Gela. Voci dai blocchi operai

  Che la Raffineria fosse in disfacimento lo sapevano tutti. Nessuno però s’è mosso in tempo. Adesso gli operai nelle strade provano a salvare l’insanabile. Cominciano a prendere le distanze dalla realpolitik dei sindacati. Cominciano ad intuire che il territorio è di chi lo vive e non di chi lo sfrutta per poi abbandonarlo
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Presidio Operai Gela
Fotografia di Miriam Alè

GELA – “La Raffineria è un colabrodo; lo sappiamo noi operai, lo sanno i quadri ed i dirigenti dell’Agip, lo sanno tutti, anzi lo sapevano tutti da tempo” dice Luigi come se fosse la cosa più naturale del mondo avere un’industria che cade a pezzi. “L’anno scorso sono crollati due serbatoi all’isola Topping 2 – gli fa eco Salvatore – per colpa di una semplice manutenzione che non s’è mai fatta”. Aggiunge Mattia: “E perché, il pontile e la diga non sono lì lì per crollare?”.

“Il problema è che si sono sempre riparate le perdite –  si inserisce un altro operaio – senza mai sostituire ciò che andava sostituito ma con rattoppi su rattoppi”. Basta chiedere in che condizioni è la Raffineria di Gela ai presidi e le testimonianze si accumulano senza sosta. “L’investimento di 700 milioni di euro andava fatto almeno 10 anni fa – conclude Luigi – poi non ci si può lamentare se gli impianti sono fatiscenti e producono perdite”.

Mentre parliamo i blocchi continuano. Molti turnisti contrattano la possibilità di entrare a lavorare. Mentre per chi esce c’è una sorta di rito di penitenza. Chi presidia mette ostacoli in mezzo alla strada e si deve scendere dall’auto per spostarli e poter tornare a casa. “Così guardiamo le corna ai crumiri”, li sbeffeggia Giacomo.

La pietosa retorica della guerra tra poveri qui non attecchisce. “Siamo tutti nella stessa barca, si tratta di scegliere se provare a salvarsi – chiarisce Gigi – o far finta di niente mentre si affonda. L’altro giorno a mio figlio che voleva iscriversi all’università ho detto di rinunciare: senza stipendio e senza certezze come si fa a programmare non dico il futuro ma neanche il presente”.

Agli operai Smim, da sempre i più battaglieri, non par vero che anche i lavoratori del diretto li affiancano nella lotta. “L’altra notte – dice Franco – c’hanno chiesto di alzare il tiro e non abbiamo neanche garantito il cambio turno dopo 16 ore, per come c’eravamo accordati. Sono arrivati i loro sindacalisti per chiedere spiegazioni e si sono beccati le “mazzate” (le botte in siciliano… ndr) e ad uno stavano per gettarlo in mare”.

Un episodio che può essere una svolta o, in ogni caso, un semplice sfogo di risentimento verso i sindacati che gli operai continuano a vedere come impotenti, censori e compromessi. “Senza il sindacato in fabbrica non puoi muoverti – confessa Luigi. Il sindacalista non solo è amico dei padroni ma ci va pure a letto”. Metaforicamente, s’intende.

Così sempre più nei presidi tra gli operai si diffondono richieste e visioni politiche difformi da quelle finora dettate dalle istituzioni e dai sindacati. Istanze impensabili fino a qualche tempo fa per lavoratori a cui dell’ambiente e dei danni alla salute importava poco purchè si portasse il pane a casa. “Se i signori dell’Eni se ne vanno allora si devono scordare di poter estrarre il petrolio – urla Salvatore. Altrimenti i pozzi rimangono a noi e loro fanno le bonifiche del territorio”. Un timido applauso da parte di un piccolo gruppo sancisce una timida presa di coscienza.

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