Quattrocentotrentaquattro pagine. Othman ha scritto il suo libro nel campo profughi di Choucha, nel sud della Tunisia, alla frontiera con la Libia. Ci vive da due anni. E da uno, ha cominciato. Non è il trascorrere lento delle sue giornate nella tenda, nel deserto del sud, a riempire tutte queste cartelle. Ma tutte le sue conoscenze di piante medicinali. Tutte le proprietà delle piante e come ognuna di esse puo’ curare. Un raffredore come un tumore. Come il melograno o il finocchio possano garantire il benessere, quale frutto rende più sana la gravidanza di una donna. Corredato di foto e nomi in latino, accanto a quelli in arabo. Dal Chad alla Libia alla Tunisia, senza i suoi libri che ha lasciato a Zuwara, vicino Tripoli, quando la guerra nel febbraio 2011 l’ha costretto a lasciare casa, lavoro e famiglia. Ma la corrispondenza continua, con un medico in America ed uno in Iraq che correggono la sua bozza. «Tutti quei pochi soldi rimasti li spendo per Internet, per parlare con loro e continuare il mio lavoro».
Ma nessuna pianta puo’ curare il suo malessere attuale. Il suo status irrisolto, in quanto richiedente asilo, la cui domanda è stata rigettata dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Categorizzati come non rifugiati, senza diritto ad assistenza umanitaria. Prima la guerra, poi l’attesa, infine il diniego. Othman è restato nel deserto, con le temperature torride estive, le frequenti tempeste di sabbia e il gelo della notte e dell’inverno. Sono già due inverni passati nel deserto, nelle tende del campo, che nel prossimo giugno verranno smantellate. La chiusura del campo è infatti previsto per giugno 2013. «E dopo, ci butteranno a mare?».
Non è l’unico. Un centinaio di «non rifugiati» è con lui nella capitale Tunisi, un altro centinaio è rimasto nel campo. Nella capitale del paese in cui vive da due anni, senza nessun diritto, in un campo profughi dove non puo’ più accedere né al cibo né a nessun altro servizio da più di quattro mesi. Erano un centinaio in un sit-in permanente nella capitale, di fronte l’ufficio delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Othman con i suoi 46 anni, la barba lunga e un sorriso accogliente, ma le lacrime agli occhi, silenziose e amare, di chi a Choucha non ci vuole tornare.
Neanche Meriem, una signora sudanese con il suo nipotino Mohammad e la cugina Hannen vogliono andare via dalla capitale. Sono venuti a Tunisi, marciando dalla stazione degli autobus alla Piazza dei Diritti dell’Uomo ed infine convogliando al Lac, quartiere periferico a sette chilometri del centro città di Tunisi, da dove non si sono mossi: donne, bambini, anziani e soprattutto tantissmi giovani. Da Sudan, Gambia, Nigeria, Chad, Liberia, Ghana, Costa D’Avorio, Bangladesh: tutti soggiornanti in Libia, prima di questi due anni sotto le tende. A nessun di loro è stato dato lo statuto di rifugiato e non si arrendono nel chiedere delle risposte, nel voler che i loro dossier di domande di asilo siano ritrattati, che una soluzione sia loro data. Nel cercare speranza che le poche piante del deserto non concedono più.
Attualmente nel campo profughi delle Nazioni Unite sono rimaste cinque diverse categorie: i rifugiati riconosciuti e ammessi allal re-installazione in uno dei paesi disposti alla loro accoglienza; i rifugiati riconosciuti come tali, ammessi alla re-installazione in altri paesi ma che non rientrano più nelle quote previste e che rischiano dunque di restare in Tunisia dopo la chiusura del campo; quelli senza possibilità di re-installazione perché riconosciuti rifugiati dopo la chiusura del programma che la permetteva (1 dicembre 2011); ancora dei richiedenti asilo in attesa che la loro domanda venga trattata; ed infine loro, arrivati a Tunisi il 28 gennaio, che non avendo lo status di rifugiati politci non sono più sotto la competenza dell’ UNHCR. Meno che mai hanno il diritto di essere un giorno trasferiti altrove.
Diritti sospesi, annullati, rifiutati. Uomini e donne, bambini e anziani, che si chiedono che cosa sarebbe stato altrimenti della loro vita se non avessero speso il loro tempo a ripararsi dalla sabbia. E adesso, a protestare, silenziosamente, alla periferia di Tunisi, di fronte ad un ufficio, con l’appoggio di alcune associazioni tunisine (FTDSE, Cetuma, Article 13) e di attivisti internazionali che per qualche sera ha portato mamme e bambini nelle case, per passare qualche notte al riparo dal freddo. Anche dagli attivisti tedeschi sono arrivati dei fondi di sostegno, per poter coprire i bisogni materiali nei giorni di protesta.
Le domande non sono poste soltanto a quell’ufficio delle Nazioni Unite e ai paesi occidentali che tramite l’intervento NATO nella guerra in Libia sono chiamati dai rifugiati «rigettati» a rispondere. Anche il governo tunisino è interpellato; e con esso la società civile, assente o ignara in grandissima parte, del fenomeno migratorio e della problematica dei rifugiati che investe il loro paese. Il diritto d’asilo non è compreso infatti nella legislazione nazionale e nell’agenda attuale del governo transitorio non sembra essere tra le priorità: nonostante una proposta di legge sia stata avanzata dall’UNHCR l’estate scorsa, pare ancora essere lontana da una votazione parlamentare.
Ma tra i rifugiati, gli organizzatori della protesta e i referenti di ogni comunità divise per nazionalità di provenienza, a essere messa a votazione è la decisione se restare ancora nella capitale o tornare nel campo. Le soluzioni non ci sono e non si sarebbero potute trovare in una settimana. E alla fine la sera dell’uno febbraio sono ripartiti, in pullman, verso il sud. Ritorno alla vita nel deserto, ma con un appuntamento. Perché le loro richieste non cambiano con la fine della protesta e il ritorno al campo. Appuntamento a marzo, di nuovo nella capitale. Quando in occasione del Forum Sociale Mondiale che si terrà per la prima volta in un paese arabo, per l’appunto in Tunisia, torneranno a far sentire la loro voce, a presentare a tutte le organizzazioni e gli attivisti che saranno presenti che non vogliono essere abbandonati. Né nel deserto, né nel mare.