Pubblicato su «l`Espresso»
Addestrare migliaia di poliziotti libici in Sicilia e Sardegna. Riscrivere il codice penale e civile. Formare il personale nordafricano al controllo delle frontiere. Fornire nuove tecnologie. E per finire un progetto pilota per disarmare le fazioni ribelli sul «modello Mozambico». Sono le risposte del governo Letta alla richiesta di Obama («Dateci una mano in Libia») formulata nell’ambito del G8 di giugno, in Irlanda del Nord. L’Italia cerca di riprendere così il suo ruolo dopo la caduta di Gheddafi. «La Libia è una responsabilità che ci tocca e che ci dobbiamo prendere», ha detto il viceministro agli Affari Esteri, Lapo Pistelli. Migranti, petrolio e fazioni armate sono i tavoli su cui si gioca la partita.
La mano di Obama e il fardello italiano
Oltre un quarto delle reclute libiche verranno addestrate in Italia, ha confermato il premier Enrico Letta al termine dell’incontro dello scorso 4 luglio col premier Alì Zeidan. L’Italia ha già donato l’abbigliamento alle forze libiche, ha bonificato i porti da ordigni e relitti. Fornirà «attrezzature, veicoli e armamento leggero per consentire alle forze di sicurezza libica di riprendere il loro lavoro». Un centinaio di istruttori italiani addestreranno i soldati destinati alla protezione di aree «sensibili» come i siti petroliferi, nell’ambito dell’«Operazione Cirene» finanziata nel 2013 con 7,5 milioni di euro. L’evoluzione di questo programma si chiama MIL (Missione militare Italiana in Libia), con due componenti: una core, cioè un gruppo interforze a carattere permanente. Un’altra di supporto sulla base delle esigenze del momento evidenziate dalle Forze armate libiche.
Il reticolo delle nuove azioni italiane si sovrappone ai progetti europei e a quelli avviati ai tempi di Gheddafi, in genere confermati. Poco meno di 3 milioni di euro sono stati stanziati pochi giorni fa dal governo per «garantire la manutenzione ordinaria delle unità navali della Guardia di Finanza cedute dall’Italia per lo svolgimento di attività addestrativa della Guardia costiera libica».
Il programma europeo si chiama invece EUBAM Lybia. Si occupa sempre di assistenza al pattugliamento dei confini, cioè oltre 4mila chilometri a nord e a sud. L’Italia partecipa con «personale militare in attività di assistenza, supporto e formazione». Il programma ha un mandato iniziale di due anni, un budget di 30 milioni di euro l’anno e 165 addetti tra capo missione, staff internazionale e personale reclutato sul posto. Alle nostre tasche costerà più di 2 milioni e mezzo di euro.
Il programma «Seahorse» (“cavalluccio marino”), infine, è stato presentato a Madrid a fine settembre. È l’ennesimo progetto europeo di controllo delle frontiere per frenare l’immigrazione irregolare tra i paesi del Mediterraneo. Avviato nel 2006, è stato prorogato dalla Commissione europea, con il recente ingresso della Libia. Algeria, Tunisia ed Egitto entreranno nel 2014. Gli obiettivi sono i soliti: addestramento delle guardie costiere africane, sorveglianza della frontiera libica, diminuzione della «pressione migratoria».
Pedine nello scacchiere dell’umanità
Negli anni il nostro paese ha firmato accordi di cooperazione anti-immigrazione con Tunisia, Egitto e Libia. Ovvero con i dittatori Ben Alì, Mubarak e Gheddafi. Le «primavere arabe» hanno cambiato gli interlocutori, ma la sostanza sembra immutata. Specie in Libia.
Uno degli obiettivi principali è il ritorno sui mercati del greggio: dai grandi porti come Marsa al Brega partono già fino a 90mila barili al giorno. I terminali del paese erano stati chiusi a fine luglio a causa di una serie di proteste. Intanto il rapimento lampo del premier libico Zeidan apre nuovi pericolosi scenari. La transizione post-Gheddafi è segnata dallo scontro tra rivincita e riconciliazione. L’«Alleanza delle forze nazionali», che sostiene il premier, è piena di personalità già contigue al regime. Dopo il sequestro del sospetto terrorista di Al Qaeda e le reazioni conseguenti, 200 marines sono stati spostati nella base siciliana di Sigonella. Qui i droni sono già attivi e possono spingersi nel cuore del continente africano.
Poi c’è la partita dei soldi di Gheddafi. Il fondo sovrano Lia (Lybian Investments Authority) detiene il 2% di Eni, per un valore di mercato di oltre 400 milioni di euro. Sommati alle azioni di Unicredit (2,01%) e Finmeccanica (1,25%) si arriva a 1,1 miliardi di euro. Lo scorso 17 marzo un giudice della Corte di appello di Roma aveva accolto la richiesta del tribunale dell’Aja, secondo cui quei soldi dovrebbero andare alle vittime del rais. Oggi le azioni Eni sono state dissequestrate. La questione è aperta.
Il Mediterraneo è diventato un risiko complesso dove gli uomini che attraversano il mare diventano loro malgrado un elemento del gioco. «Migranti e rifugiati non sono pedine nello scacchiere dell’umanità», disse Papa Francesco alla fine di settembre.