Il campo di Shousha, allestito nel deserto tunisino tra la città di Ben Garden e a 7 km dal confine libico, pare chiuda i battenti il 30 di giugno. Il campo dell’ UNHCR, cofinanziato dal governo italiano è stato sin dall’inizio concepito come campo di transito, come ribadisce la stessa Ursula Schulze Aboubacar, rappresentante dell’UNHCR in Tunisia. Aperto a marzo 2011 in piena emergenza Nord Africa ha accolto migliaia di profughi provenienti dalla Libia, tra questi molti africani subsahariani, perseguitati perchè ritenuti durante la guerra collaboratori e mercenari di Gheddafi. La Libia, prima della guerra, era un paese d’immigrazione dove molti da diverse parti dell’Africa ma anche del Medio Oriente, migravano per ragioni economiche.
Molte persone emigrate si sono stanziate in Libia, hanno messo su famiglia e per questa ragione tra i profughi di Shousha Camp ci sono anche molti immigrati di seconda generazione. Ciononostante molti di loro, attraverso grandi manovre logistiche attuate in sinergia dall’ UNHCR, OIM e rispettive ambasciate sono stati rimpatriati nei loro paesi d’origine, attraverso il rimpatrio volontario assistito. Sono invece intorno a 4000 le persone cui è stata riconosciuta una protezione umanitaria e la maggior parte è stata accettata in un paese terzo secondo “l’iniziativa globale di reistallazione (resettlement)”. Per meno di un centinaio di rifugiati (tra questi minori non accompagnati e famiglie con bambini piccoli), invece, l’integrazione sta iniziando in loco, in Tunisia, nella fattispecie nelle città di Sfax, Médenine e Ben Garden. Si tratta di cittadine lontane da Tunisi, dove si respira un’aria affascinante per chi la vive da turista ma che può essere ostile per una minoranza che si stabilisca in questi luoghi a vivere.
L’UNHCR, da parte sua, ribadisce che l’uso della soluzione del resettlement in paesi terzi è stata una misura eccezionale giustificata dall’instabilità in cui si trovava la Tunisia a causa della rivoluzione. Inoltre tale misura è stata letta da molti migranti come éscamotage, una via preferenziale e comoda per raggiungere l’Europa e gli Stati Uniti, evitando l’esodo rischioso per mare. Per questa ragione è stata fissata a novembre 2011 la data ultima di accettazione per trasferimenti in paesi terzi.
“E’ il momento- afferma Ursula Schulze Aboubacar- che i profughi vedano nella Tunisia un paese di arrivo e non di transito, e che aiutino la Tunisia a costruire una nuova pagina di solidarietà”. Si tratta sicuramente di un’affermazione carica di speranza ma che occulta una terribile verità: i rifugiati non sono liberi di sciegliere e devono obbligatoriamente, contro la loro volontà, restare in Tunisia. I rifugiati destinatari dell’integrazione sur place non sono d’accordo ed hanno iniziato un sit-in di fronte la sede dell’UNHCR a Tunisi il 29 marzo che continua fino ad oggi. La loro richiesta è il trasferimento in un paese sicuro dove esista una legge riguardo il diritto d’asilo e riconosca lo status di rifugiato. Ritengono che la Tunisia non sia ancora pronta per accogliere delle persone che hanno diritto alla protezione e che nel Paese, e ancor di più nelle città dove dovrebbero reinserirsi, si percepisce un sentimento razzista nei confronti dei neri africani e di discriminazione verso i cristiani.
Chiedono di potere usufrire del resettlement in un Paese terzo, più sicuro e accogliente di una Tunisia contrassegnata da una forte instabilità politica ed economica. Ribadiscono che la loro vita era in Libia, non sono migranti che sognano l’Europa, ma che la Tunisia non può offrire le condizioni per iniziare una nuova vita. L’UNHCR, di contro, ritiene che la Tunisia sia aperta verso l’integrazione sia dal punto di vista della società civile sia da parte del governo. “E’ in atto uno sforzo comune per rendere la Tunisia un Paese d’accoglienza – afferma la responsabile dell’ UNHCR- ammetto che il razzismo e la violenza esistono ma esattamente come in altri Paesi”.
L’accoglienza embrionale in Tunisia proposta e imposta dall’UNHCR ai rifugiati li espone a un ventaglio di rischi, dai quali per definizione dovrebbero essere protetti. I rifugiati non hanno ancora un riconoscimento giuridico del loro status da parte del governo tunisino, da ciò segue che allo stato dell’arte un profugo (ed i suoi diritti!) non è difendibile. Diverse Ong europee appoggiano la protesta dei rifugiati, rivendicando il loro diritto al trasferimento, e più in generale la libertà di circolazione.
Perchè sia possibile e accettabile un’integrazione in Tunisia occorre in primis una legge in materia di asilo politico; bisogna considerare però che si tratta un Stato ancora molto instabile in attesa di una Costituzione. Se tale legge non esiste e verosimilmente non lo sarà a breve, come la Costituzione che dopo due anni, è ancora presocché all’inizio, i rifugiati non possono neanche avere un documento di soggiorno e di viaggio, rimanendo così bloccati. Posto che nessuno è contrario a un’accoglienza africana e nord africana, non è possibile concepirla in questi termini.
La Costituzione attesa, senza grandi speranze di intese e accordi ormai da tempo, palesa la condizione di precaria tutela di diritti di tunisini e profughi insieme. La negazione della libertà di circolazione riguarda tutti in Tunisia. Sicuramente riguarda i meno abbienti. La possibilità di uscire dal paese resta quindi relegata alla sfera del privilegio. Gli accordi tra Italia e Tunisia in termini di pattugliamento e controllo dell’immigrazione fondamentalmente basati su “doni” e accordi economici (l’ex ministro degli interni si è recato a Tunisi circa tre settimana fa) fanno il paio con gli “aiuti” economici dei Paesi europei per integrare i profughi in Tunisia. La protesta dei rifugiati di Shousha assume quindi le caratteristiche di una richiesta più ampia e comprensiva. Il blocco delle persone in Tunisia, espressione di politiche neoimperialiste, dominanti e prevaricanti, riguarda esattamente allo stesso modo profughi e tunisini.
Ci sono tutti gli elementi per una rivendicazione trasversale che riconosca in profughi e tunisini una vicinanza di bisogni e una comunanza d’intenti e che renderebbe più forte e solida una battaglia per i diritti inerenti all’immigrazione e alla protezione internazionale.
Pubblicato su Melting Pot