La storia vera di un giovane egiziano imbarcatosi in Libia per raggiungere l’Italia. Il viaggio in mare, la vita senza documenti e l’impatto con il mondo del lavoro, che per un migrante irregolare significa sfruttamento e difficoltà insormontabili; poi il carcere, a Piacenza, per scontare il reato di clandestinità; e l’incontro con il sindacato, che farà prendere coscienza ad Arafat – questo il nome del protagonista – della sua condizione di sfruttato e della necessità di lottare per reclamare i propri diritti di uomo, di lavoratore, di cittadino del mondo.
La pedagogia della sottomissione. Prefazione di Antonello Mangano
“Quando sono partito era impossibile trovare un’occupazione dignitosa. I miei genitori avevano un buon posto, è vero, ma se l’erano procurato quarant’anni prima, quando lo Stato assumeva ingegneri nelle fabbriche, insegnanti nelle scuole e medici negli ospedali. Negli anni Novanta, invece, i principali settori dell’economia erano stati privatizzati e la vita […] aveva iniziato a peggiorare. [..]
Chi voleva lavorare doveva avere le conoscenze. [Il Paese] era diventato pieno di ragazzi diplomati e laureati che facevano le pulizie, che lavoravano per due soldi nei ristoranti o che non lavoravano affatto”.
Quando spiega perché ha deciso di emigrare, Mohamed Alì Arafat parla dell’Egitto. Ma sembra raccontare l’Italia.
Un Paese, ricordiamolo, con oltre due milioni di emigrati in 13 anni. Tuttavia, chi lascia l’Italia ha un vantaggio sugli egiziani. Un passaporto forte che permette di varcare le frontiere. Un italiano cerca il biglietto più conveniente, un egiziano si procura connessioni con i trafficanti e convince la madre che non sta andando incontro alla morte in mare.
Il viaggio di Arafat, come quello di migliaia di africani, è una lotteria. Quando, in tantissimi su una barca, vedono terra, esultano gettando in acqua tutto quello che hanno. Compresa la preziosissima acqua potabile. Purtroppo è la Tunisia, non Lampedusa. E così il resto del viaggio diventa un incubo salato tra la vita e la morte.
È solo l’inizio di una lunga “pedagogia della sottomissione“ che trasforma esseri umani pieni di orgoglio ed energie in schiavi senza volontà. “La rassegnazione è l’unica integrazione concessa”, commenta lucidamente Arafat dopo l’ennesima umiliazione. Scoprirà subito che ai migranti sono riservati i lavori peggiori. Senza possibilità di ascesa sociale.
Il razzismo in Italia non è solo una questione di maleducazione, di termini sbagliati da sostituire con parole corrette. È una questione di transenne, di percorsi obbligati. Di ruoli che non vanno confusi.
È un viaggio che Arafat percorre in ogni tappa. Dallo sbarco alla negazione dei documenti, fino ai tre decreti di espulsione. Dalle raccolte di olive nei campi siciliani al lavoro ugualmente sotto caporale in uno dei poli logistici più importanti d’Europa.
Fino al momento peggiore: un arresto senza reato, nel 2009. Finisce nel carcere di Piacenza perché non ha il permesso di soggiorno. È il “decreto sicurezza”. Una trovata della Lega per lucrare sulle paure dell’immigrazione “clandestina”. La mancanza di documenti diventa reato, i cittadini possono costituirsi in “ronde“. Un episodio da Germania nazista nel Paese della “brava gente”, come ama raccontarsi, rimuovendo con metodo l’infinita serie di azioni infami che invece dovrebbero rimanere incise nella storia.
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Offuscati dall’eterno dibattito sbarchi-sicurezza-accoglienza-integrazione, cinque milioni di residenti, lavoratori, contribuenti semplicemente non esistono come cittadini. “Siamo ricacciati nell’infanzia”, dice Arafat. Per uno straniero, ogni giorno è segnato dall’apartheid all’italiana. Una separazione fatta di appartamenti in condivisione, salari inferiori, posti di lavoro riservati. Ma anche amicizie e legami familiari mono-etnici.
L’eccezione sono alcuni posti di lavoro. Dopo aver osservato lo sciopero nei magazzini di Esselunga, Arafat inizia a vedere gli altri “come lavoratori, non come immigrati”. Per il resto della popolazione, invece, rimangono ”migranti”: personaggi unidimensionali, un insieme di luoghi comuni. Tutti messi in crisi dalla biografia di Arafat. Non fugge dalla fame, perché viene da una buona famiglia e ha già un lavoro. Va a raccogliere arance al Sud non per disperazione ma per scelta: vuole crearsi un percorso autonomo, libero da legami familisti.
E per questa testarda scelta finirà sempre più in basso, trascinato dall’orgoglio e dalla mancanza di documenti. Un elemento non casuale, perché il ricatto “ti rimandiamo al tuo paese” (che nel frattempo non è più il suo) diventerà il leit motiv di un’esistenza intera.
Ma il ricatto dei documenti non viene dal caso. È uno straordinario strumento aziendale, di gestione della manodopera, perché permette di avere a disposizione persone ricattabili. Ricattabili, quindi a basso costo Del resto, trent’anni di immigrazione ci insegnano che le leggi sulle frontiere regolano più il mercato del lavoro che gli ingressi.
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Più volte la piccola storia di Arafat incrocia la Storia, quella con la maiuscola, fatta dai potenti e destinata a schiacciare la piccola gente.
Solo per fare un esempio, subisce le conseguenze dell’accordo Prodi – Mubarak del 2007. Quarantanove pagine di freddo linguaggio commerciale che rendono efficaci i respingimenti rapidi tra i due paesi. Nonostante il regime di Mubarak e poi quello di Al Sisi. L’Italia scoprirà soltanto con la vicenda Regeni quello che accade dall’altro lato del mare, ma non sarà sufficiente. Il risultato è che agli egiziani, così come in genere ai nordafricani, l’asilo è negato a priori. Quindi la loro vita è più difficile degli altri, sono irregolari che devono conquistarsi, non si sa come, un documento.
Ma uno sguardo come quello di Arafat, uno sguardo esterno, è fondamentale non solo per farci comprendere il mondo dell’emigrazione, ma soprattutto l’Italia. Uno sguardo meravigliato in Sicilia, quando scopre che Palermo somiglia a Port Said, alcuni siciliani hanno pelle scura, movimenti lenti e occhi mobili come i suoi connazionali.
Ma scopre anche l’incertezza: nei pagamenti, nei diritti, nelle scadenze. A Paternò lo pagano con un assegno che cambia facendo acquisti anche di pochi spiccioli al supermarket. Tutti, in paese, cambiano senza battere ciglio gli assegni di “Nino”. E poi la violenza. Un omicidio di mafia in pieno giorno, in piazza, segna l’addio a quella terra dai due volti.
Al Nord sembra tutto diverso. Specialmente Piacenza, né troppo grande né troppo piccola. Però poi la città si rivela l’epicentro di una perfetta commistione di logistica computerizzata, riciclaggio di denaro sporco, sopraffazioni xenofobe, pacchi troppo pesanti e operai multietnici.
Allora, proprio quelli che sono definiti “criminali”, venuti a portare insicurezza, si trovano a lottare per la legalità: contro la mafia, l’evasione fiscale e contributiva, il caporalato che qui assume la forma semi-legale del subappalto alle cooperative spurie. Quelle che nascono e muoiono ogni due anni.
“Lo Stato ci dovrebbe dare una medaglia per i soldi che abbiamo recuperato alle casse pubbliche. Dopo le lotte del 2010 le cooperative per cui lavoro hanno cominciato a pagare i contributi”, mi disse Arafat in una intervista del 2013.
Dall’altra parte della barricata, invece, ci sono poliziotti e carabinieri, multinazionali olandesi, statunitensi e svedesi; persino personaggi venuti fuori dalla storia di sinistra dell’Emilia Romagna. Che evidentemente hanno dimenticato il significato delle cooperative: strumento di emancipazione, non caporalato mascherato.
Quanto tutti gridano “sciopero!”, è il punto di non ritorno. Non è semplice dove ogni giorno un capo decide chi lavora e chi no, chi aspetta dall’alba e poi entra per un paio d’ore, chi torna a casa dopo un’attesa infinita. Chi è formalmente “in aspettativa”, invece lavora e lo stipendio lo riceve in nero.
Ma se ti assenti, semplicemente non ti richiameranno. L’unico strumento efficace è il blocco dei magazzini. Per ogni minuto di merci ferme, proprietari e manager perdono l’abituale arroganza perché vanno in fumo migliaia di euro. Di fronte a facchini provenienti da mezzo mondo che alzano la testa, i capetti si stupiscono:
– “Come, ti ribelli? Anziché ringraziare che ti faccio lavorare soltanto con la ricevuta del permesso di soggiorno!”
– “Non è colpa nostra, qui comanda il mercato. Se non siamo competitivi ci fanno fuori”.
– “Siamo tutti sulla stessa barca!”
Certo, il blocco stradale non è un mezzo “ordinario” di lotta sindacale. Ma non lo è neanche la gestione aziendale basata su caporalato, riciclaggio, evasione fiscale e contributiva. Non per caso il decreto Salvini lo ha trasformato in reato penale. Punendo l’immigrazione e la lotta per i diritti. Sì, il razzismo non è questione di parole poco appropriate. È un altro nome per l’oppressione.