Dal paese di transito al paese-gabbia. L’Italia che somiglia sempre più alla Libia

  Sempre più migranti senza documenti finiscono nei ghetti del Sud. Intrappolati dalla chiusura della frontiera settentrionale, privati della possibilità di regolarizzarsi, finiscono in zone extralegali di dimensioni crescenti. L'esclusione diventa così un'opportunità per organizzazioni criminali di vario tipo. Ecco la conseguenza delle politiche securitarie
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Nel 2015 sono sbarcati in Italia 153.842 migranti. Di questi, 83.970 – circa metà – ha presentato domanda d’asilo[1]. Nonostante il regolamento Dublino, che obbliga a presentare domanda nel primo paese di approdo, tutti gli altri hanno provato a eludere le leggi e raggiungere altri paesi europei più a nord.

Frontiera Nord

Era un fenomeno in atto già dall’anno precedente, da cui è nata l’espressione “paese di transito”. Le nostre autorità chiudevano un occhio facendo arrabbiare i governi di mezza Europa, in particolare francesi, svizzeri, austriaci e tedeschi. Dallo scorso anno, dopo le proteste europee, le frontiere italiane sono chiuse.
Ai luoghi di crisi dei confini sud (Lampedusa, Pozzallo, …) si sono quindi aggiunti, per la prima volta, quelli della frontiera nord: Ventimiglia, Como, Brennero. In grandi città come Roma, inoltre, si parla sempre più di accoglienza non per i migranti che vogliono rimanere ma per quelli in transito[2].

In alto i luoghi di crisi alla frontiera nord, in basso le “zone franche” a sud – Visualizza la mappa a schermo intero

La frontiera si è alzata: per alcuni aspetti, la nostra situazione è diventata simile a quelli di paesi come la Libia. Un territorio che – per ragioni geografiche e politiche – concentra i migranti in transito, ma che non è l’ultima meta delle migrazioni.

La frontiera si è alzata

La prima conseguenza è che sono le politiche europee, più che la volontà nazionale, a determinare la nostra situazione: da un lato la chiusura di fatto di Schengen, dall’altro l’ormai permanente richiesta italiana di denaro (“L’Europa ci lascia da soli!”) come contropartita di frontiere chiuse. Il denaro è sostanzialmente quello che chiedono i regimi del Sud quando si aprono trattative sul tema del controllo delle frontiere e della lotta all’immigrazione irregolare[3]. In cambio si impegnano a funzionare da gabbia.

Il consistente numero di dinieghi (siamo ormai al 60% nel 2016) sulle domande d’asilo[4] e la riduzione delle garanzie e della possibilità di presentare appello[5] produrrà fatalmente un esercito di irregolari imprigionati tra la prospettiva del ritorno a casa (un fallimento che nessun migrante può accettare) e quella di rimanere in un paese-gabbia che offre scarse opportunità di inserimento. Il progetto di mandare soldi a casa, alla base di qualunque storia di migrazione, rimane frustrato.

L’esercito di “fantasmi”, cioè uomini e donne senza possibilità di inserimento nella nostra società e senza diritti, aumenta di anno in anno. Le commissioni territoriali ne hanno prodotti 55.423 nel 2016, 41.503 nel 2015, 14.217 nel 2014, 9.175 nel 2013[6].

Dove vanno a finire i migranti senza documenti? Già in passato, quando l’intervallo tra una sanatoria e l’altra diventava eccessivo, si creavano al Sud “zone franche” dove i controlli dello Stato erano storicamente poco presenti. Quelle sacche di irregolarità sono sempre le stesse da decenni: Castel Volturno, Rosarno, Foggia. Qui si creano ghetti con dimensioni crescenti: luoghi che vivono di regole proprie e dove convivono impressionanti esempi di autogestione e solidarietà con strategie extralegali.

I ghetti

È bene evitare ogni giudizio di tipo morale (o peggio “culturalista”) per situazioni che sono l’ultimo effetto di decisioni, opportunismi e paure che vengono da Berlino, Bruxelles, Vienna, Berna, Parigi.
Grazie a queste politiche ai “fantasmi” è negato l’accesso al mondo legale: contratti di lavoro, sanità di base, servizi legali e affitti di abitazioni.

La frontiera si è alzata. Siamo diventati una gabbia: frontiere chiuse a sud, frontiere chiuse a nord

Il desiderio populista che vorrebbe “riportarli a casa loro” è irrealizzabile. Solo per un’espulsione di pochi migranti è necessario un complesso apparato logistico (centri di detenzione, voli, scorte, procedure diplomatiche) e prima di tutto un accordo col paese di destinazione. Ecco perché – a fronte di pochi espulsi – la maggior parte degli irregolari rimane in Italia e finisce per concentrarsi nelle zone franche.

Qui si rafforzano sistemi di servizi extralegali o semilegali (cioè non autorizzati) che vanno dai falsi contratti di lavoro al reclutamento tramite caporali, dagli spacci low cost alle mense dove un piatto di riso costa pochi euro; alle baracche autocostruite alle macellerie, dalle ricariche per i cellulari alle officine.

In qualche caso le reti criminali presenti, in particolare quelle nigeriane, trovano un terreno fertile per espandere i loro traffici, dallo spaccio di stupefacenti alla prostituzione.

La sicurezza passa per l’inclusione

Pensare alle nostre mafie, ossessionate dalla signoria territoriale e dal riconoscimento del proprio potere, ci porta fuori strada. Abbiamo “organizzazioni ospiti”, che si confrontano con altri poteri come quello statale e soprattutto con quello delle organizzazioni criminali autoctone. Per cui tendono a offrire una gamma di servizi legali-illegali strutturandosi di volta in volta in base alle opportunità e ai vincoli che il territorio offre.

È evidente che una situazione come quella che si sta creando (una massa di irregolari incastrati in un paese-gabbia) offre opportunità crescenti ai criminali.

Uno studio della Bocconi[7] afferma che l’incidenza dei reati si riduce per i migranti regolarizzati. Cioè, i migranti commettono meno reati dopo aver ottenuto i documenti. È ovvio: se non hai accesso al lavoro, ai diritti, ai servizi, cosa altro ti resta? Ecco perché sicurezza e inclusione sono sinonimi. I ghetti sono ovviamente sinonimo di esclusione.

Connection house

Rosarno è ancora una volta un interessante punto di osservazione. Negli corso degli anni, il luogo di concentrazione dei lavoratori è passato dai relitti di fabbriche occupate esclusivamente dai braccianti a un ghetto sempre più simile a quello di Rignano Garganico, nei pressi di Foggia, dove alle tende dei lavoratori si affiancano baracche autocostruite dove si offrono servizi di vario tipo.

Rosarno - La casa e le fabbriche

Quest’anno sono comparse anche baracche che funzionavano come bar-case di prostituzione. All’interno, giovanissime ragazze provenienti da Edo State e arrivate da pochi mesi via Lampedusa. Sono gli indizi della tratta, quel meccanismo ormai rodato da anni che procura ragazze in Africa e – in tempi record – le avvia alla prostituzione.

“Questa di Rosarno è una pericolosa novità”, ci dice Alberto Mossino[8], direttore di PIAM, un’associazione piemontese riconosciuta a livello internazionale[9] per la sua attività contro la tratta. “Si sta creando un distretto parallelo dello sfruttamento sessuale. La frontiera si è alzata, si riproducono le connection house tipiche della Libia. Città spontanee che offrono ogni tipo di servizio – legale e illegale – agli africani di passaggio. È lo sfruttamento intorno allo sfruttamento”.

 


Note

[1] Fonti: Unhcr – Ministero dell’Interno

[2] V. per esempio “Raggi, a Tiburtina hub per accogliere transito migranti

[3] Cfr. “La mappa degli accordi contro i migranti”

[4] Fonte: Ministero dell’Interno

[5] Norma prevista dal cosiddetto pacchetto Minniti in materia di immigrazione.

[6] Fonte: Ministero dell’Interno

[7] Clicking on Heaven’s Door: The Effect of Immigrant Legalization on Crime, https://www.aeaweb.org/articles?id=10.1257%2Faer.20150355

[8]Il mercato delle schiave e quello delle arance”, l’Espresso

[9] V. https://www.theguardian.com/global-development/2016/aug/07/nigeria-trafficking-women-prostitutes-italy

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