Vittoria (Rg) – Ti salva, ti nutre, ti consegna una tessera sanitaria e ti insegna la lingua. Fatto questo, magari dopo due anni, l’Italia ti dice che hai poche ore di tempo per tornare al tuo paese.
È una delle tante contraddizioni di un sistema burocratico che gioca con la vita di migliaia di persone. Ma non è solo lo Stato ad essere contorto. Prendiamo l’Ordine degli avvocati. Per concedere il “gratuito patrocinio” vorrebbe una dichiarazione dei redditi. Ma a chi la chiedi? Al dittatore da cui sei scappato? La carta d’identità è una giungla ulteriore. C’è un comune nei pressi che lo rilascia con durata ventennale. Altri no, solo il permesso di soggiorno provvisorio. Per alcuni enti non è valido perché si basa sulle dichiarazioni del migrante. Anche se sopra c’è un timbro di Questura e la traccia delle impronte. Altri enti invece consegnano tessera sanitaria e codice fiscale.
Difficile trovare una logica nella macchina burocratica. Impossibile, per chi è nato in un altro continente. Per loro c’è solo il sì o il no della commissione. In mezzo circolari di Ministero, rendiconti di spese effettuate, verbali di Prefettura, trasmissioni di atti. Ogni foglio andrà moltiplicato per gli oltre 100mila arrivi di quest’anno. Una montagna di carte che viaggia più veloce degli uomini. Ma sempre troppo lentamente.
Poi ti comunicano la data. Poche ore in cui ti giochi la tua vita. Devi essere molto convincente e sperare di trovare gente comprensiva, non solo freddi funzionari. I dinieghi sono tanti. Oltre la metà, secondo un legale che lavora alla sezione staccata della commissione di Ragusa. Persino per chi viene dal Gambia, un regime feroce come pochi.
I criteri per avere il permesso sono tre. Una nota persecuzione su base “etnica”. I rischi per la popolazione civile. Un pericolo individuale per una persecuzione subita. A questi livelli corrispondono al momento tre tipi di permesso (asilo, protezione sussidiaria, umanitaria).
La tensione in attesa di quel giorno la raccontano gli occhi di queste persone, “ospiti” nei centri di accoglienza. Due cose non sopportano. Il pericolo di tornare indietro. E l’attesa. È gente abituata a lavorare, non ad aspettare in strutture più o meno emergenziali.
Quando arriva il giorno è come un esame. Solo che non ti comunicheranno un voto, ma se hai messo in pericolo la tua vita per niente. Entri in Prefettura. Un primo colloquio con l’interprete per la verifica della lingua. Se non si capiscono, c’è la richiesta di sostituzione. Più documenti porti, meglio è. Anche se in genere i migranti arrivano in Italia senza niente, neppure il passaporto. Un senegalese si è fatto spedire un certificato di nascita ed ha risolto così. Prova inoppugnabile.
«L’esame è molto approfondito», dice un avvocato. Ma chi c’è dall’altra parte? Funzionari senz’anima o gente molto preparata? «Hanno qualche strumento, come le informative ministeriali sui vari paesi». Poi arriva la decisione. Se è negativa si può fare ricorso. Altri mesi in attesa. Poi, se va male, lo Stato decide di espellerti. Dopo aver buttato tempo, strutture, risorse, soldi ed energie.