Carte e frutta. Gli africani incastrati in Italia

Foto di Antonello Mangano
  Sono sbarcati nel Sud Italia. Hanno trovato un lavoro in Spagna, Germania, Francia, persino a Malta. Ma sono costretti a tornare in Italia da una burocrazia senza senso
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“Quando perdi il documento ti tolgono i diritti, non puoi avere il centro d’accoglienza, andare dal dottore, devi pagare l’affitto. Se non hai lavoro devi andare all’estero”. O.S. è un lavoratore proveniente dal Mali. Dopo lo sbarco in Sicilia, lo hanno trasferito al centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto, nei pressi di Roma. Qui è iniziato un incubo burocratico.

L’opinione pubblica ripete ossessivamente: “Non possiamo accogliere tutti”. Contemporaneamente, però, tantissimi africani vogliono andare via dall’Italia. La legge impedisce di farlo. Persino chi ha trovato lavoro fuori dai nostri confini è costretto a tornare.

Carte e frutta

“Non siamo noi a volerlo, è diventata una scelta obbligatoria. Conosco tanti amici che sono andati all’estero. In Spagna ho trovato lavoro nella raccolta della frutta. Sono andato in Almeria, ma la stagione era già finita. Allora sono andato a Huelva per la raccolta delle fragole. Ho fatto tre mesi, poi sono andato a Merida per pere e mele”.

K.G. racconta la sua odissea alla ricerca di lavoro dignitoso. La sua storia è molto lontana dal luogo comune di “gente che vuole mangiare e dormire nel centro di accoglienza”. Dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo, ha scelto di fare ricorso per averne uno che durasse cinque anni. Ma il documento che aveva in tasca non era valido in un altro paese dell’Unione Europea. Così, a tre mesi dalla scadenza, G. è tornato in Italia per rinnovarlo.

“Per trovare un lavoro dignitoso ho girato tutta la Spagna. Ma per rinnovare il permesso di soggiorno devo tornare in Italia”

“Quando sono tornato il documento non era pronto. La Questura mi ha detto che dovevo aspettare il risultato del ricorso. Mi hanno dato un permesso di sei mesi per richiesta asilo. Con quello potevo lavorare. Hanno bloccato l’umanitario di due anni che avevo già. In attesa del ricorso, ho aspettato fino a luglio 2019, ma il risultato era negativo. Per fortuna avevo un lavoretto di pulizie: due – tre ore al giorno. Così sono riuscito a convertire il permesso”. 

Mappa. I luoghi di questa storia

In verde le opportunità, in rosso i ‘colli di bottiglia’

In questo gioco kafkiano esiste una sola regola: se perdi il documento è finita. Non puoi più recuperarlo e scatta l’espulsione. Spesso, significa rimanere in Italia come un fantasma. Senza diritti e senza una seconda possibilità. 

L’unica strada è quindi cercare un lavoro. Un qualunque lavoro. Molti sono costretti a cercarne due: uno per avere il permesso, perché ti fanno un contratto. E un altro per mangiare, perché ti danno i soldi.

“Ho cercato un lavoro qui senza trovarlo, quindi ho fatto come gli altri e sono sono andato all’estero”, continua G. “In Italia, soprattutto a Roma, è difficilissimo trovare un lavoro per i migranti”. Le biografie di questi lavoratori sono segnate da impieghi in nero in centro oppure tirocini nei grandi capannoni dei centri commerciali in periferia. Seicento euro al mese che non garantiscono nulla. Tantomeno un documento.

Progetti migratori

M. F., maliano, è in Italia da molti anni. Ha seguito l’iter per avere il permesso che dura cinque anni, cioè la protezione sussidiaria. Ha vissuto per anni tra Rosarno e Piemonte, come bracciante. Gli hanno segnalato un lavoro in un cantiere a Malta. Ha preso un aereo a Napoli ed è partito all’avventura. Effettivamente ha lavorato nell’isola per due anni. Poi è tornato in Mali per riunirsi con la sua famiglia. “Mi ha chiesto se ha senso tornare in Italia per il rinnovo del permesso”, racconta Lele Odiardo del Comitato antirazzista saluzzese. “Se gli scade non può più entrare in Europa.  Se torna dovrà rinnovarlo. Con tutti i problemi che comporta”.

Sono tante le storie di quelli scelgono di varcare la frontiera. Specialmente quando ci sono vicini, come avviene a chi sta in Piemonte. A Saluzzo arrivano ogni anno centinaia di lavoratori per la raccolta della frutta. Nonostante la ricchezza del territorio, spesso vivono accampati per strada o in alloggi di fortuna.

Saluzzo, ricerca personale per le raccolte (2019)

“K.B. aveva parenti a Parigi”, racconta ancora Odiardo. “Ha cominciato a lavorare da McDonald’s con i documenti di un altro. È tornato in Piemonte per rinnovare il permesso, per poi tornare a Parigi. Altri maliani mi hanno detto che lavorava in un ristorante. Successivamente è riuscito a regolarizzarsi. Quattro anni fa ha beccato in Francia una finestra, cioè un momento in cui si poteva fare. So che ha una casa, ha una vita più o meno normale. Ci sentiamo per gli auguri di Natale”.

I. B.,  un altro maliano, aveva famiglia, era stanco e stufo. “Se mi dai due soldi, vado in Germania e vedo cosa succede”, ha chiesto a Odiardo. “Ora vive in Baviera. Lavora in fabbrica e ha fatto il ricongiungimento familiare. Ormai è tedesco, così come la sua famiglia. È un signore di 40 anni. Lavorava a Vicenza in fabbrica. È stato tra i primi ad arrivare a Saluzzo. Dormiva alla stazione e raccoglieva la frutta. Poi ha centrato il suo progetto migratorio”. In Germania.

Ultima storia raccolta da Odiardo è quella di D.A. “L’ho sentito da poco, è a Rosarno, da due anni va in Spagna, non riesce a lavorare tutto l’anno. Viveva a Saluzzo. La sua ambizione è lavorare in Spagna, anche secondo lui lì la condizione lavorativa è migliore che a Foggia o Rosarno. Ma è anche meglio che a Saluzzo. Almeno una casa in Spagna la trovi”.

Il problema più grande

“Il problema più grande che abbiamo in Italia, per tutti gli stranieri, è quello dei documenti”, spiega K.G.. “È come la libertà. Se non hai il documento non hai la libertà. Con il documento puoi fare altre cose, senza sei finito. Il mio documento dura due anni, ma hanno già preso qualche mese [per le pratiche burocratiche]. Perché da quando fai le impronte passa il tempo, sono due anni da quella data. È difficile avere il documento senza residenza. Prima il comune dava la residenza ma adesso è difficile. Devi prendere un appartamento in affitto con il contratto. Devi pagare”. 

“Il documento è come la libertà. Senza, sei finito”

Per chi esce da un centro di accoglienza ci sono due opzioni. La prima sono le grandi città. Qui, se non trovi un lavoro finisci a mendicare di fronte ai supermercati e a dormire alla stazione. La seconda alternativa è la campagna. Trovare lavoro non è difficile ma le condizioni sono spaventose.

“Per fare un cassone di pomodoro servono 15-20 minuti. Mai visto un lavoro così duro come la raccolta del pomodoro. Tutto il corpo è impegnato. Nel 2015 a Foggia mi pagavano 3 – 3,50 euro a cassone. Massimo 4 euro”, racconta O.S. 

Oppure la raccolta degli agrumi in Calabria. “Nel 2018 alcuni pagavano a giornata, massimo 25-30 euro per le arance o i mandarini. A cottimo, erano 0,50 centesimi oppure un euro a cassetta. Per raccogliere una cassetta di arance, se non devi salire sull’albero, ci vogliono 5 minuti. Se i mandarini li devi raccogliere con le foglie, non serve molto tempo. Invece, senza foglie ci impieghi anche 10 minuti”.

Il paragone con la Spagna è immediato: “Lì mi pagavano in media 6-7 euro l’ora, minimo 5. Sono tornato in Italia solo per il rinnovo del permesso. Mi hanno dato appuntamento per le impronte digitali tra tre mesi”. 

Il punto di passaggio

“Faccio un esempio banalissimo che non va generalizzato. Il caso dei siriani. Sono arrivati in 65mila, ma non compaiono nei dati anagrafici italiani, se non in 1000-2000 casi in più rispetto al 2011. La traiettoria che seguivano era Catania-Milano-Europa. Il 10% di tutti i migranti sbarcati nel 2011-2018 è andato da un’altra parte” spiega il prof. Salvatore Strozza, demografo all’Università di Napoli Federico II.

Da anni l’Italia è soprattutto un paese di transito. Cioè una tappa obbligata per l’ingresso in Europa, ma non il punto di arrivo. “Se gli sbarchi negli ultimi anni sono stati 750mila, le iscrizioni anagrafiche sono state 2milioni e 200mila. Quanti si sono iscritti in anagrafe? Non credo tantissimi. Gli sbarchi al più rappresentano un terzo, forse qualcosa in meno”, conclude Strozza.

Gli “sbarchi” e l’immigrazione in Italia sono due cose profondamente diverse

Quindi esiste uno scarto enorme tra gli “sbarcati” e il collettivo di cinque milioni di migranti che risiedono in Italia. Basta osservare i dati Istat. Il grosso dei residenti è infatti formato da romeni, albanesi, marocchini in prima battuta. Poi ucraini, cinesi e cittadini del sub-continente indiano in seconda. L’Africa subsahariana è presente solo in minima parte. Appena un 3% rispettivamente per Nigeria e Senegal.

Semplificando, si può dire che gli “sbarchi” e l’immigrazione in Italia sono due cose profondamente diverse. I primi colpiscono l’opinione pubblica e determinano le risposte della politica. La seconda è semplicemente ignorata e non è interessata da politiche strutturali.

Grazie a Lele Odiardo del Comitato antirazzista saluzzese, Marco Stefanelli, Città dell’Utopia e a tutti i migranti che continuano ad andare avanti

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