TUNISI – Basta guardare il film di Abdallah Yahya per capire perché questo giovane regista tunisino è in prigione oggi, dal 21 settembre, e in attesa di processo. E con quale accusa, o meglio, con quale “scusa”. Si chiama “Noi siamo qui” ed è un documentario su uno dei quartieri popolari di Tunisi a pochi chilometri dal centro città, Jebel Jloud: quei pochi chilometri che fanno di una breve distanza la giusta misura della perdita della speranza, per giovani disoccupati e giovani artisti, che si ritrovano spesso a fumare le canne nel quartiere della “droga dominio popolare”.
Abdallah non ha paura, rischia e il documentario parla sia della solidarietà dei giovani liceali con le regioni interne marginali della Tunisia, sia dei prezzi del fumo, di come si procura e a chi si vende. Eppure tutti sanno che – anche solo per consumo personale – si finisce un anno in prigione. E anche le persone che prestano la voce al film rischiano. Abdallah non ha avuto paura allora, ma ora è in prigione con la stessa accusa, quella di aver fumato. Ha girato l’Europa con il suo documentario. E adesso è lo Stato tunisino ad avere paura di lui, in attesa dell’uscita del suo prossimo film: paura delle immagini reali che questi registi mostrano, dei loro e nostri quartieri. Delle parole dei rapper contro giudici e poliziotti corrotti. Delle inchieste e dei fumetti.
Neanche Nejib ha avuto paura: è stato come tanti nostri coetanei tra i primi a scendere in piazza nel dicembre 2010, iniziando anche quel ciberattivismo che ha sfidato una dittatura e che ha invitato altri a scendere in piazza, a non temere, a urlare. Oggi Nejib si apprestava a presentare un documentario sulla storia dei giovani tunisini dispersi in mare, nel tentativo di raggiungere l’Italia nel 2011.
Il viaggio di Nejib comincia anch’esso dai quartieri popolari di Tunisi, a intervistare le madri e le sorelle dei dispersi. Prosegue in Italia all’incontro della delegazione di famiglie tunisine che chiede giustizia direttamente allo stato italiano, sordo tanto quanto quello tunisino. Tra le tappe di Nejib e del suo collaboratore, ingegnere del suono Yahya Dridi, non manca neanche il CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Milo, in provincia di Trapani, che trattiene per la maggior parte tunisini. Oggi sono entrambi in carcere, insieme ad Abdallah.
Insieme a loro Slim Abida, il bassista che lavorava alla colonna sonora del primo film di Nejib; Eskander e Mahmoud, altri due musicisti, Eya e Amal, due studentesse, attiviste e amiche. Erano queste otto persone, questi otto artisti, questi otto colleghi, queste otto voci dissidenti della società tunisina, nella stessa casa, la casa di Nejib e Yahya. La sera prima nello stesso domicilio era stato rubato l’hard disk di Nejib che conteneva le immagini filmate dal 2010 in poi, e il montaggio terminato del film in uscita. Ma è la notte dopo il furto che la polizia piomba in casa alle quattro del mattino cogliendoli in flagrante: comporre musica per il film di Nejib. Ma anche fumare, quelle canne che ti portano in prigione, senza vie d’uscita.
Ma quella dello stato tunisino di oggi è solo repressione: arrestare per fumo quelle persone che da un mese sostengono il loro amico, attore e produttore dei loro lavori (con la sua casa di produzione “Dyonisus”): Nasreddine Shili. Lui non fumava la notte a casa, ma è stato arrestato in pubblico per aver tirato le uova al Ministro della Cultura, Mehdi Mabrouk. Così come il cameraman di questa scena, Mourad Maherzi, poi per fortuna rilasciato. Anche Nasreddine la notte del 24 settembre è stato liberato temporaneamente dopo un mese di carcere, ma è ancora in attesa del processo.
Non è la trama di un film: forse quando usciranno di prigione, avranno già la sceneggiatura pronta. È la realtà degli artisti tunisini. Quelli che hanno veramente paura sono però al governo, perché non sopportano che siano le immagini dei quartieri popolari, dei disoccupati, delle madri degli Harraga (i migranti che partono via mare) a dirla lunga sul paese.
Durante il regime di Ben Ali era stato censurato il film “Essaida” (1996) di Mohammed Zran che narrava la storia di un pittore dei quartieri bene che conosce un giovane del quartiere popolare, che dà il titolo al film, in cui poi decide di trasferirsi per ispirarsi per i suoi dipinti. La miseria era descritta realisticamente con una tinta feroce e impietosa. Al cinema erano accorse migliaia di persone, da tutti i quartieri: un successo fenomenale. Era l’immagine di una Tunisia vera, ma il regime sosteneva che quella immagine falsificava la realtà del Paese sotto Ben Ali.
Torna a spaventare prepotentemente la libertà d’espressione, nel paese di una repressione sempre più feroce, diretta, efficace. Torna e ritorna il carcere negli incubi dei giovani, ma non abbastanza da cancellarne i sogni e arrestarne la creazione. Torna pesantemente nell’anno di due omicidi politici: quello dei leader dell’opposizione Chokri Belaid (6 febbraio) e Mohamed Brahmi (25 luglio, festa della Repubblica in Tunisia), quest’ultimo membro dell’assemblea costituente. A seguito di questo secondo omicidio, è nato un sit-in permanente al Bardo, di fronte all’Assemblea Nazionale, di cui la piazza chiedeva lo scioglimento.
Era là che osservava Nejib. Era là che filmava Mourad. Era là Nasreddine. Era là che migliaia di tunisini si chiedevano e si chiedono chi fossero i responsabili degli omicidi, quale sarà la data delle elezioni legislative, quando la giustizia sociale regnerà. Ancora non è stata data nessuna risposta, nell’altalena politica del presunto dialogo nazionale tra governo e opposizione che paralizza l’avanzamento dell’assemblea, tra la recessione economica e lo stato d’emergenza dichiarato per gli episodi di terrorismo sul Monte Chaambi e altrove.
L’apparato giudiziario e poliziesco del vecchio regime continua ad agire, sia per cittadini dell’interno marginalizzato del paese, manifestanti e disoccupati, che per gli artisti della capitale e non solo. Parimenti non si è scalfita l’indipendenza né si è sbiadito il coraggio di chi, con Internet, con i sassi o con il teatro, continua a far tremare i suoi inquisitori.