1. Da Accra a Castel Volturno

© Seyiram Kweku
  Un racconto su dodici mesi di vita di un bracciante africano. Inverno in Calabria, primavera in Sicilia, tappe intermedie nel casertano. Le stagioni della raccolta di arance e pomodoro - che finisce anche in Africa. La rivolta contro la `ndrangheta e la strage della camorra. «Le nostre vite valgono meno delle vostre? Forse non pensavamo alle nostre famiglie mentre spaccavamo tutto nelle strade di Castel Volturno?»
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Io il capodanno lo festeggio il primo novembre. Vado alla stazione e prendo il regionale che va giù a Rosarno. Per noi l’anno inizia così. I botti sono quelli dei ragazzini sul motorino, che ci accolgono a fucilate. È il loro divertimento. O almeno lo è stato. Ci sono volute due rivolte, l’ultima molto violenta, per spiegare loro che non è giusto sparare a un uomo indifeso. Che tra l’altro ha appena finito di raccogliere le loro arance per pochi spiccioli.

All’inizio di marzo poi vado in Sicilia, per me la primavera significa raccogliere le patate a Cassibile, vicino Siracusa. Se c’è lavoro, mi sposto nella zona delle serre, se non c’è troppo caldo. Non ci ho fatto l’abitudine, parliamo di tunnel alti appena un metro e quando c’è il sole forte dentro è da svenire. Si arriva a quaranta gradi. Non solo calore e plastica, ma pure la puzza delle sostanze chimiche.

Poi arriva l’estate. Per voi è il tempo delle spiagge, delle vacanze. Per noi quello del pomodoro. Ciliegini, piccadilly, datterino, San Marzano. A settembre, da Foggia andiamo a Palazzo San Gervasio, al confine della Basilicata. Qui guardiamo il cielo e speriamo che piova. Certo, è più faticoso lavorare nel fango. Ma se c’è bel tempo la raccolta la fanno le macchine e noi stiamo a guardare.

In Puglia invece si fa tutto a mano. Si prendono le piante e si scuotono per fare cadere i frutti dentro il cassone. Cos’è? Una enorme scatola da tre quintali. Ne riempi una e ti danno tre euro. Le donne rumene sono le migliori. Hanno braccia grosse e forti, sembra che non abbiano mai fatto altro. D’estate non è facile lavorare. L’orario lo fa il sole, dall`alba al tramonto. I pomodori vanno a finire nelle vostre pizzerie, nelle conserve, nei piatti di pasta col sugo. Mi hanno detto che la chiamate dieta mediterranea. Ne siete orgogliosi, forse perché non sapete che tanti di noi sono morti nei campi, lavorando sotto il sole, dormendo nei casolari senza il tetto, prendendo qualche fucilata per una protesta di troppo. Sono morti pure alcuni polacchi, anni fa. I corpi non sono mai stati trovati, sono rimasti sepolti nelle campagne pugliesi.

Io mi consolo così, pensando che mio padre ha mangiato i pomodori che ho raccolto. Gran parte del doppio concentrato italiano infatti viene esportato in Ghana e Nigeria. Io non posso tornare a riabbracciarlo, c’è un muro che mi separa dal mio paese, così hanno deciso le vostre leggi. E allora mi consolo così, sperando che la mia famiglia mangi il pomodoro che ho raccolto.

Alla fine di settembre si torna a Castel Volturno. Dicono che è un pezzo d`Africa in Italia, che noi portiamo degrado. Il villaggio Coppola è un enorme blocco di cemento abusivo che ha distrutto la più bella spiaggia d’Italia. Un milione e mezzo di metri cubi di cemento e addio pineta. Ma l’avete costruito voi. La camorra impone il suo dominio con le stragi e i bagni di sangue. È tutta roba vostra.  Sei nostri fratelli sono caduti sull’asfalto. Era il 18 settembre 2008. Dovrebbe essere una data da segnare in rosso nel vostro calendario. Il giorno della strage del razzismo mafioso.

Francis era un mio amico, ghanese come me. Aveva avuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico due settimane prima di morire, dopo sei anni in Italia. Faceva il muratore ed era volontario al centro sociale, come interprete presso lo sportello informativo.

Un togolese, titolare della sartoria Ob Ob Exotic Fashion, il luogo della strage, partecipava alle assemblee settimanali sui diritti degli immigrati. Anche lui frequentava i centri sociali. Un altro togolese aveva ottenuto il permesso per protezione umanitaria a Siracusa. Christopher, ghanese, faceva il barbiere ed è morto con 700 euro nei calzini. Erano i proventi del suo lavoro. Stava andando a spedirli alla famiglia. Lavorava a Napoli, in piazza Garibaldi.

Li avete chiamati spacciatori, senza uno straccio di prova. Nessuno ha trovato droga. I miei fratelli morti sull’asfalto italiano erano muratori, braccianti o titolari di piccoli negozi. Tre di loro erano rifugiati, gente che l’Italia si è impegnata ufficialmente a proteggere. Invece, li ha fatti ammazzare dai camorristi, sette killer cocainomani che hanno rovesciato una valanga di piombo, 120 proiettili da due pistole e un kalashnikov, solo per imporre il loro potere. Avrebbero ammazzato ancora. E ucciso altri italiani. E chi li ha fermati? Noi.

C’è stato un solo sopravvissuto. Un mio amico ghanese, in Italia dal 1988. Ha fatto finta di essere morto, poi ha riconosciuto i colpevoli dalle foto segnaletiche. Chi di voi lo avrebbe fatto? Tutti ci siamo ribellati, per le vie del paese. Cosa dite? Noi non abbiamo nulla da perdere? E le nostre vite, forse valgono meno delle vostre? E le nostre famiglie lontane? Forse non pensavamo a loro mentre spaccavamo tutto nelle strade di Castel Volturno?

I racconti scritti per RadioTre

Questi racconti sono tratti dal libro «Voi li chiamate clandestini», di Laura Galesi e Antonello Mangano, edizioni Manifestolibri [Scheda del libro]. Sono andati in onda su RadioTre Fahreneit.


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