I più vecchi le “navi madre” le conoscono bene. Una di queste è stata causa di una delle più grandi tragedie dell’immigrazione clandestina, come la strage di Natale del 1997, quando dopo la collisione con la nave madre la Johan, diciotto migli a sud di Porto Palo di Capo Passero, affondò una piccola imbarcazione con a bordo centinaia di migranti. Centinaia di morti, pakistani, indiani e tamil, per i quali la giustizia non è riuscita a punire i colpevoli, malgrado pesanti condanne in contumacia e anni di processi in diversi gradi di giudizio. Ma tutti i personaggi più importanti dell’organizzazione si trovavano o erano riusciti a fuggire all’estero e gli altri stati, così solerti a collaborare nei respingimenti degli immigrati irregolari, non diedero mai corso alle richieste di estradizione.
Un naufragio “fantasma” che per anni venne negato dalle autorità e coperto dall’omertà dei pescatori di Porto Palo che si ritrovavano nelle reti pezzi di cadavere, un naufragio scoperto dopo le denunce della Rete Antirazzista e di Dino Frisullo, grazie alle indagini di un vero giornalista come Giovanni Maria Bellu, e di un coraggioso pescatore di Porto Palo, Salvatore Lupo, poi costretto a cambiare mestiere per avere rotto il muro di silenzio che aveva circondato quella tragedia.
In quella notte, nel mare in tempesta, i migranti furono costretti a trasbordare dalla nave Iohan su una unità più piccola che avrebbe dovuto raggiungere la costa, e annegarono tutti a causa di una falla che si era aperta dopo l’urto tra le due imbarcazioni nelle concitate fasi del trasbordo.
Poco tempo dopo Dino Frisullo, con un articolo su Narcomafie, aveva svelato per la prima volta, sulla base delle testimonianze raccolte tra i parenti delle vittime, la rete dei trafficanti che aveva la base a Malta, ma le autorità maltesi e quelle italiane non riuscirono mai a bloccare quella rete criminale, attiva probabilmente ancora oggi, e ad assicurare alla giustizia gli organizzatori del traffico. E quando alcuni parenti arrivarono in Italia per sollecitare la prosecuzione dell’indagine penale, furono trattati quasi alla stregua di “clandestini”, come il vecchio Zabiullah, che alla fine, deluso dalla giustizia italiana, incapace di scovare e punire gli artefici della morte del nipote, si dovette arrendere e fece ritorno in Pakistan.
Si dovevano creare allora le condizioni perché fossero le comunità di immigrati a denunciare le reti di trafficanti e non alimentare una omertà che dura ancora oggi. Non solo quelle condizioni di collaborazione e di fiducia reciproca non si sono mai create, ma l’inasprimento della legislazione e delle prassi applicate dalle forze di polizia dopo gli sbarchi ha determinato in misura crescente rispetto al passato l’allontanamento immediato degli immigrati verso altri paesi europei. Le uniche forme di collaborazione si basano ancora sullo scambio tra qualche facilitazione, o addirittura il riconoscimento di un permesso di soggiorno, e la denuncia di scafisti o intermediari, metodo che, stando ai risultati, non ha scalfito per nulla le organizzazioni criminali ed ha portato alla incriminazione di immigrati che con il traffico non avevano nulla da fare.
Le indagini condotte sugli scafisti che garantivano negli anni ’90 il passaggio dalla ex Jugoslavia in Italia, attraverso il Canale d’Otranto, come le successive operazioni di contrasto della diaspora tamil bloccata tra il 1999 ed il 2001 nel Canale di Suez o nelle acque del Mediterraneo prospicienti l’Egitto, e quindi restituiti alla dittatura che in quegli anni insanguinava lo Sri Lanka, confermarono comunque già allora l’esistenza di navi madre più grandi con le quali i profughi affrontavano la parte centrale del viaggio, dopo essere partiti dalla costa del loro paese con imbarcazioni più piccole e prima di essere abbandonati su altre imbarcazioni più piccole, calate a mare in prossimità del limite delle acque territoriali e della zona contigua, sottoposta a vigilanza, nel caso dell’Italia da parte della Guardia di Finanza (24 miglia), delle unità militari dei paesi di destinazione.
Le navi madre dunque sono sempre esistite, e tanto per darne una definizione convenzionale, sono state quelle utilizzate in più viaggi, come la Iohan, poi ritrovata con un diverso nome, ormeggiata in un porto italiano, e quindi finalmente sottoposta a sequestro, oppure sono servite a trasportare, non a rimorchiare, mezzi più piccoli come gommoni o piccole lance di sei-dieci metri, simili alle lance di salvataggio, da mettere in acqua e sulle quali trasbordare i migranti in prossimità delle acque territoriali, come si è verificato più di recente dalle coste libiche.
Nell’estate del 2013 di fronte alla ripresa degli sbarchi di migranti, spesso profughi di guerra, provenienti non solo dalla Libia, ma soprattutto dall’Egitto, e sembrerebbe, più di recente, anche direttamente dalla Siria, l’ipotesi della esistenza di una o più navi madre è ritornata in auge nelle indagini condotte a Catania e a Siracusa, con ampio rilievo sui mezzi di informazione. In alcune dichiarazioni rese alla stampa dopo il sequestro di un peschereccio di oltre 30 metri con 15 membri di equipaggio a bordo, tutti arrestati, si è giunti ad affermare che finalmente si era scoperta la “nave madre” che aveva trasportato centinaia di “clandestini” verso le coste siciliane e che si sarebbe inferto un durissimo colpo all’organizzazione criminale che avrebbe lucrato cifre da capogiro sulla fuga dalla guerra civile di alcune miglia di siriani, di palestinesi e di egiziani.
In realtà le partenze sono continuate come e più di prima, sia dalle coste egiziane e siriane che dalla Libia. Altri profughi di guerra, come somali ed eritrei, sui quali però i riflettori restavano spenti, almeno fino a quando qualcuno di loro non moriva di stenti durante le traversate. Sempre nello stesso periodo veniva rafforzato il dispositivo di contrasto dell’immigrazione “illegale” nelle acque del canale di Sicilia con l’invio di un pattugliatore romeno, e di ricognitori aerei, nell’ambito delle operazioni congiunte finanziate da Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne.
L’arresto di decine di “presunti scafisti” subito dopo lo sbarco, nel corso degli ultimi mesi, probabilmente sulla base delle prime testimonianze raccolte tra i migranti e delle riprese video effettuate nelle ultime fasi della traversata, quando le imbarcazioni definite come “carrette del mare”, anche quando si trattava di solidi pescherecci, erano sotto il monitoraggio delle unità navali italiane, non ha ancora portato alla individuazione certa di una o più “navi madre”, anche se alcuni migranti giunti in Sicilia, che sono stati interrogati subito dopo lo sbarco, hanno ammesso di essere stati costretti ad effettuare uno o più trasbordi dopo la partenza dalle coste africane o siriane. Ma molti non ricordano neppure il nome esatto del porto di partenza e le testimonianze sono spesso contraddittorie.
Di fronte al numero ed alla frequenza degli arrivi, che si sono intensificati, fino a mille persone in una sola giornata, proprio dopo il fermo di quell’unico peschereccio di colore azzurro bloccato nel pomeriggio dell’11 settembre scorso a 80 miglia a sud di Capo Passero, in acque internazionali, sembrerebbe dopo un trasbordo, e poi condotto in porto a Catania, con il solo equipaggio di ben quindici uomini a bordo, viene da dubitare sulla fondatezza della ipotesi della “nave madre”. Come rimane da provare che questo stesso mezzo avesse consentito altri sbarchi in precedenza, in particolare quello tragico sulla spiaggia della Playa a Catania, verificatosi un mese prima, il 10 agosto, nel corso del quale avevano trovato la morte sei migranti annegati a pochi metri dalla riva. Appare comunque assai improbabile che un unico peschereccio di trenta metri abbia potuto effettuare così tanti viaggi in un arco di tempo ristretto, da trasportare alcune migliaia di profughi dalle coste egiziane e siriane. Quante sono le navi madre, forse lo stesso numero e della stessa dimensione dei battelli che poi arrivano sulle coste siciliane?
Appare invece plausibile l’ipotesi che gli immigrati partiti dalla costa con imbarcazioni più piccole abbiano dovuto effettuare uno o più trasbordi durante il viaggio, anche su imbarcazioni più grandi, e poi ancora su altre di minor valore per raggiungere le coste siciliane, magari contando su mezzi più piccoli salpati da Cipro o da Malta, paesi appartenenti all’Unione Europea, a differenza dell’Egitto e della Siria, sui quali nessuno sembra indagare e dai quali, si potrebbe dire quasi storicamente, le organizzazioni criminali hanno gestito il “traffico di clandestini” nel Mediterraneo.
Sembra molto difficile, e rimane comunque da provare, che un peschereccio di trenta metri ne rimorchi in una serie di viaggi dall’Egitto o dalla Siria, a distanza di poco tempo, uno di quindici-venti metri su un tragitto di diverse centinaia di miglia, che sarebbero in questo caso da percorrere a velocità ridotta, dunque per diversi giorni, con un convoglio che non potrebbe non destare l’attenzione delle autorità militari di controllo. Forse basterebbe soltanto un perito navale a spiegare tecnicamente la improponibilità di questa ipotesi, come ben sanno del resto i comandanti delle unità della marina militare che hanno effettuato centinaia di interventi di salvataggio in mare aperto, senza procedere al rimorchio delle imbarcazioni, ma affiancandole o procedendo al trasbordo immediato.
Trasbordo in mare che impone peraltro mezzi della stessa grandezza, e condizioni meteo ottimali, proprio perchè non si ripetano tragedie come quella della nave Iohan nella notte di Natale del 1997. Ed è per questo che i pattugliatori militari, troppo grossi e dalle murate assai alte, non sono indicati per le operazioni di salvataggio, per le quali risultano molto più adatti i mezzi della Guardia costiera.
Nella prospettiva di dimostrare l’esistenza della nave madre con riferimento agli arrivi dall’Egitto e più recentemente sembrerebbe anche dalla Siria, a fronte delle attività persecutorie nei confronti dei profughi siriani disposte dalla polizia egiziana, si è generalmente sottovalutato il ruolo dei pescherecci che partono dalla Libia e abbandonano i migranti in mare su “gommoni”, una tecnica in uso da anni, adottata prima dalle organizzazioni nigeriane e, dopo la caduta di Gheddafi, da organizzazioni egiziane e libiche che, per effetto dell’intensificazione dei controlli e della situazione di guerra civile a bassa intensità in Libia, organizzano le partenze dalle regioni più orientali del paese, vicino al confine con l’Egitto. Viaggi sempre più lunghi che espongono a rischi maggiori i migranti, alcuni dei quali non reggono agli sforzi e muoiono durante le traversate.
Morti per i quali è assai facile attribuire la responsabilità ai presunti scafisti, individuati sulla base delle prime testimonianze raccolte tra i migranti dopo lo sbarco, quando invece dovrebbe riflettersi bene sulle ragioni che hanno portato a questo allungamento delle rotte e sul cinismo delle agenzie europee che rafforzano i dispositivi di controllo senza predisporre piani di salvataggio capaci di evitare le periodiche “tragedie” dell’immigrazione “clandestina”.
Alla fine comunque, che esista o meno questa famosa “nave madre” non ci interessa particolarmente, fermo restando che le autorità inquirenti sono del tutto libere di formulare le loro ipotesi accusatorie, salvo a provarle con le garanzie di difesa da riconoscere a tutti, anche ai più pericolosi scafisti, in sede dibattimentale, magari senza la scappatoia del consueto patteggiamento, seguito dalla solita espulsione. In molti casi infatti le testimonianze risultano provenire da persone che si sono rese irreperibili e diventa difficile provare l’esistenza di una associazione per delinquere o dei reati più gravi di tratta e di traffico, che impongono una ricostruzione puntuale di organizzazioni ramificate in stati diversi. Alla fine le condanne che si riesce a comminare effettivamente sono quelle per agevolazione dell’ingresso di immigrati irregolari, reato previsto dall’art. 12 del T.U. n.286/98 in materia di immigrazione, e per questi casi si può arrivare alla sostituzione della pena con l’espulsione immediata, anche se la condanna non è ancora definitiva. E una volta eseguito il rimpatrio cade per l’imputato qualunque possibilità di dimostrare la sua eventuale innocenza in un giudizio di appello. Spesso le sentenze non corrispondono ai reati anticipati dai titoli dei giornali. Ma nell’opinione pubblica rimane la percezione che gli strumenti di contrasto hanno potuto funzionare con il massimo rigore possibile. Tutto questo appartiene ormai alla quotidianità.
Quello che dovrebbe interessare è che i dispositivi di controllo, attivati per reprimere l’immigrazione “clandestina” e dare la caccia agli scafisti, non si abbattano come clavi su profughi di guerra assai provati come quelli che in queste settimane arrivano dalla Siria, dall’Egitto e ancora dalla Libia, somali ed eritrei, oltre che migranti di varia nazionalità, di cui si parla sempre meno, forse perché è difficile ammettere che dopo l’intervento militare in Libia nel 2011 la situazione dei migranti in transito in quel paese è ancora peggiorata.
Il richiamo assai frequente alla “nave madre” e al ruolo delle organizzazioni che gestiscono il traffico, un ruolo che nessuno può escludere, a fronte delle politiche migratorie di stampo proibizionista adottate da tutti i paesi europei, rischia di restituire i potenziali richiedenti asilo alla facile etichetta, ma soprattutto alla condizione esistenziale, di “clandestini” e induce l’opinione pubblica a ritenere che anche le persone in fuga dalla guerra civile possano avere a che fare con organizzazioni criminali. Condizione di clandestinità che può giustificare anche la detenzione informale in centri di accoglienza per un periodo non determinato per legge,e senza convalida del magistrato, in attesa del prelievo delle impronte digitali. Condizione di clandestinità che dopo le prime formalità di rito e la individuazione dei “presunti scafisti”, arrestati e portati in carcere, si riproduce con le “fughe facili” che, alla fine, appaiono quasi come la soluzione del problema accoglienza. Quando invece sono proprio le condizioni di prima accoglienza, e le prassi applicate nelle prime identificazioni che contribuiscono ad incrementare il fenomeno degli allontanamenti verso altri paesi europei, fenomeno che sarebbe comunque rilevante, ma che assume caratteristiche di massa proprio per le modalità con le quali le persone, incluse donne e minori non accompagnati, vengono trattate nei primi giorni dopo lo sbarco.
Si dovrebbe soprattutto evitare che le indagini, condotte con metodi talora assai bruschi, come il prelievo forzato delle impronte, al limite della violenza privata e delle percosse, oppure con la minaccia di separare i nuclei familiari, portino alla individuazione di pseudo scafisti da dare in pasto all’opinione pubblica, magari anche minori di età, che poi vengono abbandonati in fondo ad una cella senza neppure capire di cosa e da chi sono accusati. Senza un interprete, senza alcuna mediazione psicologica, senza una effettiva possibilità di difesa legale, circostanze che possono anche portare al suicidio, come è successo al giovane egiziano di 24 anni, arrestato dopo lo sbarco dell’8 agosto scorso, ed accusato di essere uno“scafista”, che si è impiccato con i lacci delle scarpe in una cella del carcere di Caltanissetta.
Metodi di indagine che, anziché portare alla scoperta della rete criminale che lucra sull’ansia di salvezza di migliaia di persone in fuga da paesi in preda alla guerra civile, possono cementare l’omertà tra le vittime e gli organizzatori del traffico ed i loro emissari, e favorire oggettivamente gli allontanamenti, se non vere e proprie fughe, di persone che vogliono lasciare al più presto l’Italia, non solo per andare a trovare i loro parenti in altri paesi europei, finalità legittima che dovrebbe essere consentita nella legalità già in base alla vigente disciplina dell’Unione Europea ( con riferimento al vigente Regolamento Dublino II), ma anche perché in Italia non si sentono in una posizione giuridica garantita rispetto alla discrezionalità delle autorità amministrative ed alle indagini portate avanti della magistratura e dalle forze dell’ordine.
L’apertura di un corridoio umanitario verso l’Europa e la possibilità concreta di ingresso nella legalità costituirebbe il deterrente più forte per contrastare davvero le organizzazioni di trafficanti, consentendo l’ingresso legale dei profughi, ma le attuali politiche migratorie e giudiziarie nei confronti di quella che si continua a ritenere soltanto “immigrazione clandestina”, anche se è composta quasi esclusivamente da persone in fuga dalla guerra civile o dalla repressione militare, non autorizzano a sperare nulla di buono. Non rimane dunque che impegnarsi sul fronte della informazione, per rimuovere pregiudizi e comunicazioni strumentali. Occorre soprattutto schierarsi immediatamente a fianco dei migranti che sbarcano, isolati nei centri informali come i CPA (Centri di prima accoglienza attivati dai prefetti in base alla legge Puglia del 1995) o in spazi chiusi dei centri di prima accoglienza e soccorso (CPSA), non solo per il prelievo forzato delle impronte ma anche per consentire lo svolgimento più rapido delle indagini giudiziarie volte alla individuazione degli scafisti.
Persone private spesso dei più elementari diritti di informazione e dell’assistenza legale, sanitaria e psicologica che sarebbe loro dovuta anche per effetto delle Direttive dell’Unione Europea, al punto che qualcuno è anche indotto a presentare una richiesta di asilo pur di recuperare un brandello di libertà con il trasferimento in un CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo). Richieste che non hanno alcun valore e che possono essere revocate in qualunque tempo, anche se i richiedenti hanno titolo per il riconoscimento di uno status di protezione internazionale, ma non necessariamente in Italia. Per questo si dovrebbe riconoscere alle persone appena sbarcate un permesso di soggiorno temporaneo, ed in cambio del rilascio delle impronte, un documento di viaggio. O in alternativa un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Occorre garantire loro quella mediazione e quell’assistenza, anche legale, che non trovano subito dopo il loro arrivo in Italia, con un particolare impegno per evitare che riprendano le tante vie della “clandestinizzazione” imposte dagli apparati dello stato. Con un riguardo particolare per i soggetti più vulnerabili come le donne, troppo spesso costrette nei centri di accoglienza ad una promiscuità intollerabile, le vittime di tortura, che ci sono, ma che nessuno assiste, e per i minori non accompagnati, ai quali non si risparmia neppure, soprattutto se egiziani, il sospetto di essere “scafisti”. Mentre gli intermediari attendono, con tutta calma, magari nei pressi dei centri di prima accoglienza, che i profughi costretti all’ennesima fuga cadano ancora una volta nella loro rete.