Pubblicato su «l’Espresso»
«Il rettore è in Vaticano. Oggi non c’è nessuno. Riprovi dopo». Il sacerdote che risponde al telefono non è un centralinista qualsiasi. Jean-Baptiste Rutihunza è accusato di genocidio. È ricercato dall’Interpol. Il tribunale delle Nazioni Unite e quello ruandese ne hanno chiesto l’estradizione. Finora senza esito.
LE ACCUSE
Il prete avrebbe indicato alle milizie hutu i bambini disabili dell’etnia nemica da prelevare e sterminare. L’accusa dice che compilò gli elenchi dell’orrore. Nel 1994 dirigeva una struttura religiosa dei «Fratelli della Carità», congregazione belga, a Gatara, nel distretto meridionale di Nyanza. Per questo la Procura di Kigali ha chiesto l’estradizione, in modo che possa essere giudicato nel suo paese. Ma lo scorso marzo – quasi in coincidenza coi 20 anni del genocidio – la Corte d’Appello di Roma ha risposto negativamente. Così come aveva fatto in precedenza .
«Il giudice non è potuto entrare nel merito della questione», ci spiega l’avvocato Elena Zaffino, incaricata di seguire il procedimento dall’associazione di sopravvissuti Benerwanda (“Figli del Rwanda”). «Dalla difesa di Rutihunza è stata sollevata una eccezione preliminare, attinente l’incompletezza della documentazione prodotta a sostengo della richiesta di estradizione».
«Questa è una delle motivazioni», conferma Michele Gentiloni Silveri, legale di Rutihunza. «In più la giurisdizione ruandese attuale non consente una prognosi equa e imparziale del processo. Il governo è di etnia tutsi e gli hutu imputati non godono di garanzie adeguate. È acclarato in tutti i paesi europei»
Ancora nessuno, quindi, è entrato nel merito di accuse spaventose. Fra l’aprile e il luglio del 1994 morirono circa un milione di ruandesi prevalentemente tutsi.
Una delle più grandi tragedie del secolo. Rutihunza, che ha sempre respinto ogni accusa, era rappresentante legale di un centro che ospitava in quel periodo centinaia di bambini con gravi problemi motori. A Gatara, secondo il Tribunale internazionale di Arusha, l’organo istituito in Tanzania dalle Nazioni Unite per far luce sugli eventi di vent’anni fa, furono uccisi complessivamente 4338 bambini, i cui cadaveri vennero poi interrati in fosse comuni.
Il sacerdote africano aveva trovato rifugio in un primo momento in Congo. Poi, nel 1996, in Tanzania. Infine a Roma, fino a quando il Tribunale di Arusha aveva spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti. Quindi un nuovo spostamento in Belgio e infine la capitale italiana.
UN GIALLO INTERNAZIONALE
A questo punto la storia somiglia a un giallo internazionale che coinvolge il nostro paese, la Francia, i tribunali africani e il Vaticano. In Italia non esiste l’ambasciata del Rwanda, quindi il plico è passato da Parigi. Senza la cartella con le prove e la traduzione necessaria. «Il problema vero è mancanza di accordi bilaterali tra Rwanda e Italia in materia di estradizione», ci dice Françoise Kakindi, presidente di “Benerwanda”.
«Il mio assistito ha negato di aver partecipato ad alcuno degli episodi di cui è accusato», risponde Gentiloni Silveri. «Se quelle prove non sono arrivate in Italia vuol dire che forse non ci sono».
I delitti di cui è accusato non si prescrivono. E su Internet è ben visibile la scheda dell’Interpol dedicata a Rutihunza . Nella sezione wanted si legge: «Sessantacinque anni. Ricercato dalle autorità ruandesi, deve scontare una pena. Accuse: genocidio; complicità in genocidio e crimini contro l’umanità». Il documento si conclude con un modulo per inviare segnalazioni utili.
In realtà non è difficile trovarlo. A pochi passi dalla fermata Cornelia della metropolitana, un grigio edificio con targa in ottone ospita la congregazione dei «Fratelli della carità» oltre che il «Consiglio pontificio belga». Il prelato svolge anche attività divulgativa: nel 2009 interveniva al Clarentianum sul tema «Aspetti antropologici della vocazione religiosa».
Qual è il ruolo della Santa Sede nella vicenda? Il prete di Gatara, secondo il suo legale, vive e lavora in territorio italiano, con un normale permesso di soggiorno. È sottoposto alla nostra giurisdizione. Il Vaticano, dunque, non c’entra nulla e non gli ha offerto protezione. «Semplicemente Rutihunza non desidera tornare nel suo paese ed affrontare il giudizio del Tribunale perché non lo considera imparziale».
Intanto a Parigi, a metà marzo, la Corte d’Assise ha condannato Pascal Simbikangwa a 25 anni. Si tratta del capo dei servizi segreti ruandesi all’epoca del genocidio, molto legato all’ex presidente Habyarimana. La sua è una vicenda romanzesca. Nel 1999 è incarcerato a La Reunion, territorio francese d’oltremare al largo del Madagascar. Pochi mesi dopo è trasferito a Parigi su richiesta del locale tribunale, che ne rigetta l’estradizione in Rwanda. Nel 2010 due magistrati francesi sono in Africa per cercare prove.
Inizia una lunga vicenda giudiziaria che termina solo nel marzo 2014, nel pieno delle polemiche sulle responsabilità francesi nella tragedia. Con una storica sentenza, Simbikangwa è condannato per genocidio e complicità in crimini contro l’umanità. Per questi reati, secondo i magistrati francesi, esiste una giurisdizione universale. L’uomo avrebbe pianificato lo sterminio. Il suo avvocato ha parlato di sentenza politica annunciando ricorso. Una vicenda comunque opposta rispetto a quello che è successo in Italia.