Proprio all’indomani della visita del Papa a Lampedusa, il governo maltese aveva programmato un volo di Air Malta per respingere a Tripoli in Libia 102 migranti somali ed eritrei arrivati nell’isola nei giorni precedenti. I volontari di alcune NGO, che si erano subito rivolte alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo ed alla Commissione Europea, si erano schierati di fronte alla centrale di polizia di Floriana dalla quale dovevano partire gli autobus carichi di migranti da respingere verso l’aeroporto. Come avviene anche in molti centri di prima accoglienza in Italia, ad esempio a Pozzallo (Ragusa) ed a Porto Empedocle (Agrigento), queste associazioni non avevano avuto modo di incontrare i migranti per informarli sui loro diritti, incluso il diritto di chiedere asilo.
Un’agenzia Reuters del 10 luglio ha finalmente dato la notizia che il governo maltese aveva dovuto cancellare i due voli di rimpatrio dopo che la Corte Europea di Strasburgo, dopo un ricorso sostenuto da un cartello di ONG maltesi, aveva adottato una misura interinale di sospensione cautelare, probabilmente sulla scorta degli stessi principi che avevano portato alla condanna dell’Italia sul caso Hirsi il 23 febbraio 2012. Di certo anche in questo caso si trattava di respingimenti collettivi vietati dall’articolo 4 del quarto Protocollo allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, norme peraltro violate impunemente dall’Italia con i respingimenti collettivi di egiziani da Siracusa e di afghani, kurdi, pakistani ed irakeni da Ancona e Venezia verso la Grecia e da qui verso la Turchia.
Il governo maltese ha allora lamentato che nell’ultima settimana, quella precedente la visita del Papa a Lampedusa, erano arrivati a Malta oltre 400 migranti, una cifra altissima, considerando che la popolazione di questo stato non supera le 450.000 persone. Come se in Italia, in una sola settimana, fossero arrivate più di 40.000 persone. Se sono comprensibili le difficoltà del governo maltese che non ha trovato risposta ai suoi reiterati appelli di ripartizione del carico dei migranti, rivolti agli altri stati dell’Unione, appare assai preoccupante la reazione dei governanti maltesi che hanno annunciato che tutte le opzioni sono ancora aperte e che avrebbero esercitato il diritto di veto se l’Unione Europea non avesse modificato la propria politica in materia di immigrazione con specifico riferimento alle questioni poste da Malta.
Cecilia Malmström, ha prontamente replicato che “according to EU and international obligations, all people arriving in EU territory were entitled to file an asylum request and to have a proper assessment of their situation”, aggiungendo che “the EU stood ready to increase support to Malta if it should face growing pressure from the influx”. Non solo, ma sempre nella giornata di martedì 9 luglio la Commissione Europea ha diffidato Malta dall’eseguire respingimenti verso la Libia “saying sanctions might be imposed in case of non-compliance”, ricordando al primo ministro maltese Joseph Muscat, “the prohibition of such acts by members of the European Union.”
La posizione della Commissaria europea agli affari interni è stata molto netta. “We are concerned about the (plan) of the Maltese authorities to repatriate the people who come to Malta and reaffirm that, in accordance with European laws and international conventions, everyone has the right, once on European soil, to seek asylum and has his personal file dealt”. La Malmstroem ha assicurato che la Commissione Europea avrebbe posto in essere “tutti i mezzi a sua disposizione” per assicurare che ogni stato membro rispetti le obbligazioni derivanti dal diritto comunitario e dalle convenzioni internazionale in materia di protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo.
Questi i fatti, ma nella stessa settimana che ha preceduto la visita del Papa a Lampedusa è successo altro, e altre vittime del proibizionismo delle migrazioni e delle politiche di chiusura degli stati europei sono state dimenticate. Le motovedette cedute dall’Italia ai libici, sulla carta per salvare vite umane, in realtà per esternalizzare i controlli di frontiera, anche con catene di comando miste, come il “gruppo di lavoro permanente ad alto livello”, deciso a Roma il 4 luglio nel corso dell’ultimo vertice italo-libico, per salvare vite umane, certo, ma anche per impedire che le imbarcazioni cariche di migranti, potenziali richiedenti asilo, come appunto somali ed eritrei, potessero lasciare le acque libiche e raggiungere Lampedusa o le coste siciliane.
Secondo il Libya Herald del 9 luglio 2013 le motovedette libiche avevano intercettato, proprio il giorno prima, un imbarcazione carica di migranti con il motore in panne, ancora nelle acque territoriali libiche, con a bordo un bambino appena nato. Tre migranti sarebbero morti durante le fasi dell’intervento dell’unità militare libica in circostanze che non sono del tutto chiare. I sopravvissuti sarebbero 103 migranti tra cui 15 donne e tre minori, provenienti dalla Somalia, come dichiarato dal portavoce della guardia costiera libica Ayob Amar Ghasem al Libya Herald. Uno dei sopravvissuti sarebbe stato ricoverato in ospedale, tutti gli altri, invece, sarebbero stati affidati al “Dipartimento contro la immigrazione illegale”, where they are being held in custody. Di fatto questi migranti somali sopravvissuti al naufragio sono stati riportati, donne e minori compresi, in uno di quei centri di detenzione nei quali in Libia si praticano ancora oggi abusi di ogni genere.
E presto potrebbero essere costretti a ritornare in Libia centinaia di migranti di diverse nazionalità, confinati per due anni nel campo di Shousha, al confine tra la Libia e la Tunisia, per i quali sembra svanita qualsiasi possibilità di permanenza legale in Tunisia o di ingresso legale in Europa. Persone che avrebbero meritato uno status di protezione che si stanno rigettando in pasto ai trafficanti di esseri umani, con il rischio di finire nei centri di detenzione libici. O di morire in mare.
L’Italia, come si diceva, come del resto Malta, ha stipulato da tempo accordi bilaterali con la Tunisia e con la Libia, soprattutto per trasferire su questi paesi l’onere di bloccare i potenziali richiedenti asilo alla partenza, con la comoda argomentazione della finalità di salvare vite umane a mare o di contrastare le organizzazioni criminali che lucrano sui viaggi della speranza. Ed ancora il 4 luglio scorso nel vertice che si è tenuto a Roma, a Palazzo Chigi, si sono rinnovati gli accordi di collaborazione con la Libia in materia di immigrazione, anche se la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra e non accorda alcuna protezione ai richiedenti asilo ed ai titolari di uno status di protezione riconosciuto dall’ACNUR.
In Libia è soltanto consentita una modesta libertà di azione all’OIM per organizzare alcune centinaia di rimpatri assistiti all’anno, ed all’ACNUR per visite periodiche nei centri di detenzione che le autorità libiche consentono di visitare, allo scopo di realizzare qualche decina di trasferimenti dalla Libia verso quei pochi paesi europei che ancora accettano titolari dello status di protezione riconosciuto dall’ACNUR. Nel frattempo, secondo stime dell’ACNUR, più di 40 migranti sono morti nel tentativo di fuggire dalla costa libica, e molti altri sarebbero morti senza lasciare traccia. E secondo la guardia costiera libica diverse centinaia sarebbero stati “salvati” proprio in queste ultime settimane per finire nei numerosi centri di detenzione che la Libia mantiene in condizioni anche peggiori di quelle riscontrate ai tempi di Gheddafi.
Anche questi morti ci appartengono, come i cadaveri che sono stati raccolti a sud di Lampedusa e che sono stati sepolti senza nome nel cimitero dell’isola e in altri cimiteri in Sicilia. La responsabilità per la perdita di tante vite non è distribuita su tutti allo stesso modo. Forse qualcuno è più responsabile di altri, se opera in stretto collegamento con autorità di uno stato che non garantisce i diritti di libertà, lo stesso diritto alla vita, e un accesso affettivo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato. Una responsabilità che non si limita ai morti, ma che va estesa anche ai vivi, agli uomini, alle donne, ai minori non accompagnati reclusi nei centri di detenzione libici ed esposti ad ogni tipo di abusi.
Per questa responsabilità collettiva che portiamo tutti noi, ma che si concentra soprattutto su chi ha responsabilità decisionali nelle politiche e nelle prassi di polizia attuate con la Libia e con Malta, non possiamo più permettere la conclusione di accordi bilaterali ed intese operative che, nel malcelato intento di bloccare le partenze dalle coste africane, usino ed abusino delle parole “salvataggio di vite umane” o “ contrasto dell’immigrazione illegale”. Intese che macchiano il lavoro di salvataggio svolto dagli uomini delle nostre forze navali, e che sviliscono la capacità di accoglienza dimostrata da Lampedusa. Sarebbe tempo che il Parlamento torni ad occuparsi di questa materia, con una commissione di inchiesta sullo stato di attuazione degli accordi bilaterali in materia di immigrazione, una materia che rischia di rimanere affidata esclusivamente alla discrezionalità delle autorità amministrative e di polizia.
Sarebbe anche tempo che, per le persone riconosciute meritevoli di protezione internazionale negli stati di transito del Nordafrica, si aprissero corridoi umanitari per distribuirli nei vari paesi dell’Unione Europea, secondo criteri di ripartizione equi e trasparenti, superando una volta per tutte le iniquità prodotte dal Regolamento Dublino. Una sfida di civiltà che si rivolge a tutti gli stati dell’Unione Europea, a Malta ed a Cipro come alla Grecia ed all’Italia, perché onorino i doveri di protezione in misura proporzionata alla popolazione ed ai mezzi economici di cui dispongono, e perché si dotino di normative, in materia di asilo e protezione internazionale, e di sistemi di accoglienza che risultino omogenei, in modo che finiscano le stragi in mare e la fuga dei richiedenti asilo da un paese all’altro, ancora una volta nelle mani dei trafficanti.