Oltre i luoghi comuni intorno all`ennesima emergenza

A Rosarno arriva chi ha perso il lavoro. In Veneto o in Libia

Antonello Mangano
  L’ennesima “emergenza” Rosarno è in buona parte frutto di una doppia crisi e dell’incapacità italiana di gestirla. I braccianti che arrivano in Calabria hanno perso il lavoro in Veneto o in Libia e vogliono trascorrere l’inverno guadagnando qualcosa per sé e per i parenti in Africa. Eppure, nell’indifferenza generale, è di nuovo emergenza umanitaria.
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ROSARNO (RC) – Lavoravano tutti. Nelle fabbriche del Nord Est o nella Libia di Gheddafi. Due crisi molto diverse li hanno portati nelle campagne italiane. Eppure i giornalisti autori di articoli pietisti e troppi politici frettolosi sono convinti di trovarsi di fronte l’atavica povertà africana. «Non esistono frontiere entro cui convogliare le grandi masse che spingono alle porte dei paesi industrializzati», dice il presidente della provincia di Reggio. Un concetto simile a quello espresso a Saluzzo, provincia di Cuneo, da un assessore comunale: «Si tratta di migrazioni epocali» che non possono essere gestite con le risorse di un piccolo comune. La questione epocale, nello specifico, era trovare un tetto a un massimo di 180 lavoratori per qualche settimana.

Dalle campagne del Piemonte a quelle della Calabria, non c’è nessun esodo di massa. La fame è quella prodotta dallo sfruttamento che è alla base del nostro sistema economico. Un sistema abbrutito dalla crisi che colpisce maggiormente il migrante, privo di reti familiari e amicali che possano sostenerlo, emarginato da leggi discriminatorie create negli anni della deriva securitaria e xenofoba e mai riformate. Non sono poveri perché africani. Sono africani perché poveri. La tendopoli e le condizioni abitative estreme sono il prodotto dei mali italiani.

Intorno al 2008 il bracciante di Rosarno era arrivato da poco a Lampedusa, era passato dal centro di Crotone e quindi alle campagne calabresi. Con in tasca un diniego o un permesso temporaneo, con una scarsa padronanza della lingua, aveva poche possibilità di sottrarsi a condizioni di vita estreme. Viveva alla Cartiera o alla Rognetta, fabbriche diroccate dove solo l’assistenza dei volontari impediva di morire di freddo. Poi sono arrivati gli uomini delle fabbriche. Licenziati dalle ditte del Veneto, avevano i documenti in regola, abitavano in normali appartamenti e non erano disposti a subire umiliazioni o – peggio – atti di violenza gratuita. A loro, quest’anno si sono aggiunti quelli dell’«emergenza Nord Africa». Sono i profughi della guerra in Libia, anche loro operai, ma nello Stato di Gheddafi.

La guerra è ampiamente finita, ma in Italia l’emergenza decisa dal governo è stata prorogata fino a febbraio. Così abbiamo visto gente per mesi e mesi in attesa di un responso o costretta a fare ricorso dopo un diniego. Oppure “liberata” con un permesso temporaneo che li rende ricattabili: devono accettare qualunque lavoro e qualunque condizione. Da Mineo a Napoli, dalla Calabria alla Basilicata, dal Lazio al Veneto li hanno distribuiti ovunque. Alberghi e abitazioni di ogni tipo. Sul Pollino e sulle Dolomiti, in Sila e a Marcellina (alto Lazio), a Matera e nel centro della Sicilia. Preferibilmente in posti isolati, lontani da opportunità di lavoro. Del resto, chi è in attesa di asilo politico non può lavorare. «Non siamo venuti in Italia per dormire» hanno scritto alcuni di loro durante una protesta di qualche mese fa alla Stazione Termini. La polizia li ha sgomberati rapidamente.

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