Che cosa significa abitare la terra, per una donna del sud del mondo o dei paesi in guerra?
Significa occuparsi dell`acqua, del cibo, della salute, delle gravidanze…
In poche parole, della vita e della morte. Misurarsi con i diritti essenziali, con il diritto ad avere diritti, quelli che dovrebbero essere assicurati dal solo fatto di esistere, di abitare la terra.
Invece in quei luoghi occorre conquistarsi con fatica e dolore, talvolta senza riuscirvi, il diritto alla pura sopravvivenza. Sono i dati e le statistiche a dirci che l`alto livello di benessere di alcune parti del mondo viene pagato dallo sfruttamento di altre aree rapinate dello loro risorse fondamentali, in un circolo vizioso che fa pagare le conseguenze dell`iperproduzione e dell`iperconsumo proprio a chi non si può permettere nemmeno i consumi essenziali.
Il concetto di economia si fa allora molto concreto: riguarda il diritto alla vita. Da qualche tempo, anche nell`occidente del benessere generalizzato, vissuto sulla rapina neocolonialista del sud del mondo, si affacciano però fantasmi del passato. E l`economia ricomincia a diventare corporea, concreta, ogni volta che ci si sorprende a doversi confrontare con nuove rinunce, con la necessità di economizzare sulla “spesa” . Ci si comincia a chiedere: avremo in futuro energia sufficiente, acqua sufficiente? O dovremo contendercele come nelle guerre tribali?
Se si guarda quel che succede nel mondo, si vede riemergere una trama ancestrale che ci riporta all`essenza delle cose, ci riporta sulla soglia della vita e della morte, una soglia dove da sempre abitano le donne. Da sempre, infatti, a questa soglia è stato collegato il potere delle donne che tanto ha spaventato il genere maschile, fino a volerlo cancellare come nella storia hanno fatto. Un potere che è anche il peso che le donne nella storia hanno dovuto sostenere.
Come si presenta, oggi, questo terribile peso? Dappertutto la condizione delle donne peggiora e arretra: nel sud del mondo a causa del tremendo impatto del modello di sviluppo occidentale e del debito estero sulle società rurali, nei paesi industrializzati a causa dei tagli allo stato sociale e del conseguente doppio e triplo lavoro cui le donne sono condannate.
Nelle società occidentali si parla molto di “femminilizzazione del lavoro” , un processo che avrebbe dovuto configurarsi come un diverso modello di lavoro, calibrato sui tempi della vita, e non più sulla rigida divisione fordista fra lavoro e vita, che era tagliata su misura dell`uomo capofamiglia, tipica dell`epoca industriale. Una differente scansione dei tempi avrebbe potuto “liberare” anche gli uomini, a patto che fossero mantenute le garanzie e le sicurezze contrattuali e previdenziali indispensabili. Purtroppo ha invece significato generalizzare e allargare all`insieme del mercato del lavoro proprio quella precarietà che era caratteristica dei lavori atipici e invisibili delle donne.
Anche la povertà si femminilizza sempre di più nei paesi in guerra e nel sud del mondo. L’aumento del livello di povertà, e il crescere dello sradicamento (sono donne la maggioranza del popolo dei profughi), assoggetta le donne a ogni sopruso, rischiando di ricacciarle indietro nell’inferno di una corporeità non rispettata, perché da sempre demonizzata, e quindi sfruttabile come una cosa (vedi il recente rapporto di Amnesty International sugli stupri, vedi lo schiavismo sessuale, il turismo sessuale…).
Perché stupirsi? Lo sviluppo è un processo altamente discriminatorio contro tutti i soggetti “altri”, economie “altre”, paesi “deboli”, etnie minoritarie, e naturalmente contro il soggetto più discriminato della storia, le donne. Ovunque, al nord e al sud, le donne vivono la continua difficoltà a bilanciare le attività della sfera produttiva con quelle della sfera riproduttiva. Le politiche macroeconomiche, tipiche delle società industriali, discriminano le donne in favore degli uomini, e non tengono conto della divisione del lavoro sulla base del genere né dei diversi rapporti di potere. In pratica, le donne rappresentano il sostegno invisibile dell’economia mondiale.
La base del modello di sviluppo capitalistico, occidentale e oggi neoliberista, sta nella priorità della logica del profitto e nello sfruttamento illimitato non solo della forza lavoro ma anche delle risorse naturali del pianeta, a qualsiasi prezzo, compresa la distruzione dell’ecosistema e la rovina di intere popolazioni. Con l’alibi menzognero della tecnologia “buona” che risolverà il problema della fame per miliardi di persone.
È invece proprio il contrario, come spiega Vandana Shiva quando denuncia la nuova “biopirateria” che sta depredando metà del mondo: poche, gigantesche multinazionali, grazie all’ingegneria genetica, ora si impadroniscono anche di millenari saperi agricoli collettivi, brevettando prodotti geneticamente modificati in laboratorio, e quindi sterili, che porteranno alla rovina innumerevoli piccole aziende agricole, gestite in maggioranza da donne. Una rapina imposta con la forza, che viene legittimata nell’ignoranza e nell’indifferenza quasi generale dell’Occidente.
Eppure, nonostante tutto, negli ultimi anni sono state proprio le donne, soprattutto nel Sud, a lottare più appassionatamente contro lo scempio del pianeta, dell’ambiente, dell’agricoltura, del cibo: le basi materiali della vita. Proprio dai gruppi di donne attivi in tutto il mondo, e particolarmente nei luoghi difficili toccati dalla guerra, sono sorte le più interessanti novità, le indicazioni di strade diverse, di un nuovo modo di guardare il mondo, i rapporti economici, il modello di sviluppo, le relazioni individuali e collettive.
Reti interculturali, resistenza alla guerra e al nazionalismo, azioni contro l’integralismo: tutte azioni che portano il segno della differenza, della creatività, dell’intelligenza e del coraggio di molte donne. Pensiamo all’America Latina con le sue madri di Plaza de Mayo, alle Donne in Nero palestinesi e israeliane, alla ex Jugoslavia, all’Algeria, alle donne afghane di Rawa, alle madri russe e cecene contro la guerra, all`India, al Chiapas, al Green Belt di Wangari Maathai nel Kenia, a tantissime altre.
La lotta contro questo modello di sviluppo, che rafforza le basi del sistema capitalista e dell’oppressione di genere, per le donne è centrale in ogni progetto di trasformazione sociale e di riequilibrio fra i generi. La critica al modello di sviluppo non può rimanere un discorso marginale, ma deve entrare a pieno titolo nell`agenda politica delle donne, collegandosi alle donne del Sud del mondo, e creando relazioni importanti anche con le immigrate che vivono qui.
L`economia dovrebbe mutare completamente paradigma, e ispirarsi a quei preziosi saperi delle donne legati all`esperienza e alla materialità della vita, legati alla conoscenza del limite e al rapporto con un tempo non più lineare ma ciclico, nella consapevolezza che le conseguenze delle scelte si pagano, e che bisogna preservare le basi da cui tutto continuamente rinasce. Una legge cosmica cui nessuno può sottrarsi.
Ciò che ci interessa, quindi, non sono le politiche che s`ingegnano di integrare le donne in uno sviluppo distruttivo e funzionale al dominio dei pochi sui molti, pensato da economisti occidentali maschi, ma ci interessa riconsiderare tutto il modello di sviluppo assumendo un punto di vista di genere, che rovesci gli attuali, iniqui rapporti di forza tra nord e sud del mondo, intendendo nord e sud in senso lato e anche metaforico, e soprattutto tutta l’organizzazione sociale fondata sulla diseguaglianza di genere.
Floriana Lipparini
Intervento presentato al seminario “Politica e conflitto”, organizzato dall’Associazione Rosa Luxemburg, Firenze, 10-11 dicembre 2004