Il Tg5 ha mandato in onda un servizio di Valentina Loiero sull’omicidio di Francesco Bagalà, studente universitario di 22 anni iscritto a Messina. Il telegiornale ha mostrato le sconvolgenti immagini dell’episodio che probabilmente ha causato la morte del giovane. Una telecamera di sorveglianza riprende un gruppo di ragazzi che circonda un coetaneo. Uno di loro gli punta la pistola alla tempia e lo lascia a terra, per poi finirlo rapidamente con altri colpi. Tra parentele di boss e altri fatti di sangue, quell’episodio ha dato vita a una faida che si trascina fino alla morte di Bagalà.
Il servizio è andato in onda alle 13, poco prima di un altro video sullo spiaggiamento di una balena. Ma almeno è andato in onda. Nessun altro organo di informazione ha ripreso quelle immagini di rara drammaticità. Nelle redazioni, un omicidio nel cuore della Calabria è la cosa più normale del mondo. Non è un notizia.
E così siamo arrivati al paradosso creato dalla contrapposizione tra assuefazione e ribellione. Se qualcuno oggi toccasse un africano di Rosarno, a pochissimi chilometri dalla via centrale in cui è stato ucciso Bagalà, la notizia farebbe il giro del mondo. Gli stranieri dopo la rivolta camminano tranquilli per le strade calabresi, dopo venti anni di violenze gratuite. Secondo la mentalità mafiosa, i migranti si potevano «toccare» perché nessuno li avrebbe vendicati. Neanche lo Stato li proteggeva, perché senza documenti e quindi invisibili. La rivolta ha cambiato tutto, ma non per gli italiani.
I fatti di sangue si susseguono, e la soluzione individuale violenta, la faida, è la risposta a un problema collettivo: la folle violenza che per futili motivi porta alla morte. Violenza diffusa, quotidiana, accettata. Così normale che bisogna essere contenti se un giornalista sensibile riesce a strappare un minuto in fondo al notiziario, prima del servizio sull’orsetto dello zoo di Buenos Aires.