Che fine ha fatto il movimento hacker?

  Per trent’anni gli hacker hanno ispirato la cultura, la politica e l’economia digitale. Oggi sembrano scomparsi. I loro valori sono stati traditi in nome del profitto? Oppure erano ideali sbagliati di per sé?
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La figura del “pirata informatico” ha ispirato film come “Matrix”, filoni letterari come il cyberpunk, movimenti politici e –  in parte – l’attuale economia globale basata sui tech giants.

Per almeno tre decenni gli hacker si sono dedicati alle macchine “con una devozione raramente vista fuori dai monasteri”. La definizione è di Steven Levy, autore di ”Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica”, un libro del  1994. 

Oggi gli hacker sembrano scomparsi. Con l’eccezione degli interventi performativi di Anonymous, nessuno parla più con timore dei famigerati “pirati”. I loro valori sembrano dimenticati e le utopie di miglioramento basate sulle macchine hanno lasciato il posto a una cocente delusione. Non resta che iscriversi a Facebook, idealizzare un “ritorno alla campagna” e ignorare la presenza nella nostra vita di una tecnologia sempre più pervasiva?

Il manifesto di uno dei primi hackmeeting italiani

Eppure il movimento hacker italiano è stato una cosa molto seria. Nel 1999 nasceva Indymedia, una rete mondiale di informazione dal basso, “il cui nodo italiano ha avuto un ruolo fondamentale nella contestazione al G8 di Genova del 2001 e nelle mobilitazioni degli anni successivi”. Nello stesso periodo, i più ottimisti credevano nel transumanesimo, ovvero nell’uso della tecnologia come dimensione migliorativa della condizione umana, dal punto di vista sia sociale sia biologico”.

Negli ultimi anni invece molti hacklab dei centri sociali hanno chiuso per lasciare posto ai Gas, punti di acquisto di cibo biologico proveniente dalle campagne. Se le macchine hanno deluso, meglio quindi tornare al passato idealizzato del mondo contadino? Prima di rispondere, dobbiamo capire come nasce e come “muore” la figura del “pirata informatico”. E se ha ancora qualcosa da dire.

Origini

L’informatica non è una invenzione degli ultimi anni. E neppure la rete. Unix nasce nel 1969. Il protocollo “tcp/ip” nel 1973 e quello ”www” nel 1991. La prima rete, Fidonet, è del 1984. La nascita degli hacker si fa risalire agli anni ’70, quando nei laboratori del MIT di Boston si smontavano trenini elettrici fino a simulare complesse reti di trasporto. Dai modellini si passò ai telefoni: “Il fenomeno del phreaking consiste nell’introdursi nelle linee telefoniche per chiamare gratuitamente. Già nel 1963 Stewart Nelson, hacker del Mit, aveva scoperto come modulare i toni utili alla commutazione delle linee telefoniche”. Nei decenni successivi si consumava “la luna di miele di studenti smanettoni e computer enormi come interi piani di edifici, spesso di proprietà militare”.

Il primo comandamento dell’hacker è dunque il desiderio di “smontare” qualcosa  – un computer, un codice o un trenino – e “rimontarlo” migliorato. La conseguenza è la completa libertà di circolazione delle informazioni. Iniziando da quelle “tecniche” per finire a tutte le altre, combattendo in ogni modo il copyright, anche con azioni illegali.

Da allora il movimento si è diviso in gruppi politici, legati alle lotte sociali. Nuclei interessati principalmente al miglioramento tecnico. Aree focalizzate nella battaglia contro il diritto d’autore. Utopisti desiderosi di realizzare la democrazia elettronica. “Consumatori critici” impegnati a sostituire i software aziendali con programmi open source creati in maniera collaborativa, a partire da Linux.

Hackmeeting 2013

Cosa ne è stato di queste utopie? Molti oggi pensano al tradimento. Di essere stati ingannati da compagni di strada più furbi. La parabola tipica è quella di  Steve Jobs, hacker libertario convertito a un modello che vende in Occidente prodotti di lusso fabbricati a basso costo in Cina. Alcuni hacker hanno tradito quando hanno intravisto enormi possibilità di guadagno? Questa è la prima ipotesi. 

Una seconda teoria dice che un movimento “buono” è stato sorpassato, isolato e sconfitto dai cattivi. Gli hacker utopisti, in particolare i californiani, pensavano che il decentramento, la contestazione delle gerarchie, la condivisione e l’accesso completamente libero alle informazioni fossero i traguardi da raggiungere. E che questo fosse di per sé in contrasto col business. Oggi sappiamo che non è così.

Ma in quel periodo “gli immaginari cyberpunk alimentavano l’idea che se le persone ai margini della società avessero dominato le tecniche della rete più velocemente dello Stato e del capitale, avrebbero preceduto o sarebbero sopravvissute ai potentati”. 

Mentre corporation come Microsoft vendevano computer o software dal codice inaccessibile, l’etica hacker propugnava l’open source, cioè software con un codice leggibile da chiunque fosse in grado di comprenderlo. Quando è arrivata Google e ha iniziato a lavorare in questo modo, sembrava che le aziende libertarie, attente alle minoranze, orientate al bene dovessero prevalere. “Non fare il male” era l’ingenuo slogan dei primordi della società che aveva appena lanciato il migliore motore di ricerca che si fosse mai visto. 

Una pagina bianca e un box per cercare, niente di più. In realtà Google aveva già in mente di vendere la vita delle persone. Dietro servizi gratuiti di alto livello, c’era l’intenzione di diventare un’agenzia pubblicitaria specializzata nei dati personali, nel tracciamento e nella segmentazione.

Oggi Google accumula milioni di dollari. Così come Facebook e Apple, hanno attinto a piene mani nel mondo hacker, da cui provengono i rispettivi fondatori, per poi rigettarne i valori e orientarsi esclusivamente al profitto.

Tradimento

Se non si può parlare di un tradimento totale, sicuramente c’è un tema in cui hanno fatto una vera inversione a “U”. Questo tema è la privacy. La difesa dell’anonimato è un caposaldo della cultura hacker, mentre i modelli di business dei tech giants si basano sulla cattura e sulla rivendita dei dati personali dei loro utenti. In prima istanza, si focalizzano sulla segmentazione dell’umanità in cluster da vendere in funzione di marketing. Oppure per la manipolazione a fini elettorali quando i dati finiscono a gente con pochi scrupoli.

Paradossalmente, oggi sono gli Stati a difendere – parzialmente – i diritti alla privacy dei cittadini. All’inizio, erano gli hacker a proteggersi dagli Stati che li guardavano con sospetto e diffidenza. Nel 1994, solo per fare un esempio, una vasta operazione della polizia italiana chiudeva 150 punti rete dei network Fidonet, antenato di Internet. Le “forze dell’ordine” irruppero nelle case, ispezionarono frigoriferi e sequestrano tappetini di mouse. Alla ricerca di fantomatici pirati, i magistrati riuscirono soltanto a spaventare molti ragazzini appassionati di tecnologia.

Era un’epoca in cui la telematica era basata su connessioni amatoriali, telefonate interurbane da città a città. Ma era anche un periodo di grandi opportunità, realmente decentrate, basta pensare che i punti più vivaci di quella rete primordiale erano in Basilicata e Puglia.
“Nel 1986 a Potenza nasce il primo nodo italiano di Fidonet, la più vasta rete  che troviamo sul nostro territorio: arriverà ad avere circa 400 nodi, con un numero di utenti stimati dai 30.000 ai 50.000”.

Terza ipotesi

Tornando alla questione del tradimento, c’è una terza ipotesi. La più interessante. Secondo il collettivo “Ippolita”, Steve Jobs, Mark Zuckerberg e altri tra i protagonisti del più spietato anarco-capitalismo attuale si sono formati nello stesso substrato culturale in cui Richard M. Stallman ha creato la Free software foundation.
In altre parole, chi ha scelto con coerenza la strada del software libero e chi ha fondato multinazionali dai fatturati milionari condivide almeno tre principi:

  • soluzionismo;
  • suprematismo nerd;
  • distruttivismo.

Il primo punto riguarda un “approccio eccessivamente ingegneristico, in cui si immagina che qualsiasi problema (anche sociale) abbia una soluzione tecnica con cui lo si possa superare”.
Il suprematismo nerd confina con il culto dell’eccellenza in cui ognuno deve superarsi sempre, fino a non riconoscere il concetto di limite. Un tempo oggetto di scherno, il ragazzino con gli occhiali sociopatico e isolato è diventato il protagonista della nostra epoca, perché il suo suprematismo (“posso fare una cosa dunque la faccio, perché sono il più bravo”) si sposa con l’anarco-capitalismo, lo spirito disruptive che ha portato le compagnie californiane a conquistare Internet e l’economia mondiale. Mark Zuckenberg è l’esempio più evidente, ma non unico.

“Gli hacker credono nel suprematismo nerd, nel tecnicismo, nel distruttivismo. Qui l’origine del male

Strettamente connesso è infine il terzo punto. L’atteggiamento disruptive, appunto: la distruzione dell’esistente, il capitalismo anarcoide che le startup californiane praticano come una religione. Google e Facebook hanno monopolizzato il mercato pubblicitario mondiale, distruggendo la stampa e il sistema dei media tradizionali, contribuendo alla diffusione dell’odio e della manipolazione a fini commerciali e politici. Uber punta a trasformare ogni guidatore del pianeta in un tassista, AirBnb ogni stanza in un albergo.

Le regole, l’impoverimento dei lavoratori, gli stravolgimenti politici e sociali non sono contemplati. Google ha creato meno posti di lavoro delle Poste Italiane. E contemporaneamente ne ha distrutti molti altri nel mercato pubblicitario e dei media tradizionali. Le pratiche di cancellazione del copyright hanno permesso la diffusione di libri su Google Books, film e musica su YouTube, qualunque file pirata linkato sul motore di ricerca. Ma questa ipertrofia di informazioni a portata di click ha portato a un miglioramento del livello culturale? O soltanto alla scomparsa di musicisti, registi, giornalisti, mediatori dell’informazione e della cultura?

Sono tutte domande che ne generano altre: l’ideologia hacker era sbagliata in sé? Quello che viviamo è una naturale conseguenza di premesse sbagliate? È possibile recuperare alcuni valori? Occorre invece ricostruire un nuovo movimento critico sulla tecnologia? Oppure è meglio ritornare alla campagna elaborando la delusione e adottando un neo luddismo?

Spazio

C’è spazio oggi per l’hacker? Anche nelle distopie più pessimiste sopravvive un gruppo di “buoni” sotto copertura che lotta contro un mega-potere che opprime l’umanità. L’immaginario cyberpunk di “Isole nella rete” prevede multinazionali che dominano il mondo e hacker in incognito che le contrastano. Neppure lo scrittore di fantascienza più pessimista ha immaginato il mondo d’oggi: pirati che gettano la spugna e si iscrivono a Facebook. Neppure Blade Runner, con la sua tecnologia opprimente, gli uomini soli, la pioggia perenne e le città ultra-affollate senza pietà e luce.

Siamo sommersi dal complottismo, che pervade la nostra epoca ma che ha molti padri nobili. Nonostante sia associato all’analfabetismo funzionale, all’ignoranza delle plebi, alla nascita di Facebook, può vantare invece origini molto più profonde. ”La penultima verità” di Dick, film come “The Truman Show” e “The Matrix”, romanzi underground come “Isole nella rete”. L’idea di base è che “loro” ci ingannano con una finta realtà, ma noi possiamo smascherarli. Un’idea basata sul desiderio di salvezza: non a caso Neo di Matrix è chiamato “l’eletto”. Ma anche sulla retorica della controinformazione, la paranoia e l’esigenza di dare uno sfogo alla frustrazione di un’epoca grigia dominata dai “lavoretti”, dal debito e dalla finanza.

Quindi si può concludere che molti valori contenevano già la degenerazione a cui abbiamo assistito. Ma non tutto è da buttare. Dalla difesa della privacy all’uso sociale della tecnologia per migliorare la nostra vita, c’è un’etica hacker da ricostruire.

* I virgolettati sono tratti da Zapruder numero 45, “Hack the system”, gennaio / aprile 2018

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