appare poco intenzionata a prendere provvedimenti risolutivi.
Quindi cosa possono fare i consumatori per evitare di essere complici di un sistema che non vuole auto-riformarsi? In sintesi, dove facciamo la spesa?
Trovare un’alternativa non è difficile. È possibile acquistare prodotti etici e di qualità superiore, senza necessariamente spendere di più. Per fortuna l’Italia, nonostante l’attacco della globalizzazione, è ancora un paese ricco di diversità. Esistono diverse opzioni: evitare il cibo “a rischio” trovando produttori alternativi; sostituire tutta la spesa associandosi con altri consumatori oppure incontrando i contadini in un mercato rionale; ma, soprattutto, occorre superare l’ideologia trentennale del “consumerismo”.
Sostituire i prodotti a rischio
Può essere impegnativo sostituire tutta la spesa. Ma non è detto che lo sia per i prodotti più “critici”. Chi non ha la possibilità di un consumo radicalmente alternativo, per ragioni economiche o di tempo, può comunque iniziare un boicottaggio intelligente di alcuni prodotti. In Italia esistono situazioni estreme e le peggiori riguardano la produzione di arance e pomodori. Quindi, un primo passo per non essere complici può essere sostituire questi due prodotti cercando aziende che offrano garanzie sull’etica.
Ecco due esempi. In seguito alla rivolta del 2010, alcuni attivisti calabresi insieme ai migranti, decisero di fare qualcosa di concreto. Nacque “Sos Rosarno”. «Tutti i produttori sono piccoli proprietari, singoli o associati in cooperative, assumono regolarmente la manodopera impiegata nella raccolta, per oltre il 50% immigrata, e sono interni al circuito della solidarietà con gli africani di Rosarno, che nell’assoluta insufficienza delle politiche istituzionali d’accoglienza possono sopperire ai bisogni più elementari solo grazie al sostegno delle realtà associative della società civile», si legge nel sito ufficiale.
Da allora l’unione di alcuni produttori della Piana di Gioia Tauro permette la produzione di arance, in particolare clementine; poi olio, grano, formaggi e insaccati. I prodotti sono acquistabili dai “Gruppi di Acquisto Solidali” (Gas) in Italia e all’estero, ma anche nei punti di distribuzione della rete “Fuori Mercato”.
L’altro prodotto critico è sicuramente il pomodoro. Per alcuni è il simbolo della dieta mediterranea, per altri è sinonimo di caporalato. Negli ultimi anni, tuttavia, sono nate diverse esperienze per proporre un’alternativa al consumatore. “Funky Tomato” è probabilmente la più conosciuta. È nata tra Puglia, Basilicata e Campania, nel 2005, dopo la morte della bracciante Paola Clemente. A partire da Taranto, un gruppo di agricoltori, attivisti e ricercatori ha deciso di costruire una filiera partecipata e di creare un’alternativa al caporalato del pomodoro.
Come comprare i pelati e le passate di Funky Tomato? Il modello è quello del pre-acquisto sul sito, a cui si affianca la distribuzione in alcuni ristoranti e punti vendita. Conoscendo in anticipo l’ammontare degli acquisti, la filiera può essere organizzata fin dalla piantumazione. Agricoltori, braccianti e trasformatori sanno di poter contare su un reddito certo e non vivono in balia delle fluttuazioni del mercato. Il barattolo di Funky Tomato vuole essere la passata realmente conservata in cantina per l’inverno, come nella tradizione italiana, e non un consumo d’elite. Un cibo “coltivato localmente e artigianalmente”.
I gruppi di acquisto solidale
All’inizio degli anni ’90 le ideologie novecentesche arretrano e la fuga nel privato prende il sopravvento. In tanti non vogliono rinunciare all’impegno politico e lo spostano nella quotidianità. Si diffondono idee come “si vota anche facendo la spesa”, “piccolo è bello” e “i grandi cambiamenti sono la somma di piccole scelte individuali”.
In tutta la penisola nascono le botteghe del “commercio equo e solidale” che vogliono connettere consumatori del Nord del mondo e produttori del Sud, assicurando a questi ultimi un compenso giusto e sottraendoli allo sfruttamento delle multinazionali. Un modello che inizialmente riguarda contadini africani e latinoamericani, ma che oggi può essere tranquillamente applicato anche gli agricoltori italiani.
Nel 1994, a Fidenza, in provincia di Parma, nasce il primo “Gruppo di Acquisto Solidale”. Nel 1997, i Gas si uniscono in rete per scambiarsi informazioni sui produttori. Ma come funziona un gruppo? Il Gas può essere un’associazione costituita a norma di legge oppure un gruppo informale. Durante le assemblee, si prendono le decisioni fondamentali: i criteri di scelta dei prodotti, la lista dei fornitori, la gestione degli ordini, lo scarico delle merci e infine il ritiro.
I Gas verificano il rispetto di tutti i criteri attraverso un legame diretto col produttore: visite periodiche nei campi e rapporti consolidati nel tempo. Si crea spesso una rete fiduciaria che genera una specie di “certificazione partecipata”.
Si tratta di una galassia molto articolata. Il sito “Eventhia” traccia oggi oltre 500 gruppi, la maggior parte dei quali si trova nel Centro Nord. Grandi aree sono ancora scoperte, paradossalmente nelle zone rurali del Mezzogiorno; ma nelle città medio grandi c’è in genere almeno un Gas.
L’alternativa impolverata
I mercati rionali sono centri della cultura e della vita popolare delle città italiane. Soltanto a Roma ce ne sono 127, per un totale di oltre cinquemila esercenti. Il caso della capitale è esemplare: sarebbero un migliaio i “posteggi” chiusi, cioè spazi non assegnati. A oggi, resistono circa 120 contadini “storici” dietro i banchi dei mercati rionali romani. Gli altri sono venditori che di solito all’alba acquistano all’ingrosso al Car (Centro Agro Alimentare) di Guidonia. Sono alcuni tra i dati contenuti in un rapporto dell’associazione “Terra!”.
L’agro romano, il territorio agricolo collegato all’area metropolitana, potrebbe rifornire quasi completamente i mercati nella capitale ma non esiste una politica efficace che connetta gli agricoltori del circondario ai banconi dei mercati rionali. Un’altra criticità è il ricambio generazionale, sia nelle vendite che nei consumi. Nella maggior parte dei mercati si aggirano pensionati per cui è normale un’apertura solo mattutina e venditori che si tramandano da generazioni il bancone della frutta, senza una prospettiva per il futuro. La prima questione è appunto quella degli orari: è difficile essere concorrenziali coi supermercati se è possibile acquistare soltanto da lunedì a sabato dalle 8 alle alle 14,30. I mercati hanno grandi potenzialità (stagionalità dei prodotti, qualità, prezzo conveniente perché senza intermediazioni) ma al momento molte carenze: orari, servizi, luoghi fatiscenti, parcheggi. E su etichette e trasparenza sono persino più indietro dei supermercati.
Inserire l’origine in etichetta, pratica oggi trascurata all’interno dei mercati, sarebbe un primo passo verso la fidelizzazione dei clienti. Il paradosso è che i mercati di quartiere non comunicano qualcosa che è molto richiesto dai consumatori. Anche passando per il Car, l’ortofrutta del territorio romano e laziale non impiega più di 24 ore a raggiungere i banchi del mercato. Ma questo enorme punto di vantaggio non viene comunicato: c’è ma non si vede. Possiamo trovare nello stesso bancone zucchine raccolte appena il giorno prima e pomodori che hanno viaggiato dalle serre siciliane.
Come si vede, i mercati non hanno soltanto bisogno di una boccata d’ossigeno: è necessario ripensarne globalmente la funzione sociale. I mercati romani sono spesso posizionati in centro, in siti storici che potrebbero diventare luoghi di incontro, di educazione alimentare, oltre che aperti alla ristorazione con prodotti freschissimi. Ma al momento i meccanismi di autorizzazione, mappatura, rotazione dei banconisti non più attivi sono iper-burocratizzati e lenti. A volte sembra che ci sia un vero abbandono da parte della politica.
Come se i mercati dovessero funzionare da sé fino alla naturale estinzione dei suoi protagonisti, dal vecchio fruttarolo che ha ereditato il bancone dal padre al pensionato che non rinuncia alle sue abitudini. Oggi nessuno ha il polso dei mercati rionali, nessuno sa con esattezza quante postazioni siano attive e quante no. L’ultimo censimento è stato effettuato ormai tre anni fa, nel marzo del 2015. Il Comune, dal canto suo, non favorisce la ripresa del settore: ha lanciato l’ultimo bando nel 2013, finendo di assegnare le postazioni nell’autunno 2017.
Per quanto la situazione romana sia unica, la tradizione del mercato in strada è diffusa in tutta Italia. Dalle “Piazze delle Erbe” in gran parte delle città medievali del Nord fino ai “suk” di origine araba della Sicilia, come la celebre Vucciria immortalata da Guttuso. Anche queste realtà in crisi che meriterebbero un intervento: sono un concentrato di storia e cultura così come infrastrutture di distribuzione già esistenti. Con poco, potrebbero diventare un valido sbocco per un’agricoltura diversa.
Superare il consumerismo
Ci sono tante alternative per i consumatori, ma le due più “consistenti” appaiono i Gas e i mercati rionali. Sono esperienze con una storia alle spalle (breve i primi, pluridecennale i secondi). Entrambi hanno bisogno di essere rafforzati oppure rivitalizzati. Ma sono diffusi sul territorio e coinvolgono una rete ampia di consumatori, rivenditori e produttori. Nei casi migliori, i passaggi dal produttore al consumatore sono rapidi e diretti. L’etica non è garantita solo da etichette e certificazioni, ma da un rapporto immediato e quotidiano.
Per rendere queste esperienze molto più forti e sfondare la quota del 30% (la percentuale di consumi alimentari sottratta ai supermercati) è fondamentale non abbandonare la sfera pubblica e dare meno rilevanza al punto di vista del consumatore.
In altre parole, fare la spesa è un atto collettivo mascherato da scelta individuale. Negli ultimi anni, le scelte politiche sono state decisive: dalla liberalizzazione delle licenze e degli orari dei negozi alle aperture dei festivi, fino al sostegno ai grandi centri commerciali. Parallelamente, le politiche del lavoro hanno creato consumatori con poco tempo a disposizione, senza alcuna educazione alimentare, bombardati dalla pubblicità e dal marketing del sottocosto. Certo, comprare una cosa anziché un’altra è una scelta che in ultima istanza compete all’individuo. Ma l’individuo è inserito in un contesto, indirizzato e guidato. Alla fine la sua scelta è sempre un gesto “sociale”.
Il consumatore deve risolvere il paradosso della scissione con sé stesso (“sono contento di trovare un prezzo basso anche se danneggio un altro lavoratore”) e vedersi anche come produttore. Confrontarsi con le istituzioni e con le aziende, attraverso boicottaggi mirati. Chiedere tempo, diritti, potere di acquisto, dignità sul posto di lavoro e non solo cibo sano sul bancone.
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Scheda libro
Antonello Mangano
Lo sfruttamento nel piatto. Quello che tutti dovremmo sapere per un consumo consapevole
ISBN: 9788858139929
Pagine: 182
Editore: Laterza
Anno: 2020
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Il libro
La Spoon River dei braccianti
Otto eroi, italiani e no, uomini e donne.
Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti.
Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.