A chi mi è stato amico,
al di là di ogni ragionevole dubbio
Copertina
Giuseppe Modica ”Finestra sul Mediterraneo”
1989 Olio su tavola
I vecchi non sono coloro che hanno
molti anni, ma quelli che non sono
saliti per tempo sul treno dei loro figli
Garcia Marquez
Indice
Prefazione
con un Presidente della Regione siciliana
Per alcuni un’amicizia innaturale
Spesso non appare, ma è ovunque
L’autore. Giacomo Nicola Cagnes è nato a Trapani nel 1923. Per 25 anni è stato sindaco di Comiso e deputato per tre legislature a Palermo. Ha fondato il CUDIP (Comitato unitario disarmo pace), protagonista delle lotte contro gli euromissili negli anni ’80.
Prefazione
Ho conosciuto Giacomo Cagnes quando avevo undici anni.
Io, giovanissimo studente delle medie, lui, Sindaco del Comune e Deputato alla Regione, all’acme della sua stagione di uomo politico. Mi consegnò un piccolo premio per un concorso, indetto dal Comune nelle scuole della città, concernente un tema sulla Resistenza. Credo che, al di là del premio, fu un episodio importante del mio processo di maturazione civile e sociale e, credo, questo fosse l’intento dell’iniziativa, promossa da una Amministrazione che, tra le sue prerogative, aveva quella di proporsi quale educatrice della collettività.
Lo rincontrai qualche tempo dopo. Erano gli anni delle battaglie pacifiste, momento esaltante delle umane vicende, in cui si rinnovavano sentimenti, ideali e speranze, comuni ai grandi movimenti che plasmano il volto della Storia.
La passione civile e l’acuto senso della necessità di vivere in un mondo da cambiare ci accomunarono, insieme a tanti altri, e, ancor oggi, ci offrono motivo di essere, in un’epoca di vaste trasmigrazioni di valori, che, nonostante grandi mutamenti, ci restituisce una realtà rimasta paradossalmente la stessa; un mondo che continua a suonare la sua minuscola musica domestica, cercando di far quadrare alla meglio il suo piccolo bilancio quotidiano.
Ed è questa la realtà che Cagnes ha tradotto in racconto. Che poi è la realtà dell’uomo – di cui egli è testimone, mai maestro – nella sua duplice apparenza, quella secolare della storia e quella più torbida dell’esistenza, quella dell’intervento della ragione e quella, passiva, della vita condotta dagli impulsi del destino.
Niente dell’uomo è al di fuori della storia: in essa si riflettono sensibilità individuale e collettiva, maniera di considerare e di affrontare l’esistenza, forza d’animo e affettività di singoli, di generazioni o di popoli. La riduzione dello storicizzabile ai cosiddetti primi piani della grande vicenda è qui rigettata; il concetto della storia si dilata fino a comprendere tutto quanto è vita, e il narratore è come lo storico di Marc Bloch, “l’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda”.
La vita, in questi dodici racconti, è un susseguirsi di beni e valori perduti e ritrovati, rinnegati e rimpianti, sognati e agognati, di cui è impossibile per sempre l’oblio. Il connotato dell’uomo è la consapevolezza, la memoria, a volte il rimorso, la presenza sempre, mai l’evasione.
Il filo mai smarrito della Storia, della vita con i suoi grumi di realismo, impedisce al Cagnes di cedere agli estetismi, di risolvere le contraddizioni nella pura bellezza o in valori simbolici. La mancanza di preoccupazioni stilistiche, quindi, altro non è che bisogno di arrivare al sodo, al nodo della storia rigettando l’idea di raccontare il vuoto attraverso gli eccessi dell’immaginazione.
Raccontare per cedere alla voluttà della memoria e raccontare per fissare nell’ambito di un processo essenziale i termini della questione. E da ciò la funzione etica: il discorso ha il compito di portare il lettore al termine del grande o piccolo viaggio quotidiano, che il narratore ha creduto di offrirgli, in un momento in cui si è così legati a ragioni formali, se non addirittura a convenzioni esterne e vuote.
Un diniego della scrittura come rifugio, come ingannevole tentativo di inventare un mondo migliore. Quasi che la “umile fatica” sia stata specialmente un costante invito alla sincerità, meglio alla norma della realtà quotidiana.
Ernesto Girlando
Premessa
Anche questi dodici racconti, come gli altri già pubblicati, hanno la finalità di rievocare figure e fatti con il suo vario carico di rimembranze.
Viviamo in un periodo di velocissima transizione. Gli uomini, le donne ancora di più, hanno già cambiato il loro modo di pensare, di agire, di sentire e di sperare. Le città, piccole e grandi, hanno modificato i loro profili urbanistici, le loro pulsazioni umane, il loro modo di essere abitate. Nelle grandi città la povertà è diventata più o meno rassegnata, la grande ricchezza non ha più paura di manifestarsi, talmente è sicura di essere accettata come ideale di vita. Cambiate sono anche le categorie della politica per cui, in generale, gli uomini politici, specie gli anziani, mostrano una notevole confusione d’idee e di sentimenti.
Il processo di omogeneizzazione della economia mondiale e la formazione di grandi aree politiche similari in ampie zone continentali stanno scompigliando le carte, creando nuove problematiche e nuove realtà.
Anche il tempo ha mutato le sue dimensioni. Il passato, anche quello più recente, è come si fosse esageratamente dilatato, fino a diluirsi.
Il futuro, anche vicino, somiglia ad una nebulosa in movimento, entro la quale è difficile leggere parole che condensino idealità e speranze.
La conseguenza di ciò è rappresentata dalla scomparsa nella memoria generale di nomi, personalità, avvenimenti, idealità, che pur rappresentarono la storia delle passioni d’intere generazioni, che produssero scopi di vita ed eroismi di uomini e donne, ma anche responsabilità di piccole e grandi, ed alcune immense, tragedie.
Financo la storia del pensiero morale e politico si fa fatica a ricordare, quasi fosse stata una sorta d’invenzione fantastica e non invece l’ostetrico della odierna storia.
Il nuovo ed il diverso campeggiano nella testa di ognuno di noi, quasi significassero l’eliminazione del negativo del nostro passato, senza accorgerci che, accanto al negativo, viene eliminato anche il positivo, lasciandoci con gli occhi pieni d’illusioni e le mani vuote di concretezze sociali.
Certo il secolo che si è chiuso non può farsi perdonare due guerre mondiali con montagne, alte come le Alpi, di cadaveri, di mutilati, né le scelte genocide dei campi di concentramento e dei forni crematori o l’utilizzo di grandi ideali umani e sociali per giustificare la persecuzione sadica delle idealità diverse e la teorizzazione criminale del diritto ad uccidere ed a sterminare, in nome della giustizia (non si capisce di quale) e del progresso umano (a favore di chi?). Né può essere passato sotto silenzio – come generalmente avviene – il miliardo di analfabeti o i miliardi di persone senza casa degna di questo nome.
Ma è stato anche il secolo che ha segnato un grande progresso civile e sociale del genere umano, facendo diventare di massa nuovi concetti di libertà, di uguaglianza, di diritti umani, politici, sociali, di parità tra uomo e donna, di nuove correlazioni fra le speranze e le loro attuazioni.
Possiamo discutere come vogliamo queste affermazioni, ma è indubbia la costatazione che persone e fatti di qualche decennio addietro sembrano persi in tempi lontani, quasi satelliti artificiali sperduti nel cosmo.
Eppure uomini noti, pur non famosi, che hanno lasciato traccia di sé nelle enciclopedie ed uomini ignoti, infiniti a volerli contare, con il pregio solo della loro piccola personalità, hanno fatto storia, hanno contribuito a disegnare il multiforme profilo di un periodo, piccolo o grande, non importa, della nostra recente civiltà. Sarebbe utilmente piacevole se uomini assennati e ricchi di memoria affettiva curassero nei loro ambienti di vita il ricordo dei noti e degli ignoti destinati, chi dopo, chi prima, al più spietato degli oblî.
Forse gli storici farebbero, così, una storia più vera, i giovani capirebbero, di più e meglio, il valore della tradizione, che tornerebbe ad essere maestra di vita, senza rinunciare a vivere il loro presente ed a sperare nel loro futuro.
Per parte mia io ci sto tentando. E’ possibile che il mio tentativo potrà apparire velleitario, ma, di certo, non sarà inutile.
Poco è stato concesso all’immaginazione. Gli avvenimenti raccontati ed i personaggi descritti sono stati tratti, a piene mani, dalla realtà vissuta. Questo il pregio ed il limite dei racconti. Né li ho voluti imbellettare con immagini e frasarî ricercati o criptici. I fatti ed i personaggi, pescati dal pozzo della memoria, dovevano, da soli, tenere il campo, essere i prevalenti protagonisti.
Ci sono riuscito? Non lo so. Ai lettori il giudizio.
Comiso, 4 Giugno, 2000
G. N. C.
Gli angeli esistono
Ero stato ricoverato d’urgenza in una clinica universitaria di Torino. Bisognava ridurre di molto la pressione arteriosa, che m’aveva dato guai molto serî. Venni sistemato in una camera a due letti. Il mio compagno di stanza era un siciliano, da moltissimi anni in Piemonte, operaio qualificato della Fiat, da poco in pensione.
L’avevano ricoverato perché le era capitato più volte di passare con la sua auto con il semaforo rosso, in piena consapevolezza, ma non di sua volontà. Per i medici c’era qualcosa che non andava nel suo cervello e bisognava trovarla. A guardarlo non soffriva di niente. Puntuale nei ritmi della sua giornata, il giornale gli portava via l’intera mattinata, socievolissimo, era in rapporti di simpatia ed amicizia con tutti i ricoverati del reparto di neurologia, con i quali s’incontrava nel corridoio e nelle loro stanze. Noi diventammo rapidamente amici, anche perché le sue doti di serietà e di generosità agevolavano la corrispondenza dei nostri rapporti di stima. Tramite lui, diventai di casa nel reparto e feci conoscenza con quasi tutti i ricoverati. Senza essere soverchiamente curiosi, sapevamo molto di quasi tutti e partecipavamo emotivamente dei loro guai. Soprattutto di una ragazza albanese, giovane di 23/24 anni, già madre di due bambini, costretta a letto con un collare ortopedico al collo. Aveva perso l’uso delle gambe, quasi all’improvviso. L’équipe medica era impegnatissima nella ricerca delle cause della paralisi. Sentivamo tutti quel caso come un’inaccettabile violenza, non importava da chi perpetrata. A quell’età la vita è un diritto. Tutti speravamo, anche quelli mal messi, che ella tornasse a camminare.
I medici non si pronunziavano, ma si capiva che per loro era una malattia particolare. Era un caso non comune, perché non di apparente motivazione. A ricordare il dramma c’era il marito, giovane, alto, magro, ben fatto, che stava, ogni giorno e oltre le ore di visita, accanto a lei, o nel corridoio, drammaticamente in silenzio. Ci sembrava la umana raffigurazione della tragedia.
Nelle ore delle visite esterne, era presente, quasi ogni giorno, un amico del mio compagno di stanza. Sui cinquanta anni, ampiamente brizzolato, eretto nel portamento e con un volto incline al sorriso. Alcune volte veniva con la moglie. Me lo si presentò. Era anch’egli siciliano ed insegnava, come la moglie, Lettere in una scuola media. Non era più tornato in Sicilia, da quando, giovane, aveva lasciato la sua terra. Aveva due figlie, sposate, che lavoravano e vivevano con i mariti una vita serena.
– Ha qualche parente ricoverato? – gli chiesi.
– No, vengo per la ragazza albanese.
Il tempo in quel reparto sembrava stagnante. Come se la vita avesse ridotto i suoi ritmi. Mi sembrava come quei piccoli laghi del Tennessee che al guardarli, ti sembrano fermi e senza vita. Ti accorgi invece che la vita c’è da quegli impercettibili, sì da sembrare inesistenti, brividi d’acqua. Così, in quel reparto, al di sotto di quella falsa quiete, scandita dagli atti che si ripetevano, di vita animale, il mangiare, il defecare, il dormire, ed il rapportarsi con gli altri ridotto al minimo, c’era la vitalità della sofferenza, lo spessore di alcune paure inespresse, la corposità della speranza. Insomma, la vita pulsava.
La ragazza albanese cominciava a fare i primi passi lungo il corridoio del reparto. Ed ogni giorno che passava, andava meglio. Forse per Pasqua l’avrebbero dimessa, dopo i molti mesi di immobilità, quasi assoluta. Eravamo tutti visibilmente contenti, come se la sua guarigione fosse un segnale di buon auspicio per tutti noi, una sorta d’indicazione che anche le nostre malattie si sarebbero risolte positivamente.
Il professore, dai capelli ampiamente brizzolati, era, là, al solito, visibilmente raggiante.
– Vedo, professore, che lei è giustamente contento.
– Contento non è la parola appropriata. Sono felice, come poche volte nella mia vita.
– Mi permette, professore, una domanda? Come mai? E’ una sua parente?
– Di più. Maria tra non molto diventerà mia figlia a tutti gli effetti legali, perché io e mia moglie abbiamo deciso di adottarla. Appena Maria sarà dimessa, tornerà con il marito in Albania per riprendersi i figli. Al suo ritorno definiremo la pratica dell’adozione. Nel frattempo mi darò da fare per reperirle un’appartamentino, possibilmente ammobiliato, dove lei con la sua famiglia possa abitare.
– Le chiedo scusa. Ma sua moglie è d’accordo?
– L’ho già detto. Aggiungo che mia moglie è più determinata di me. Lo era quando Maria non poteva camminare e quando i medici, in Albania, davano poche speranze. Sua è stata la decisione di farla venire a Torino, per potere sfruttare le professionalità mediche italiane. E comunque fosse andato il ricovero, avremmo dedicato il nostro tempo, le nostre sostanze a lei ed ai suoi bambini.
– Si. Lo capisco, ma le sue figlie hanno accettato le vostre decisioni?
– Senza alcun dubbio. Senza il loro assenso non avremmo assunto una responsabilità così impegnativa. Esse sanno che questa decisione non cambia niente per loro. Noi le continueremo ad amare allo stesso modo di prima. Tutte e due lavorano, come i loro mariti e, finanziariamente, non hanno bisogno di noi. L’unico cambiamento è che, invece di due figlie, ne avremo tre ed invece di due nipotini, ne avremo quattro. I nostri tre generi ci saranno d’aiuto, quando saremo vecchi. Io amo Maria, come se l’avessi procreata. Ma l’ha guardata quanto è bella? E, mi creda, è tanto buona, quanto bella. Spesso piange, perché non si rassegna alla sua malattia. In quel momento io l’amo maggiormente e mi convinco di più che abbiamo fatto bene ad assumere la nostra decisione.
Parlai con lui altre volte, attratto ogni volta da qualcosa d’insolito, che non mi era capitato prima. Nelle favole e, qualche volta, nella narrativa dell’800, mi era capitato d’incontrare qualcosa di simile. Nella vita reale non ricordo di aver vissuto precedenti simili. Eppure ne ho frequentato gente e di varia educazione morale.
Ormai Maria camminava, anche se non speditamente. Andava al bagno da sola e presto si sarebbe liberata del suo collare ortopedico. Era certo che per Pasqua sarebbe stata dimessa.
– Si. Verrà a casa mia, per qualche giorno con il marito, prima della loro partenza per l’Albania. Intanto, da subito e durante la loro assenza, sfrutterò tutte le mie conoscenze per procurare un lavoro al marito. E’ giovane e si adatta a tutto. Andrò dal Vescovo, dai deputati, dagli amministratori regionali, provinciali, comunali, dai dirigenti di fabbrica, di aziende di costruzione, di supermercati. Sono sicuro che riuscirò a far diventare la famigliola di Maria autonoma, per quello che è possibile. Se non sarà possibile, io e mia moglie con i nostri due stipendi li aiuteremo, finché sarà necessario.
– Ma lei è proprio sicuro che le sue due figlie non saranno gelose verso chi potrebbe essere considerata un’intrusa. Anche dal punto di vista finanziario. Succede nella vita reale.
– Ascolti. Noi non abbiamo ricchezze. Solo la casa ove abitiamo. Viviamo di stipendio, che ieri abbiamo usato per le nostre figlie, per i loro studi, per il loro matrimonio ed ora lo utilizzeremo per aiutare due giovani meravigliosi a vivere in Italia, sfuggendo alla tragedia del loro Paese. Quelle preoccupazioni che Lei ha possono esserci in altre famiglie, benestanti o ricche. E, poi, mi dica, si può vivere una vita senza un nobile scopo? La salute e l’adozione di Maria rappresentano per me e mia moglie l’ultimo perché della nostra vita.
Mi guardò, sorridendo.
– Io so quello che sta pensando. Che potrei vivere meglio, più agiatamente, senza questa nuova responsabilità, che, io lo so, ha un peso. Ma l’agiatezza, ci pensi su, ha confini varî e molto sfumati, per cui ciascuno più ha, più vuole avere, in un crescendo ossessivo. E, poi, sono convinto che l’agiatezza o la ricchezza non possono essere considerate il fine della vita di un uomo.
– Chiedo scusa di questa mia domanda. Lei è un cattolico praticante?
– No, affatto. Io sono uno dei tanti o dei pochi che è convinto che, per il solo fatto di esistere, ha dei doveri di fratellanza e di solidarietà verso gli altri membri della famiglia umana. L’Umanità è la nostra naturale grande famiglia con tutti i suoi colori e tutte le sue lingue. Io faccio la mia parte. Gli altri, quelli che tengono conto di razze, di classi sociali e di altro, hanno finalità particolari ed egoistiche. Gli ideali di ricchezza e di potenza che, anche ai nostri tempi, sono le grandi finalità che ci guidano, ci hanno regalato disumanizzazione, miseria sempre più estesa giustapposta ad una ricchezza, sempre più ristrettam, a sempre più poche famiglie. E questo perché non si tiene in conto che siamo nati, tutti, dallo stesso padre, non importa se si chiami Dio o Natura.
Dimessa Maria con il professore non m’incontrai più. I suoi comportamenti e i suoi discorsi mi avevano impressionato.
Ne volevo parlare con il mio compagno di stanza, prima che io venissi dimesso.
Non trovai il momento adatto. Il suo umore era cambiato. Sempre più preoccupato.
Un giorno lo sorpresi a piangere.
– Cosa è successo?
– Ho un brutto presentimento. Stanno dimettendo per Pasqua quasi tutti. A me i medici hanno fatto discorsi strani, di nuovi accertamenti, di un mio eventuale trasferimento in altro ospedale. Ho paura del peggio.
– Ma che dice. Quando nel nostro organismo qualcosa non funziona, ci sono sempre dei segnali che avvertono. I medici li chiamano sintomi. Lei non accusa alcun disturbo. Ha una buona memoria. Il suo cervello mostra di funzionare normalmente. La verità è che i medici non hanno trovato il perché di quelle volte quando lei passava con la sua auto con il rosso al di là della sua volontà. Secondo me, non è altro.
Guardandolo, m’accorsi che non l’avevo convinto. Lo dimisero, qualche giorno dopo di me, per ricoverarlo in un altro ospedale. Seppi che aveva allevato due tumori, uno al cervello ed uno ai polmoni. Ambedue silenti. Morì qualche mese dopo. Ho sofferto, alla notizia, molto.
Ma quel professore mi aveva impressionato. Ci pensavo spesso. Raffrontavo il suo modo di essere con il mio. Parlai di lui con alcuni miei amici. “Un fanatico”, mi disse qualcuno. “Un immorale”, mi dissero altri, perché ha sottratto ciò che spettava alle figlie. “Affari suoi”, mi dissero i molti.
A nessuno era venuto il sospetto che fosse uno di quegli angeli che, ogni tanto, si aggirano per la terra.
L’indomabile don Ciccio
Ricordo ancora, come ieri, la sua visita in ospedale, dove nel dicembre del 1967, ero ricoverato per avere subito un intervento chirurgico.
Di visite di cosiddetti amici e compagni ne ricevevo molte in quel tempo, anche troppe. Decisamente influiva la circostanza che in quell’anno ero stato eletto deputato.
Quella di don Ciccio Ferro fu una visita di qualità diversa. Intanto perché egli apparteneva ad un partito diverso dal mio e perché non faceva parte dell’esercito dei questuanti. Il nostro dialogo fu quasi tutto politico per quello che mi disse e mi chiese. Il risultato della nostra conversazione risultò, da parte sua, un cocktail di fierezza politica e di disperazione umana, di rabbia verso uomini e cose e di nostalgia dei Grandi del suo passato, da Turati a Matteotti a Gigi Macchi fino ai Nenni ed ai Morandi. Ma quello che mi turbò intensamente fu il senso del dramma che baluginava dalle sue parole.
Non rinnegò mai, neanche per un accenno, la scelta ed i comportamenti conseguenti della sua vita di antifascista socialista.
– L’idea socialista fu il grande amore della vita. Tutto il resto, famiglia, ricchezza, una vita normale contavano, ma molto a distanza.
Purtuttavia il suo discorso faceva intravedere i tormentosi rimorsi per quello che aveva fatto soffrire ai suoi.
– Sono convinto che mia moglie è morta per mia colpa. Pensa che quando diede alla luce nostra figlia nel 1925, durante le doglie, la polizia invadeva la mia casa per la sua solita perquisizione domiciliare. Il fatto apparve così disumano che il maresciallo di polizia sentì il bisogno di scusarsi con il dire che lui ed i suoi uomini non avevano alcuna colpa, perché avevano dovuto eseguire ordini precisi. I fascisti sapevano che io non tenevo armi in casa, ma speravano in tal modo di stancarmi e di piegarmi.
Non c’era pentimento nelle sue parole, ma intensa delusione ed il senso drammatico del fallimento delle sue idee.
– Il Fascismo, in Italia, è crollato. Al suo posto ci sono la Repubblica ed il Parlamento. Il mio Partito, il PSI, è al Governo. Si. E’ vero. Ma la mia impressione è che il tutto stia tornando come prima. Comanda, già ora, chi comandava prima, talvolta, persino, gli stessi uomini e le stesse famiglie. Anche il mio Partito sta diventando come gli altri partiti. Dove sono andati a finire gli antichi ideali socialisti di libertà ed uguaglianza? Una volta, per tattica politica, un’altra volta perché i tempi sono cambiati, ma l’impressione che ogni giorno diventa più netta, è che il mio partito sembra voglia rinnegare se stesso, a tal punto da diventare altro da quello che era. Altri gli ideali, altre le parole, altri i comportamenti dei nuovi socialisti ed in parte anche dei vecchi.
Qualche volta mi viene da piangere. Non mi vergogno a dirlo, alla mia età. Io che non ho pianto mai nei venti anni di persecuzione fascista, neanche quando mi arrestavano, ogni qualvolta un gerarca fascista veniva a Comiso, con la motivazione che ero un uomo pericoloso, un sovversivo da controllare. A nessun altro del nostro Comune veniva riservato questo trattamento. Non ho pianto nemmeno quando mi si impediva di partecipare ad appalti pubblici per lavori inerenti al mio mestiere di falegname. Eppure io mi ero diplomato alla Scuola d’arte come maestro d’arte. Qualche volta li prendevo per il culo perché pregavo qualche amico di partecipare per mio conto. Ma, ogni volta, era per me un’umiliazione. Le finestre esterne, ad esempio, della Manifattura Tabacchi le ho fatte io, sotto altro nome. Per fortuna gli amici mi aiutavano, facendomi lavorare, finché non ho deciso di cambiare attività facendo il bottaio.
Comunque, dal punto di vista economico, la vita della mia famiglia, anche se modestamente, non è andata male.
A questo punto della mia vita, a 80 anni, mi domando, però, spesso: dati i risultati che abbiamo davanti ai nostri occhi, a cosa sono serviti i venti anni dei miei sacrifici o il confino e la galera di tanti antifascisti o la morte durante il Fascismo e nelle lotte armate della Resistenza di quelli che avevano creduto nella Democrazia e nel Socialismo. Forse per costatare che anche il mio partito sta diventando un’organizzazione di opportunisti, di arrivisti ed alcune volte di disonesti e che il capitalismo continua a gestire la società come prima e più di prima. Voi giovani insistete nel dire che alcuni cambiamenti ci sono stati e che bisogna avere fiducia nel domani. Ma io di fiducia non riesco ad averne. I pupari sono rimasti gli stessi. Forse sono cambiati alcuni nomi o se ne sono aggiunti altri, ma il rapporto di chi lavora e chi comanda è rimasto lo stesso o è peggiorato, perché la gente si rende meno conto della propria subordinazione sociale e si ribella di meno. Ogni persona è per conto suo. Manca il senso della solidarietà sociale, che si sentiva ai miei tempi e che si trasformava in associazioni, in cooperative, in organizzazioni di mutuo soccorso. Io, anche quando il Fascismo mi toglieva il pane di bocca, aiutavo chi stava peggio di me mettendogli, talvolta, i soldi sotto il cuscino, per non offenderlo, senza pensare al danno che procuravo alla mia famiglia, a cui è venuto meno gran parte di quello che avevo avuto da mio padre e che avevo guadagnato con il mio lavoro. Solo quando mia moglie morì, cominciai a rendermi conto dei miei errori di comportamento e delle mie responsabilità per la morte di lei, per la paura e le amarezze che le avevo imposto. Ebbi come un’illuminazione che mi fece pensare al suicidio. Mi sentii colpevole e disperatamente solo. In quei lunghi venti anni di persecuzione e di solitudine la mia famiglia era stata il punto d’appoggio reale della mia vita.
Ma perché mi guardi in silenzio? Non mi credi?
– No, no – replicai immediatamente – solamente che io mi sono formato politicamente in modo diverso. Per me la politica e la società sono la proiezione di una particolare situazione economica, per Lei sono il riflesso di una condizione morale. Le conseguenze delle due concezioni sono evidenti. Io cerco di spiegarmi gli avvenimenti secondo la teoria di Marx, per Lei l’impatto con gli avvenimenti è, soprattutto, emotivo e moralistico. Mi rendo conto che le delusioni politiche fanno male. Malgrado le apparenze, il discorso comincia a valere anche per me. Di certo è che alla sua età si tende a rileggere il proprio passato, alla mia età a guardare il futuro e, soprattutto, a preoccuparsi del che fare, a parte il nostro diverso concetto della politica. Non posso dimenticare, però, che senza i sacrifici e le lotte di voi antifascisti noi non saremmo quelli che siamo. Cosa faremmo e diremmo oggi, noi giovani generazioni politiche, se voi non ci aveste dato la Democrazia e la Repubblica, per quello che esse sono? Lei non può dimenticare questi suoi meriti.
– U sacciu, u sacciu ed è pi chistu ca certi voti piensu a chi campu a fari. Oramai non siervu a nenti. Chiddu c’avia a fari u fici.
– Don Cicciu che significa ‘non siervu a nenti’? Non le basta quello che ha fatto e quello che ha dato alla gente ed anche a noi che facciamo politica? Se, oggi, noi viviamo in una società di uomini liberi, se non di uguali, il merito è, soprattutto, vostro, di voi antifascisti. Ora Lei serve alla sua famiglia ed il suo esempio di vita conta per noi. Serve, per lo meno, a convincerci che l’Umanità può essere una fitinzia, ma ha anche uomini come Lei, che la riscattano e la onorano.
Mentre parlavo sentivo su di me i suoi occhi limpidi ed il suo sguardo diritto e fiero, come volesse radiografarmi.
– Si. Tutto quello che vuoi, ma non sopporto che il mio Partito stia diventando un’altra cosa: il partito di chi si vuole fare i fatti suoi, un partito di affaristi. Niente a che fare con quello che era. E’ il tuo partito che si è appropriato dell’eredità delle idee socialiste. La gente viene da voi perché vi crede, senza capire che il vostro socialismo, come in Russia, toglie delle diseguaglianze, ma ci farebbe vivere come in una caserma. E di ciò la colpa è del mio Partito.
In verità, don Ciccio lo intuiva a naso, si viveva in un periodo di profonda svolta politica (decennio ’60-’70). La partecipazione al governo dei socialisti con la DC aveva provocato la scissione nel PSI a sinistra (PSIUP) e la sua unificazione, a destra, con i socialdemocratici che ripresero, poi, nel 1968, la loro indipendenza di partito. L’entrata al governo del PSI aveva prodotto, forse inevitabilmente, l’inizio di una mutazione ideologica. Non erano i socialisti a modificare la DC, ma era il contrario.
L’impressione che io ebbi in quella conversazione fu che don Ciccio non era riuscito a razionalizzare politicamente gli avvenimenti politici del tempo e che il suo rapporto con la sezione socialista di Comiso, la sua famiglia politica, era diventato difficile, soprattutto, per incompatibilità ideologica e morale. Alcuni suoi compagni reagirono a tale situazione aderendo al PCI. Per don Ciccio questa possibilità era assurda e contronatura.
Facendo visibilmente uno sforzo su se stesso mi disse:
– Ti posso chiedere un favore? Desidero affidarti una mia lettera, da aprire alla mia morte. Non è un testamento. Voglio far conoscere le conclusioni a cui sono arrivato in questi ultimi anni della mia esistenza. Ho, ormai, 80 anni e sono consapevole che il più della mia vita è passato.
Non mi aspettavo una tale richiesta. Mi spaventò come se sotto quella richiesta covasse il fuoco della tragedia.
– Don Ciccio, mi deve scusare. Non posso. Sono ancora giovane e non posso assumere una responsabilità di quel tipo e la gente non capirebbe perché Lei ha affidato a me e non alle sue figlie il suo testamento morale. Per le sue figlie, poi, sarebbe un’umiliazione ingiustificata. No. No, mi dispiace, ma non posso.
Il discorso sul suo non servire a niente portava all’atto estremo, come ad una delle conseguenze. Ne ebbi paura. La sua famiglia mi avrebbe potuto rimproverare di leggerezza o, peggio, di colpevole indifferenza.
Il suo smisurato orgoglio non gli permise d’insistere. Sentii i suoi occhi su di me sì da crearmi disagio. Come se volessero scoprire l’al di là delle mie parole. Dovevo cambiare discorso.
– Don Ciccio, una curiosità. In mezzo ai tanti suoi guai politici, qual è stato il suo ricordo più bello?
– Quando fui invitato dal Comune per festeggiare la caduta del Fascismo. Mi vestii a festa e vi andai con mia figlia. Era una festa che avevo aspettato per più di vent’anni. C’era tanta gente che, in verità, non avevo conosciuto per antifascista. In quel momento, però, m’importava solamente che quel ricevimento consacrava la fine del Fascismo, almeno in Sicilia. Commissario prefettizio al Comune era, allora, il dottore Nicastro, funzionario statale, che si diceva essere liberale.
– Ed il ricordo più amaro?
– Quando all’entrata degli Americani in Sicilia ed a Comiso, io fui arrestato e condotto in carcere a Vittoria. Gridai con rabbia, protestai, minacciai, ma la decisione restò immutata. Mi si disse che ero un soggetto pericoloso, nemico degli Americani perché sovversivo ed avverso al sistema democratico, in quanto socialista. La denunzia contro di me era partita da un prete della Chiesa dell’Annunziata, padre Leone, un fascista, e l’ordine del mio arresto dal podestà Bellassai, da sempre fascistissimo. Un assurdo. Quelli che dovevano essere arrestati, erano nelle condizione di denunziare e far arrestare gli antifascisti, che avevano pagato di persona l’avversione al Fascismo.
– E come si risolse la beffa?
– A Vittoria i compagni e gli amici inscenarono una grande manifestazione di protesta. L’avvocato Molé mio difensore ed antico socialista dimostrò l’assurdità del mio arresto, operato a danno di chi era stato da quaranta anni socialista a viso aperto e che per più di venti anni aveva subito persecuzioni per le sue idee antifasciste e socialiste. Venni rilasciato subito. Intanto anche a Comiso ci furono manifestazioni. Addirittura il Sindaco di Comiso, commendatore Morso, che in seguito sarà eletto deputato nella lista liberalmonarchica al Parlamento regionale, veniva pregato di uscire dalla Chiesa Madre, che da tempo era considerata di simpatie socialiste e che aveva subito un tentativo di incendio da parte dei fascisti.
– Che cosa si rimprovera del suo passato?
– Quasi niente. Quello che ho fatto, lo dovevo fare. Mi rimprovero, solamente, di avere preferito la ‘gente’ alla mia famiglia e di avere speso grande parte di quel poco mio avere, per assistere quelli che stavano peggio di me, ad alcuni dei quali, spesso, lasciavo dei soldi sotto il guanciale, per non offenderli.
Forse perché si era accorto che ero stanco o perché aveva ritenuto conclusa la sua visita, senza preliminari, si alzò, mi salutò con l’impegno di rivederci, di continuare la nostra conversazione. Non è stato così. Qualche volta c’incontravamo, ci facevamo festa e subito un arrivederci.
Dopo meno di quattro anni, nel 1971, è morto suicida.
I motivi del suicidio possono essere stati tanti. Da quelli fisiologici (depressione) a quelli politici (il fallimento del suo sogno politico) o sentimentali (mutazione della sua famiglia politica, che aveva anteposto a quella privata, per cui il doloroso, irrimediabile pentimento).
Ma ricercare i motivi del suo suicidio non ha senso. Quello che campeggia nel ricordo di alcuni di noi è la sua imparagonabile, fiera e indomabile personalità politico-morale.
Purtroppo la sua città è stata colpevolmente disattenta.
Se così non fosse, un busto o una strada (possibilmente quella dove visse) gli sarebbero stati dedicati.
E’ vero. I tempi odierni non sembrano adatti per valorizzare coerenza e fierezza di comportamenti, ma la speranza è ultima a morire.
Un pacifista statunitense
Capita a molti di avere momenti di depressione. Specie quando si è anziani, perché le discordanze tra l’immaginato ed il reale fanno più gioco per motivi varî, compreso quello del residuato della cultura romantica della propria giovinezza. Momenti che ognuno risolve in modo proprio. C’è chi fa finta di ignorarli, chi li razionalizza, chi tenta di superarli con l’attivismo.
Io non potevo dire di esserne stato immune. Specie nel periodo dell’impegno pacifista. Mi deprimevano le manifestazioni d’insensibilità di tanta gente verso il riarmo nucleare e verso la reale evenienza di una possibile terza guerra mondiale. Erano disarmanti i ragionamenti, sostenuti da un intenso sostegno mediatico, che si facevano.
“L’Occidente libero e ricco ha il dovere di difendere le sue libertà e i suoi beni acquisiti”. “Non ci sarà una nuova guerra. E’ noto a tutti cosa significherebbe. La lotta per la Pace è un bluff politico”. “Il riarmo è un male necessario, che si fermerà al momento opportuno”.
Argomentazioni che avevano facile presa sulla gente semplice.
Sono stati i giovani a vincere su tutto con le loro semplici convinzioni, la loro capacità di sacrificio, la loro generosa vitalità, che non si sono lasciati intimidire dalla immensa potenza dell’avversario, che aveva tutto dalla sua. Il mito di David e Golia sembrava ripetersi. Quelli di noi che, figli della razionalità, ci facevamo prendere alla gola dal dubbio, riconquistavamo fiducia ed ottimismo, allorché ci immergevamo nelle immense ed entusiaste manifestazioni pacifiste e ci impegnavamo nelle varie azioni di lotta non violenta.
Il comportamento e i ragionamenti di Ping mi davano sicurezza.
– Sii sicuro, la spunteremo, perché nessun governo al mondo può resistere alla pressione di un’opinione pubblica giovane ed entusiasta. Si tratta di convincere quella parte che non ha fantasia e che ha paura del potere e, soprattutto, quella parte che non crede ancora che noi stiamo combattendo non solo per la vita di tutti, ma anche per la libertà di tutti. Né dobbiamo avere paura delle ideologie. Se esse concorrono allo stesso fine nostro, tanto meglio. Tu ed io siamo diversi, pensiamo diversamente, ma siamo assieme a condurre la stessa battaglia, disposti ad offrire tutto quello che siamo in grado di dare.
L’organizzazione pacifista americana a cui Ping apparteneva si denominava “Clergy and Laity concerned” ed era formata da laici e religiosi, in prevalenza protestanti. Non era d’antica costituzione e si era rafforzata nel frangente pacifista.
A Comiso avemmo notizia di loro, in occasione di uno sciopero di protesta della fame, condotto da nove digiunatori, per undici giorni, italiani, francesi, inglesi, canadesi, americani, ospiti nelle ore notturne di un Convento di Padri Conventuali.
La posta per la cessazione dello sciopero era alta. Essere ricevuti dal Presidente della Repubblica, dal Governo nazionale ed ottenere un’ora di accesso alla TV di Stato. Nessuno di noi era convinto che avremmo portato dalla nostra parte le Autorità di governo. Ma l’ottenimento delle nostre richieste ci avrebbe fatto notevole propaganda.
In quell’occasione “Clergy and Laity”, si fa presente con un messaggio telegrafico da New York con il quale assicurava “entusiastico appoggio per il digiuno e la continuazione della campagna di solidarietà”, al fine di tenere fuori i missili americani dalla vostra “isola”.
L’iniziativa significava molto. Era per noi la prima volta che un’organizzazione pacifista americana assumeva posizione non generica e si impegnava a svolgere attività negli USA, nello Stato di New York, a nostro favore.
Il 16 novembre 1982 la delegazione USA è a Comiso. La guida Ed Grace, direttore del Centro ecumenico italiano, in Roma, che ci fa anche da interprete. Vi fanno parte W.M. Ferrj, Wallace Alston, pastore nero, Vincent Mc Guee, John Collin, in rappresentanza di specifiche organizzazioni laiche e religiose. Non sono giovani e si muovono con compostezza. Il più anziano è Ping Ferrj, circa 70 anni, ed è il membro di maggiore prestigio. E’ una delegazione indubbiamente differente dalle altre. Più compassata e, soprattutto, estremamente desiderosa di capire. Ciascuno dei membri ci domandava: Che cosa è il Cudip (Comitato Unitario per il Disarmo e la Pace)? Quanti pacifisti operano in Comiso? Quali le differenze tra il Cudip e le altre organizzazioni pacifiste? Perché l’organizzazione femminista si teneva appartata e si considerava autonoma da tutti? Quale influenza dei partiti sul movimento? Esiste dipendenza del Cudip dal Partito comunista italiano? Era vero che esistevano reali differenze tra i comunisti italiani e quelli sovietici?
Demmo le risposte che potevamo. In genere non ci piaceva rasentare i campi minati delle ideologie e della politica militante. Avevamo paura di mettere in discussione l’unitarietà ideale e d’azione del nostro movimento. La dirigenza del Cudip era un capolavoro d’equilibrio, formata da quattro italiani, da un tedesco, da un olandese, un francese, una canadese, una tedesca. Comunista, iscritto al Partito comunista, ero solo io. Dirigenza che aveva i suoi aspetti positivi e negativi. Permetteva il dialogo con tutti i gruppi pacifisti, operanti a Comiso, facendo superare l’handicap comunista. Creava, però, diffidenza e perplessità nel grosso della base popolare e comunista, che diffidava dei comportamenti dei gruppi pacifisti italiani e stranieri. Aggiustava, in parte, il tutto il fatto che a capo di una tale organizzazione stava un comunista militante per il quale si continuava ad avere antica fiducia politica.
Essendo il più anziano d’età Ping venne ospitato nella mia abitazione. Fu questo l’intrecciarsi di un particolare rapporto di stima costruito con un linguaggio, in assenza dell’interprete, fatto di gestualità, di misteriosissime corrispondenze intellettuali.
Ping somigliava ad un gentiluomo inglese di campagna, come descritti dalla narrativa inglese del secolo scorso, con i suoi basettoni lunghi, la sua giacca di cashemir, il cappello floscio a falde calate, il suo comportamento compassato e la conversazione ridotta all’essenziale. Mi dava il senso di un uomo reso saggio dalle vicende della vita, che dovevano essere state varie e complicate e che nonostante i successi finanziari lo avevano mantenuto semplice e modesto.
La delegazione era venuta in Italia, prima tappa di un tour europeo, per rendersi conto della consistenza e della qualità del movimento pacifista e offrire ad alcuni movimenti dei congrui aiuti finanziari.
– Il denaro ad un movimento – diceva – è necessario come le munizioni ad un esercito.
Anche a Comiso bisognava scegliere il gruppo da sostenere.
Il Cudip si considerava fuori concorso. Il Presidente del Cudip era un comunista ed anche se gran parte della dirigenza non lo era, il grosso dei militanti lo era. Sembrava difficile che soldi americani andassero a favore di una organizzazione sospetta o per lo meno discussa. Gli altri gruppi pacifisti, in un modo o nell’altro, con estrema delicatezza, lo sottolineavano. Gli incontri degli americani con gli altri gruppi furono lunghi e, si disse, anche complicati. Non così con il Cudip. Con lealtà ci dissero che avevano delle remore a finanziarci perché una decisione in tal senso non sarebbe stata molto capita dai finanziatori negli USA. I pacifisti stranieri del Cudip sottolineavano con forza che essi garantivano l’assoluta apartiticità dell’organizzazione e che in una lotta, quale quella che si stava conducendo, non era ammissibile una qualsiasi discriminazione di carattere politico. Dissi che io comprendevo lo stato d’animo degli amici americani e che, per quello che ci riguardava, noi avremmo continuato con l’autofinanziamento. Consideravamo la decisione americana assolutamente legittima e libera, qualunque essa fosse stata. Un atto d’orgoglio il nostro che, forse, fece colpo.
Grande fu la nostra meraviglia quando Ping Ferrj ci comunicò che il Cudip era stato scelto quale beneficiario del contrributo del “Clergy and Laity concerned”.
– Scusami, Ping, perché avete scelto noi? Voi sapete che noi siamo per il disarmo bilaterale con assoluta convinzione, ma siamo anche contro l’organizzazione capitalistica della società con la stessa assoluta convinzione.
Ping accennò ad un sorriso. L’unica condizione che ci venne posta era la tenuta di un bilancio annuale delle entrate e delle uscite, l’accettazione di eventuali controlli di legittimità delle spese.
La risposta di Ping fu estremamente pacata, come se l’avesse elaborata da tempo.
– Noi sappiamo che la Russia non vi finanzia e che raccogliete il denaro che vi serve tra la gente. Qualche volta ricevete dei finanziamenti indiretti da organizzazioni pacifiste europee. L’amico tedesco e quello olandese, ad esempio, ricevono un piccolo aiuto mensile dalle loro organizzazioni di appartenenza. E soprattutto, siamo convinti che le ideologie devono restare dietro la porta. Un precedente c’è. Durante la guerra contro il fascismo russi ed americani sono stati alleati. Il riarmo è il nuovo fascismo che ci costringe ad essere alleati. Abbiamo scelto voi perché ci date più garanzia di continuità nel lavoro comune. Dipende da voi il mantenimento della nostra fiducia. Personalmente sono convinto che voi siete corretti. Anche qualche amico mio ha espresso dubbi sulla scelta, ma io ho replicato che senza prove ogni giudizio può essere sbagliato. Sarà il tempo a darci la verità.
La sera prima della partenza della delegazione americana, con Ping parlammo del nostro privato. Quasi una pudica dimostrazione del salto di qualità del nostro rapporto.
– Ping, ho una curiosità. Perché e cosa ti ha fatto diventare un’attivista pacifista? Ognuno di noi ha motivi suoi, che sono diversissimi. Motivi politici, culturali, sentimentali, pragmatici. E non mancano quelli opportunistici. Riflettendo su di te i miei conti non quadrano. Il senso della tua vita passata d’imprenditore, le tue notevoli condizioni finanziarie, la cultura del diritto del più forte, che è stata alla base della tua attività manageriale, non si accordano con le concezioni pacifiste, che, al di là delle differenze, esprimono l’esigenza primaria della prevalenza e della valorizzazione dei diritti dell’uomo.
Ping mi guardò a lungo con occhi che mi sembrarono carichi di perplessità. Violavo la sua privacy? Può darsi.
– Voi europei siete troppo impastati di filosofia, noi americani siamo più pragmatici, come voi dite. Io non sono in condizione di dare una risposta alle tue domande. Il motivo principale della mia scelta è stato psicologico.
Una sera d’inverno ero seduto davanti al camino con la mia Carol. Il fuoco scoppiettava e mi aiutava a riflettere sul da fare in questa ultima parte della mia vita. In genere, non mi piace soffermarmi sul passato, perché, come dice una nostra canzone, “le porte del passato sono tutte chiuse”. Le mie condizioni finanziarie sono buone e, pur senza che io lavori, migliorano ogni giorno. I miei figli hanno la loro vita e sono diventati dei cari amici lontani. La mia vita con la mia Carol è serena, estremamente semplice. Mi dà il senso della felicità. Ma quale era il senso della mia vita? E così giorno dopo giorno, con l’aiuto di alcuni amici, scoprii che valeva la pena di impegnarsi per bloccare nel mondo il riarmo nucleare ed impedire, di fatto, una terza guerra mondiale. Ma come? Raccogliendo soldi tra colleghi ed amici per aiutare le organizzazioni pacifiste nel mondo a portare avanti il loro impegno, specie nelle zone strategiche calde, come Comiso. Costituimmo un’associazione, avemmo fortuna, anche se abbiamo dovuto superare notevoli difficoltà. Un argomento decisivo per convincere alcuni a dare i soldi è stato che i contributi che essi offrivano per la Pace potevano essere detratti dalle tasse annuali. Non sono pentito di quello che ho fatto. Fra l’altro sto scoprendo realtà umane ed ambientali che non immaginavo esistessero ed ho annodato amicizie che mi danno gioia.
Dopo Comiso la delegazione americana continuò il suo programma nel resto dell’Europa.
Nel dicembre 1987 c’è festa a Comiso per la decisione americana e del Governo italiano di convertire la base missilistica in struttura civile. Il 7 novembre 1988 Gorbaciov, a nome dell’URSS, aveva annunziato il ritiro unilaterale dall’Europa di 500.000 soldati, di 10.000 carri armati e di 800 aerei.
Si concludeva, così, per Ping, per me e per molti altri, un periodo della nostra vita. Il dolorosamente ridicolo è stato che i festeggiamenti vennero organizzati dai pentiti del pacifismo e dai rappresentanti del vecchio e sconfitto riarmismo. Un comunista era, a quel tempo, il Sindaco di Comiso.
Parlai con Ping di una tale dolorosa contraddizione nella sua villa di Port Hill, a Scardale (New York), quella volta in cui andai a fargli visita.
Mi accolse, da par suo, con signorile generosità. Era fiero della sua villa, dei suoi alberi plurisecolari, dei suoi ricordi conservati nella biblioteca di famiglia. C’era però, un senso di distacco, nei gesti, nel tono della voce, che contraddiceva con l’enfasi con cui mi rispondeva. Faceva da interprete mia figlia.
– Caro Giacomo, quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto perché era giusto farlo e non per essere ricompensati con la gratitudine. Se così fosse stato, il tutto si sarebbe sminuito in una sorta di contratto commerciale di tipo particolare. Tu ti sei battuto per impedire il riarmo nucleare e rendere più difficile una nuova guerra mondiale. Questo ti deve bastare. Il resto appartiene ai tanti nanerottoli, incapaci di vivere grandi sentimenti e che considerano i rapporti umani un baratto continuato. Io non conosco la politica italiana e non ho frequentato quella del mio Paese. Sono convinto, però, che in quell’ambiente l’onestà dei sentimenti è rara e che la disonestà, spesso, si traduce in cinismo.
Non c’incontrammo più. Alimentammo i nostri ricordi con un panettone, inviato da me, ogni fine d’anno, e con l’invio da parte sua di un antico dolce texano, il “fruit cake”. Ciò fino alla sua morte, nel settembre del 1995. La moglie Carol vendette tutto e chiese ospitalità in una casa di riposo. Non se la sentì di padroneggiare i troppi ricordi nella casa dove era vissuta con Ping.
Salutò con un dono d’addio i suoi amici, noi compresi, e scomparve nella serenità della sua solitudine in una casa di riposo di un qualche Stato americano.
Voglio sperare che l’Umanità avrà ancora molti Ping.
Un’avventura mancata
Diceva di chiamarsi Brigitte, ma il suo era, probabilmente, un nome d’elezione. Il perché non lo so. Una volta glielo domandai. Mi guardò sorridendomi e mi rispose:
– Così! E’ capitato. Un modo come un altro per differenziarci. Da voi, in Sicilia, invece, il nome ha dei significati nascosti e magici.
– Si, è vero – annuii – fino a poco tempo fa, essi rappresentavano la continuità delle famiglie: i figli maschi portavano, in genere, il nome dei nonni paterni. Per le donne la tradizione era meno rigida, tenuto conto che esse erano destinate a far parte di un’altra famiglia. Ora la tradizione è divenuta meno costante. Ha giocato l’esigenza generalizzata della modernizzazione. Almeno quella che non sconvolge troppo i sacri principii.
Queste informazioni le recepiva con l’avidità di un’assetata.
Brigitte, una pacifista della Germania Est, era abbastanza integrata nel modo di essere del nuovo Stato. Era convinta della necessità di una guida politica, quale il Partito, per la costruzione di una nuova società, che garantisse, a differenza di quelle precedenti, ai cittadini “libertà sostanziali” e non formali. Ma non faceva delle sue convinzioni dei tabù indiscutibili. Era curiosissima di ciò che avveniva fuori dal suo Paese e palesemente soffriva per le limitazioni imposte dal regime ed anche per le deformazioni della stampa occidentale sulla nuova società tedesca dell’Est.
– Un conto – diceva – è eliminare un tipo di società ingiusta, che ha dato per millenni potere e ricchezza infiniti ai “pochi”, inventando, volta a volta, nuove ideologie, altro conto è imprigionare l’indomabile creatività del popolo, che ha tanti diritti insoddisfatti, ivi compreso il fondamentale di scegliersi il suo modo di vivere.
Era convinta che queste esigenze culturali e di vita nei comunisti italiani erano più presenti e formavano una nuova teoria politica denominata “la via italiana al Socialismo”.
Ci eravamo incontrati con lei in uno dei primi meeting pacifisti, che dovevano servire “per contarci” e per “contare” e per far sapere che eravamo in tanti quelli che non avremmo permesso, in ogni modo, un riarmo di tipo nucleare o, peggio, una guerra nucleare.
Brigitte parlava un italiano elementare, schematico, con un accento molto poco italiano. Pur tuttavia, a modo suo, si faceva capire. Suppliva alle sue difficoltà di linguaggio con i suoi occhi ridenti, che ti guardavano diritto e con una gesticolazione, che somigliava a quella siciliana. Non aveva il corpo della sua omonima Bardot. Alta, ma non troppo, un corpo forte, morbido, senza grasso superfluo, trentenne, cosce forti e ben fatte, che si mostravano per una gonna corta e leggera, seni piccoli, che si facevano intuire sotto la camicetta. Una movenza complessiva elegante, affatto studiata, che, appunto per ciò, non poteva non essere notata. Ai piedi, calzini corti, bianchi, in scarpette da ginnastica. Capelli castano-rame abbondanti, collo bianco e leggermente lentigginoso come il viso. Il tutto te la faceva somigliare ad una giocatrice di tennis.
Era venuta lei da noi.
– Per meliorare mio italiano.
In breve tempo diventammo assidui. Lei faceva domande ragionate, quasi le preparasse di notte. A me piaceva spiegare, sforzandomi di essere chiaro e convincente. Mi sorprendevo talvolta ad autolusingarmi. Lei era contenta.
– Ho dolore tu andare via presto. Io imparare con te, in un giorno, quanto due anni studiare con libri.
In verità, erano la sua curiosità e la sua intelligenza che facevano miracoli.
– Si, ci comprendiamo noi due, come nati dallo stesso ceppo.
– Cosa volere dire stesso ceppo?
Spiegai il significato figurato di ceppo.
– Io capire ceppo. Che noi due pensare, immaginare stesse cose, senza avere fatto stessi studi, perché nostra anima uguale. Come noi due essere amanti.
– Si, ho capito che tu hai capito. Però io ho sessanta anni e posso essere tuo padre o tuo nonno e non un tuo amante.
– Ma tu non essere mio padre. Essere solo uomo con più anni di me. Ed essere anche uomo con idee, parole, sentimenti meravigliosi.
Cambiai discorso, perché intuivo che per me, siciliano, stavamo rasentando un terreno minato. Pur tuttavia sentii che questa ultima discussione non si era conclusa, per me, senza conseguenze. Brigitte, improvvisamente, non era la bella ragazza tedesca, che lusingava il mio senso del bello, non era l’occasionale “alunna” straniera, che lusingava il mio orgoglio di insegnante, di comunista italiano, di siciliano, di cui aveva detto di volere conoscere l’anima, che aveva intuito diversa da quella italiana. Si era trasformata in una ragazza piacente, che stimolava in me desideri particolari. Si era scatenata in me la tipica sensualità siciliana, alquanto animalesca, impastata di repressioni sessuali, di orgogli maschili soffocati, di sogni rimasti tali, propri di una società che ha identificato il sesso con il peccato.
Certo è che dopo quel dialogo non riuscii a non guardare il suo corpo, o alcune parti di esso, con occhi sereni. Facevo il possibile perché lei non se ne accorgesse. Qualche volta ci riuscivo, spesso no.
Continuavo a parlare, a rispondere, a spiegare, ma sovente mi distraevo.
Ora le sue mani mi sembravano magiche di sensualità, le sue labbra morbide di ogni immaginabile delizia di sensi.
Brigitte lo avvertiva e si sentiva a disagio. Me ne accorgevo perché sempre più spesso tirava in giù la gonna per coprire quanto più possibile le bianche e forti cosce, perché cominciò a vestire blue jeans e magliette accollate con mezze maniche. Ma ambedue sapevamo che il nostro rapporto era mutato. Ambedue aspettavamo che l’altro invalidasse la falsificazione del nostro comportamento. Lei non poteva sapere che per un siciliano il celare quello che pensa è parte integrante della sua secolare cultura, modellata, nel tempo, da un necessitato modo di vivere fatto di apparenze.
Io avrei resistito e vinto. Sarei ripartito senza avere manifestato niente con parole ed atti di ciò che si era scatenato dentro di me. La mia cultura m’impediva di essere esplicito. Non così per Brigitte.
Il giorno prima della partenza mi guardò a suo modo e mi disse:
– Giacomo, tu da qualche giorno guardare me modo diverso. Mia impressione tu volere fare amore con me e non volere dire. Niente male. Io non considero tuo desiderio cosa brutta. Per me il desiderio è un impulso spontaneo della natura. Vale per gli uomini e per gli animali. Ma tu non essere mio uomo. Io essere incantata tua cultura, tua parola, non tuo corpo, non modo tuo immaginato di fare amore. Io avere mio uomo e che mi dà piacere in tutto. Se tu volere fare assolutamente amore con me, posso accettare e tu venire questa sera mia casa. Ma cosa significare tutto questo? Distruggere nostri ricordi ancora belli ed anche nostra amicizia. Ora decidere tu. Io accettare tua decisione.
Fu come ricevere un secchio d’acqua ghiacciata sul volto. Inimmaginabile una siffatta reazione, che era anche una manifestazione di avanzata civiltà morale.
Mi ripresi a fatica, ammirato e vergognato.
– Brigitte, hai ragione, sono stato uno stupido. L’interpretazione sbagliata di alcune tue parole ha scatenato la millenaria fame di sesso, che i siciliani ci portiamo appresso. Da noi l’amore è un dovere esistenziale nei confronti della moglie. Al di fuori del matrimonio il sesso è considerato mercenario, clandestino, peccaminoso. Anche in me, nonostante tutto, c’è un cuore antico che spesso prevale.
– Io non avere capito alcune cose del tuo ragionamento, ma ti ringrazio ugualmente, perché tu avere fatto capire della cultura del tuo popolo ciò che da sola non avrei potuto capire. E’ affascinante la vostra istintività ed il vostro senso dell’amore.
L’indomani, in partenza, ci salutammo. Umidi i suoi occhi, bellissimi. Nella commozione del distacco dimenticammo di darci i reciproci indirizzi.
In Sicilia mi capitò di raccontare la vicenda a qualcuno dei miei amici. Il commento fu che ero stato un coglione romantico.
– Non lo raccontare a tua moglie, perché non ti crederà.
Un dialogo indimenticato
con un Presidente della Regione siciliana
– E’ vero. La gente non intuisce quanto difficile sia la vita del parlamentare, ove sia condotta con la dovuta coerenza. La gente ci invidia anche quello che non abbiamo: i privilegi di un potere assoluto che non esiste, anni di felicità inesistenti e non immagina gli ossessivi, quotidiani condizionamenti, che ci rendono la vita difficile e frustrante. Tu ti lamenti che fai fatica ad arrivare alla fine del mese, nonostante le cene serali a pizza e birra. In verità le trattenute mensili del 55% dell’indennità parlamentare operate dal vostro Partito pesano notevolmente. Eppure anche voi siete considerati dei privilegiati. Io non ho i problemi vostri, ma sono costretto a sostenere un’organizzazione burocratica-politica, che voi definite clientelare e non lo è tutta, ed un rituale sempre più vasto e costoso di regali al fine di mantenere ed ampliare un elettorato, in gran parte, non ideologizzato. Anche a me resta poco o niente della nostra indennità. Naturalmente c’è chi è moralmente fragile ed allora cerca vie illecite per risolvere i propri problemi di sopravvivenza politica. Però, mi posso sbagliare, ma ho la sensazione che fra non molti anni anche voi non vi differenzierete molto da noi, in tante cose.
Di queste cose e di altro parlavamo con Pier Santi Mattarella, una sera, seduti nella sala dei Viceré del Parlamento siciliano, in attesa della ripresa di una seduta d’aula.
– Scusami, Pier Santi, ma il discorso così fatto non mi convince. Qualcuno potrebbe dire: “Ma allora perché ci state? Anzi perché vi azzannate tra di voi per starci?” La verità è che c’è qualcosa dentro di noi che ci fa sopportare i disagi di cui parliamo ed anche quelli che, per pudore, non esprimiamo. Che cosa sia questa “cosa” non te lo so dire. Talvolta è qualcosa di molto nobile, talvolta non lo è. E’ comunque un sentimento totalizzante, che emargina tutti gli altri. Il fatto, poi, che da voi come da noi ci siano opportunisti ed avventurieri non muta, sostanzialmente, la regola.
– Già, tutto questo è vero. Per quanto mi riguarda, caro Giacomo, io ho paura persino di tentare di capire.
Pier Santi era più giovane di me di 11 anni, ma, come deputato, era più anziano di una legislatura, essendo stato eletto nel 1963. Ci frequentammo subito dopo la mia elezione, perché ci capitò di sedere, da subito, nelle stesse commissioni parlamentari.
Fummo costretti ad avere rapporti diretti, a discutere, a trattare ed a patteggiare perché di quelle commissioni ero il Vice Presidente, in quanto rappresentante del gruppo d’opposizione più numeroso, e lui Presidente, in quanto espressione della maggioranza dell’Assemblea regionale.
I nostri rapporti parlamentari subivano gli alti e i bassi dei rapporti politici dei nostri partiti d’appartenenza, quelli amicali diventavano sempre più intensi, vivificati dalla stima e dalla fiducia reciproche. Nell’ambiente parlamentare questo durò fino al marzo 1979, allorquando con la caduta del governo di “solidarietà democratica” (primo caso in Italia), presieduto da Mattarella, per la venuta meno del sostegno comunista, si ricompone il centrosinistra. In tale occasione fui incaricato di tenere, a nome del mio gruppo parlamentare, il discorso di opposizione al rinato governo di centrosinistra. Feci un discorso estremamente duro, che risentiva della delusione politica ed anche umana della scelta di Mattarella, che alla fine della seduta mi avvicinò e con volto sofferto e contratto:
– La prego, da questo momento di avere con me rapporti solo istituzionali.
Il tono ed il contenuto del mio discorso avevano fatto male. Forse non era preparato alla mia reazione emotiva. Da buon politico aveva pensato al mio discorso come a un atto dovuto di ordinaria amministrazione e non resse la veemenza umana della mia critica politica. Il disgelo fu lentissimo. Passarono parecchi mesi. La discussione nostra nella sala dei Viceré di quella sera rappresentò la ripresa dei nostri rapporti, soprattutto, umani.
Ci comunicarono che la seduta era stata sospesa. Ci rilassammo.
– Per quanto mi concerne – mi disse – io, nella mia qualità, ce la metterò tutta a che la nostra terra diventi, finalmente, una Regione moderna per nuovi rapporti sociali, per più adeguate infrastrutture, per una diminuzione reale della disoccupazione e, soprattutto, per un salto di qualità della nostra economia. Sono convinto che ciò sarà possibile a condizione che vengano eliminate le remore più clamorose e più pericolose.
– Questo lo hanno ripetuto tutti i tuoi predecessori ed alcuni, è possibile, erano anche in buona fede. Pur tuttavia ci sono stati tanti motivi, ed alcuni all’interno del tuo Partito, che non hanno permesso la realizzazione d’importanti questioni sociali.
– Scusami, caro Giacomo, se tu intendi che il mio Partito è al servizio della mafia, che irresistibilmente persegue i suoi loschi interessi e che ha un forte potere di decisione e di ricatto, sei in errore come lo sono i tuoi. Il mio Partito è un’organizzazione politica complessa, perché rappresenta tutta la società, in tutta la varietà dei suoi ideali e dei suoi interessi. E’ innegabile che la mafia ha alcuni collegamenti all’interno del mio Partito, ma ti assicuro che essi, in generale, non sono in grado di condizionare la nostra politica economica. Oggi è così. Non discuto se ieri o l’altro ieri era diverso. Per il tuo Partito la situazione è più semplice, perché non dovete appettarvi con problematiche interclassiste, come le chiamate voi. Certo la vostra presenza in un governo di coalizione o, per lo meno, il vostro sostegno esterno ci avrebbe aiutato molto. Non l’avete voluto ed avete sbagliato. Moro, in tal senso, aveva visto giusto, ma i vostri estremisti hanno avuto paura e non lo hanno permesso. E’ vero la mafia è una malattia sociale pericolosa, come e più di una lebbra. Noi ne siamo infetti, ma anche altri, chi più chi meno ed anche voi, anche se molto meno, non ne siete immuni. Comunque, lo ripeto, non determina le nostre scelte di fondo.
Era convinto della sua analisi e lo si sentiva.
– La politica non è sociologia – sottolineai – è soprattutto scelta ed è azione tesa a risolvere i grandi problemi della gente. La mafia è un’organizzazione non solo criminale, ma anche parapolitica, potente, astuta, cinica, da non sottovalutare, che bisogna perseguire con lucidità d’intenti e volontà determinata e senza pseudo moralismi legalitari. Ho l’impressione che la sottovalutiate.
– Ma cosa pensi che io non mi ponga il problema della mafia? Ne parlo poco, perché sono convinto che il parlarne molto fornisce, spesso, alibi politici. Io, poi, il problema lo sento anche per motivi personali. Dico “anche” e non mi fraintendere. Tu sai quello che si dice di mio padre. Che è stato, nonostante il suo prestigio professionale e politico un “padrino”. Una sorta, cioè, di protettore, un leader politico che aveva rapporti con alcuni capi mafiosi. Io sono certissimo che non è vero. Ho troppa stima di mio padre che mi educò al rispetto intransigente dei doveri morali, all’insegna del Cristianesimo e della correttezza dei rapporti umani e sociali. Ho, quindi, il dovere di tutelare la sua immagine e di dimostrare, con i fatti, che tutto quello che è stato detto è una falsità, che mi offende e mi umilia, anche se su di me non mi pare che gravi alcun sospetto.
Il Governo che io presiedo, stai certo, perseguirà la mafia in ogni modo, senza attenuanti, senza eccezioni, senza alibi. Ti prego di tenere riservata la notizia che sto per darti. Sto seguendo tre filoni d’indagini, impastati di porcherie e d’illegalità, che, se riesco a portare a termine, rappresenteranno a Palermo e provincia un grave disorientamento nell’organizzazione mafiosa, faranno un botto esemplare e daranno uno scossone a quelle stesse forze di repressione, che fanno i furbi, giustificandosi, col dire ai quattro venti, che il problema è politico e spetta alla politica risolverlo. Cosa non totalmente vera che anche voi avallate. Vedremo, poi, chi continuerà a parlare del “padrinato” di mio padre. Certo il tutto non sarà facile. Delle volte ho l’impressione d’essere controllato nel mio lavoro.
Si era fatto tardi. Ci separammo soprappensiero. Avevamo discusso di cose importanti ed egli aveva assunto con me e con se stesso alcuni impegni pericolosi.
Qualche giorno dopo incontrandoci mi disse:
– Per favore di quello che abbiamo parlato non fare cenno ad alcuno, specialmente al tuo Partito. E’ pericoloso e le cose stanno andando nel senso giusto.
Alcuni mesi dopo, il 6 gennaio 1980, il Presidente della Regione siciliana veniva assassinato. Il perché è intuibile. Si sarà confidato con qualcuno a cui non doveva? E la mafia aveva saputo.
Dentro la Chiesa piansi sulla sua bara vistosamente. Un qualcuno, fuori della Chiesa mi disse, meravigliato:
– Non pensavo che foste tanto amici.
Lo guardai in silenzio. Che cosa avrei potuto dire in un frangente come quello?
La domanda era in sé stupida, malevola e senza risposta.
Omaggio
Se n’è andato senza preavviso. Questa l’impressione degli amici di Comiso, sua città natale. Ciò perché Totò Fiume aveva voluto accreditare di sé l’immagine di un uomo di buona salute, nonostante i suoi 82 anni. Un arresto cardiaco ce l’ha tolto lasciandoci perplessi su alcune cose. Come la sua ultimissima produzione d’intonazione religiosa che mal si conciliava con quella carnalmente pagana di una larga parte della sua vita. Che si sentisse vicino all’ultimo limite e si volesse ingraziare in extremis il Padreterno?
Le sue magiche mani non disegneranno più linee, forme, immagini. Il vulcano in eruzione dei suoi colori si è spento. La sua fantasia pittorica inesauribile, che una versatilità d’eccezione agevolava, non creerà figure umane e città rupestri.
E’ stato detto che dentro di lui c’erano tutti i grandi del suo tempo, da Picasso a Guttuso a De Chirico a Lautrec, ma egli, nella sostanza, rimase un solitario, pittoricamente, né è possibile assimilarlo ad un gruppo stilistico di tendenza. E’ stato naif, surrealista, magicamente realista, ma, alla fine, la sua arte è risultata solo sua per ispirazione, per tecnica, per il suo modo di essere. Si arrischiò come decoratore, come scenografo, scultore, mosaicista, pittore, senza mai scadere nella normalità.
Come artista, lo stimavo molto, come uomo, meno. Ed egli lo sapeva. Non mi piaceva il suo individualismo, che rasentava la superbia, né il suo malcelato opportunismo, che lo inseriva nell’albo degli amorali. Significativo il modo come si affermò a Milano.
A poco più di venti anni presentò una mostra di un pittore spagnolo, Francisco Queio, che ebbe grande successo di pubblico e di critica. Al momento opportuno rivelò che Francisco Queio non era mai esistito e che quei dipinti, tanto lodati dalla critica, erano i suoi. Il resto venne da sé. Il transatlantico Andrea Doria, che affonderà dopo non molto, venne decorato al suo interno da lui.
Con Totò ci eravamo conosciuti una quarantina d’anni addietro. Egli in corsa verso la notorietà, la fama e la ricchezza, io da poco amministratore della nostra comune città. Dei Comisani non aveva un buon giudizio. Ma non riusciva a sottrarsi al fascino di quel che egli chiamava “il suo paese”, dove era nato, dove aveva fatto, alla Scuola d’arte, le sue prime esperienze con la pietra e con il legno, dove erano vissuti i suoi amatissimi genitori.
Sul suo “paese” lasciò scritto un romanzo “W Gioconda”, che per molti significò il segno del suo destino di scrittore. A rileggerlo, a distanza di tempo, mantiene ancora un suo particolare fascino di scrittura. Ma scelse i pennelli alla penna. E con i pennelli diventò, non senza fatica, un grande della storia dell’arte contemporanea e non solamente italiana. Le sue tele si trovano nei più noti musei d’Europa. E non certo per alcuni colpi di fortuna. La sua arte è originale per colori, per contenuti emotivi, per la varietà dei temi.
La offensiva dei suoi colori alla conquista, anche, di grandi dimensioni parietali non ha limiti. Dai dipinti dell’Andrea Doria (48 m x 3 m), alle scenografie teatrali, alla raffinata e vitale carnalità delle figure femminili, alle estrose ceramiche, alle originali pitture rupestri, che, primo nella storia dell’arte, affrontò e non come esperienza episodica, ma come ambizioso scenario naturale per la sua eccezionale qualità tecnico-fantastica, tutto fa di lui uno dei più notevoli artisti italiani del nostro tempo.
Credo che la sua città dovrebbe fare qualcosa di più qualificante per rendere esplicito il proprio orgoglio per un suo figlio che, fra l’altro, ha fatto conoscere Comiso là dove non sarebbe stato immaginabile. Per quello che so, Catania e Ragusa, anche se in extremis, hanno agito positivamente in onore dei loro grandi artisti, Greco e Cappello. Comiso ha nomi da ricordare, quali l’archeologo Biagio Pace, lo scultore Virduzzo, l’architetto Biagio Mancini, il gen. Pelligra, medaglia d’oro della Resistenza. Sono gli ultimi nomi che mi vengono in mente. Non pare che per loro sia stato fatto il giusto per mantenere viva la loro memoria. Solo Bufalino è riuscito ad evitare la lebbra del silenzio del tempo, regalando alla sua città una parte della sua ricca biblioteca privata, imponendo di fatto, la istituzione a suo nome, di un utile Centro culturale. Anche per Fiume è stato istituito un Centro. Ma non basta. E’ stato solo un fatto formale.
Alcuni dicono che il disinteresse della Città per i suoi grandi sia dovuto alla saggezza di un popolo dalle origini lontane, che considerava i grandi meriti di alcuni suoi figli fatti transeunti, che la sabbia del tempo coprirà, in ogni modo, per cui quello che conta è solo il potere del presente. Altri lo considerano l’epifenomeno di una comunità che non crede nel passato e nel futuro, ma solo nel presente.
Con Totò diventammo amici negli anni Settanta. Era già famoso come artista ed il suo mercato era già alto. Mi venne a trovare nella mia sede di lavoro. Dopo avermi espresso il suo desiderio di contribuire a che Comiso si liberasse del suo secolare letargo, che costringeva i suoi figli migliori ad andarsene, mi accennò con estrema cautela al suo desiderio di sostituire la scultura della fonte Diana, posta nella piazza centrale, che giudicava brutta, statica, come “in posa per una fotografia in bianco e nero”, disarmonica e del tutto inespressiva.
C’incontrammo qualche anno dopo, a Canzo, nella ex filanda che aveva comprato e che aveva trasformato in un grande casa d’abitazione e di lavoro, arredata con gusto raffinato e notevole ricchezza, dotata di grandi sale per la esposizione delle sue creazioni più amate, dei suoi reperti archeologici, dei suoi pezzi da museo, ivi compreso lo stipite d’oro di una porta del Siam e dei mobili di varie epoche e di raro pregio. In una sala campeggiava un organo di notevole dimensione e di bella fattura.
Ero andato da lui per accompagnare l’Assessore alle Finanze della Regione siciliana, l’on. Mannino, che, essendo un collezionista d’arte, desiderava avere anche dei dipinti di Fiume e, conoscendo della mia amicizia con l’artista, sperava, comprando direttamente e non tramite i mercanti d’arte, di risparmiare notevolmente.
L’ospitalità fu eccezionale, da uomo dai gusti raffinati. C’illustrò la sua casa, ci spiegò il perché di quell’aereo della prima guerra mondiale, posto sul tetto della sua casa. Dopo il pranzo arrivammo al dunque. Spiegai il perché della nostra visita.
Totò era un infaticabile lavoratore per l’irrefrenabilità della sua fantasia e la sua esigenza di fare denaro, molto denaro. I quadri offerti alla scelta erano molti. Mannino, pur essendo un uomo di gusto esercitato, si confuse e mi pregò di scegliere per lui. Scelsi cinque tele, che misi da parte, per farle scegliere, a sua volta, al compratore. Totò disse che avevo avuto l’occhio smaliziato e che avevo fatto una scelta birbante. Non ho capito ancora se era stato un complimento mirato a lusingarmi, oppure a giustificare l’alto prezzo che avrebbe, di lì a poco, chiesto o io avevo fatto realmente la giusta scelta.
Sul prezzo le parti non trovarono l’accordo. Né, a seguito delle mie sollecitazioni, Totò dimensionò la richiesta, giustificandosi che il prezziario era stato stabilito dalla moglie, che non aveva fiducia sulla di lui capacità di contrattazione, e non solo di quella. Poi magari egli si faceva sorprendere a vendere, come in una sua mostra di Comiso, riproduzioni dei suoi dipinti non numerate per qualche migliaio di lire e che egli firmava al momento.
Nel viaggio di ritorno Mannino mi esternò la sua delusione.
– Il tuo amico, tutto sommato, non sa fare i conti. Quello che avrebbe scontato a mio favore, io glielo avrei fatto recuperare abbondantemente, comprandogli alcuni quadri per il Museo regionale d’arte moderna di Palermo. Sarebbe stato ciò nelle mie prerogative di Assessore alle Finanze. Forse tu dovevi dirglielo perché lui sapesse.
In verità io non potevo dirglielo non solo perché non autorizzato, ma soprattutto perché non potevo agevolare un illecito.
Ci rimasi male. Totò mi aveva fatto fare una figuraccia.
Non ricordo, se alla fine del ’75 o ai primi del ’76, il Fiume pose apertamente al Comune il suo intendimento di costruire una nuova Diana sulla fontana dell’omonima piazza della città. Solo le spese vive dei materiali e della manodopera. Per l’ideazione e la direzione dei lavori – precisò – non chiedeva niente. Sarebbe stato un omaggio al suo “paese”. La vecchia Diana sarebbe stata trasferita in un altro sito. Forse all’entrata della città, venendo da Ragusa. Presentò un bozzetto della sua opera, che credo si trovi in qualche locale del Comune. Diana era raffigurata sdraiata su un fianco con un ginocchio piegato, appoggiata su un braccio, mentre con l’altro si versava, tramite una coppa, acqua della omonima sorgente sul viso e sul collo. Di fianco e arretrato un asino con due quartare d’acqua appese, come ai tempi di suo padre e di suo nonno ed un venditore d’acqua, l’acqualuoru. Un accostamento azzardato di mitico e di folklorico originalissimo, che poteva piacere. Naturalmente i dubbi estetici, le critiche corpose ed insistenti provenivano dalla parte degli artisti, che facevano parte della commissione d’arte, che doveva dare il parere. Si scontravano motivazioni varie, dai tradizionalismi più vischiosi (l’accostamento dell’asino con Diana era considerato una bestemmia), ai sentimenti più deteriori dell’invidia e della gelosia, a sincere preoccupazioni urbanistiche (l’armonia ottocentesca neo classica della piazza veniva turbata).
Comunque l’iniziativa sarebbe andata in porto, perché l’ultima parola era dell’Amministrazione comunale, la quale era abbastanza orientata. Se l’imprevisto non avesse giuocato il suo ruolo.
Un ingegnere edile, nonché grosso appaltatore, Euro Musso, che non aveva aperto bocca in tutte le incandescenti riunioni, anche perché molto schivo, mi avvicinò e mi pregò di chiedere all’artista-progettista le misure in lunghezza, larghezza ed altezza ed il prevedibile peso delle sculture, stante il fatto che sarebbero state costruite in pietra dura di Comiso. La statua si sarebbe allungata per gran parte della piazza, sì che il rapporto volumetrico scultura-piazza veniva ad essere stravolto. Non era, cioè, la scultura in funzione della piazza, ma la piazza in funzione della scultura. Il ginocchio piegato di Diana toccava il balcone del palazzo nobiliare dei Morso. Il peso delle sculture era tale che rendeva prevedibile lo schiacciamento delle sorgenti e, quindi, la scomparsa delle acque che alimentavano la fonte Diana.
Il dibattito che ne scaturì si caricò di dubbi e di preoccupazioni che intaccarono la sicurezza dello stesso artista, che, però, si rifiutava di dimensionare drasticamente le sue sculture. Al massimo si mostrava disponibile a cambiare il materiale da usare, sostituendo la pietra con il bronzo cavo oppure con la plastica dura colorata.
Le soluzioni non vennero accettate. Nella città della pietra non aveva senso il ricorso al bronzo o alla plastica. Né la mia mediazione per un dimensionamento delle sculture ebbe successo. Totò non riuscì a farsene una ragione. Sottovalutò i motivi obiettivi ed ingigantì, fino all’irrealtà, quelli soggettivi.
E così i suoi concittadini diventarono per lui indegni del suo genio artistico, non erano in condizione di capirlo, erano invidiosi dei suoi successi, non meritavano la sua generosità.
– Fare qualcosa per i Comisani era come lavare il culo dell’asino. Ti ricambiano con i calci.
E’ stata questa l’amara constatazione che mi gridò nel salutarci. Però l’idea di una nuova Fonte Diana a Comiso non si cancellò dalla sua mente, fino agli ultimi anni della sua vita. Quasi tutti i Sindaci della sua città continuarono ad essere avvicinati. Da tutti ebbe promesse senza certezze. Né poteva essere diversamente.
Peccato per tutti. Per lui, che non realizzò il suo piccolo sogno e per noi. Un suo lavoro così impegnativo, ove correttamente realizzato, avrebbe abbellito ed onorato la città.
Vissuto fuori tempo
Lo notai in una palestra dell’Accademia militare di Modena. Allora avevo, all’incirca, venti anni. M’impressionarono la fluidità e la sicurezza dei suoi esercizi alla sbarra e agli anelli. Si chiamava Diego. Tarchiatello, non aveva il fisico del ginnasta dai muscoli lunghi. Pur tuttavia, alla sbarra ed agli anelli, m’incantava con le sue giravolte e le varie figure, che egli provava ed inventava. Capivo che ogni esercizio comportava notevole concentrazione psichica e mentale, oltre che sforzo muscolare notevole, ma, a guardarlo, tutto sembrava naturale. I suoi muscoli si tendevano o si gonfiavano quando con gli anelli componeva le varie figure del Cristo, della bandiera o della sedia, o roteava, alla sbarra, con sempre maggiore velocità o disegnava con il corpo un perfetto angolo retto o riusciva ad insinuare le gambe tra le braccia per poi rovesciarsi con tutto il corpo all’indietro. Io ero affascinato. Mi sarebbe piaciuto imparare. L’età me lo permetteva, ma ero convinto che non ne sarei stato capace. Appena lo potevo, andavo a guardarlo, o meglio, ad ammirarlo. Egli era testardamente abitudinario.
Diego dovette accorgersi della mia presenza ai suoi allenamenti e, timido e scontroso qual era, dovette meravigliarsi e magari irritarsi, perché un giorno, non so il perché, appena mi vide, sospese l’esercizio e mi avvicinò.
– Scusami, perché vieni a guardarmi durante gli allenamenti? Non certo per la mia bellezza fisica, ranocchio come sono.
– La sbarra e gli anelli mi attirano. Vorrei praticarli, ma so che non sono capace e non lo sarei con tutta la mia buona volontà. Quando ti alleni, m’incanta la scioltezza con cui ti muovi sugli attrezzi, come se tu fossi cresciuto con essi.
– In verità, io li pratico da quando avevo sette anni. Mio padre agevolò questo mio hobby, sistemando in una grande stanza della nostra casa, a Varese, le attrezzature fondamentali, gli anelli, la sbarra, il cavallo, le parallele, etc. In parte è stata un’iniziativa utile, perché mi ha tenuto lontano dalle frivolezze proprie dei nostri coetanei, ha irrobustito il mio corpo ed ha influito positivamente sulla mia volontà, rendendomi molto tenace nei proponimenti. In parte, però, mi è stata nociva perché non ha agevolato il mio contatto umano con la gente, isolandomi e facendo diventare i miei esercizi il riempitivo delle mie giornate, dopo lo studio. Che gli attrezzi siano difficili non è vero. Ci vuole un po’ di pazienza e di tenacia e, poi, ciò che sembra difficile, diventa facile, anche se hanno bisogno di essere curati continuamente e neanche i grandi campioni olimpici possono dire di conoscere tutti i loro segreti. Ma tu quali sport pratichi?
– Nessuno in particolare. Preferisco i cento metri, il giavellotto, il pugilato. Così, però, senza particolare intensità. In Sicilia, specie nei Comuni piccoli, non ci sono le condizioni ambientali e pratiche per praticare gli sport. Ma ora devo lasciarti. Ho una lezione di armi e tiro ed il col. Argiolas non ammette ritardi. Comunque ci vedremo. Anzi, se a te non dispiace, possiamo uscire assieme qualche volta. Tranne che non hai impegni fissi con la tua ragazza. Da parte mia, io sono, fino ad oggi, libero.
– Si, anch’io sono libero. Né ho fatto amicizie tali da impegnare il mio tempo libero, anche se gli attrezzi me ne lasciano poco.
Per alcuni mesi, senza appuntamenti fissi e con ampi intervalli, siamo usciti assieme, nelle ore di libera uscita. Il tempo lo si passava abbastanza monotonamente. Parlavamo dei piccoli problemi della vita d’Accademia, della nostra adolescenza, delle possibili prospettive della nostra carriera, delle nostre preoccupazioni per i tempi politici, che stavamo vivendo, che non ci sembravano tranquilli, anche se in Accademia quasi nessuno parlava di politica, non perché fosse proibito, ma per uno strano misterioso accordo collettivo tacito. Capitava, però, talvolta che qualche ufficiale, soprattutto di grado elevato, parlasse di antifascismo, in sostegno aperto della Monarchia e del Re, considerati snaturati ed asserviti dalla prepotenza del Regime. Ad occhio e croce gli ufficiali, nella stragrande maggioranza erano per la Monarchia. Il che non significava che erano nettamente antifascisti, ma che c’era disagio ed irritazione per la preminenza di prestigio che il Fascismo aveva concesso alle organizzazioni paramilitari, a discapito dell’esercito.
Pur tuttavia le ore di libera uscita, passate assieme con Diego, passavano piacevolmente perché, nonostante i suoi occhi tristi e sfuggenti, volta a volta, dimostrava di essere sensibile, bene educato, gentile. Mai, però, tra di noi un discorso di tipo esistenziale, mai una debolezza che denotasse il desiderio di denudare la nostra anima. In lui il controllo dei propri sentimenti era totale. E, stranamente, anche in me. C’era un vetro invisibile, ma reale, fra di noi, nei nostri rapporti. Quasi fossimo gelosi della nostra intimità sentimentale. Stranissimo per me, che, essendo siciliano, ero portato a declamare affetti e sentimenti, spesso dilatati.
In una delle nostre uscite dissi:
– Diego, io ho bisogno di sesso, m’accompagni al casino?
Alla mia proposta ebbi l’impressione che trasalisse.
– No – mi rispose – non posso. Sono cristiano e credente. Un rapporto d’amore mercenario è per me disgustoso, perché trasforma il corpo della donna, che è creatura di Dio, in una merce qualsiasi. La donna, poi, dei casini è un essere umano schiavizzato, che deve subire tutto, perché il cliente, anche il più maiale, ha sempre ragione. Scusami, ma non posso accompagnarti. Se a te non fa senso, vacci tu.
– Si, teoricamente, forse, tu puoi avere ragione. Io frequento i casini dall’età di 18 anni ed il dramma morale, di cui tu hai parlato, io non lo sento. Forse perché non sono un credente o perché l’amore sessuale lo posso sperimentare nella mia terra solo in quel modo. Tranne che non mi rassegni ad una prolungata verginità fino al matrimonio. Da voi, l’amore sessuale, vissuto con intenso sentimento, non è peccato. Da noi non è così. L’amore sessuale, vissuto fuori del matrimonio, disonora la donna ed impone all’uomo il dovere, specie se non c’è un figlio, di legalizzazione del rapporto. Allora, per me, l’amore mercenario è una via d’uscita ed anche il modo di vivere le proprie esperienze sessuali più sicuro. Ma, scusami, tu come fai? Hai una ragazza o ti mantieni vergine?
– No, non ho una ragazza e sono vergine e lo sarò finché non mi sposerò, se mi sposerò. Tu, invece, perché non ti trovi una ragazza, a cui affezionarti? Sono certo che con lei sentiresti il disgusto dell’amore mercenario.
– Cioè, se non ho capito male, io dovrei trovarmi una ragazza, a cui affezionarmi, per sostituire quelle a pagamento. No, non mi va. La ragazza, con la quale mi accompagnerò, mi deve attrarre sentimentalmente, oltre che sensualmente, e, teoricamente, sarà la donna della mia vita. La verità è che abbiamo due culture diverse. Ma, scusami, tu come fai, quando ti assale il desiderio, che, spesso, è prepotente. Ti masturbi? Se lo fai non ti sembra questa una pratica più umiliante dell’amore a pagamento?
– Si lo so che delle volte il sesso reclama i suoi diritti, ma io non mi masturbo. In quei casi cerco di distrarmi o mi dedico agli attrezzi. Credimi dopo un po’ passa tutto. Il sesso è governato dal nostro cervello. E’, cioè, una questione di abitudine mentale. Alcuni dei nostri Santi sono rimasti vergini per tutta la vita e non sono usciti di senno per eccessiva astinenza.
Dopo quella discussione passarono alcune settimane senza uscire insieme. Fu lui stesso, però, che, tranquillamente, incontrandoci per caso, tra una lezione e l’altra, mi chiese se la prossima domenica ero disposto ad uscire con lui. Risposi, naturalmente, di si. Mi era mancato. Nelle scorse settimane ero uscito con altri, certamente più briosi, ma estremamente superficiali ed egocentrici. La domenica uscimmo, visitammo la città nelle zone meno conosciute, parlammo del più e del meno, andammo, prima del rientro in trattoria, a mangiare castagnaccio. Eravamo più sciolti, meno guardinghi anche se ancora difesi dalle nostre corazze. Ero convinto che in uno dei prossimi incontri saremmo venuti senza armature addosso e avremmo cominciato a parlare di noi, del nostro dentro, delle nostre speranze segrete e delle nostre paure.
E così fu. Seduti su un sedile di uno dei giardini pubblici della città, dopo avere parlato delle nostre preferenze naturalistiche, a lui piaceva l’alta montagna, da scalare, a me il mare e il nuoto, ma confessando che avremmo voluto sperimentare esperienze diverse, lui il mare ed il sole siciliano, io le montagne e le nevi delle Alpi, con un improvviso salto logico, mi domandò:
– Perché non hai una ragazza? Non mi dire che hai incontrato difficoltà? Sei ben fatto, sai parlare, sei abbastanza carino. Uno, come te, ne trova quanto ne vuole ragazze.
– Diego, ti ringrazio per i complimenti, ma, credimi, sono abbastanza timido. Le ragazze di qui sono diverse dal mio ideale di donna. E poi ho un po’ di paura, come se non fossi io in condizione di tener loro testa. Scartando le cosiddette “maschiette”, che so essere una minoranza ed ammalate di protagonismo, le ragazze di qui le sento più determinate, più sicure di me. In fondo, al di là della facciata, noi del Sud siamo diversi di voi del Nord per motivi storici, politici, ambientali, etc. Questa diversità si riflette anche sulle donne e nei rapporti uomo-donna. Ma, scusami, la stessa domanda potrei rivolgerla a te. Tu sei del Nord, sei di Varese, e parli la stessa lingua, se non lo stesso dialetto delle donne di qui.
– Giacomo, mi meravigli. Credevo che i siciliani fossero, invece, intraprendenti, sia perché più appassionati, sia perché più affamati di sesso. I Siciliani, che sono nella mia camerata, li sento parlare spesso di donne, delle loro capacità di don giovanni e delle loro prodezze sessuali. Delle volte m’irritano, perché un po’ di riservatezza non guasterebbe e perché mi sorge il sospetto che molte delle loro vanterie sono inventate. Le tue paure, poi, non esistono. Carichi il rapporto con le donne di troppo sentimento. Forse voi meridionali rispettate maggiormente la donna e avete un concetto più statico del rapporto sentimentale. Molti vostri atteggiamenti lusingano le nostre ragazze, a cui piace la vostra sentimentalità, il vostro calore. O forse hai lasciato nella tua Sicilia un amore che non vuoi tradire.
– No, dietro le mie spalle non ho lasciato nessuna. I miei motivi sono quelli che ti ho detto. O, forse, non sono stato, ancora, folgorato da una bella modenesina. Tu, però, non hai risposto alla mia domanda. Perché non hai la ragazza? Non mi dire che hai le mie stesse perplessità perché non ti credo.
– Giacomo, non dimenticare che io sono intensamente cristiano, come lo è la mia famiglia. Non concepisco un rapporto con una donna senza un’intensa comunione spirituale, o solo per farci compagnia, o, peggio, per motivi sessuali. Tu capisci che trovare una ragazza che risponda ai miei requisiti, non è facile.
– Sei più complicato di quanto potessi immaginare. In questi mesi di nostra frequenza non ti ho visto, mai, ridere. Sei permanentemente triste. E’ come su di te gravassero tutti i problemi del mondo. Siamo giovani e, qualunque cosa accadrà, abbiamo dentro di noi la forza per vincere le avversità della vita e, soprattutto, abbiamo il diritto di godercela onestamente la nostra giovinezza. Permettimi che ti dica che il tuo discorso non mi convince. In nome della tua fede, che non discuto, sei alla ricerca di una “comunione spirituale”, anche sul piano dei più normali sentimenti d’amore, che t’isola e ti condanna alla solitudine. Non mi pare che la religione cattolica possa essere d’accordo con la tua scelta. Non mi pare che un sentimento d’amore per una donna, se onestamente inteso, possa essere disapprovato da un qualsiasi sacerdote, dal più bigotto al più illuminato. Ed ora permettimi una riflessione. Noi siamo militari di professione. Noi studiamo armi e tiro, la tattica e la strategia per il migliore uso di un esercito che può trovarsi in guerra, che può diventare strumento di morte per un nobile fine, quale la difesa della Patria. Bene. Come concilii questa tua scelta, che può portarti ad uccidere, a distruggere gente, non importa se poca o molta, che tu non conosci, con la tua fede cristiana e cattolica. Allenarti ad uccidere la gente ti sembra quindi meno grave di una normale ed onesta relazione sentimentale, sol perché mancano i crismi della “comunione spirituale”. Il motivo che hai addotto non mi sembra valido. C’è qualcosa che non vuoi o non puoi dire. I miei motivi sono più semplici ed umani: preoccupazione ed un po’ di paura. Non rappresentano una pregiudiziale d’ordine morale.
– Giacomo, abbiamo scoperto che siamo diversi. Tu un razionalista ed io uno spiritualista. Ed è difficile che su questo tema possiamo trovare punti d’incontri. E’ meglio non farli questi discorsi e tornare al vecchio modo di stare assieme. Ci ha fatto passare le nostre ore di libera uscita tranquillamente e felicemente. Andiamo, è ora di rientrare.
Sarà stato un caso o sarà stata la conseguenza del nostro scontro d’idee, fatto sta che per quasi un mese non ci siamo incontrati. Né io me la sentivo di andarlo a cercare, anche se ne avevo il bisogno.
Lo rividi nella sua palestra. Tentava la difficile figura della croce. Era tesissimo nei muscoli e nella concentrazione. Appena si accorse di me, lasciò gli anelli e mi si avvicinò.
– Sono felice di rivederti. Mi sono allenato molto in questi ultimi tempi. Con gli attrezzi è così: se allenti, la ruggine assale i tuoi muscoli e il rientrare in buona forma è faticoso. Io ti devo chiedere scusa, perché ho continuato a dimenticare di dirti che se vuoi imparare a lavorare sugli attrezzi, sbarra, anelli, parallele, io sono disponibile. Basta mezzora al giorno. Possiamo fin d’ora stabilire gli orari.
Sempre serio nel volto e triste negli occhi, sembrava aver dimenticato il nostro scontro di idee, che a me era sembrato lo avesse dolorosamente irritato.
– Si, mi piacerebbe prendere dimestichezza con gli attrezzi, ma possiamo stabilire i giorni e le ore delle tue lezioni di sport la prossima domenica, se usciamo assieme. Io avrò il tempo di controllare i miei impegni e tu i tuoi. Ed ora, grazie e ciao.
Ero contento. Mi sarebbe dispiaciuto perdere la sua amicizia. Era diverso dagli altri. E non avevo molti amici veri: un croato, Milenko, gran filone, ma generoso, un sardo, Bosco, allegro e brioso, un tarantino, Cecco, che faceva collezione di peli di fica, conservati in piccole buste trasparenti, e di biancheria intima femminile. Pur nella sua stranezza, aveva molti amici.
La domenica uscimmo assieme e decidemmo di non passeggiare per la via centrale della città. Avevamo l’impressione che i giovani modenesi non avessero simpatia per noi allievi dell’Accademia. Forse ci consideravano concorrenti privilegiati nei confronti delle ragazze, che, invece, era evidente, erano attratte dalla divisa e dal nostro futuro di ufficiali. Ci avviammo verso i giardini pubblici. Eravamo impacciati: contenti della ripresa dei nostri rapporti, ma anche in difficoltà sugli argomenti di discussione.
– Giacomo, fissiamo i tempi per iniziare i tuoi allenamenti. Inizieremo dalle parallele, per imparare a governare i muscoli necessari. Non illuderti che diventerai subito bravo. Questo tipo di sport ha bisogno di testardaggine e di grande umiltà. In seguito, ti darà tante soddisfazioni, da farti diventare dipendente, come una droga benefica, dagli attrezzi.
– In verità, io sono scettico, ho la sensazione che essi siano al di sopra delle mie possibilità. Comunque, vedremo. Intanto devo dirti che mi sono fatto una ragazza. E’ graziosa, leggera come una farfalla. Forse un po’ ciarliera. Parla sempre lei. Ed è morbida come una coniglietta. Non posso dire di essere innamorato e che questa relazione avrà un futuro, ma ci sto bene con lei. Anche lei dice di essere contenta di avermi conosciuto. Dice che ho l’anima di un bambino. Sarà, poi, vero quello che dice, di certo lei non mi dispiace, anzi…
Seduti su un sedile di un giardino pubblico, tutto attorno a noi era verde e pulito.
– Sono contento per te. Tu sei fortunato. Non hai i miei problemi. Mi dispiace, però, se questa tua ragazza farà saltare la nostra amicizia.
– E perché? I nostri sono rapporti di tipo diverso e per il tempo dei nostri incontri troveremo il modo. Credimi, da quando frequento questa ragazza, mi sento meglio, più leggero, più soddisfatto di me, più ottimista, più completo come uomo. Tu devi mettere da parte quella famosa “comunione spirituale”, che non è detto non venga dopo, e farti una ragazza. Sono certo che comincerai a ridere un po’ di più. Scusami, ma io di ciò sono convinto. E poi sento che ti sono amico.
– Ti ringrazio, ma sai tenere un segreto? Quello che sto per raccontarti, non l’ho confidato a nessuno, nemmeno a mia madre.
– Noi siciliani possiamo sembrare dei gran chiacchieroni ma siamo abituati, per storia antica e per cultura ancora più antica, a mantenere i segreti. Dipende da te, ma per me mantenere un segreto è un imperativo d’onore.
– Quello che ti ho detto l’altra volta sul perché non cerco di avere una ragazza, è vero solo in parte. La motivazione, che non ho il coraggio di confidare a nessuno, è che io sono stato con alcune ragazze con le quali non ho sentito quello che tutti gli altri provano. Per me più tempo passava, più diventavano sorelle. In genere, mi lasciavano, perché si convincevano che io non le volessi bene e che esse non erano fatte per me. Qualcuna di esse, più spregiudicata, prendeva l’iniziativa, o perché era eccitata o perché pensava di vincere, così, la mia timidezza, mi baciava appassionatamente e mi sbottonava per stropicciarmi il cazzo. Niente. Non mi eccitavo. Eppure delle volte il desiderio sensuale mi pervade, ma, il fantasma sessuale non è una ragazza, ma un uomo. Naturalmente, in quel caso, inorridisco di me stesso, mentre vampe di calore le sento vogliose non là dove dovrei sentirle. Più volte ho pensato di non essere normale, di essere, cioè, un omosessuale. Di essere, in breve, un frocio. Puoi immaginare, se fosse vero, cosa significherebbe per me tutto ciò. La fine di tutto, della mia carriera, dell’amicizia dei miei amici, dell’amore dei miei cari, della stima di me stesso. Un ufficiale frocio, ma tu ci pensi? E quanto potrei durare? Mi sbatterebbero fuori subito, o meglio, sarei costretto ad andarmene io. E chi mi stimerebbe in qualunque attività. Sarei sempre prima un frocio e poi un avvocato, un ingegnere, etc. E’ terribile, è un dramma che mi porto appresso per tutte le ore delle giornate e che dimentico solo quando mi esercito sugli attrezzi. Per questo motivo la mia mania, come qualcuno la chiama, dell’attrezzistica, per questo non riesco a ridere, tendo ad appartarmi. Delle volte mi assale la disperazione e penso alla morte, al suicidio, perché so che la mia vita non ha altra speranza che quella del disonore o della pietà di qualcuno o dello schifo degli altri.
Se tu non mantieni per te questo segreto, io sono rovinato. A questo punto deciderò se lasciare volontariamente l’Accademia o aspettare che mi mandino via, disonorato e disprezzato da tutti.
Restammo del tempo, per me lunghissimo, in silenzio. Io non sapevo cosa rispondere. Eppure qualcosa dovevo dire.
– Diego, ho l’impressione che tu stia esagerando. Credo che ci sia un medico, qui, a Modena o a Bologna, che s’intende di queste cose e possa curarti. Se vuoi ci andiamo assieme per farti compagnia e sostenerti. Che vuoi che ti possa dire?
– Ma la mia non è una malattia. Io sono un diverso. Il mio è uno scherzo della natura. Una disgrazia a cui non si può fare fronte. Devo avere solo la forza di accettarla, come tale, e rassegnarmi. Ma, ora, andiamo, questa discussione è stata dolorosa per ambedue. Per me che ho rivelato il mio segreto con la paura che non resterà tra noi, per te che sai di non potermi aiutare.
– Andiamo e stai tranquillo che, per quanto mi riguarda, il tuo segreto resterà un segreto.
Che cosa successe nella sua testa e, forse, anche nella mia, a distanza di tanti anni, non ce l’ho chiaro. Lui non mi cercò ed io non lo cercai. Avrà influito la mia cultura, al tempo, cattolico-contadina, che considerava contronatura quel tipo di amore e, quindi, peccaminoso? Avrà influito la consapevolezza della mia incapacità ad aiutarlo o la convinzione che la mia presenza gli avrebbe ricordato il tragico errore della sua confessione?
Passarono alcuni mesi. Ad un tratto, come un fulmine a ciel sereno, una mattina, la notizia: Diego si è suicidato. Un parapiglia nel nostro ambiente ed un fiorire d’ipotesi. Un ingiustificabile atto di follia suicida, si disse, o era troppo chiuso, soffriva di depressione.
E’ probabile che io fossi l’unico, e forse anche il suo confessore, a conoscere il motivo della sua disperazione e che, quando mi mise a parte del suo segreto, aveva già deciso di porre termine alla sua angoscia.
D’allora la morale sessuale generale è radicalmente cambiata. E quella morte, forse, oggi non ci sarebbe stata. A questo ho pensato riflettendo sul declamato orgoglio omosessuale del World Gay Pride che si terrà in questo anno a luglio, a Roma, con il carico di polemiche che esso ha già comportato, anche a livello politico.
Per alcuni un’amicizia innaturale
Siamo stati amici per sessanta anni. Anno più, anno meno. Il suo nome era Filippo e apparteneva ad una famiglia detta dei Papuni che, in generale, non era giudicata in modo positivo dalla comunità di Comiso. Il significato del nomignolo Papuni resta ancora nebuloso e molto incerta la sua etimologia. Nel significato dialettale sembra identificarsi con rumoroso, velleitario, grossolanamente imbroglione. Quasi tutti della famiglia rifiutavano con rabbia una tale identificazione lessicale e di merito per assumere quella di persona che ha il coraggio dei propri sentimenti, che è sperta, cioè intelligente e furba, e che l’invidia della merda degli uomini ha banalizzato ed involgarito.
L’ho conosciuto all’età di sedici anni, all’incirca negli anni Quaranta. Era più anziano di me. Comiso, a quel tempo, era un borgo popolato in prevalenza di braccianti. Nel gergo locale iurnatari. La popolazione, nonostante le apparenze, era in gran parte agnostica, per sfiducia e per paura, anche se la predicazione socialista del prefascismo aveva lasciato vasti residuati nel sottofondo della coscienza popolare. La famiglia dei Papuni era invece rumorosamente tifosa per il Fascismo.
Sociologicamente la cittadina era un pantano, che non offriva a noi ragazzi niente, oltre che il far di compiti scolastici per quelli che avevano la fortuna, senza saperlo, di potere studiare. E così, nel tentativo d’eliminare qualche fetta di noia e di nervosa irrequietezza e, soprattutto, per dare sfogo alla nostra naturale energia giovanile, alcuni di noi andavamo sulle falde delle colline iblee a combattere “la battaglia delle cipolle”. Uno sport idiota perché non serviva a niente, tranne che ad illuderci di essere, per qualche mezz’ora, forti come l’Uomo mascherato dei fumetti del tempo. La conseguenza era un fastidiosissimo prurito in quelle parti di pelle dove si rovesciavano le mazzate cipolline. Per tali imprese si erano formate due bande, una di studenti e una di giovani braccianti. Le battaglie-gioco consistevano nello sradicare le cipolle selvatiche, impugnarle per i loro ciuffi, che fuoriuscivano dalla terra ed a mo’ di clava colpire l’avversario con tutta la forza possibile, finché gli anomali combattenti, per stanchezza o per resa, tutti o in parte, non desistevano.
Filippo Papuni (il suo vero cognome era Corifeo, che proveniva dalla mitologia cattolica), figura sociologicamente anomala, perché non era né contadino, né studente, era sempre dalla parte degli studenti. Per tutta la vita egli rifiutò il ceto d’appartenenza ed in parte, anche se in modo discreto, anche il suo clan familiare, che, però, aiutava con generosità, in ogni modo, allorché glielo chiedeva.
Quando interveniva nella “battaglia” era irresistibile, non solo per la potenza delle fiondate cipollose, ma anche per la sua agilità scimmiesca e la sua straordinaria capacità di schivare e contrattaccare. Con lui dalla nostra parte la banda degli studenti era imbattibile. Il giuoco non durò a lungo sia perché, andando avanti negli anni, ci appariva sempre più inadeguato e, persino, idiota, sia perché non avemmo più avversari, data la nostra evidente superiorità. Un giorno gli domandai:
– Perché hai scelto la nostra banda?
– Perché ti dispiace?
– No, solo per capire. Tu non sei studente come noi.
– Ma avrei voluto esserlo se la mia famiglia ne avesse avuto la possibilità. E poi non mi piacciono quei piturri dei viddani.
In quel “piturri” ed in quel “viddani” c’era disprezzo umano e soprattutto si rivelava una elementare concezione sociologica, vagamente classista, per cui il bracciante era il livello inferiore della società, in quanto impiegava solo manualità. La sua attività, quella di venditore di caldarroste e di semi di zucca, la considerava di livello superiore perché abbisognava d’immaginazione e di destrezza. Anche la truffa faceva parte della destrezza. Non a caso la classicità greca aveva immaginato un dio, Mercurio, protettore degli avvocati, dei commercianti e dei ladri, accomunati dalle stesse qualità dell’intelligenza e dell’immaginazione.
Quella sua risposta non rimase senza conseguenze nella mia formazione mentale. Non mi convinse e mi costrinse a riflettere. Anche mio padre, pur se nato da una famiglia cosiddetta perbene, era stato costretto a lavorare per un po’ di anni da bracciante, prima di essere assunto nella Polizia di Stato. Mi convinsi che sbagliavo a considerare lo studio una scocciatura. Era un privilegio, che molti non avevano e che dovevo saper sfruttare.
Dallo scioglimento della nostra banda non ci frequentammo con continuità. I nostri modi e tempi di vita erano diversi.
C’incontrammo in una palestra sportiva, dove si praticava qualche esercizio a corpo libero ed un rudimentale pugilato a suon di pugni, senza un’adeguata preparazione atletica. Filippo, là, primeggiava e non poteva dirsi che avesse rivali degni di questi nome, anche se il locale era frequentato da giovani molto più robusti e alti di lui.
Statura media, con un fisico asciutto (lo manterrà tale fino alla morte), muscoli lunghi, nelle categorie pugilistiche era considerato peso leggero. Sul ring si mostrava sicuro. Alcune volte spavaldo, aiutato dalla sua agilità quasi scimmiesca e da una rapidità di riflessi eccezionale. L’impressione, che nel tempo mi sono fatto, era che egli, allora, salisse sul ring, per regalarsi un’adeguata rivincita sociale.
Io qualche breve incontro lo avevo tenuto. Non mi era andato male. Mi ero accorto, nel corso di questi brevi combattimenti, che egli mi osservava. Un pomeriggio m’invitò a salire sul ring con lui per alcune sequenze di allenamento. Il mio orgoglio non mi permetteva di rifiutare, ma io sapevo che avrebbe fatto di me polpetta ed avevo paura.
– Hai delle qualità – mi disse – ma non hai idea del come si fa pugilato. E’ uno sport che ha delle regole e chi lo fa deve avere delle qualità, alcune delle quali bisogna impararle. Intanto devi convincerti che la boxe si pratica con il cervello, studiando il tuo avversario, scoprendone i punti deboli e con la capacità, tutta d’acquisire, di sopportare il dolore e di rendere i propri riflessi muscolari e nervosi quanto più rapidi possibili. Questo significa che devi abituarti a prevenire i pugni dell’avversario, schivandoli, che devi abituarti alla sofferenza e rendere i tuoi pugni potenti, come martellate, perché sono essi che ti fanno vincere. E per cominciare devi essere rapido e colpire con tutta la forza che puoi.
Allargò le gambe, sistemò le braccia come se dovesse combattere e mi offrì la sua faccia. Vibrai un destro forte sulla sua guancia sinistra. Andai a vuoto per un suo leggerissimo movimento della testa. Due, tre volte sempre a vuoto. M’innervosii e mi scatenai con la maggiore rapidità possibile. Ne misi a segno uno.
– Non va bene. Sei stato più rapido, ma ti sei scoperto troppo ed in aggiunta i tuoi colpi erano carezze di bambino.
L’allenamento continuò per alcune settimane. Io diventavo sempre più bravo con il destro. Talvolta riuscivo a fargli perdere stabilità sulle gambe. Egli reagiva scuotendo la testa e gridando:
– Forza, più veloce, ma non a scapito della potenza.
Con il sinistro i miglioramenti eran lenti e lui si arrabbiava.
– Il sinistro deve essere duro come il destro. L’avversario non se lo aspetta da sinistra un colpo che faccia male.
Passammo, quindi, alla scherma pugilistica. Incredibili i suoi riflessi. Bastava un leggero spostamento del suo tronco e del suo volto per fare andare a vuoto i miei colpi che erano diventati più potenti e più saettanti.
– Te l’avevo detto che la boxe si combatte con il cervello.
Alcune volte mi scoraggiavo. Non sarei mai riuscito ad essere come lui.
Un giorno m’invitò ad un combattimento normale di sei minuti sul ring. Non sfigurai. Anch’io avevo imparato a schivare, a guardare nei suoi occhi per capire, a muovere, in modo adeguato, il torso, senza far perdere stabilità alle gambe. Ma Filippo era imprendibile. Solamente due volte riuscii a colpirlo e, ricordando il suo insegnamento che, dopo un colpo riuscito, l’attaccante si rilassa per qualche secondo, riuscii a schivare alcuni suoi colpi. Ma quelli che egli mise a segno mi fecero male, molto male.
Lo vidi combattere da peso leggero con un peso massimo forte e pesante, magnifico incassatore, che dimostrò di avere pratica del pugilato. I suoi pugni erano clavi devastanti. Un combattimento impari. Filippo fu meraviglioso. Sembrava uno spettacolo pirotecnico. E quando, messo alle corde, era costretto a subire, si chiudeva a riccio, aderiva al corpo dell’altro e, con piccoli movimenti, sgusciava dalla presa, per prendersi la rivincita con una gragnuola di colpi, che toglievano il respiro. In genere questo tipo di combattimento non si concludeva. L’arbitro occasionale non si assumeva la responsabilità di farlo continuare.
– Come va Filippo?
– Un altro round e l’avrei steso.
E l’altro replicava:
– Vuddi pirita aveva finito la corda.
La nostra non si poteva chiamare amicizia, secondo il significato di un normale dizionario italiano. Ma simpatia e stima, che dureranno fino alla sua morte e che, per induzione, si tramuteranno in affetto per i suoi figli.
Finiti gli studi liceali, la mia vita cambia corso. Mi allontanai da Comiso. Tornai dopo qualche anno, mi iscrissi all’Università, ebbi guai con la legge, mi diedi alla militanza politica, che mi portò a rivestire cariche pubbliche enormemente assorbenti del mio tempo e dei miei affetti privati. Naturalmente con Filippo i miei rapporti si allentarono quasi totalmente. Avevo notizie di lui da parte di alcuni miei alunni che lo frequentavano e con lui facevano sport di vario tipo, dalla corsa, al pugilato, alla scherma con il bastone o con il coltello.
Ma la vita è spietata nel suo fluire. Lo è stata anche con lui. Nel suo periodo di vita militare egli si cimenta con nuove simpatie e nuove antipatie. Certamente c’era in lui un alto grado di egocentrismo, agevolato dalle sue eccezionali doti fisiche e dai successi atletici. Un giorno la tragedia. In una rissa accoltellò uno dei suoi aggressori che morì.
– Mi son dovuto difendere. Erano cinque o sei che con bastoni volevano punirmi, perché non volevo assoggettarmi. Che dovevo fare? Farmi ammazzare? E’ stata legittima difesa.
– E gli altri cosa hanno fatto? – domandai.
– Sono scappati come dei miserabili, quali erano. Io spero che tu non abbia a provare una violenza inaspettata come quella che ho subito io, perché i casi sono due: o la subisci o si scatena dentro di te un odio ingovernabile. Ma tu non puoi capirmi.
Al tempo del suo racconto l’affermazione mi sembrò esagerata e giustificazionista. Ora no, dopo avere subito una violenza di altro tipo ma con lo stesso scopo dell’umiliazione. L’odio è indomabile. E’ una sorta di pesce piranha che, in pochi minuti, spolpa tutto, passato e presente, e ti lascia un futuro, che non ti permette di dimenticare.
Molte religioni che hanno al centro il senso dell’assoluto hanno dovuto fare i conti con questo sentimento umano, che è reale ed universale, ma contraddice il nucleo fondamentale delle loro meditazioni e, quindi, delle loro morali. La religione cattolica ha tentato di neutralizzarlo con il sentimento del perdono e l’offerta di un mondo non terreno, in cui i buoni saranno eternamente felici ed i cattivi, i peccatori, eternamente sofferenti per le loro colpe. I buddisti affidano la felicità umana al superamento delle passioni e dicono che, essendo i sentimenti umani espressioni dello spirito, hanno andamento circolare per cui il bene ed il male tornano in chi li ha prodotti.
Per me – mi disse – il problema morale non esisteva. Il problema era, in quel momento, che fare per evitare una condanna penale, al di là delle mie ragioni, che contavano poco, che mi avrebbe allontanato per molto tempo dalla mia famiglia. Mi finsi demente nella speranza di convincere medici e giudici di avere agito senza le normali condizioni d’intendere e di volere. Mi bruciavo le braccia, le gambe, il corpo, ridendoci su, come se la mia follia non mi facesse sentire il dolore. Naturalmente il tutto in pubblico. Continuai per un tempo che mi sembrò infinito, fino al processo, dove si constatò che non ero normale e che non ero in condizione d’intendere e di volere.
Il suo racconto, in verità, non mi convinse molto. C’erano tante cose che non collimavano. Egli si accorse delle mie perplessità. Reagì con forza.
– E’ così, è la verità. Filippo non imbroglia.
A Comiso era tornato alla vita normale. La giovinezza si era allontanata, i guai passati pesavano sulle sue spalle, il dovere di sostenere la sua famiglia s’imponeva, fermo restando il culto del suo individualismo e della sua indipendenza. Abbrustoliva ceci e semi di zucca, preparava torrone rosso e bianco e li vendeva per le strade del Comune, spingendo a mano un carrettino adatto alla bisogna. Considerava questo il suo lavoro.
Io ero diventato, nel frattempo, un pubblico amministratore.
Un giorno Filippo venne nel mio posto di lavoro. Era vestito a festa, di scuro e con cravatta, accuratamente sbarbato.
– Cosa è successo? Come mai tu qui?
– Ho bisogno di un favore. Vorrei costruire un chiosco a lato del boschetto, in Piazza San Biagio, ove vendere i miei semi, i miei ceci, il torrone e le caldarroste. La campata sono convinto che c’è.
– Cosa significa che non girerai più con il carrettino?
– No, farò l’una e l’altra cosa. Mi aiuterà mia moglie.
Il sito da lui scelto era una zona verde e non era fabbricabile. Non era facile per me dirgli che non era possibile. La logica amministrativa era fuori dalla sua abitudine mentale. Per lui io ero un suo amico e tanto bastava per avere il dovere di accordargli quanto da lui richiesto, che avrebbe dovuto servire per sostenere la sua famiglia.
Per me significava commettere un reato amministrativo ed offrire un altro argomento all’opposizione amministrativa per sottolineare il mio presunto personalistico, e non democratico, modo d’amministrare la cosa pubblica.
Per Filippo argomenti come questi erano senza capo né coda. Un amico si manifesta nel bisogno. Altrimenti che amico è. Detti una risposta diplomatica. Avrei fatto tutto il possibile. Una risposta la mia che significò per lui che l’autorizzazione sarebbe stata concessa. Ne parlai ai miei colleghi amministratori. Non furono accomodanti. L’aggravante era che Filippo apparteneva alla famiglia Papuni, tutta schierata contro e visibilmente la Sinistra, che amministrava il Comune.
– Agli avversari la legge, agli amici i favori – mi ricordarono alcuni miei collaboratori.
Ma io non potevo dire di no. Mi legavano a lui troppi ricordi. Né potevo dimenticare che, per qualche verso, egli aveva influito indirettamente nella formazione della mia personalità. Mio padre era stato un mite e tale mi aveva educato. In palestra con Filippo, per misteriosi accostamenti, mi ero convinto che la vita bisognava viverla come un combattimento, dove vince chi ha fiducia e rispetto di sé. Il seguito farà il resto, nel bene e nel male. Concessi l’autorizzazione, costasse quel che costasse. Illegittima, naturalmente, perché senza i dovuti pareri. Glielo comunicai senza commenti.
– Va bene – mi rispose – ma mi mancano i soldi. Puoi prestarmeli? Da altri non posso andare, perché non li hanno o perché io non sono in confidenza come con te.
Erano vere le motivazioni? Chi lo può dire? Glieli diedi.
Ormai le nostre vite si erano del tutto divaricate. Lui con il suo chiosco e la sua attività ambulante. Io sempre più fuori da Comiso.
Qualche anno prima della sua morte, a 81 anni, ormai cieco e gravemente ammalato, volle vedermi a casa sua. Il perché non me lo disse. Pudore dei propri sentimenti? O al confine della sua vita volle rivivere con la mia presenza alcuni anni felici della sua esistenza? Era smagrito oltre ogni immaginazione. La sua cecità era evidente. Ma parlava, come se non volesse arrendersi. Ricordando il nostro passato, ormai lontanissimo, aveva la forza di entusiasmarsi. Quasi lo rivivesse. Il volto della moglie era un racconto muto, che dava ad intendere tutto. Dolore e rassegnazione disperata. Quanta differenza dal Filippo di una quindicina di anni addietro, quando, davanti al Banco di Sicilia, nella piazza centrale della città, per dimostrarmi che in lui c’era ancora vitalità notevole, mi sbalordì con un salto mortale, da fermo, senza alcuno apparente sforzo.
Alla notizia della sua morte non potei fare a meno di domandarmi:
– Che cosa sarebbe stato Filippo con le sue eccezionali doti fisiche, la sua non comune volontà ed il suo orgoglio, se fosse vissuto in un ambiente più aperto e più ricco d’occasioni di lavoro e di vita? Non sarebbe, di certo, rimasto il venditore ambulante di ceci abbrustoliti e di caldarroste.
Un interrogativo questo retorico ed inutile. Chissà?
Per i romani antichi: “Unicuique suum”.
Spesso non appare, ma è ovunque
Mi ero fortemente emozionato, quando fui scelto di rappresentare a Zurigo il movimento pacifista siciliano nel 1984 e, in particolare, a sostenere l’ipotesi del disarmo nucleare bilaterale, che a me sembrava equa e convincente.
A Zurigo m’incontrai con Marco, un italiano trapiantato in Svizzera da un po’ di anni, e che doveva aiutarmi nella lingua.
Zurigo mi apparve una città ordinata, tranquilla, anche se vitale, e dava il senso della grande città per la sua varietà urbanistica, la ricchezza dei negozi e l’intenso movimento stradale.
Andammo alla ricerca di un alberghetto decoroso, ma economico. Il movimento pacifista, specie del Sud, non disponeva di molti soldi. E l’autocontrollo ed il rifiuto del consumismo dovevano essere le costanti del nostro comportamento di vita.
Ne trovammo uno nei pressi del centro. Alla prima occhiata mi convinse. Dava il senso del pulito, dell’ordinato e c’era silenzio come in un convento. La proprietaria una tedesca, bionda, dai capelli curati, occhi azzurri, tarchiata, fianchi robusti, sessantenne, e un modo di guardare e di parlare abbastanza deciso, anche se velato di gentilezza. Ci disse in un italiano rudimentale che le dispiaceva, ma non aveva posto per noi. Che nei pressi vi erano altri alberghetti con più posti letto del suo.
Ritornammo sui nostri passi. Sul portone notai un avviso, scritto a stampatello ed in tedesco, che io non capii. Nel contesto, però, lessi la parola italiani o su per giù. M’incuriosii e chiesi a Marco di tradurre l’avviso.
Molto malvolentieri me lo tradusse. C’era scritto che quell’hotel non accettava ospiti italiani e che la decisione era definitiva.
A quel tempo ero più emotivo e facevo fatica a razionalizzare gli avvenimenti che non accettavo.
Tornai dalla signora tedesca, trascinandomi Marco e, con voce di certo non normale, domandai la logica di quell’avviso, affisso sul portoncino.
– Quale logica? Nel mio hotel le regole le faccio io.
– Non è così – replicai – perché i soldi di noi italiani valgono quanto quelli degli svizzeri o dei tedeschi, dei bianchi o dei neri. E soprattutto a lei non è permesso gestire un locale pubblico con una mentalità da razzista. In una nazione civile questo comportamento è punito dalla legge. Per fortuna il nazismo l’abbiamo fatto fuori in modo definitivo. Né a lei è permesso di umiliarmi e di farmi sentire di razza inferiore. Voi svizzeri potete essere più avanti di noi nella tecnologia o negli ordinamenti cittadini, ma come esseri umani, io non lo so, cara signora, chi è migliore di noi due, chi è più ricco di umanità e di fantasia.
– Io non ho capito molto di quello che mi ha detto. Ho capito, però, che lei mi ha offesa considerandomi una razzista. Io so solo che c’è gente che non conosce la pulizia ed è incivile e non merita di vivere in un ambiente normale come il mio. Ed io ho il diritto di difendere la mia proprietà e lei non ha il diritto di offendermi, senza domandarmi il perché sono stata costretta a quella decisione. Comunque…
– Signora, sono costretto ad interromperla. Lei accetta nel suo hotel i negri o i gialli?
– I gialli si, perché sono mansueti ed educati. I neri no, perché somigliano agli italiani.
– E lei, dopo queste affermazioni, continua a dire di non essere razzista. Va bene, chiudiamo il discorso. Appena esco di qui, andrò alla Polizia e la denunzierò per violazione dei diritti civili ed umani. Tenga in conto che lei non ci ha affittato le camere, perché noi siamo italiani. Il minimo che le autorità della città possono fare è di non permetterle, per indegnità, di gestire un hotel.
Marco a questo punto disse in tedesco qualcosa. Nella testa della signora dovette succedere, o per le cose dette da me o per le poche parole dette da Marco, un sommovimento d’idee o d’impressioni, perché il tono della voce improvvisamente mutò.
– Un momento, prima che voi andiate dalla Polizia, è giusto che voi sappiate quello che è successo. Prego, seguitemi.
Ci guidò, lungo un corridoio, in una stanza abbastanza ampia con un letto matrimoniale ed una culla con accanto una stanzetta dotata dei servizi igienici ed una vasca da bagno piccola dove stare seduti. Tutto era estremamente lindo. Solo il bagno, nella parte dove l’ospite si sarebbe dovuto sedere, era annerito.
– Ha guardato bene? – mi domandò la signora – Al posto di quel nero c’erano almeno trenta centimetri di terra, dove una coppia d’italiani, marito e moglie, avevano piantato alcune erbe della loro terra. Per non farsi scoprire, mi avevano detto che avrebbero badato loro alla pulizia dei locali. Stettero alcune settimane. Erano puntualissimi nel pagamento, lavorando ambedue in fabbrica, e la stanza era tenuta in buon ordine. Quando, inorridita, m’accorsi di quello che avevano combinato, mi risposero che il mangiare svizzero, non usando loro burro e salse, non aveva sapore, per cui la necessità di quelle erbe. Da lì la mia decisione di metterli alla porta e di non dare ospitalità ad emigrati italiani.
– Quello che hanno fatto i miei compatrioti è assurdo e quasi incredibile. Lei era nel pieno diritto di denunziarli per danni e per ottenere il risarcimento. Ma quello che è avvenuto non le dava il diritto di umiliarci, come popolo, come persone, né le permette di affermare che gli italiani ed i neri si somigliano, perché ambedue sporchi ed incivili. Lei deve togliere quell’avviso, affisso sulla porta d’entrata e non usare discriminazioni a danno degli italiani.
– La decisione, che ho preso, la mantengo e sono sicura che nessun giudice mi darà torto, perché è mio diritto accettare solo coloro che mi assicurano una vita tranquilla nei miei locali. Spero che anche questo lei lo capisca.
Ce ne andammo fortemente irritati. Io insistevo sulla necessità di andare dalla Polizia ed esporre i fatti con denunzia scritta.
– Un atto di razzismo di tanta gravità non può passare inosservato e senza conseguenze. Se non siamo noi pacifisti, che della parità, in ogni senso, abbiamo fatto la ragione della nostra vita, ad opporci ad ogni atto di violenza umana, non possiamo lamentarci, se poi gli altri, vittime comprese, non si ribellano, né per le piccole, né per le grandi violenze. Se è necessario dobbiamo incaricare un avvocato e chiedere al movimento pacifista di sostenerne le spese. Noi non siamo solo sostenitori del disarmo nucleare, ma anche di una crescita morale, che renda gli uomini più consapevoli dei propri diritti.
Marco era perplesso.
– Per il fatto in sé io sono del tutto d’accordo con te. Quella donna è chiaramente una razzista. Lo dimostrano non solo i toni del suo ragionamento, ma anche alcuni aggettivi usati in tedesco, che tu non hai capito. Però io vivo da alcuni anni in questa città, conosco il giudizio degli abitanti sugli immigrati e, soprattutto, il modo di pensare e di agire dei poliziotti. Posso scommettere che, se proprio non danno ragione alla proprietaria dell’hotel, considerano l’accaduto, pur se spiacevole, da chiudere con la promessa di un rimprovero per un atto anomalo, ma non identificabile come un reato. Nei fatti, per loro, libertà significa potere decidere secondo convenienza ed il comportamento dei siciliani diventerebbe la colpa principale. Sono contrario, poi, ad incaricare un avvocato perché le conseguenze sarebbero disastrose per i siciliani. Verrebbero interrogati e reinterrogati con pignoleria tutta svizzera ed alla fine si trasformerebbero nei reali imputati, rei del danneggiamento compiuto ai danni della proprietaria e simboli di una cultura pre-civile, insopportabile in una città di avanzata civiltà.
– Già, perché quei siciliani stanno a Zurigo per la bontà degli svizzeri e non perché essi servono per produrre ricchezza ed a coprire vuoti della manodopera.
Il discorso di Marco mi turbò. Ero io fuori dalla realtà, imprigionato dall’ideologia? Oppure, Marco si era irrimediabilmente acclimatato?
Ne venne fuori un lungo silenzio che significava una lesione del nostro rapporto di stima. Per fortuna avevamo tanto da fare per non farci condizionare da uno stato d’animo o da un giudizio ideologico.
Ormai è passato un notevole numero di anni da quell’avvenimento. Sono tornato, forse definitivamente, nella mia terra. Eppure dal pozzo della memoria quel fatto, ogni tanto, spunta a simbolo di una dolorosa contraddizione.
Ora anche la Sicilia è diventata terra d’immigrazione. Sono immigrati provenienti, prevalentemente, dal Nord Africa, utilizzati nei lavori che i siciliani non vogliono fare o in quelli più fastidiosi o più pericolosi. Un fenomeno che si ripete. Ieri noi, ora gli extraeuropei. Mano d’opera sfruttata illegalmente, senza i diritti previdenziali. Almeno in Svizzera questo non avveniva. I diritti del lavoro e quelli previdenziali erano rispettati. Strano ed innaturale fenomeno. Moltissimi datori di lavoro siciliani, specie delle campagne, sono stati emigrati e dovrebbero portare sui tessuti della loro anima le stimmate delle umiliazioni subite in terra straniera.
Uno di questi datori di lavoro, mio amico, quando i tempi sociali erano difficili, ormai solo un conoscente perché diventato proprietario o impresario, in una casuale discussione, mi disse che egli era un benefattore per il solo fatto che dava lavoro agli extraeuropei.
– Ma tu non la pensavi così, quando, negli anni ’60 e ’70, eri emigrato.
– Cosa significa un simile discorso? Io mi sono fatto, allora, un culo così, ora se lo facciano loro, se vogliono diventare come me.
– Ma tu non dai loro quello che i tuoi padroni di ieri davano a te. Mi riferisco al giusto salario ed ai contributi previdenziali. Ho saputo che un lavoratore di colore ha perduto tre dita della mano destra, lavorando in una officina metalmeccanica, ed è stato indennizzato con 130.000 lire.
– Cosa vuoi dire che siamo degli sfruttatori? Ma quelli che eravamo in Sud America i diritti ce li potevamo sognare. E comunque nessuno li obbliga. Sono liberi di andarsene, quando vogliono. La verità è che il comunismo è finito e che ormai viviamo in un periodo di libero mercato. Io l’ho capito, tu, invece con tutti i tuoi studi, non l’hai ancora capito.
Un siciliano doc ad Helsinki
Avevamo saputo, non so come e perché, che la Finlandia, all’incirca cinque milioni di abitanti, quasi quanto la popolazione della Sicilia, e senza particolari risorse di pregiata produttività, era riuscita a stabilizzare un livello sociale e culturale di notevole rilievo.
Lo Stato, per l’istruzione pubblica, spendeva il 7,6% del suo bilancio, per la sicurezza sociale il 30%. I musei, frequentati da tre milioni di visitatori l’anno, erano oltre i 200.
Il raffronto era vergognosamente deludente per la Sicilia.
L’Assemblea regionale del tempo (anno 1975) considerò opportuno inviare una delegazione parlamentare per capire ed assumere, ove necessario, alcune iniziative, atte a migliorare alcuni livelli socio-assistenziali (allora si diceva così) dell’Isola.
In teoria, la Sicilia aveva da offrire più della Finlandia, come beni naturali ed ambientali, ed aveva potenzialità maggiori di molte altre Regioni italiane, perché era riuscita ad ottenere il diritto ad una legislazione primaria, il diritto, cioè, a fare leggi diverse da quelle nazionali.
E così, presi i dovuti accordi, la delegazione, rappresentata dalla Commissione Sanità, nell’ottobre 1975, partì. Viaggio, arrivo, accoglienza, ospitalità, tutto bene. Siamo stati ricevuti e trattati da uomini di Stato. Il programma era molto semplice: conoscitivo-turistico. Alloggiati in un grande albergo, da lì ci muovemmo per attuare il rigoroso programma di visite, previsto dagli ospitanti. All’arrivo, un quarto d’ora per rinfrescarci e cambiarci d’abito ed appuntamento all’uscita dell’hotel per la cena. Era caduta, fuori, la prima neve.
Io arrivai qualche secondo in ritardo, perché al bar ero stato attratto dal profilo eccezionalmente bello di un giovane, capelli d’oro, intensamente ondulati, seduto accanto ad un bicchiere di alcool.
Solo Prassitele avrebbe potuto modellare una testa come quella. Tanta la bellezza e la grazia.
Al nostro ritorno dalla cena, a sera tardi, il giovane era ancora là con il suo bicchiere di alcool davanti e lo sguardo perduto nel vuoto.
L’indomani, curioso come una scimmia, tramite l’interprete, chiesi al barista chi fosse quel giovane della sera prima. Non mi parve molto contento il barista della mia richiesta. La privacy, da quelle parti, è un sentimento forte. Ma io ero un cliente ed in qualche modo doveva accontentarmi.
– Non so chi sia. Viene, da un po’ di tempo, ogni sera, quasi alla stessa ora. Paga in anticipo due bottiglie di vodka, oltre la mancia, lascia il denaro per un taxi e l’aggiunta per chi doveva aiutarlo ad arrivare al suo appartamento e al suo letto. Altro non so e non desidero sapere. Della propria vita ognuno ha il diritto di disporre come crede.
L’ultima sera della nostra permanenza in hotel il giovane era ancora là con il suo alcool, i suoi riti, e la sua straordinaria bellezza.
Nonostante questo sconcertante episodio, quasi un biglietto di presentazione, la Finlandia mi incantò ed a distanza di venticinque anni permangono in me immutati fascino e nostalgia. Forse perché m’apparve da subito, diversa, quasi antitetica, dalla Sicilia, da cui ero partito. Là tutto era verde, vitale, nei suoi boschi e nei suoi fiordi. Tutto governato con attenzione e senso del dovere. Non sarebbe stato possibile trovare nei suoi boschi, molti di essi di proprietà statale, un ramo spezzato ed abbandonato. La cultura agricola tradizionale e l’allevamento del grande bestiame, dai bovini alle renne, davano il senso di una compartecipazione esistenziale tra l’uomo e la natura, un rapporto visibile da esseri viventi con altri esseri viventi, quasi una religione animistica. Ovviamente non meravigliava se la parità donna-uomo era arrivata dove nel mio Sud non era ancora pensabile.
Non lontano da Helsinki era stata istituita un’Università degli sport, dove in una sapiente combinazione tra teoria e pratica venivano formati gli istruttori di tutti gli sport praticati. Ovviamente lo spazio fisico e temporale dedicato alla cultura teorica e pratica era enorme. Per molti di noi impensabile.
In ogni settore di esercitazioni più piscine di ampiezza olimpionica con istruttori ai bordi che impartivano le adeguate disposizioni. Quasi che gli sport d’acqua fossero alla base di tutti gli altri sport.
Ci avviammo verso un complesso di piscine, dove si nuotava nei vari stili, si praticavano gli allenamenti di palla a nuoto ed altro. Tutti sembravano divertirsi. Ogni tanto si ascoltavano dei timer che scandivano i tempi. Erano meravigliosi quei corpi giovani, sfilati, armonici nei loro movimenti. Si muovevano come se non fossero appesantiti dai loro scheletri. Eleganti e veloci nelle movenze, quasi dissossati. Per associazione, ricordai il quadro di Matisse “La danza”. Ad alta voce mi scappò un “sono bellissimi, sembrano simboli di bellezza universale, in specie le ragazze”.
– Si! vero è, ma sunu tutte buttane – commentò una voce accanto a me.
Era un siciliano, di Catania, che frequentava l’Università. Aveva saputo della presenza della delegazione siciliana e si era avvicinato “per sentire l’odore della mia terra”.
– Per quello che capisco i finlandesi non ti piacciono.
– Per niente, i fimmini sunu buttane, i masculi curnuti accurdati, crisciuti in mezzu a li corna, che sunu naturali comu li corna pi li capri.
– Ma, scusami, se hai un giudizio così negativo nei confronti di un popolo e di una cultura, che a me, invece esercita grande attrazione, perché ci resti?
– Perché la Laurea di questa Università conta molto in Italia e nel mondo e perché mi restano gli ultimi mesi per conseguirla. Poi me ne tornerò nella mia Catania e mi sposerò con una civitota, bella o brutta che sia, purché abbia un cuore e possa sentirla come cosa mia, anima della mia anima. Mi capisci?
– Ho l’impressione che tu rifiuti più che le donne, la cultura di questo popolo, che è diversa dalla nostra per mille motivi. Noi siamo venuti qui per capirla e, soprattutto, per scoprire il perché del loro livello di sviluppo, che è indubbiamente più elevato del nostro. Tu sai meglio di me che, ad esempio, le percentuali di paramorfismo, qui, sono quasi nulle, da noi, invece, sono elevate e, soprattutto, generalizzate, che qui già utilizzano le prime scoperte dell’elettronica nelle scuole e nell’agricoltura. Da noi, di ciò non solo non si parla, ma forse non se ne ha l’idea. L’assistenza socio-sanitaria, qui, è considerata dovere dello Stato e un diritto del cittadino, da noi siamo ancora agli inizi e, quel che è più grave, consideriamo questi concetti inadeguati per la nostra cultura e le nostre possibilità.
– Tutte cazzate. Parli così perché non hai frequentato questa gente. Sono dei robot a comando che, al posto del cuore, hanno meccanismi perfetti, adatti per il lavoro, per lo sport, per fare sesso e stop. Per i sentimenti non c’è posto.
Il discorso mi era interessante, soprattutto perché non mi sembrava credibile. E, così, senza volerlo, ci distanziammo dagli altri e ci appartammo. Ciccio, così si chiamava, volle offrirmi il pranzo, per il piacere, mi disse, di stare con un siciliano.
– Scusami, Ciccio, cosa ti è successo, per dire le cose che mi hai detto. Non mi è possibile immaginare un popolo senza sentimenti. Anche qui, immagino, si scrivono poesie e romanzi d’amore. Ho l’impressione chhe tu abbia fatto incontri sbagliati o sfortunati, che hai generalizzato e fatto diventare regola comune. Non puoi considerare buttane le donne che vengono a letto con te senza remunerazione. Da noi le buttane si fanno pagare o si danno per altri motivi alquanto pratici. La nostra terra non è tutta popolata di Giuliette e Romei.
– Anch’io al primo anno di Università sono rimasto attratto dal nuovo che questo Paese rappresentava. Dalle facce d’angelo, dalle bellezze femminili mai viste o dalla serietà nello studio e nel lavoro. Qui ho conosciuto i primi drogati e gli alcoolizzati, ma li giudicavo eccezioni. Fin quando non dovetti convincermi che la generalità è composta da persone senza anima e senza sentimenti, prigionieri di diritti e doveri, ubbidienti, per vocazione, a chi comanda, che non ha il senso del peccato, che considera il corpo uno strumento e un piacere della vita.
– Caro Ciccio, tu mi confondi con le tue affermazioni, che sento fortemente sofferte. Ma non posso fare a meno di considerarle generali e, quindi, un po’ astratte. La mia preparazione culturale non mi permette di accettare una realtà umana, quale quella che tu dici di avere sperimentata. I finlandesi sarebbero gli unici al mondo a non avere anima e sentimenti.
– Senti, io sono andato a letto con centinaia di ragazze. Credimi, ci so fare con il sesso, non credo di avere lasciato delusa la ragazza con cui mi accompagnavo. Purtuttavia, dopo il nostro rapporto per lei tutto era finito. Un ringraziamento ed un saluto e la partita veniva considerata definitivamente chiusa.
– Ciccio, mi dispiace, ma non mi convinci. C’è qualcosa che non quadra nel tuo ragionamento. Mi sembra generalizzato ed astratto ed anche schematico.
– Spero che non ti offenda se ti dico che sei un presuntuoso. Sei in questo paese da due giorni e pretendi di conoscerlo meglio di me, che ci vivo da anni.
– Ma no, non sono un presuntuoso. Solo che come metodo io ho il dubbio e le geometriche regole della ragione.
– E va bene, siamo diversi. A questo punto ti racconterò un paio di casi capitatimi ultimamente. Ti serviranno per eliminare alcuni tuoi dubbi. Mi era piaciuta una ragazza, che avevo conosciuto in piscina. Un viso ri marunnuzza. Sembrava la Madonna reincarnata. Un corpo minuto, perfetto. Bruna con occhi neri, vellutati, espressivi. Una bellezza siciliana, migliorata dallo sport e dalla vita attiva. La corteggiai intensamente e, quasi mi vergogno a dirlo, sentivo di essermene rapidamente innamorato. Mi domandò se ero italiano ed ebbi l’impressione che la mia risposta aveva facilitato il nostro rapporto. C’incontrammo altre volte, finché ebbi l’opportunità d’invitarla a cena. Accettò l’invito e venne con un’altra ragazza, una stangona bionda, che mi osservava senza reticenza e parlava pochissimo. Mangiammo e bevemmo birra e vodka. Ero felice, anche se contrariato dalla presenza della stangona. Sentivo che avrei avuto una notte meravigliosa con una ragazza meravigliosa, che ad ogni minuto mi appariva più bella. Al momento giusto le dissi che avevo prenotato una stanza d’hotel e le chiesi di venire con me. Non ebbe dubbi, ma insieme – mi disse – con la sua compagna. Non poteva rimandarla a casa da sola. Sarebbe stato scortese. Replicai con irritato disappunto che io ero innamorato di lei e non dell’altra e che il rapporto a tre sarebbe stato un’altra cosa, a cui non ero preparato e che non mi piaceva. La stangona continuava a stare in silenzio. Miriam, la mia ragazza, fu irremovibile. O con la sua amica o niente. Fu una notte strana e faticosa passata tra desiderio, ripulsa e paura di non farcela. La stangona dimostrò di essere brava ad aiutarmi, ma le sue carezze erano vistosamente mirate a toccare e ad eccitare ogni parte del corpo della sua amica. Da parte mia, me la cavai bene. Sono sicuro di non averle deluse. Quando mi sono svegliato era già tardi. Io avevo perduto le prime ore di lezioni. Le mie donne nel letto non c’erano. Non erano neanche in bagno. Immaginai che fossero andate al lavoro. Le loro vesti non c’erano. Però almeno un saluto me lo sarei meritato. Forse non hanno voluto svegliarmi – pensai-. Cercai Miriam per alcuni giorni. Sembrava scomparsa. Mi convinsi che lavorava da commessa per cui visitai i negozi e i supermercati che mi erano noti. Qui il titolo di studio vale per se stesso. Un giorno puoi incontrare un tuo amico che lavora come manager o come insegnante, un altro giorno lo trovi come netturbino o come cameriere in un ristorante. Quello che conta è il lavoro, che ti dà la possibilità di essere economicamente indipendente.
La cercai per un paio di settimane, sempre più ansioso e forse più innamorato. Finalmente la intravidi dietro la vetrata di un negozio di profumeria. Con il cuore che correva i cento metri entrai e l’avvicinai.
– Miriam, finalmente ti ho trovata.
Lei mi guardò, corrugò la fronte, con un sorriso stampato per l’occasione:
– Scusi, chi è lei?
– Come chi sono? Abbiamo cenato assieme… abbiamo dormito assieme… con una tua amica, bionda, alta. E’ impossibile che non ti ricordi di me.
Lei mi guardava come se cercasse nei miei occhi i suoi ricordi.
– Si, si, ora mi ricordo. Ma perché sei venuto a cercarmi?
– Perché sono innamorato di te, ma mi rendo conto che qui non possiamo parlare a lungo, per cui potremmo rivederci stasera a cena in un locale da te scelto.
– Caro, scusami, non ricordo il tuo nome, ma questa sera ho un impegno.
– Ma come hai potuto dimenticare tutto e soprattutto non tenere in conto che io ti ho amato ed ora ti amo di più. Io ho bisogno di stare con te. La mia non è stata un’avventura. Se tu vuoi, io ti porto con me in Italia.
– Mi dispiace, ma fra noi non c’è stato amore. Ci siamo piaciuti e stop. Io amo un altro. Scusami, ma io devo lavorare e la direttrice della profumeria ci ha guardato due volte. Speriamo che capiti per noi un’altra occasione d’incontro.
Mi salutò e si rivolse verso una cliente, che, intanto, era entrata.
Mentre parlava, dei flash illuminarono i ricordi di quella notte. In verità, quella notte d’amore era stata un’esercitazione di sesso di tipo tantrico. Nessun sospiro d’amore, solo dei mugugni di piacere, intervallati, alla fine del rapporto, da tranquille dormite per dare ai nostri sensi la possibilità di recupero dei loro desideri.
Sulla strada del ritorno ero frastornato. C’era qualcosa che ribolliva dentro di me: amore o rabbia per essere stato usato da lei e da quella porca lesbica? Ma ero anche più padrone delle mie emozioni. E’ la Finlandia che è fatta così. Nessuna donna italiana si sarebbe comportata in tale modo.
– Capisco. Io mi sarei sentito male come te, ma devi convincerti che il tuo è stato un incontro sbagliato, non generalizzabile. Ognuno di noi può raccontare le sue delusioni, magari vissute in modo diverso.
– Ma che dici? Non puoi fare paragoni. Ti racconto un altro caso capitatomi e poi chiudiamo perché è evidente che tu non vuoi capire. In un locale, ove si mangiava e si ballava, abbordai una signora, trentenne, formosa al punto giusto. La invito a ballare ed a cenare. Ballava bene, anche i lisci. Fu una serata piacevolissima. Non solo era bella, ma anche simpaticissima, arguta ed intelligente. Alla fine, prima di accomiatarci lei mi dice:
– Domani vado in vacanza, per tre giorni, il fine settimana. Vuoi farmi compagnia? A me farebbe piacere.
Risposi di si e concordammo l’appuntamento per la partenza sotto casa sua. Fu puntualissima con la sua auto.
– Scusami, ma questa notte sono stata di guardia, in ospedale, per cui ho bisogno di andare a casa per ritirare il borsone da viaggio.
Salimmo a casa sua. Io volevo rimanere nella sua auto ad aspettarla. Ma lei insistette. Aveva piacere che io conoscessi e salutassi il marito. Non mi aveva detto di avere un marito. La cosa m’indispettì. Comunque salutai il marito che trovai seduto in poltrona a leggere. Era un bell’uomo, un po’ più anziano di lei, dai modi gentili ed affabili. Capii che già sapeva tutto: la gita, la mia presenza e la mia funzione, che non era certamente quella del cavalier servente. Lei lo rassicurò sulla data del suo ritorno e che avrebbe dato notizie di sé, ogni giorno, per telefono. Lui fu affettuosissimo con lei e con me. Mi pregò di avere cura di lei e di fare una buona vacanza con la sua Doris, che era la migliore delle donne possibili. Volle abbracciarmi, dicendosi sicuro della nostra futura amicizia. Il tutto mi metteva a disagio tale che sentii il bisogno di respirare a pieni polmoni, quando uscii dalla sua casa, quasi a liberarmi da un groppo di rimorsi. Non ne potei fare a meno, e durante una sosta del viaggio, le domandai perché non si separava dal marito e se non provava rimorsi a tradirlo così platealmente.
Mi guardò stranizzata e mi disse:
– Io amo mio marito e lo stimo. Mi è necessario per la mia vita, che sarebbe insopportabile senza di lui. Nessun tradimento della sua fiducia, perché Hans sa tutto e mi ha autorizzato. Diversamente io non sarei venuta con te. Non puoi confondere il divertimento con l’amore, che è un complesso di sentimenti profondi e delicati.
– Ma allora – replicai irritato – qual è il mio ruolo?
– Non hai un ruolo. La nostra vacanza è solo un piacevole passatempo, senza conseguenze.
– Io ero tremendamente impacciato e la nostra vacanza ne risentì, anche se Doris era una maestra d’amore. Ma io quel tipo di rapporti non li capivo e non li capirò mai. Né credo che tu li giustifichi.
I miei colleghi, abbastanza irritati, intanto, mi chiamavano e mi salvarono da risposte difficili.
Forse Ciccio non aveva capito che il mondo è vario e che in Finlandia forse i sentimenti d’amore sono più autonomi dal sesso.
– Ciao, Ciccio, ci rivedremo. Rifletti, però, sul fatto che le donne in Finlandia si comportano come gli uomini in Sicilia.
Una sera con il Maestro
Avevamo faticato per avere il poeta Rafael Alberti a Comiso, per l’inaugurazione, nel 1976, del Monumento alla Resistenza internazionale. Non potevamo correre il rischio di scadere nel “burocratico” o nel “troppo partitico” con una manifestazione tradizionale: una musichetta, alcuni rappresentanti di partiti, una corona e… via, tutto finito. Non lo meritava il contenuto del monumento, la sua simbologia, non lo meritava la novità del progetto, non lo meritavano i nomi scolpiti sui massi, che avevano cambiato la storia di una parte del mondo. Sentivamo di avere bisogno che ad inaugurarlo ci fossero persone che l’antifascismo l’avessero vissuto sulla loro pelle e nelle loro carni.
Rafael Alberti e Francine Bonan, a cui a Parigi, a 4-5 anni, avevano ucciso il padre, mentre la teneva per mano per una passeggiata, ci sembrarono le persone giuste per rappresentare lo spirito di quel monumento.
Ero già là, quando il Maestro arrivò, accompagnato da una bellissima ragazza cilena. Sebbene strapazzato dal viaggio, portava bene i suoi 74 anni. Asciutto e solido nel corpo, capelli bianchi e lunghi, il volto volitivo con occhi che non si facevano dimenticare. Grigio-castani, sembravano che volessero scrutare oltre l’apparenza, e però velati dalla malinconia di realtà perdute e ancora desiderate.
L’amico di Garcia Lorca, di Picasso, di Asturias e di Pablo Neruda non ci mise molto ad apprezzare il Monumento.
– Originale, simbolista, molto bello, chi è lo scultore? Desidero parlargli per farmi spiegare i simboli.
In verità quel tipo di scultura monumentale, forse la seconda in Italia, denominata percorribile, perché non era frontale e statica, come le tradizionali, poteva essere percorsa dai visitatori e i ragazzi potevano sbizzarrirsi a giocare, al suo interno, rendendola vivente della loro giovinezza.
– Qui gli insegnanti possono venire con i loro alunni per far loro lezioni di storia contemporanea, partendo dai nomi incisi sui massi e ti ringrazio per la mia poesia che hai fatto scolpire su uno dei massi del monumento. Le pietre, in genere, sono più fedeli della memoria degli uomini fu questa la riflessione del Maestro.
La sera , dopo cena, ci ritirammo a casa.
– Maestro, tu per me sei tante cose, sei il poeta, sei il pittore, sei l’antifascista militante, sei il perseguitato. Se non hai sonno desidererei sapere qualcosa di te.
– No, no, sono un po’ stanco, ma in questa poltrona sto bene, non ho sonno perché quel monumento ha messo in movimento molte cose nella mia testa. Ma tu non lavorare d’immaginazione. Io sono un poeta di strada, un grafico dilettante, si, sono un antifascista, che non ha alcun merito, se non quello di avere obbedito alla sua coscienza, ai suoi ideali e al suo dovere di solidarietà verso il mio popolo. Altri sono i poeti e i pittori. Sono i Garcia Lorca, i Pablo Neruda, i Picasso, i Matisse, che il tempo, nonostante la sua immensa potenza distruttiva, non potrà cancellare. Comunque, cosa vuoi sapere?
– Da quanti anni sei in esilio?
– Da 38 anni. E sono molti.
– Hai rimpianti della tua vita in Spagna?
– Se rimpianto significa nostalgia, moltissima, dolorosa, come se qualcuno t’avesse strappato qualcosa di tuo. Se, invece, vuole significare pentimento delle scelte fatte, questo no, perché non potevo agire diversamente. Avevo 21 anni quando prese il potere il generale Primo Rivera, sostenuto dal Re di Spagna e dalla Chiesa e subito vennero assunti provvedimenti inaccettabili, ad iniziare dalla proibizione degli scioperi. La condizione dei contadini era terribile. Miseria, fame, senza diritti, tutto nelle mani dei grandi agrari. Ogni provvedimento ha un solo verso, a favore dei grandi ricchi. Io appartenevo ad una famiglia borghese, ma non pensavo allo stesso modo di mio padre. Le mie idee non erano a quel tempo chiare, ma non erano quelle di mio padre, da cui ero giudicato malamente. Anche il fatto che io amavo scrivere versi o dipingevo contribuiva a rendere più grave il suo giudizio su di me. A 22 anni vinsi un premio nazionale di poesia. Il giudizio di mio padre non si modificò. Essere influenzato dagli ideali della Sinistra fu facile. Essi rendevano chiaro il mio scontento e davano contenuti alla mia poesia e alla mia grafica. La crisi economica del 1929 fece saltare il coperchio della pentola. Lo stesso Rivera fu costretto a dimettersi, a lasciare la Spagna e ritirarsi a Parigi. La necessità di un cambiamento sociale era diventata un bisogno culturale generalizzato tra la gente. Indeterminato e intenso come l’amore di un adolescente. In questo processo mi ci trovai dentro senza sapere il come.
Alle elezioni del 1931 le Sinistre vinsero tanto clamorosamente che anche il Re sentì la necessità di lasciare la Spagna. Si costituisce “la Repubblica democratica dei lavoratori di tutte le classi”. Immensa la gioia del popolo e senza limiti le speranze.
– Ma in Italia non sappiamo molto di questo periodo della vostra storia. Il Fascismo ci ha fatto vedere la parte brutta di essa e nelle scuole c’insegnavano che i “rossi” si comportavano da mostri che violentavano le donne, uccidevano i sacerdoti, ammazzavano e seviziavano gli avversari politici o presunti tali. Qual è la verità?
– Si, caro Giacomo, in ciò c’è anche del vero, ma la Rivoluzione spagnola non è stata solamente questa. Accanto alle cose negative, ha avuto grandi meriti. E’ stata una rosa bella e profumata in mezzo ad uno sterpeto. I comunisti, o i “rossi”, era una minoranza molto netta. Anche io, allora m’iscrissi al partito comunista spagnolo. Ma la rivoluzione era diretta e gestita dagli anarco-sindacalisti, che fecero molti e gravi errori. Il primo di credere che la Chiesa era stata l’anima e la responsabile della reazione antipopolare e della passività del popolo. I comunisti non potevano essere d’accordo con tale analisi. Per noi le motivazioni erano altre, erano di classe.
La Repubblica ebbe, però, altri meriti. Decretò il suffragio universale esteso a tutti, compresi le donne ed i soldati, abolì tutti i titoli nobiliari, istituì il divorzio, tentò di creare una scuola laica, anche se incontrò estrema fatica per la mancanza di aule ed insegnanti. Alla Monarchia clericale non era mai interessata l’istruzione della gente.
Ideò molte riforme, che rimasero sulla carta. Sparse, è vero, molto sangue, specie di sacerdoti. Errore madornale che spinse una parte del popolo verso destra. Ma neanche governi “centristi” che si costituirono aiutarono molto. S’impantanarono in direzioni di ogni tipo e, di fatto, insabbiarono grande parte delle riforme che avrebbero potuto attuare. Pur tuttavia, nel 1936, il Fronte popolare vinse di nuovo le elezioni con tutto il suo strascico di vendette. La Destra capì che non poteva più attendere. Dal Marocco il generale Franco con le sue truppe sbarcò in Spagna, si collegò con l’esercito metropolitano ed attaccò il Governo. La guerra civile durò tre anni e fu dolorosa. Dalla parte del Governo la polizia, l’aviazione ed i volontari, venuti da tutta l’Europa, ed anche dagli Stati Uniti, da parte di Franco l’esercito ed il sostegno di quasi tutti gli Stati Europei. L’Italia inviò 70.000 fascisti, la Germania intervenne con l’aviazione e truppe di terra. La Francia e l’Inghilterra abbandonarono la Spagna rivoluzionaria con la politica del “non intervento”. La guerra civile fu orrenda. Dall’una e dall’altra parte, in genere, non si facevano prigionieri. Li si fucilavano. Il mio fraterno amico, il grande poeta Garcia Lorca, fu preso prigioniero e fucilato dai franchisti. Nel 1939 la guerra civile si concluse. Il resto lo sai.
– Si, lo so. Ma tu cosa hai fatto?
– Che dovevo fare? Scappare là dove era possibile. In Francia, in Messico, in Argentina, in Italia. A Parigi con Pablo Neruda fino all’occupazione nazista. In Argentina con mia moglie Maria Icon, compagna di vita e d’arte, e la figlia Aytana finché è stato possibile, finché cioè, le intimidazioni politiche e governative non diventarono pericolose. Alla fine degli anni ’50 sono venuto a Roma, la mia seconda patria, a cui io devo molto. A Roma mi è stato dato il Premio Roma di poesia e la cittadinanza onoraria e ho la possibilità d’incontrarmi con i compagni d’idee e d’arte. L’Italia è ormai diventata la mia seconda patria.
– Ciò significa che resterai in Italia. Ormai hai una certa età.
– Spero di no. Voi italiani siete i miei fratelli, ma il mio sogno è tornare in patria, al mio paese, a Puerto di S. Maria, a quelle bianche e assolate spiagge e a quel cielo eternamente azzurro dove sono nato, pubblicare le poesie che ho scritto durante l’esilio, far conoscere la mia grafica e respirare l’aria della libertà della mia terra, che mi è stata privata per tanti anni.
– Posso farti una domanda indiscreta? E la tua vita privata?
– Sorrise, mi guardò con occhi puntuti, facendomi sentire a disagio.
– Un esule non può avere vita privata. Il mio più grande amore è stato quello per la libertà. La mia compagna è stata Maria Icon, che mi ha aiutato molto. Con lei ho potuto superare momenti acuti di disperazione e di depressione. E spero che mia figlia Aytana non debba pagare le colpe della mia vita. Ma ora sono stanco e domani dobbiamo essere pronti per l’inaugurazione del Monumento. A proposito non dimenticare di farmi incontrare il progettista e lo scultore dell’opera. Virduzzo, mi pare, mi hai detto, si chiami.
– Scusami. Un’ultima domanda. Tu hai pagato cara la tua scelta ideale. Hai rinunziato ad una vita normale, ad una carriera, ad avere le gratificazioni che la tua cultura ti poteva garantire. Sei stato costretto per 40 anni a fuggire e a temere per la tua vita. In sincerità, ne valeva la pena?
– E’ una domanda che mi son fatto molte volte. Dopo tanti ragionamenti con me stesso, ne è venuta la stessa conclusione. Quello che ho fatto non l’ho fatto per compiacere qualcuno o per avere dei benefici, era un demone interno che me lo imponeva, per cui non mi aspetto niente dagli altri. Se non avessi fatto quello che ho fatto, ora mi sentirei male.
Il maestro, nel 1977, dopo la morte di Franco, tornò in patria, restituita alla democrazia. Viene eletto deputato, presiede la prima seduta del Parlamento spagnolo ma si dimetterà subito, a favore di un contadino dell’Andalusia. Qualche anno dopo ricevette il Nobel delle lettere spagnole ed ha la gioia di riceverlo dalle mani del Re di Spagna, Juan Carlos. Muore nel 1999, a Puerto di S. Maria, là dove era nato, in una villetta regalata a lui, rimasto estremamente povero, dal Comune, guardando, forse, le sue spiagge bianche ed assolate e il suo cielo eternamente azzurro.
A suo ricordo, due poesie
I bimbi d’Estremadura
vanno scalzi
chi gli ha rubato le scarpe?
Li ferisce il caldo ed il freddo
chi gli ha rubato i vestiti?
La pioggia
bagna il letto ed il sonno
chi demolì la casa?
Non sanno
i nomi delle stelle
chi gli chiuse la scuola?
I bimbi d’Estremadura
sono serii
chi fu il ladro dei loro giochi?
Quando me ne andrò da Roma
chi si ricorderà di me?
Lo si chieda al gatto.
Lo si chieda al cane
ed alla scarpa rotta.
Al fanale perduto
al cavallo morto
e al balcone ferito.
Al vento che passa
al portone oscuro
che non ha casa.
E all’acqua corrente
che scrive il mio nome
sotto il ponte
Quando me ne andrò da Roma
si chieda ad essi di me.
Meditazioni di un anziano
Nell’aprile dell’89 mi trovavo in ospedale, per un infarto, reso pericoloso dalle complicazioni, che avevano preoccupato i medici, che mi avevano in cura. Qualcuno, più pessimista, dubitava che ce l’avrei fatta. La visita di Antonella e di Martin mi fece felice. Antonella, piccolina, ben fatta, una bellezza tipicamente siciliana, sprizzava dal suo volto intelligenza acuta e rapida, fu una delle prime a prendere parte all’assedio di protesta pacifista della base missilistica di Comiso. Quando arrivò a Comiso e c’incontrammo per la prima volta, portava una tuta bianca e subito manifestò serie prevenzioni nei confronti delle scelte ideali del gruppo a cui appartenevo. Non facemmo amicizia, anzi… Eravamo solo dei combattenti, e tali restammo, che portavano avanti una comune determinazione, quella del disarmo, sotto diverse bandiere ideali. Lei apparteneva ad un gruppo militante che sosteneva il disarmo unilaterale. Prescindeva dai blocchi politici, esistenti nel mondo, anzi voleva evitare, in ogni maniera, di essere da loro ingabbiata. Il riarmo apparteneva solo alle due grandi potenze ed ai loro alleati e non aveva nessuna valenza chi disarmava per primo. Purché lo si faceva. La loro lotta non violenta doveva dimostrare che una grossa fetta dell’umanità voleva il disarmo ed era decisa a non mollare.
Io appartenevo ad un gruppo pacifista diverso, che sosteneva il disarmo bilaterale. Una proposta che sembrava più realistica e più comprensibile e che venne recepita dalla maggioranza del movimento pacifista. Al primo approccio ad Antonella non piacqui: mi considerava uomo di parte e l’organizzazione a cui appartenevo strumentale agli interessi dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati. A nulla valeva la pratica giornaliera della nostra attività e il suo conclamato indirizzo propagandistico o il constatare che la direzione del gruppo, denominato C.U.DI.P., era rappresentata da giovani stranieri, finanziati da Associazioni internazionali notoriamente in polemica ideologica con il cosiddetto socialismo reale. Dal blocco sovietico non avevamo ricevuto mai un soldo, tranne il riconoscimento della nostra esistenza e della nostra funzione. Pur nonostante bisognava convivere assieme per il raggiungimento di un obiettivo comune e, soprattutto, perché la militanza vera, quella che movimentava la nostra attività, che la colorava, che teneva il campo e ne pagava spesso lo scotto, subendo manganellate, frustate, espulsioni, era rappresentata soprattutto dai giovani stranieri convenuti da ogni parte dell’Europa occidentale. I comunisti erano presenti, in massa, nelle grandi occasioni, facevano folla, marcavano la presenza delle opposizioni, davano il senso della forza organizzata del movimento che durò per anni.
Quando il 7 dicembre del 1988 il Presidente dell’URSS, Gorbaciov dispose il ritiro unilaterale di 500.000 militari dall’Europa, di 10.000 carri armati e di 800 aerei si capì che l’impegno pacifista si avviava al suo termine, perché la scelta delle grandi potenze, sottolineata, il 7 ottobre, dal ritiro da Comiso dei primi 16 missili americani e dalla visita di controllo della base missilistica di alcuni ispettori sovietici, i rapporti miei con Antonella erano sostanzialmente mutati. Restavamo ideologicamente dei diversi, ma senza le prevenzioni iniziali. Anche il mio rapporto con il PCI, però, si era modificato. Il nuovo che avanzava nella società sovietica, l’esperienza dei miei numerosi incontri internazionali, che mi avevano messo in contatto con realtà, idealità e mentalità nuove, non potevano non avere i loro effetti sulle mie convinzioni ideali e politiche e sui miei rapporti con il Partito.
La stanchezza accumulata in 37 anni di attività politica e lo sconvolgimento psichico di una congiura contro di me portata a termine, cinicamente e per interessi personali, da insospettabili “compagni di Partito” mi portarono ad una crisi cardiaca quasi mortale.
Fui contento della loro visita. Ne restai emozionato, ma non ero in condizione di apprezzarla nel giusto valore. Troppo debole e troppo impaurito dalle mie crisi cardiache che si ripetevano.
– Antonella, come va? Sei diventata più bella?
– Che ti succede, sei diventato galante?
– No, sono felice di vederti, perché, nonostante tutto, mi ricordi un esaltante periodo della mia vita. E tu, Martin, come stai? Che farai ora?
– Approfondirò le mie conoscenze di sociologia. E, soprattutto, farò il possibile per trovare un lavoro, dove possibile, a Roma, a Bruxelles, in Germania. La mia preferenza è Roma, ma se non sarà possibile… tu capisci?
– Già, ma è il momento dei consuntivi. Cosa pensate della conclusione del nostro impegno?
Antonella mi guardò. Forse non voleva affaticarmi con discussioni impegnative.
– Giacomo, di una cosa sono sicura. Alla fine della nostra avventura ci siamo trovati diversi, tutti, da come eravamo all’inizio. Ed anche il mondo si è trovato alla presenza di nuovi problemi.
– Antonella ha ragione – commentò Martin -. Io credo che siamo riusciti a fermare il riarmo, ma sul disarmo c’è poco da sperare. Siamo riusciti a metà, anche perché le grandi Potenze hanno capito, per loro conto, che non era possibile continuare la strada del riarmo nucleare, sia perché era una scelta costosa, sia perché il segnale della gente di tutto il mondo non poteva essere sottovalutato. E tu, Giacomo, cosa ne pensi?
– Per quanto mi riguarda, io ho fatto una esperienza umana, ideale e politica incancellabile. Sono stato costretto a ripensare tutti i dati che consideravo immutabili delle mie convinzioni.
Il Martin, preciso come sempre:
– Cosa significa ripensare le tue convinzioni?
– Significa che alcuni concetti, che erano sommersi, sono diventati visibili ed anche dominanti: ad esempio, che gli uomini sono tutti uguali, al di là delle nazionalità e delle razze, che gli uomini non è vero che sono tutti buoni per natura, ed è la società che li cambia e che noi siamo quelli che siamo, non solo per i nostri caratteri innati, ma per cento altri motivi, ciascuno in combinazioni diverse tra di loro.
– Martin, dobbiamo andare e Giacomo è stanco. Lo si vede dal volto.
Mi augurarono una veloce guarigione ed io ebbi l’impressione che erano stati contenti d’avermi trovato vivo.
Quando se ne andarono, mi sentii più solo e, soprattutto, più pauroso di una nuova crisi, quasi essi rappresentassero una difesa per il fatto di avermi per alcuni minuti riportato al tempo, quando ero sicuro di me, del mio futuro e vivevo la benefica gioia della vita e degli esseri umani.
Chiusi gli occhi e tentai di rilassarmi, respirando profondamente, tentando di non avere paura, ripetendomi, per convincermi, che l’aver paura non cambiava il mio stato di salute regolato da tante leggi, alcune delle quali misteriose, anche per i medici. Alla visita medica mi dissero che stavo meglio, ma che dovevo stare tranquillo, per cui anche gli amici bisognava fare in modo di evitarli. Si capiva che alcuni venivano per curiosità. Sarebbe stato un bel primato per loro potere annunziare che stavo per andarmene.
La preoccupazione ed il dolore sul volto dei miei familiari riaccendevano le mie paure. Speravo di prendere sonno per non pensare, per non immaginare. M’addormentai per qualche ora. Poi l’insonnia. Ricordai il pomeriggio con Antonella e Martin. Rividi i loro volti graditi. Rimescolai i nostri discorsi sullo sfondo delle nostre disordinate giornate d’impegno pacifista. Sì, alcuni risultati parziali erano stati raggiunti, ma niente assicurava che il disarmo delle armi nucleari e delle armi convenzionali si sarebbe attuato. Niente garantiva che le grandi diseguaglianze sarebbero state eliminate e che sarebbe nato un mondo di liberi e di eguali. Il veloce mutamento d’opinioni della gente era scandaloso. Ora tutti erano per il disarmo e la pace. Di tutti quelli che eravamo stati giudicati folli, venduti allo straniero, traditori della patria, fannulloni, scansafatiche, amorali, non si parlava più. Semplicemente non esistevamo. I problemi che ci avevano impegnati appartenevano al passato.
Con il Comune, centro mondiale della protesta antimissilistica, guidato dai comunisti, i rapporti si erano deteriorati. Una richiesta di contributo finanziario avanzata dall’organizzazione pacifista venne rifiutata dall’Amministrazione comunale, senza motivazione. Seimila firme raccolte per la conversione della base missilistica in struttura di pace e l’indizione di un referendum in tal senso non sollecitò nel Sindaco del tempo nessuna conseguente iniziativa. Sebbene invitato, il Comune disertò di partecipare alla marcia per la pace Perugia-Assisi del 2 ottobre 1988.
Lo scivolamento del PCI verso posizioni liberal-democratiche sembrava inarrestabile. All’Amministrazione provinciale di Ragusa si era costituita per la prima volta, una giunta DC-PCI.
Il clima ideale s’intorbida e si modifica. L’impegno politico ed il sogno di una nuova società che avevano guidato per decenni il nostro modo di essere svaniscono come nebbia al sole. L’opportunismo ed il soddisfacimento del proprio “particulare” s’impongono, spesso, con sfrontatezza: anche il partito, di cui avevo fatte parte per 45 anni, attraversava una profonda mutazione genetica. Come se il suo DNA si stesse rapidamente modificando. Quelli che avevamo identificato la lotta politica delle classi e il partito, come strumento organizzativo, oltre che d’educazione delle masse, illuminato da un forte senso della moralità pubblica, eravamo diventati un ingombro, un ostacolo al rampantismo individualistico, volto alla conquista dei poteri forti. In qualche caso, come nel mio, bisognava eliminarlo, anche con la congiura e anche nel più assoluto disprezzo delle regole interne all’organizzazione.
Tutto questo tempestosamente, e sempre più confusamente, si agitava dentro di me. Ero entrato nel tunnel di una nuova crisi cardiaca. Sentivo la pressione arteriosa pericolosamente elevata, gli occhi stranamente accaldati, i battiti del polso concitati. Non dovevo star bene. Lo intuivo dai silenzi dei medici, dal modo come mi toccavano il collo, il petto, le spalle con il freddo dei loro apparecchi di auscultazione. Li sentivo distanti, quasi figurine vestite di bianco. Occhi chiusi, ero sempre più rilassato, senza emozioni. Dopo una visita notturna mia figlia domandò ad uno dei medici, che si era attardato:
– Siamo colleghi, devo sapere la verità, quali le prospettive?
Erano convinti che io dormissi o fossi in stato d’incoscienza.
– Da collega, se posso dare un consiglio, non credo che durerà oltre le dieci di questa mattina. E’ opportuno che portiate da casa il vestito.
Parole, che scivolavano su di me, come pattini su ghiaccio. Nessuna emozione, nessuna paura, come riguardassero un’altra persona. Cosa che non avvenne per i miei, che si misero in movimento, che protestarono, rimproverando che non erano state fatte tutte le indagini necessarie. Un infermiere, mio amico, andò a parlare con l’aiuto, che venne, mi rivisitò e chiese che gli fosse portato un bisturi. Un colpo al cavo dell’avambraccio e il sangue schizzò violento imbrattando la parete del muro. Mi fecero alcune radiografie. Era subentrato un vistoso edema polmonare.
Dal quel momento io non so che cosa sia avvenuto. Forse è stata integrata la terapia, o il mio corpo, che era sempre stato sano e forte, aveva cominciato a reagire. Sempre di più e velocemente. Dopo alcuni giorni tornai a casa. Debole e traballante.
La mia casa, il mio studio, i miei libri, i miei quadri mi fasciarono di tranquillità. Anche quando lo potevo, tendevo a non uscire. La città mi era diventata estranea, talvolta mi appariva nemica. Non mi riconoscevo ad accettare la morte civile decretata da chi io non avevo mai stimato. L’impressione che avevo era che gli oltre quarant’anni della mia vita di partito si erano tradotti, dentro di me, in un libro chiuso. Un libro di vicende vissute da un altro. Solo il cosiddetto avversario, pur se trasformato, da una profonda plastica facciale, mi restava vivo, parlante. Talvolta mi sorprendevo ad inventare risposte polemiche alle sue nuove proposte politiche.
– Mascherature nostalgiche di un tempo definitivamente passato – mi dicevo, sorridendo a me stesso.
Anche il mio DNA ideologico era stato manipolato. Da iperattivo ero diventato un pantofolaio, da gladiatore, resistente al sonno, alle fatiche fisiche, con una marcia sempre in più, per mantenermi al livello di resa ottimale, nelle piazze tribunizie, nelle aule parlamentari, nelle sale della politica, ero diventato malfermo, malato, senza avvenire.
Sapevo chi era il colpevole apparente di questa mia nuova condizione, speravo in una vendetta giusta del destino. Ma dovevo costatare che, non so se causa o conseguenza, che il mio “dentro” era irriconoscibile. Io, considerato al passo coi tempi, fiducioso nel corso della storia, che conduce ad un sempre più qualificato progresso umano e a sempre più marcati livellamenti di giustizia umana e sociale, ora mi domandavo se non fossero state tutte sbagliate le mie scelte fondamentali. Se non avessero ragione i congiurati rampanti che mi avevano pugnalato, in nome del loro arricchimento e della loro affermazione. Se non avessero ragione i tangentari, i ricchi illeciti, gli opportunisti di tutte le classi, tutti quelli che avevano percepito che i meriti morali di ieri erano diventati i demeriti di oggi.
Anche la politica che ieri era considerata da me una scelta, anche sbagliata, ma sempre tale, ora era una confusione di lingue, di ideuzze e di comportamenti, una “contaminazione” di bene e di male, talmente intricata da ritrovarsi nelle parole e negli atti di tutti, compagni ed avversari, sì da renderli simiglianti e, nel contempo, incomprensibili. La gente semplice, che tende a semplificare, si spiegava il tutto con il giudizio negativo del “si fanno i cazzi loro” e, per conseguenza si adeguava alla nuova filosofia, agevolata dal trionfo della nuova economia capitalistica, tesa con la globalizzazione al dominio del mondo, o si considerava estranea e si appartava in una solitudine sterile e disperata.
Solo che tali considerazioni contraddicevano le parole e gli atti di tanta gente, che pur se minoranza (ma è stato sempre così) insistevano nel porre al centro della vita individuale e collettiva i pensieri positivi che avevano fatto storia, civiltà, progresso. Senza scomodare, retoricamente, passati lontani, come si spiegherebbero diversamente quelli che hanno pagato i prezzi più cari contro tutti i nazifascismi e le dittature, o quelli che si sono opposti ed hanno vinto la millenaria dominazione dei bianchi sui neri. Vero è che tale vittoria non è ancora totale, ma la presenza di governanti, di medici, di ufficiali, di manager di colore nelle società opulente segnano il salto di qualità. Resta ancora da chiudere il buco nero dell’imparità razziale tra i popoli e all’interno dei popoli. Ma il concetto di parità razziale è ormai innegabile. Di chi è il merito? Del caso? No!
Quasi tutto il Novecento è stato caratterizzato dall’impegno sempre più grande per l’affermazione del concetto di giustizia sociale. Una lotta con le sue luci, le sue ombre, il suo sangue ed i suoi cadaveri, ma anche con i suoi significativi ed ineliminabili successi. Anche se siamo costretti ad assistere alla grande controffensiva dei poteri battuti che, ove possibile, barattano diritti con benessere ed, ove necessario, lasciano che “le monde va de lui même”, e che chi ha poteri di vita e di morte lo sfrutti fino all’inimmaginabile. Tutto questo è un caso?
E che dire di quei medici senza frontiere che si avventurano a curare là dove non sarebbe possibile, perché vi mancano infermieri, strutture, tecnici, strumentazioni?
Sarebbero costoro degli stupidi o degli alienati? E di quelli che dedicano tutta o parte della loro esistenza a salvare bambini abbandonati ad una sorte di perversione e di morte?
Io ho conosciuto, e sono loro amico, una coppia, un peruviano e un’italiana, un attore ed una cantante, che hanno preso con loro, trasformandolo in figlio, un neonato in fin di vita, con una gambetta spezzata, abbandonato in un immondezzaio. Anche io sono stato lì per lì, in Polonia, per adottare la piccola Conchita, rimasta sola, senza madre e con il padre incarcerato per 20 anni dal fascismo spagnolo. Si oppose il padre. – Non potete togliermi l’ultima speranza della mia vita -.
Ed i volontari, quelli veri, che operano nelle più varie direzioni della società e nella più impensata diversità geografica di questo nostro mondo diventato più aggrovigliato?
Sono dei fanatici? Benedetti siano questi anormali!
Ad oggi non si può dire come si concluderà l’avventura dei ragazzi di Seattle o del movimento mondiale dell’ambientalismo, che si oppongono ad una bastarda globalizzazione dell’Universo, in nome del benessere dell’Umanità, che si tradurrebbe in una più ampia e profonda disuguaglianza planetaria. Da una parte miseria e povertà, dall’altra ricchezza, alienazione e potere nelle mani di alcune diecine di plutocrati senza volto.
Già ci muoviamo in siffatta direzione, se è vero che, su sei miliardi di abitanti del mondo, l’86% dei consumi globali è destinato al 20% della popolazione e che le 225 persone più ricche del mondo possiedono il reddito annuale del 47% più povero della popolazione mondiale. A Kyoto, in Giappone, un vecchio d’età indefinibile, cieco, con lo sguardo inespressivo, volto verso un indefinito avanti, come se leggesse sulle pagine del tempo, ci disse:
– La storia, come la vita, continuerà. Gli uomini torneranno a piangere e le donne invocheranno la morte. La gente non vedrà quello che è visibile ed i colpevoli saranno osannati.
Questo, diceva, mentre all’intorno centinaia di migliaia di uomini e di donne gridavano “No more Hiroshima” e la signora Kurokava, l’hibakusha (così chiamati gl’intossicati dalle radiazioni nucleari) diceva:
– Se le nostre sofferenze e i resti delle nostre città rase al suolo dagli aerei americani, serviranno per dare inizio ad un mondo nuovo, diverso e migliore, avremo l’illusione di aver sofferto utilmente. Sarà stato come i dolori del parto che precedono la nascita di una nuova vita.
Nello scontro di queste antitetiche riflessioni dentro di me si erano giustapposte due persone in dolorosa contraddizione. Nella mia anima si è formata una stimmate sanguinante, dolorosa, che dura ancora.
Cosa significa tutto ciò? Che la vita è un impasto d’illusioni, come il pane lo è di acqua e farina? O è la contraddittorietà della vita, che ci fa vivere d’illusioni, non sempre benefiche?
Può servire, come risposta, Carlo Marx, il cui pensiero, nel bene e nel male, ha sommosso il mondo, che scrisse: “La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione è la necessità di rinunciare ad una condizione che ha bisogno d’illusioni”.