Sono 909 quelle registrate negli albi nazionali e regionali, ma questa è solo la “punta dell’iceberg” rispetto alla presenza reale. Sono le associazioni di immigrati, un pianeta vasto e multiforme che ha accompagnato la storia dell’immigrazione in Italia ma ancora stenta a ottenere sostegno e pieno riconoscimento pubblico. Dopo 10 anni dall’ultima rilevazione nazionale sul tema, l’Associazione Parsec con il sostegno dell’Open Society Foundation ha realizzato una nuova ricerca di ampio respiro, che aggiorna lo stato dell’arte e la mappatura delle associazioni esistenti, cercando di cogliere i problemi che ne ostacolano oggi lo sviluppo, in un clima culturale e politico che si è fatto di anno in anno sempre meno accogliente verso i nuovi venuti.
Risorse di cittadinanza – così si intitola l’indagine – ha intervistato 118 associazioni in tre regioni molto diverse tra loro, Calabria, Emilia Romagna e Lazio. Ne emerge un quadro molto vivo, che rispecchia la maturità del panorama migratorio italiano e descrive le forme di auto-organizzazione di immigrate e immigrati come cinghie di trasmissione fondamentali tra le popolazioni straniere residenti in Italia, le istituzioni e la società d’accoglienza.
Solo per il 36% si tratta di associazioni mononazionali, composte da stranieri di stessa provenienza; il 24% è plurinazionale e il 39% è indicato come interculturale e vede anche la presenza di italiani. Le strutture plurinazionali aggregano immigrati di diversa provenienza per religione, per aree geografiche, per lingua, per qualifica professionale, per genere. Nella maggioranza dei casi si tratta di strutture piccole, guidate da meno di 10 persone, impegnate nella promozione della cultura di origine. Questo le distingue dalle numerose altre organizzazioni autoctone che operano a favore degli immigrati. Svolgono anche attività sociali, formative e ricreative, dirette perlopiù a cittadini e cittadine straniere, ma anche alle comunità locali in cui agiscono. Le associazioni intervistate evidenziano il valore del loro ruolo nell’orientare e informare gli immigrati sui loro diritti, sui servizi esistenti e su altri aspetti importanti della società d’accoglienza. Il 40% offre ai nuovi venuti corsi di italiano, come primo passo fondamentale sulla strada dell’integrazione sociale e lavorativa. Ma c’è anche il sostegno legale, altrettanto essenziale specialmente di fronte alle restrizioni e agli ostacoli poste da leggi ben poco accoglienti verso gli stranieri, che mettono continuamente a rischio il diritto a risiedere sul territorio, specialmente quando, come negli ultimi anni, il lavoro per tutti si fa più scarso e precario, e meno tutelato.
I problemi, per queste realtà tanto preziose quanto fragili, non mancano. C’è l’aspetto economico, innanzitutto. Il 60% di loro gestisce un bilancio inferiore a 5.000 euro l’anno: troppo poco per un’attività continuativa, sia in ambito formativo, sia di tutela o semplicemente di socializzazione. Molte si basano su un budget quasi nullo. Un altro tema caldo è quello della sede per le attività: 1 su 5 non ne dispone affatto; il 42% ha di uno spazzo concesso gratuitamente da altre organizzazioni o dagli enti locali, ma spesso per poche ore alla settimana, o solo per le riunioni. Il 27% è in affitto. Ma per potersi permettere una regolare spesa mensile le associazioni hanno bisogno di contare su finanziamenti, e questo possono farlo solo quelle meglio strutturate, di norma iscritte ai registri nazionali. Queste sono una minima parte del totale, e in generale una quota residuale delle associazioni che svolgono attività a favore degli stranieri, tra cui preponderanti sono quelle fondate e condotte da italiani. Sono queste ultime dunque, più delle associazioni di immigrati, ad essere destinatarie delle pur scarse risorse destinate alle politiche di integrazione. Spesso, infatti, i criteri per iscriversi ai registri nazionali, come quello presso il Ministero del Lavoro e quello dell’Unar, sono proibitivi per le auto-organizzazioni di stranieri, richiedendo la certificazione di esperienze che loro svolgono per lo più in forma di volontariato, non documentabile.
Poi c’è il tema dei rapporti con le istituzioni. In territori diversi questi cambiano moltissimo. In particolare, la ricerca dell’Associazione Parsec ha messo a fuoco tre studi di caso in città distanti sia per collocazione geografica, sia per composizione sociale e per cultura politica: Reggio Emilia, Latina e Cosenza. E’ qui che si stanno svolgendo in questi giorni i seminari di presentazione dei risultati dell’indagine, l’ultimo a Reggio Emilia il 22 giugno, con esperti del tema come Francesco Carchedi, Giovanni Mottura, Jean Leonard Touadi, rappresentanti dell’associazionismo locale (Mondinsieme, Unione dei giovani burkinabè, Forum donne per l’equità e la cittadinanza), e membri delle istituzioni.
Come risulta dalla comparazione dei tre territori, lo stato di salute e la possibilità di sviluppo e rafforzamento dell’associazionismo migrante sono fortemente influenzati dalle politiche regionali e locali di integrazione, dalla creazione di organismi di raccordo tra le organizzazioni dal basso e le istituzioni, dalla disponibilità di servizi di assistenza, nonché di spazi e risorse per valorizzare il contributo degli stranieri alla vita civile e politica delle città. Abbiamo per esempio a Cosenza una delle più antiche organizzazioni di immigrati, il Centro Informazioni Immigrati, che esiste dal 1984 e funziona anche da struttura intermedia, affiancata dall’associazione-ombrello Baobab, che riunisce tutti i soggetti che operano nell’ambito dell’integrazione. Qui, essenziale è il contributo della Provincia, che finanzia queste strutture, mentre il Comune è latitante su questo terreno.
Spostandosi a Latina, la politica risulta quasi del tutto assente, sia nell’ascolto sia nella valorizzazione effettiva del ruolo delle associazioni di immigrati, con il risultato che queste “non sono attualmente in grado di giocare un ruolo di emancipazione e di trasmissione dei diritti e dei doveri ai cittadini delle rispettive nazionalità, perché non sono organizzate, non hanno sedi proprie e non hanno accesso a contributi istituzionali”.
Infine, il quadro cambia totalmente spostandosi a Reggio Emilia, una città dalla ricca tradizione associativa, anche degli stranieri che sono il 13% della popolazione. Il territorio si distingue per la presenza di Mondinsieme, un centro creato dal Comune nel 2001 per sviluppare attività interculturali e promuovere l’associazionismo degli immigrati. Sono ben 61 le organizzazioni registrate nel suo archivio. Ma anche qui i problemi non mancano: le associazioni di stranieri hanno bisogno di formazione per rafforzare le proprie capacità organizzative e gestionali, per rispondere ai bisogni dei nuovi venuti – corsi di italiano, supporto linguistico, comprensione delle leggi – ma anche per promuovere progetti più complessi e partecipare alla vita civile e politica.
Ecco, la politica. Si sbaglia di grosso chi pensa che, nel quadro di generale disaffezione degli italiani verso la politica, i cittadini e le cittadine straniere che vivono nel nostro paese restino indifferenti al tema del voto. Secondo gli intervistati nella ricerca, il diritto di voto amministrativo, da introdurre attraverso un’estensione della Convenzione di Strasburgo sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica (1992), rappresenterebbe non solo un passo avanti essenziale sul versante dei diritti individuali, ma anche la condizione fondamentale per un vero riconoscimento delle forme associative degli immigrati come interlocutori legittimi.
Serve innovazione politica e istituzionale, altrimenti “i meccanismi di inferiorizzazione che spingono le componenti straniere ai margini della società italiana non potranno essere né arrestati né invertiti, producendo, conseguentemente, ulteriore esclusione e sottomissione”. Quando invertire la rotta se non ora, con il primo Ministero dell’Integrazione guidato da una “nuova italiana”?