Un giovane studente italiano si aggira per le strade del Cairo. Fa molte domande, frequenta le assemblee del sindacato dei venditori ambulanti, prende appunti. La sua rubrica telefonica contiene contatti da tutto il mondo.
Ci avviciniamo all’anniversario della rivolta di piazza Tahrir. Il regime ha assegnato un solo compito a tutti i suoi organi di sicurezza: impedire anche soltanto il ricordo di quel giorno.
Sarà stato eccesso di zelo, sarà stata la denuncia anonima che lo indicava come una spia straniera. Quel ragazzo è stato torturato, ucciso e gettato via lungo la strada tra la capitale e Alessandria. Quel ragazzo si chiamava Giulio Regeni ed è diventato un caso diplomatico. Il regime ha risposto alla richiesta di verità con una grottesca messa in scena, uccidendo un gruppo di ladri, mettendo tra i cadaveri i documenti di Giulio, dicendo all’Italia: “Ecco la verità, è stato vittima di una rapina”.
La vicenda Regeni ha mostrato agli italiani quello che succede nel paese amico, partner commerciale, stato sicuro. Ma i respinti lo sapevano già. I respinti sono gli egiziani arrivati illegalmente in Italia, quelli che non hanno potuto chiedere asilo e sono stati rimpatriati grazie a un accordo in vigore ininterrottamente da Mubarak ad Al Sisi.
Egitto
“Per parti si intendono la Repubblica Italiana e la Repubblica Araba di Egitto”. Nel 2007 il governo Prodi e il regime di Mubarak firmarono un trattato segreto, 49 pagine scritte con un freddo linguaggio da contratto di bottegai.
Eppure quelle carte hanno deciso dell’esistenza di tantissime persone. Profughi copti, oppositori politici, perseguitati di ogni tipo. Mubarak è stato cacciato dal suo popolo, ma il trattato permette ancora oggi l’espulsione rapida di persone spesso qualificate come egiziani dopo un riconoscimento sommario. In Italia ci vogliono anni per concludere una pratica d’asilo, ma l’espulsione di un egiziano è un affare di ore.
Come accade in questi casi, l’accordo nacque dopo una trattativa. In quel caso la contropartita fu una quota di flussi. In pratica i due paesi si scambiarono egiziani entrati irregolarmente con egiziani entrati in modo formalmente regolare.
Formalmente, perché il sistema dei flussi implica che chi parte abbia in tasca un contratto di lavoro. Quasi mai accade (chi assume qualcuno che non conosce dall’altro lato del Mediterraneo?), però da anni fioriscono le truffe.
Cosa ha prodotto questo accordo? Solo per fare un esempio, nell’agosto 2013, quando i centri d’accoglienza siciliani scoppiavano e le procedure erano lentissime, le espulsioni degli egiziani avvenivano in 24 ore e riguardarono almeno 90 persone. Nelle strade del paese nordafricano i morti si contavano a centinaia e l’esercito proclamava lo stato d’emergenza. Erano i giorni del colpo di Stato. Un militare depose il presidente eletto, Morsi, e si nominò nuovo presidente. Quel militare era Al Sisi.
Afghanistan
Gli accordi sono di due tipi. Ci sono quelli tra Italia e un’altra nazione (Egitto, Sudan) e quelli stipulati dall’Unione Europea (Turchia, Afghanistan).
Quest’ultimo è probabilmente il più pericoloso. Dal 2001 l’Afghanistan è un paese in guerra permanente e i numerosi interventi armati occidentali hanno aggravato la situazione. In particolare, la coalizione a guida Usa invase il paese dopo l’11 settembre.
Un flusso ininterrotto di profughi lascia il paese per destinazioni di ogni tipo. Proprio nei giorni in cui si firmava l’accordo, i talebani assaltavano la città settentrionale di Kunduz. Per chi nasce nel paese, partire è spesso l’unica scelta.
Secondo indiscrezioni pubblicate dal Guardian (l’accordo non è pubblico), le “autorità” del paese si impegnano a riprendersi tutti coloro che non hanno ottenuto l’asilo in Europa e che rifiutano di tornare volontariamente in Afghanistan. C’è un sostanziale ricatto dietro questa decisione: gli aiuti della cooperazione potranno dipendere dalla collaborazione del governo afghano.
Considerando che l’accordo permette teoricamente di deportare decine di migliaia di persone, è previsto un terminal dedicato ai “voli dei respingimenti” all’aeroporto di Kabul.
Uno studio dell’Università di Oxford osserva che i respinti potrebbero essere facilmente reclutati da milizie e talebani, aggiungendo così ulteriore instabilità al paese.
Sudan
Li chiamano “i diavoli a cavallo”. Sono le milizie janjaweed, accusate di ogni genere di crimini di guerra e protagoniste della guerra del Darfur.
Oggi si sono riciclate come “Rapid forces” e fanno parte del dispositivo di sicurezza dello stato di Omar Hasan Ahmad al-Bashir. Si tratto di un uomo che allo stesso tempo è il presidente del Sudan e un ricercato del Tribunale penale internazionale.
Mentre all’Aja hanno emesso un mandato di cattura per genocidio, a Roma è considerato un normale interlocutore con cui firmare memorandum segreti.
Il tre agosto 2016, il capo della Polizia Gabrielli e il suo omologo sudanese hanno firmato un accordo del tutto simile a quello egiziano. Stesso linguaggio da contratto “tra parti”, stesso obiettivo.
Il problema è che dal Sudan, da anni, arrivano richiedenti asilo che ottengono una qualche protezione umanitaria con una percentuale media del 60%.
Da oggi le procedure sono diverse. Lo spiega il memorandum: occorre procedere “senza indugio alle interviste delle persone da rimpatriare, al fine di stabilire la loro nazionalità e, sulla base dei risultati del colloquio, senza svolgere ulteriori indagini sulla loro identità, emettono, il prima possibile, documenti di viaggio sudanesi d’emergenza (lasciapassare), consentendo in tal modo alle competenti autorità italiane di organizzare ed eseguire operazioni di rimpatrio mediante voli di linea o charter”.
Così è avvenuto per 48 sudanesi prelevati a Ventimiglia e rimpatriati.
La seconda parte dell’accordo prevede cooperazione – anche militare – col governo genocidario. Tra i due paesi è infatti previsto “supporto e assistenza tecnica in termini di formazione e di fornitura di mezzi e di equipaggiamento”, oltre che lo “scambio di informazioni sulla formazione dei funzionari di polizia, con la possibilità di realizzare scambi di esperienze e di esperti e di organizzare corsi e attività addestrative”.
Anche le milizie di stupratori saranno addestrate dall’Italia? Saranno il baluardo che impedisce ai profughi di arrivare sul suolo europeo?
Finale. Una politica che non funziona
“Aiutiamoli a casa loro” e “riportiamoli a casa loro”. Sono due tra i luoghi comuni da bar più popolari. Il problema è che sono anche le linee guida della politica estera europea.
Con gli accordi di cooperazione i regimi ottengono:
- denaro da spendere in apparati di sicurezza (spesso coinvolgendo imprese italiane);
- addestramento delle forze di sicurezza locali;
- mezzi ed equipaggiamento.
In cambio i dittatori devono blindare le frontiere.
Con gli accordi di riammissione, invece, si ottiene la possibilità di espulsioni facilitate. In pratica i consoli sommariamente riconoscono i loro connazionali, quasi sempre dall’accento. Poche parole bastano a imbarcarli su un aereo. Nella pratica viene impedito loro di chiedere asilo.
Paradossalmente, il sito del Ministero degli Esteri (“Viaggiare sicuri”) sconsiglia assolutamente di viaggiare in quei paesi. Gli stessi in cui il Ministero degli Interni invia i respinti.
Si tratta di una storia che va avanti da anni. Anche quando si chiude una rotta, se ne apre un’altra più lunga e pericolosa. Gli accordi coi regimi – dalla Tunisia di Ben Alì alla Libia di Gheddafi – non sono mai stati un deterrente per le partenze. Anzi hanno rafforzato i dittatori, che abitualmente ottengono denaro e rafforzano i loro apparati di sicurezza.
Diventano più forti, scatenano guerre, aumentano le persecuzioni. Generando altre partenze di profughi.