ROSARNO (RC) – «Quando vivevo in un un casolare nelle campagne, senz’acqua, dovevo trasportare i bidoni per molti metri. Allora vedevo i miei tre bambini e loro mi davano la forza». Lamine Bodian oggi fa il mediatore culturale e presiede Africalabria, la prima associazione nata dall’incontro tra africani e attivisti del luogo. Ma non ha dimenticato quando il pensiero dei suoi figli in Senegal gli dava la forza per andare avanti.
Eppure Bodian, nell’immaginario comune, è un africano bisognoso di carità. «Noi non siamo poveri, siamo ricchi con il cuore», dice con orgoglio. E spiega i numeri dello sfruttamento: 25, 100, 300. Il primo è la paga giornaliera in euro, immutata nel tempo, crisi o vacche grasse (cioè truffe europeee). Cento è il costo medio mensile di un posto letto in appartamento nel centro del paese. Considerando che in una casa possono starci fino a 10 persone, un proprietario incassa 1000 euro per quello che – in condizioni normali – affitterebbe a 300.
Anche trecento è un numero che gli africani conoscono bene. È il costo medio di una pratica al mercato nero dei permessi di soggiorno. Dopo la rivolta del 2010 il numero degli irregolari è diminuito drasticamente. Grazie alla maggiore concessione di permessi umanitari, all’arrivo di lavoratori regolari dal Nord, al costante flusso di richiedenti asilo arrivati a Lampedusa e transitati dai Cara. Tutti gli altri devono pagare. In assenza di sanatorie, lo Stato non concede una porta di ingresso ma chiude gli occhi sui finti contratti di lavoro e le scappatoie possibili.
La causa e l’effetto
Bodian è appena tornato da un incontro alla sede Fao di Roma. È uno dei protagonisti del progetto delle “arance eque”, un’alternativa al sistema dello sfruttamento. Fatica a sconfiggere l’immaginario diffuso secondo cui un africano è povero di per sé, vive per forza di cosa in condizione degradate e ha bisogno di elemosina.
Una cosa è la causa, un’altra l’effetto. Prendiamo le condizioni abitative. In pochi possono permettersi cento euro al mese, considerando che non sai quante giornate di lavoro riuscirai a fare. E così si cerca posto alla tendopoli. Le strutture blu della Protezione civile non sono gestite da nessuno. Chi è arrivato prima si è installato. C’è freddo, non c’è elettricità né acqua calda. Quando piove è un delirio di fango. I posti non sono sufficienti e al momento ci sono oltre mille persone, molte delle quale sistemate con baracche autocostruite.
Il paradosso è che tutto avviene sotto le scritte del Ministero dell’Intero, divisione Protezione civile. Non ci sono soldi e gli africani sono aiutati dalla tradizionale generosità della gente del posto. Questi interventi impediscono che i braccianti muoiano ogni giorno di stenti, ma non hanno salvato Dominic Man Addia, un ragazzo liberiano che non è morto genericamente di freddo.
È morto di malasanità, come denunciato dai suoi compagni, che non accettano quello che per altri è normale. È morto per la sciatteria dello Stato che mette il suo logo su una tendopoli in totale condizione di abbandono. È morto perché i veri invisibili delle campagne (commercianti, grandi aziende, grande distribuzione) scaricano i costi sugli ultimi anelli della filiera. Si può sfuggire a una guerra africana e poi trovare la morte nel freddo di un distretto agricolo italiano. Uccisi una prima volta dal sistema dello sfruttamento, che non dobbiamo chiamare “emergenza”; la seconda dall’idea che sei africano dunque povero.