Reportage. A tre anni dalla cacciata del dittatore

Burqa, bikini e blog. Il caleidoscopio della Tunisia post-rivoluzione

Antonello Mangano
  Dopo la rivoluzione la Tunisia è un paese giovane in cui tutto è possibile. Le contraddizioni sono visibili, brutali. Riguardano le donne, la religione, la libertà di espressione, la distribuzione della ricchezza, l`onnipresenza francese, i giovani blogger, la cultura underground, gli islamici, il ribellismo di Amina e le violenze della polizia. Sintomi di una realtà vitale come poche. Che non può rimanere isolata
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TUNISI – All’arrivo all’aeroporto di Chartage,  una donna – molto giovane – perquisisce tutti, anche gli uomini. Sull’autobus un’altra donna indossa un burqa integrale, neppure un forellino per gli occhi. Benvenuti nel paese dove le contraddizioni della condizione femminile sono fortissime, brutali. Donne poliziotto e divieto religioso di bere. Chador e niqab. Trucco e minigonne. Amina contro la religione, Amina contro l’islamofobia. In spiaggia, vicino a un bikini, un costume che non scopre nemmeno la caviglia.

Il velo è diventato un simbolo della ribellione al regime, che era laico. Ma i laici, che erano contro il regime, sono anche contro il velo. C’è chi dice: ho il diritto di mettere il velo, per protestare contro la dittatura e gridare al mondo la mia identità. E poi di toglierlo, per non farmi condizionare da un nuovo potete. Quanto basta e avanza per mandare in confusione tutte le certezze consolidate di una femminista occidentale. Niente salotti e citazioni di filosofi francesi, qui. Vita vera, contraddizioni che possono costare la pelle. O almeno il carcere.

Tra Parigi e Palermo

I francesi, del resto, sono onnipresenti. Dopo gli ultimi attentati dei kamikaze, la polizia ha recintato pezzi di avenue Bourghiba, i palazzi del potere e l’ambasciata di Francia, che forse conta più di tutti. Le imprese dell’ex padrone coloniale non si nascondono: Danone sta sui manifesti 6×3; sulle maglie dell’Espérance, la squadra di calcio; nei banconi dei supermarket (anche loro dai nomi francesi). Orange offre ai turisti appena sbarcati un pacchetto 3G di una settimana per non rinunciare alla connessione durante una permanenza breve. I francesi stanno costruendo i nuovi palazzi del centro. Le nuove vetture del métro léger sono targate Alstom e sono identiche a quelle del tram di Torino. La presenza francese rimane nel disegno dei grandi viali ortogonali della ville nouvelle come nelle baguette dei panifici; nel fascino decadente degli alberghi bianchi e blu ai margini della medina, la città fortificata dove le viuzze sono un mercato permanente e i venditori offrono dolci al miele e tè alla menta; nell’organizzazione dei licei e delle esattorie delle tasse; nei giornali esposti alle edicole; nelle poche librerie che accanto ai libri religiosi espongono i best seller di Gallimard.

In questo incrocio ben riuscito tra Parigi e Palermo, a un certo punto irrompe Amina. Diciannove anni, che è anche la media dei giovani protagonisti della rivoluzione. Un’età che in Italia associamo a un’acerba adolescenza. Amina ha subito il carcere, è diventata famosa, ora studia a Parigi. Ci presenta due nuovi tatuaggi contro la religione e il potere. Ma non sopporta la fobia dell’Islam, che fa parte dell’identità locale. Su questo non c’è intesa col femminismo radicale d’Occidente.

La polizia, il vero potere

Cose viste in poche ore con protagonisti i poliziotti: sgomberano alcuni ambulanti in centro, un manganello come unico segno di riconoscimento, mentre decine di altri venditori continuano indisturbati; agitano un bastone intorno a un assembramento di studenti, più intimidazione mafiosa che manovra da ordine pubblico; escono da un furgone, in borghese, ed entrano in casa a effettuare un arresto di notte; tutt’intorno si spande odore di polvere da sparo; su Internet girano le foto di un ragazzo torturato e ucciso. Ma non ci sono prove, perché la stampa locale è rimasta quella del regime. Attempati signori che scrivono un pensoso editoriale, annotano il bollettino del ministero, proseguono con i risultati del calcio e chiudono con necrologi e pubblicità di supermercati.

Scrivere “Acab” su un muro italiano può essere un gioco, uno sfogo, una leggerezza. Qui diventa un atto politico denso. La polizia, con una costituente debole e divisa, con l’opposizione laica debilitata dagli assassini dei suoi leader, è oggi l’unico vero potere. Un potere richiesto dalla borghesia che faceva affari col regime; e dagli stati occidentali che erano amici di Ben Alì. Se questo potere non ci fosse lo inventerebbero in poco tempo. Chi è stato testimone delle brutalità della polizia italiana, comprende subito che questa è un’altra cosa. Quando qualcuno ti aggredisce, chiami la polizia. Quando ti aggredisce la polizia, non hai nessuno da chiamare. In questo vuoto nasce la paura.

In un paese alla vigilia della sua storica prima costituzione democratica, sembra che i tutori dell’ordine si preoccupino solo dell’erba. Grazie alla scusa della repressione degli stupefacenti leggeri, reprimono artisti e attivisti.

Gli attentati suicidi ci sono sempre stati, anche all’epoca di Ben Alì. E cosa vuoi fare se un pazzo si fa saltare in aria in un resort dove vendono alcolici convinto di guadagnare il paradiso? Certo, se sei il capo della polizia, puoi cogliere l’occasione e occupare spazi, cancellare diritti, conquistare posizioni.

Post, status e polizia

L’informazione vera gira sui blog e sugli status di Facebook. Senza paura ma senza verifiche. Decine di attivisti, con l’incoscienza dei vent’anni, hanno sfidato la dittatura e ora si raccontano nel documentario Generation Maudite. Testimonianze dei ragazzi che potevano pagare con la vita due righe di commento. Quello che per noi è un gesto da niente, nei giorni della rivoluzione portava nelle case di blogger senza paura poliziotti sconcertati da tanto coraggio. Hanno fatto la rivoluzione 33 mesi fa, questi ragazzi. Insieme ai minatori dell’interno. Insieme ai sindacati e ai lavoratori. C’è da non crederci, perché la rivoluzione per noi è una parola lontana, vuota e retorica. A questa latitudine sono volti, racconti, foto e video su YouTube. E soprattutto persone in carne e ossa, mani da stingere, parole (indifferentemente) in inglese, francese e arabo.

La vera sfida, più che quella islamica, sarà distribuire la ricchezza del Paese tra appena 11 milioni di persone. La cleptocrazia del regime distribuiva malissimo, su reti familiari e clientelari. Oggi questa terra che si affaccia sul Mediterraneo può farsi forza delle sue contraddizioni: l’energia vitale di un’età media bassa, elemento a noi sconosciuto; manifesti di cultura underground, da centro sociale globale; le sterminate periferie della capitale e le case bianche e blu di Sidi Bou Said, invenzione di un miliardario franco-americano, rifugio bohemienne per Paul Klee e Michel Foucault; le donne velate che si fanno fotografare con l’iPad, sulla collina dove Didone si diede fuoco per Enea; il filo di una storia millenaria che la collegava a Roma e che ora sembra indissolubilmente legato a Parigi.

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