È vero, a prima vista sembrano liberi di uscire dal cancello, di inoltrarsi oltre il cordone di polizia, oltre quelle sbarre. Ma per andare dove? Apparentemente sono fisicamente “liberi”, i migranti “accolti” in questi centri di prima accoglienza sono in realtà reclusi di fatto. Perché senza soldi, senza documenti, senza tutela, costretti ad aspettare mesi, a volte anni, inchiodati dalla lentezza burocratica, ad aspettare infinitamente la cruciale intervista della Commissione territoriale da cui dipende la loro richiesta di asilo. Pareti invisibili, quelle del ritardo delle procedure di asilo. Dove potrebbero in realtà andare questi richiedenti asilo?
Quei profughi che sarebbero meritevoli di protezione internazionale, magari in altri paesi europei dove vivono i loro congiunti, sono stati concentrati in quei centri dal Ministero dell’interno, insieme alle prefetture ed alle questure, in assenza di un piano regionale in Sicilia, senza gare di appalto, ma solo con accordi diretti con enti gestori e cooperative.
Ancora una volta ritroviamo altri centri di cosiddetta accoglienza improvvisati. Come l’ex struttura ospedaliera Umberto I di Siracusa, gestita dal 1 luglio 2012 dalla “Clean Services Srl” senza una vera e propria gara d’appalto ma con una semplice serie di verbali di affidamento redatti dalla Questura, in procinto di diventare giuridicamente un CSPA. O come il CSPA di Pozzallo che dovrebbe essere solo un CSPA (centro di prima accoglienza e soccorso), dove in base al regolamento attuativo della legge sull’immigrazione (art.23) si dovrebbe restare solo “per il tempo strettamente necessario al trasferimento in altri centri”, e che invece ospita il doppio dei migranti consentito per oltre un mese (alcuni testimoni parlano anche di due mesi), anche minori non accompagnati. Centri quindi semi-detentivi, dove al polso dei migranti viene stretto un braccialetto di plastica con un codice di identificazione: nomi cancellati, come molte identità. Non-persone.
Da quei centri i migranti se ne andrebbero volentieri subito. Via dalla Sicilia, via dall’Italia, come raccontano i cittadini siriani che non vogliono che gli siano rilevate le impronte digitali, per potersi invece ricongiugere con le famiglie nei paesi del Nord Europa: Svezia, Germania, Svizzera. Invece l’identificazione avviene con le minacce, anche con l’uso della forza, dopo gli sbarchi, da Siracusa a Pozzallo, passando per il mercato ittico di Portopalo di Capo Passero, un capannone informale senza statuto giuridico dove i profughi, all’ombra delle tende, vengono identificati con la rilevazione delle impronte. Un ufficiale della Questura è lapidario: non è titolato a raccontare come avviene la segnalazione, top secret, poi si riprende e mi dice: “Avviene tutto conformemente alla legge”, ma mi invita ad uscire. Prassi discrezionali della polizia di frontiera.
Altri profughi di varie nazionalità, afghani, pakistani, eritrei, somali, vengono invece confinati per mesi in queste strutture per i ritardi delle procedure di asilo e per la mancanza di posti in altre strutture di accoglienza (quelle dello Sprar o dei Cara). Mesi di limbo totale, durante i quali queste persone si trovano a confronto solamente con le forze di polizia o la Croce Rossa militare, senza alcuna mediazione di associazioni indipendenti, senza tutela legale e senza nessuna prospettiva di integrazione, per non parlare delle carenti condizioni igieniche in cui versano le strutture. Un mese fa nel Cspa di Pozzallo si è verificato anche un caso di meningite, ma questa notizia fu censurata.
Il sistema italiano di accoglienza, come raccontano gli stessi operatori sociali, desta grande perplessità. “Le strutture come i Cara ospitano grandi numeri e non garantiscono politiche legate alla dignità della persona, al rispetto delle culture e delle religioni diverse, alla intimità ed alla libertà di espressione” (operatori del Cara di Crotone). In questo momento di crisi geopolitica in Siria e paesi subsahriani ci vorrebbe un salto di pensiero: l’idea di una politica dell’accoglienza basata sui piccoli numeri e sullo snellimento dell’iter burocratico.
Intanto mi aggiro intorno al Cara di Mineo, pattugliato 24 ore su 24 da Carabinieri, Polizia e persino l’Esercito, come fosse un’occupazione. “Zona militare” – insiste un ufficiale dei Carabinieri – “Lei non dovrebbe sostare qua”. Mi impongono di non filmare – “Zona militare, fuori i giornalisti” – insiste ancora.
Dietro il filo spinato la follia: un villaggio dorato, con parchi giochi, campi da football e case colorate, come una ridente periferia, come in “Edward mani di forbice” di Tim Burton (dove il diverso è visto come un pericoloso anormale). Un mega campo tanto moderno quanto mostruoso in cui sopravvivono in un limbo infinito, a volte fino a due anni, circa 4.000 richiedenti asilo. Se ascolti alcuni di loro capisci le loro vite sospese, quando non distrutte. La finta libertà perché non hai un documento, non hai denaro, non hai un telefono. Dove andare? Dietro ci sono soli campi vuoti. Li hanno parcheggiati lì in mezzo al nulla. Per non farli vedere. Molti di loro sono diventati braccia da sfruttare per i caporali. E dal nulla dei campi intorno capisci che sei solo testimone del più vasto e sistematico progetto razzista europeo: quello di negare l’uguaglianza a questi uomini.
Articolo pubblicato su Melting Pot