PIACENZA – La bambina è tornata a Casablanca. Samir vive da 19 anni in Italia ma è stato costretto a rimandare la famiglia al paese di origine. Lavora nei magazzini Ikea, non un posto qualunque. Parliamo di un’azienda che lo scorso anno ha fatturato 27 miliardi di euro. Samir dovrebbe essere uno di quelli che si chiamano «integrati». Invece lo stipendio è variabile, le minacce di licenziamento sono continue. L’affitto, invece, è sempre quello. Minimo 300 euro fuori dalla città. «Si sta meglio in Marocco», dice. «Comprando prodotti locali si vive bene lì, adesso». Samir è stato costretto a far partire moglie e figlia, quando può manda i soldi lì.
Dopo 19 anni in Italia, l’accento emiliano e un lavoro da operaio, oggi è un precario delle cooperative che hanno in mano il subappalto della multinazionale svedese. Il consorzio che lo ha assunto è formato da due coop di area cattolica e una «rossa». Ci dicono che il presidente è a capo di Federcooperative, l’associazione delle coop che vengono dal mondo comunista. Funziona così: se sei fedele ai capi, fai tante giornate e arrivi a 1500 euro. Se inizi a parlare di sindacato e diritti, improvvisamente non c’è più lavoro e stai a casa due giorni su tre. E mentre per te «non c’è lavoro», i colleghi si spaccano la schiena anche per quattordici ore di fila. Nei mesi di «punizione» guadagni pochissimi soldi.
Caporalato è una parola che si sente sempre più spesso. Come in agricoltura. Le aziende negano: tutto è legale, non siamo al Sud. Tutto è formalmente legale. Anche quello che faceva un corriere, uno dei più importanti al mondo: lavoratori in aspettativa e soldi in nero. Finché gli operai, anche in quel caso tutti migranti, non ne hanno potuto più, hanno bloccato i magazzini e hanno ottenuto un calendario dei giorni di lavoro. Il minimo in un mondo normale, il risultato di una battaglia epica in quest’Italia squilibrata.
Un armadio di betulla, una lampada a pochi euro, la cucina componibile. Il mobile che avete in casa, così conveniente, è stato trasportato da braccia egiziane, eritree, albanesi. Ikea sostiene che il basso costo dei suoi prodotti non dipende da condizioni di lavoro non dignitose. Non è facile crederci. E l’onere della prova spetta adesso agli inappuntabili dirigenti venuti dalla Scandinavia.