Maggio 2016. Due rifugiati africani denunciano un vasto sistema di caporalato. In Toscana. Cinque mesi più tardi, la procura di Prato arresta una decina di persone: gli amministratori di una società del Chianti, consulenti italiani e caporali pachistani.
I numeri sono spaventosi. Centinaia di richiedenti asilo e migranti già presenti sul territorio erano reclutati per lavorare in nero tra terreni e fattorie. In particolare in quelle della “Coli spa”, storica azienda con sede a Tavarnelle Val di Pesa (Firenze). Tre amministratori della società sono agli arresti domiciliari, perché considerati dagli inquirenti “protagonisti e mandanti del sistema di reclutamento”.
Alcuni consulenti del lavoro di Prato – ben pagati dai caporali – creavano buste paghe false rendendo il sistema formalmente legale.
Invece asiatici e africani erano sfruttati per quattro euro l’ora, fino a 12 ore al giorno e spesso picchiati. Alcuni dei migranti – racconta l’inchiesta – lavoravano nei terreni dell’ignaro Sting.
Capo villaggio
L’inchiesta si chiama “Numbar Dar”, capo villaggio. Il riferimento è al trentottenne pachistano che procurava la manodopera. Ben 161 le persone, quasi tutti connazionali, risultavano alle dipendenze delle ditte aperte dal caporale.
Al Sud tutto è illegale, i caporali si muovono su furgoni sgangherati da un ghetto all’altro. In Toscana l’imprenditore pachistano si spostava in jeep presso fattorie della Coli, ditta nata negli anni ’20, tra vigneti verdeggianti e dolci colline.
Il risultato non è però molto diverso. Centinaia di migranti a lavorare per pochi euro. Con la copertura dei consulenti del lavoro che preparavano buste paga fittizie e comunicavano le assunzioni a Inail e Inps, in modo da evitare i controlli.
I giardini di via Marx
Nella realtà, però, i miseri compensi erano pagati in nero. Tasse e contributi venivano evasi sistematicamente. I caporali inviavano subito in Pakistan i guadagni. Si parla di decine di migliaia di euro al mese. Non avevano alcun bene “aggredibile” da fisco italiano, con l’eccezione di un’auto.
Per le aziende, però, erano la più efficiente delle agenzie interinali. Un bacino di manodopera inesauribile a prezzi stracciati. Pronto per l’uso.
“Due profughi, ospiti in Santa Caterina, hanno avuto il coraggio di denunciare i propri aguzzini, assistiti dagli operatori del Santa Rita che per primi si sono accorti delle anomalie e hanno dato il là alle indagini”, si legge nelle cronache locali di Prato. “I punti di raccolta dei braccianti, a decine ogni giorno, erano i giardini di via Marx e il distributore di via Cavour. Da lì, ogni mattina all’alba, partivano furgoni e camion carichi di persone.
Nelle giornate di picco della raccolta dell’uva, i viaggi da Prato a Tavarnelle Val di Pesa erano anche due al giorno. I caporali privilegiavano i connazionali pakistani: solo a loro era concesso del cibo e un po’ di acqua. Se occorrevano altre braccia, venivano chiamati a lavorare alla giornata anche immigrati e richiedenti asilo africani, vittime di maggiori soprusi e trattamenti discriminatori. Ai ‘negri’ – così venivano chiamati – non si dava da bere e li si lasciava lavorare a piedi nudi nei campi.
Lo Stato favoreggiatore
Gli schiavisti non erano solo crudeli. Erano anche abili a usare le leggi che indeboliscono i migranti. Ancora oggi, dopo anni di crisi, se perdi il lavoro svanisce anche il permesso di soggiorno. Allora devi cedere a ogni ricatto, per esempio una busta paga falsa (per rinnovare il permesso) e 14 ore di lavoro vere (per mangiare).
Se invece sei appena arrivato, c’è il limbo dei centri di accoglienza. Procedure barocche e attese infinite. Il presupposto ideale per serbatoi di manodopera a costo zero.
I caporali usavano appunto questi due bacini per procurare alle aziende manodopera in condizioni grave sfruttamento. Migranti bisognosi di una busta paga (per evitare di essere espulsi) e richiedenti asilo in attesa di un responso. E quindi, anche loro, bisognosi di guadagnare qualche soldo.